di Carlo Bastasin
Evitare il declino dell’Italia è il tema dell’azione del prossimo governo. Piano piano anche i protagonisti di questa terribile campagna elettorale ne stanno prendendo atto. Cominciano a emergere proposte coraggiose di intervento come quella del centrosinistra sul costo del lavoro, assorbita poi anche dall’attuale coalizione di governo. I programmi, con dettaglio molto diverso, non trascurano più l’emergenza del declino competitivo e soprattutto del numero relativamente basso di individui che lavorano. Eppure, proprio mentre i politici aprono gli occhi sull'economia, gli economisti li aprono sulla politica, come se il vero problema dell’Italia fossero gli italiani!
Fino a pochi anni fa, si pensava che le differenze strutturali nel mercato del lavoro incidessero molto sulla distribuzione dei redditi, ma poco sull’efficienza di un’economia. Destra e sinistra potevano fingere che il proprio modello fosse quello più adatto al proprio elettorato, capitalisti o sindacalisti, senza che ciò cambiasse il tasso di crescita dell’economia. Ma l’emergere del modello danese, la cosiddetta flexicurity, ha modificato questa falsa convinzione. I danesi, diventati un riferimento esemplare per l’economia europea, hanno ottenuto uno straordinario successo abbattendo le protezioni al lavoro, rendendo cioè facile licenziare, ma accrescendo i sussidi per i disoccupati: facendo cioè il contrario di quanto avviene in Italia dove è difficile licenziare, ma non esiste un sistema di sostegno per chi perde il lavoro. Oggi tutti, salvo i disegnatori di vignette satiriche, vorrebbero essere danesi.
Un recente studio pubblicato da Algan e Cahuc per il Cepr, osserva però che il formidabile sistema danese può funzionare solo in Paesi in cui è forte lo spirito di fiducia civica, in cui cioè attribuire dei sussidi di disoccupazione non scatena imbrogli ai danni delle casse pubbliche da parte sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro. In Paesi, per esempio, con un’economia nera pari a oltre un terzo del pil e con regioni in cui la disoccupazione giovanile è un fenomeno generalizzato (in Paesi cioè a forma di stivale...) il sistema danese fallirebbe, il «nero» non si sbiondirebbe affatto. Quel che è peggio è che introdurre un buon sistema, come la flexicurity, non rende buoni gli individui, nemmeno col tempo. Al contrario li rende più esposti alle cattive tentazioni.
Quello che vale per le riforme del lavoro, vale per le politiche di spesa pubblica o per quelle di tassazione. Se non mi fido della moralità dei miei concittadini o di chi li governa, sono più tentato dall’evadere io stesso le tasse, sentendo debole il legame civico di solidarietà o anche solo dubitando del sostegno da parte degli altri, in particolare se pesa la retorica delle diversità regionali o etniche. Proprio comportamenti e preferenze tanto disomogenee nei Paesi europei, rendono difficile uniformare le politiche nell’Unione europea e quindi ne spiegano gli intoppi attuali, per esempio nella liberalizzazione dei servizi. Forse per disperazione, il filone «culturale» degli economisti sta così diventando corposo. Ottimi ricercatori - non a caso spesso italiani, come Tabellini, Guiso e altri - si interrogano sul peso delle tradizioni culturali e sui livelli storici di istruzione nell’esecuzione delle politiche economiche in un Paese. Ne emerge che la cultura è rilevante. Quindi la politica è decisiva e in particolare, allora, lo è l'esempio dei politici.
E qui veniamo a una campagna elettorale che all’inizio definivamo «terribile». A ben vedere, il fatto che sia ruotata attorno al caso Unipol o, adesso, attorno alle vicende della All Iberian, ha una sua coerenza in un sistema in cui il confine tra furbetti e istituzioni, tra Fiorani e Fazio, è permeabile. E’ anche la serietà e la onestà personale dei politici che deve essere accertata, prima di riuscire ad attuare riforme che per avere successo dovrebbero convivere con controlli di onestà «scandinavi» sui cittadini. Oppure ci si può rassegnare a un disonesto declino.
lastampa.it
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
21.2.06
17.2.06
Telepolitica il peccato capitale della democrazia
di GUSTAVO ZAGREBELSKY
Prima che per la distribuzione dei tempi tra i contendenti, è per i contenuti che questa campagna elettorale si è degradata come non mai.
In un libro del 1942, Capitalismo, socialismo e democrazia, Joseph A. Schumpeter ha gettato le basi di una "concezione mercantile" della democrazia, in contrasto con la "dottrina classica" che riconosce al popolo, attraverso diversi meccanismi costituzionali, il potere di decidere sul bene comune e di scegliere gli individui cui affidarne la realizzazione. Questa idea, in quel libro, è denunciata come vuota illusione. L’intrico infinitamente complesso di situazioni, opinioni, volizioni individuali e di gruppo potranno mai produrre qualcosa di simile a una volontà generale circa i tanti nodi del governo della società? D’altra parte, le singole persone sono davvero interessate a farsi un’idea propria del bene comune? Non sono concentrate, piuttosto, su beni particolari, sulle cose che le riguardano molto da vicino, come il posto di lavoro, la vita familiare, la vita di quartiere, la chiesa o, addirittura, le loro piccole manie e abitudini?
Occorre realismo. La democrazia, non dei filosofi ma degli uomini comuni del nostro tempo, per Schumpeter, è un mercato nel quale operano gruppi di interessi in concorrenza tra loro. Per vincere la partita del potere, essi devono acquisire consensi elettorali, gli uni a scapito degli altri. La dottrina classica deve essere rovesciata. Non è il popolo, ma sono i governanti (o, meglio, gli aspiranti tali) a essere politicamente attivi. Il popolo può solo aderire all’una o all’altra offerta politica delle élites del potere. La "volontà popolare" non è altro che la reazione maggioritaria, registrata con le elezioni, a queste offerte. Il popolo crede di esprimere propri orientamenti e bisogni ma si illude. I bisogni e gli orientamenti sono dei potenti e il popolo può solo sostenere gli uni a scapito degli altri.
Le elezioni, in questa visione, diventano contese per dividersi il mercato dei voti e strapparne agli avversari, esattamente come avviene tra imprese. L’uomo politico tratta in voti come l’uomo d’affari tratta in petrolio. Nel primo caso abbiamo imprenditori politici e elettori; nel secondo, imprenditori economici e consumatori, ma il rapporto tra i primi e i secondi è sostanzialmente dello stesso tipo. Anche i metodi per acquisire consensi sono gli stessi, chiamandosi, in un caso, propaganda e, nell’altro, pubblicità. Si può dire che la propaganda sta alle elezioni come la pubblicità sta al commercio.
Sappiamo quanto importante sia la tutela del consumatore dalla pubblicità menzognera, denigratoria e fraudolenta dei prodotti commerciali. Stabilita l’equazione pubblicità-propaganda, si comprende quanto essenziale sia la protezione dell’elettore dalla propaganda, a sua volta, menzognera, denigratoria e fraudolenta.
L’acquisto di beni scadenti farà male al consumatore ma il voto corrotto da propaganda corruttrice farà male a tutti. Inoltre, il consumatore si può accorgere alquanto facilmente se ciò che ha acquistato non vale niente; esistono controlli per evitare i danni alla salute per ciò che ingurgitiamo e siamo quasi sempre in tempo per rivolgerci altrove. L’elettore ingannato, invece, non si accorge o si accorge troppo tardi, e a sue pesanti spese, delle porcherie politiche che, con il suo voto, ha acquistato per sé e per la collettività. Eppure, paradossalmente, l’interesse per l’integrità del confronto elettorale è molto meno elevato che per la correttezza del commercio. Denunciare questo fatto non significa auspicare interventi legislativi, in queste materie sempre pericolosi, con tanto di interventi pubblici di controllo, per lo più inefficaci, e di sanzioni, per lo più inutili. Significa invece sollecitare la vigilanza dell’opinione pubblica, questa sì sempre necessaria.
La concezione mercantile della democrazia è stata contestata: per i pessimisti, nei Paesi dove dovrebbe innanzitutto applicarsi (soprattutto gli Stati Uniti d’America), la classe dirigente è unica e ristretta, cosicché la scelta elettorale è solo una farsa; per gli ottimisti, la svalutazione dell’autonoma iniziativa dei cittadini-elettori, a favore delle élites e dei capi, è una generalizzazione eccessiva. Ma l’idea del mercato dei voti ha comunque una sua verosimiglianza. Dunque: il produttore (a), offre beni (b) al consumatore, in cambio di denaro (c). Nel mercato elettorale, l’uomo politico (a) offre promesse (b), in cambio di voti (c).
Ora, questo schema, già di per sé non esaltante per ogni ideologo della democrazia, subisce una prima deviazione o, se si vuole, un primo imbroglio quando scompare il termine medio (b). La campagna elettorale alla quale assistiamo ha spinto al parossismo la tendenza di taluno a mettere avanti se stesso (a), per ottenere voti (c). Votatemi per quello che sono: compratemi perché sono bello, sensibile, imbattibile, "immoribile", ricco, spiritoso, simpatico; ho una bella famiglia; so fare tante cose, amare, cucinare e cantare. In questo modo, la campagna elettorale perde di significato politico e si trasforma in un tentativo di seduzione personale. Diventa anzi, nel senso preciso delle parole, un’oscena pro-stituzione, un mettersi innanzi senza ritegno, per oscurare ciò che invece è essenziale per giustificare l’ardire di chiedere voti: la ragione politica. Gli elettori vengono degradati. Non sono arbitri delle scelte politiche, ma clienti da adescare. I candidati che esibiscono se stessi sono non solo espressione della volgarità di certi ambienti del potere, ma anche corruttori della democrazia politica.
La seconda deviazione si constata nel modo di usare i dati di fatto, i quali, in quanto tali, dovrebbero essere incontrovertibili o, almeno, determinabili nella loro obiettività, per costruire discorsi onesti. Invece, ognuno ha suoi dati che, naturalmente, gli danno ragione. Il pubblico non capisce: percentuali di e su che cosa? spese effettuate o solo preventivate? occupazione vera o fittizia, stabile o effimera? criminalità reale, denunciata o accertata? aumento dei salari e delle retribuzioni: in termini monetari o reali? distanza tra ricchi e poveri, tra nord e sud? I "dati", anche se non smaccatamente falsi, possono essere costruiti ad hoc. Mai che vi sia qualcuno - i responsabili delle interviste televisive, per primi - che inchiodi chi ne fa uso a una prova della verità.
L’integrità del ragionare è pregiudicata in radice e tutto può andare su e giù, come conviene. Eppure falsità e frode, strumenti del Principe machiavellico, insieme alla violenza da cui poco differiscono, dovrebbero considerarsi quali sono: attentati alla democrazia.
La terza distorsione sta nel considerare l’elettore-spettatore come supporter e non come una persona raziocinante che vuole maturare sue convinzioni. Gli uomini politici spesso coltivano un ridicolo atteggiamento gladiatorio (lo "faccio nero", lo distruggo), studiato a tavolino da esperti di comunicazione di massa. I media lavorano sulla stessa lunghezza d’onda quando stabiliscono classifiche e assegnano vittorie e sconfitte come in un match di pugilato, dal cui lessico si ispirano (knock out; al tappeto; gettare la spugna). Il logos della democrazia, il ragionare insieme, il piacere di apprendere qualcosa dall’altro, in definitiva il carattere costruttivo della discussione sono spesso completamente assenti. Ci si vuole reciprocamente distruggere, senza apprendere nulla. Così si fanno solo macerie; il pubblico percepisce non una discussione ma uno scontro tra pregiudizi. Chi non è partigiano si allontanerà disgustato, avvertendo di essere usato come cosa, non rispettato come essere raziocinante. Eppure, quale prova di onestà, serietà e forza darebbe colui che, in un pubblico dibattito, riconoscesse per una volta, se occorre, le buone ragioni dell’avversario!
Seduzione, falsità e partito preso sono tre vizi capitali delle nostre campagne elettorali. Consideriamo che la loro comune natura è l’estraniazione dal contatto con la realtà delle cose. Allora si capisce l’importanza della distribuzione degli spazi televisivi.
L’efficacia del messaggio elettorale, come di quello commerciale, è determinata dal tempo di esposizione, durante il quale si useranno tutti gli ingredienti e i trucchi di una "comunicazione" sottratta a ogni verifica politica.
Abbiamo iniziato e terminiamo con Schumpeter: più di un argomento razionale contano le affermazioni ripetute mille volte e l’appello al subconscio, nel tentativo di evocare e cristallizzare associazioni gradevoli a proprio favore e sgradevoli a sfavore dell’avversario, con metodi extrarazionali e, molto spesso, con riferimenti sessuali. Forse è per questa ultima ragione che chi ha la fortuna di avere avuto da madre natura un naso gogoliano, quello se lo tiene ben in vista. Noi, cittadini-elettori, non dovremmo pretendere qualcosa di meglio?
La Repubblica (ripreso da eddyburg.it)
Prima che per la distribuzione dei tempi tra i contendenti, è per i contenuti che questa campagna elettorale si è degradata come non mai.
In un libro del 1942, Capitalismo, socialismo e democrazia, Joseph A. Schumpeter ha gettato le basi di una "concezione mercantile" della democrazia, in contrasto con la "dottrina classica" che riconosce al popolo, attraverso diversi meccanismi costituzionali, il potere di decidere sul bene comune e di scegliere gli individui cui affidarne la realizzazione. Questa idea, in quel libro, è denunciata come vuota illusione. L’intrico infinitamente complesso di situazioni, opinioni, volizioni individuali e di gruppo potranno mai produrre qualcosa di simile a una volontà generale circa i tanti nodi del governo della società? D’altra parte, le singole persone sono davvero interessate a farsi un’idea propria del bene comune? Non sono concentrate, piuttosto, su beni particolari, sulle cose che le riguardano molto da vicino, come il posto di lavoro, la vita familiare, la vita di quartiere, la chiesa o, addirittura, le loro piccole manie e abitudini?
Occorre realismo. La democrazia, non dei filosofi ma degli uomini comuni del nostro tempo, per Schumpeter, è un mercato nel quale operano gruppi di interessi in concorrenza tra loro. Per vincere la partita del potere, essi devono acquisire consensi elettorali, gli uni a scapito degli altri. La dottrina classica deve essere rovesciata. Non è il popolo, ma sono i governanti (o, meglio, gli aspiranti tali) a essere politicamente attivi. Il popolo può solo aderire all’una o all’altra offerta politica delle élites del potere. La "volontà popolare" non è altro che la reazione maggioritaria, registrata con le elezioni, a queste offerte. Il popolo crede di esprimere propri orientamenti e bisogni ma si illude. I bisogni e gli orientamenti sono dei potenti e il popolo può solo sostenere gli uni a scapito degli altri.
Le elezioni, in questa visione, diventano contese per dividersi il mercato dei voti e strapparne agli avversari, esattamente come avviene tra imprese. L’uomo politico tratta in voti come l’uomo d’affari tratta in petrolio. Nel primo caso abbiamo imprenditori politici e elettori; nel secondo, imprenditori economici e consumatori, ma il rapporto tra i primi e i secondi è sostanzialmente dello stesso tipo. Anche i metodi per acquisire consensi sono gli stessi, chiamandosi, in un caso, propaganda e, nell’altro, pubblicità. Si può dire che la propaganda sta alle elezioni come la pubblicità sta al commercio.
Sappiamo quanto importante sia la tutela del consumatore dalla pubblicità menzognera, denigratoria e fraudolenta dei prodotti commerciali. Stabilita l’equazione pubblicità-propaganda, si comprende quanto essenziale sia la protezione dell’elettore dalla propaganda, a sua volta, menzognera, denigratoria e fraudolenta.
L’acquisto di beni scadenti farà male al consumatore ma il voto corrotto da propaganda corruttrice farà male a tutti. Inoltre, il consumatore si può accorgere alquanto facilmente se ciò che ha acquistato non vale niente; esistono controlli per evitare i danni alla salute per ciò che ingurgitiamo e siamo quasi sempre in tempo per rivolgerci altrove. L’elettore ingannato, invece, non si accorge o si accorge troppo tardi, e a sue pesanti spese, delle porcherie politiche che, con il suo voto, ha acquistato per sé e per la collettività. Eppure, paradossalmente, l’interesse per l’integrità del confronto elettorale è molto meno elevato che per la correttezza del commercio. Denunciare questo fatto non significa auspicare interventi legislativi, in queste materie sempre pericolosi, con tanto di interventi pubblici di controllo, per lo più inefficaci, e di sanzioni, per lo più inutili. Significa invece sollecitare la vigilanza dell’opinione pubblica, questa sì sempre necessaria.
La concezione mercantile della democrazia è stata contestata: per i pessimisti, nei Paesi dove dovrebbe innanzitutto applicarsi (soprattutto gli Stati Uniti d’America), la classe dirigente è unica e ristretta, cosicché la scelta elettorale è solo una farsa; per gli ottimisti, la svalutazione dell’autonoma iniziativa dei cittadini-elettori, a favore delle élites e dei capi, è una generalizzazione eccessiva. Ma l’idea del mercato dei voti ha comunque una sua verosimiglianza. Dunque: il produttore (a), offre beni (b) al consumatore, in cambio di denaro (c). Nel mercato elettorale, l’uomo politico (a) offre promesse (b), in cambio di voti (c).
Ora, questo schema, già di per sé non esaltante per ogni ideologo della democrazia, subisce una prima deviazione o, se si vuole, un primo imbroglio quando scompare il termine medio (b). La campagna elettorale alla quale assistiamo ha spinto al parossismo la tendenza di taluno a mettere avanti se stesso (a), per ottenere voti (c). Votatemi per quello che sono: compratemi perché sono bello, sensibile, imbattibile, "immoribile", ricco, spiritoso, simpatico; ho una bella famiglia; so fare tante cose, amare, cucinare e cantare. In questo modo, la campagna elettorale perde di significato politico e si trasforma in un tentativo di seduzione personale. Diventa anzi, nel senso preciso delle parole, un’oscena pro-stituzione, un mettersi innanzi senza ritegno, per oscurare ciò che invece è essenziale per giustificare l’ardire di chiedere voti: la ragione politica. Gli elettori vengono degradati. Non sono arbitri delle scelte politiche, ma clienti da adescare. I candidati che esibiscono se stessi sono non solo espressione della volgarità di certi ambienti del potere, ma anche corruttori della democrazia politica.
La seconda deviazione si constata nel modo di usare i dati di fatto, i quali, in quanto tali, dovrebbero essere incontrovertibili o, almeno, determinabili nella loro obiettività, per costruire discorsi onesti. Invece, ognuno ha suoi dati che, naturalmente, gli danno ragione. Il pubblico non capisce: percentuali di e su che cosa? spese effettuate o solo preventivate? occupazione vera o fittizia, stabile o effimera? criminalità reale, denunciata o accertata? aumento dei salari e delle retribuzioni: in termini monetari o reali? distanza tra ricchi e poveri, tra nord e sud? I "dati", anche se non smaccatamente falsi, possono essere costruiti ad hoc. Mai che vi sia qualcuno - i responsabili delle interviste televisive, per primi - che inchiodi chi ne fa uso a una prova della verità.
L’integrità del ragionare è pregiudicata in radice e tutto può andare su e giù, come conviene. Eppure falsità e frode, strumenti del Principe machiavellico, insieme alla violenza da cui poco differiscono, dovrebbero considerarsi quali sono: attentati alla democrazia.
La terza distorsione sta nel considerare l’elettore-spettatore come supporter e non come una persona raziocinante che vuole maturare sue convinzioni. Gli uomini politici spesso coltivano un ridicolo atteggiamento gladiatorio (lo "faccio nero", lo distruggo), studiato a tavolino da esperti di comunicazione di massa. I media lavorano sulla stessa lunghezza d’onda quando stabiliscono classifiche e assegnano vittorie e sconfitte come in un match di pugilato, dal cui lessico si ispirano (knock out; al tappeto; gettare la spugna). Il logos della democrazia, il ragionare insieme, il piacere di apprendere qualcosa dall’altro, in definitiva il carattere costruttivo della discussione sono spesso completamente assenti. Ci si vuole reciprocamente distruggere, senza apprendere nulla. Così si fanno solo macerie; il pubblico percepisce non una discussione ma uno scontro tra pregiudizi. Chi non è partigiano si allontanerà disgustato, avvertendo di essere usato come cosa, non rispettato come essere raziocinante. Eppure, quale prova di onestà, serietà e forza darebbe colui che, in un pubblico dibattito, riconoscesse per una volta, se occorre, le buone ragioni dell’avversario!
Seduzione, falsità e partito preso sono tre vizi capitali delle nostre campagne elettorali. Consideriamo che la loro comune natura è l’estraniazione dal contatto con la realtà delle cose. Allora si capisce l’importanza della distribuzione degli spazi televisivi.
L’efficacia del messaggio elettorale, come di quello commerciale, è determinata dal tempo di esposizione, durante il quale si useranno tutti gli ingredienti e i trucchi di una "comunicazione" sottratta a ogni verifica politica.
Abbiamo iniziato e terminiamo con Schumpeter: più di un argomento razionale contano le affermazioni ripetute mille volte e l’appello al subconscio, nel tentativo di evocare e cristallizzare associazioni gradevoli a proprio favore e sgradevoli a sfavore dell’avversario, con metodi extrarazionali e, molto spesso, con riferimenti sessuali. Forse è per questa ultima ragione che chi ha la fortuna di avere avuto da madre natura un naso gogoliano, quello se lo tiene ben in vista. Noi, cittadini-elettori, non dovremmo pretendere qualcosa di meglio?
La Repubblica (ripreso da eddyburg.it)
10.2.06
Una vecchia enciclica
ROSSANA ROSSANDA
Molti commentatori, amici ed amiche presumibilmente non credenti, sono rimasti positivamente colpiti dalla prima Enciclica di Benedetto XVI come un invito all'amore quanto mai attuale in un mondo tutto intriso d'odio. Non credo che vada letta così. Se nel preambolo si dichiara che nessuna guerra può essere fatta in nome di Dio, ed è un passo avanti rispetto alle ancora recenti guerre giuste, questo è anche il solo passo avanti, mentre l'asse della lettera più volte ribadito è un rigido alt messo alla secolarizzazione che avevamo salutato nel Concilio Vaticano II. Amatevi, dice Ratzinger, ma sappiate che ogni amore è impuro, salvo quello di Dio per noi e noi per Dio o fra noi in Dio. Non ce n'è un altro che non sia imperfetto e per natura degenerativo. Benedetto XVI fa qui un passo indietro perfino dalla lezione paolina, che riconosce dignità e valore anche ad aspetti prettamente e solamente umani. Quel che nella prima lettera di Giovanni, più volte richiamata, è un canto tutto indirizzato alla fraternità con l'altro, l'estraneo, o perfino mortalmente colpevole, qui diventa una barriera contro l'amore puramente terreno traversato dalla sessualità. Una chiusura totale alla problematica del moderno e dell'umano in quanto umano. Toccherà ai teologi discernere i fili dell'argomentazione sottile, talvolta causidica, di Ratzinger.
Ma intanto il non credente non ha di che estasiarsi, esimendosi dal coglierne l'intenzione centrale che è tutta politica - in senso pieno e perfino nobile della parola - e si allinea alla tradizione più retriva ottocentesca della chiesa di Roma. L'inizio - un po' filosofico scrive Ratzinger, un po' filologico diremmo noi - sul significato della parola «amore» in greco e nella cultura cristiana la definisce la prima eros come desiderio egoista o ricerca per sé, per un proprio bisogno mentre la seconda agape sarebbe tutta volta al bene e al bisogno dell'altro, amore perfetto. L'eros è declassato a mero egoismo, a mera materialità del corpo (la psiche nella lettera non ha posto), tendente alla degenerazione e alla mercificazione, il cui simbolo sarebbe la prostituzione sacra. L'Enciclica non concepisce un rapporto con l'altro che non passi attraverso la purificazione, parola continuamente ripetuta, dell'amore di Dio e in Dio. Quasi che il corpo porti in sé indelebile come il peccato un originale perversità. Dio amerà l'uomo, ma Ratzinger certamente no. Allora è più toccante e persuasiva la disperazione del mondo e propria di Agostino, che l'attuale papa non condivide, in quanto sicuro che con l'ascesi e secondo il magistero della chiesa ogni cattolico può trascendere se stesso. Se non vi riesce cade fuori dalla salvezza, o almeno dalla mente pedagogica dell'attuale pontefice. Ne consegue che la sola unione possibile è fra un uomo e una donna in forma «esclusiva» e «per sempre», come il patto di Javeh con Israele, lui sposo sapiente, lei facilmente infedele che soltanto dalla generosità di lui può essere «perdonata». Il matrimonio non è che il riflesso del nocciolo fondamentale delle religioni monoteiste: amare Dio, un solo Dio e per sempre. Impensabile dunque il divorzio, impensabile l'unione precaria, neanche evocata l'unione fra due creature del medesimo sesso, impura ogni relazione non consacrata dal sacramento. Ratzinger erige un baluardo granitico contro le conquiste già avvenute nel diritto civile e quelle che, come i Pacs che hanno già preso piede in Francia e in Italia, minacciano anche il nostro paese.
La seconda parte dell'Enciclica rivendica il magistero della chiesa anche come istituzione e nelle forme che ha preso dalla donazione costantiniana in poi. Neanche pensare a una ridiscussione del Concordato. Non che la chiesa faccia politica in prima persona, ma ha diritto e dovere di indicare ai fedeli come la devono fare. Siamo lontani dal «non expedit». Adesso i cattolici sono chiamati ad impegnarsi contro le imminenti o già avvenute degenerazioni dei rapporti fra gli uomini, come appunto fa il cardinal Ruini. Anche in tema di giustizia: neanche essa può essere raggiunta soltanto dall'umanità, come si sono arrogantemente permessi di dire l'illuminismo e il marxismo. Perché è vero che il mondo è pieno di ingiustizie, ma è un errore fatale credere che gli uomini possano ridurle, mentre possono soltanto alleviarle con la carità, prima di tutto fra i membri della comunità dei fedeli. «Per la verità», ammette Ratzinger, il cristianesimo degli inizi voleva la partecipazione comunitaria dei beni, ma questo «con il crescere della chiesa non è stato più possibile». Per la verità chi o che cosa lo avrebbe reso impossibile? Forse il primato che il sacerdote deve assicurare ai sacramenti e alla liturgia rispetto al dovere di soccorrere gli infelici? Tanto che deve delegare questo secondo compito ai diaconi? Ma è una domanda maliziosa. Resta che l'enciclica assume come proprio il concetto avanzato anche dalla Commissione europea di sussidiarietà: arrivi l'istituzione pubblica soltanto dove il singolo o l'associazionismo privato, nel quale la chiesa ha un peso rilevante, non arriva. E ci si guardi bene dall'interrogare Dio sul male o le ragioni della sofferenza e delle ingiustizie. Questo non è lecito, come dimostra il Libro di Giobbe. Se lo tenga per detto, par di capire, anche chi si è chiesto: ma quale Dio dopo Auschwitz?
Insomma l'Enciclica ci deresponsabilizza di tutto fuorché dalla necessità di trascenderci nella volontà divina, che è imperscrutabile. Ci pare di averlo già sentito dire dal nostro parroco quando eravamo bambini.
ilmanifesto.it
Molti commentatori, amici ed amiche presumibilmente non credenti, sono rimasti positivamente colpiti dalla prima Enciclica di Benedetto XVI come un invito all'amore quanto mai attuale in un mondo tutto intriso d'odio. Non credo che vada letta così. Se nel preambolo si dichiara che nessuna guerra può essere fatta in nome di Dio, ed è un passo avanti rispetto alle ancora recenti guerre giuste, questo è anche il solo passo avanti, mentre l'asse della lettera più volte ribadito è un rigido alt messo alla secolarizzazione che avevamo salutato nel Concilio Vaticano II. Amatevi, dice Ratzinger, ma sappiate che ogni amore è impuro, salvo quello di Dio per noi e noi per Dio o fra noi in Dio. Non ce n'è un altro che non sia imperfetto e per natura degenerativo. Benedetto XVI fa qui un passo indietro perfino dalla lezione paolina, che riconosce dignità e valore anche ad aspetti prettamente e solamente umani. Quel che nella prima lettera di Giovanni, più volte richiamata, è un canto tutto indirizzato alla fraternità con l'altro, l'estraneo, o perfino mortalmente colpevole, qui diventa una barriera contro l'amore puramente terreno traversato dalla sessualità. Una chiusura totale alla problematica del moderno e dell'umano in quanto umano. Toccherà ai teologi discernere i fili dell'argomentazione sottile, talvolta causidica, di Ratzinger.
Ma intanto il non credente non ha di che estasiarsi, esimendosi dal coglierne l'intenzione centrale che è tutta politica - in senso pieno e perfino nobile della parola - e si allinea alla tradizione più retriva ottocentesca della chiesa di Roma. L'inizio - un po' filosofico scrive Ratzinger, un po' filologico diremmo noi - sul significato della parola «amore» in greco e nella cultura cristiana la definisce la prima eros come desiderio egoista o ricerca per sé, per un proprio bisogno mentre la seconda agape sarebbe tutta volta al bene e al bisogno dell'altro, amore perfetto. L'eros è declassato a mero egoismo, a mera materialità del corpo (la psiche nella lettera non ha posto), tendente alla degenerazione e alla mercificazione, il cui simbolo sarebbe la prostituzione sacra. L'Enciclica non concepisce un rapporto con l'altro che non passi attraverso la purificazione, parola continuamente ripetuta, dell'amore di Dio e in Dio. Quasi che il corpo porti in sé indelebile come il peccato un originale perversità. Dio amerà l'uomo, ma Ratzinger certamente no. Allora è più toccante e persuasiva la disperazione del mondo e propria di Agostino, che l'attuale papa non condivide, in quanto sicuro che con l'ascesi e secondo il magistero della chiesa ogni cattolico può trascendere se stesso. Se non vi riesce cade fuori dalla salvezza, o almeno dalla mente pedagogica dell'attuale pontefice. Ne consegue che la sola unione possibile è fra un uomo e una donna in forma «esclusiva» e «per sempre», come il patto di Javeh con Israele, lui sposo sapiente, lei facilmente infedele che soltanto dalla generosità di lui può essere «perdonata». Il matrimonio non è che il riflesso del nocciolo fondamentale delle religioni monoteiste: amare Dio, un solo Dio e per sempre. Impensabile dunque il divorzio, impensabile l'unione precaria, neanche evocata l'unione fra due creature del medesimo sesso, impura ogni relazione non consacrata dal sacramento. Ratzinger erige un baluardo granitico contro le conquiste già avvenute nel diritto civile e quelle che, come i Pacs che hanno già preso piede in Francia e in Italia, minacciano anche il nostro paese.
La seconda parte dell'Enciclica rivendica il magistero della chiesa anche come istituzione e nelle forme che ha preso dalla donazione costantiniana in poi. Neanche pensare a una ridiscussione del Concordato. Non che la chiesa faccia politica in prima persona, ma ha diritto e dovere di indicare ai fedeli come la devono fare. Siamo lontani dal «non expedit». Adesso i cattolici sono chiamati ad impegnarsi contro le imminenti o già avvenute degenerazioni dei rapporti fra gli uomini, come appunto fa il cardinal Ruini. Anche in tema di giustizia: neanche essa può essere raggiunta soltanto dall'umanità, come si sono arrogantemente permessi di dire l'illuminismo e il marxismo. Perché è vero che il mondo è pieno di ingiustizie, ma è un errore fatale credere che gli uomini possano ridurle, mentre possono soltanto alleviarle con la carità, prima di tutto fra i membri della comunità dei fedeli. «Per la verità», ammette Ratzinger, il cristianesimo degli inizi voleva la partecipazione comunitaria dei beni, ma questo «con il crescere della chiesa non è stato più possibile». Per la verità chi o che cosa lo avrebbe reso impossibile? Forse il primato che il sacerdote deve assicurare ai sacramenti e alla liturgia rispetto al dovere di soccorrere gli infelici? Tanto che deve delegare questo secondo compito ai diaconi? Ma è una domanda maliziosa. Resta che l'enciclica assume come proprio il concetto avanzato anche dalla Commissione europea di sussidiarietà: arrivi l'istituzione pubblica soltanto dove il singolo o l'associazionismo privato, nel quale la chiesa ha un peso rilevante, non arriva. E ci si guardi bene dall'interrogare Dio sul male o le ragioni della sofferenza e delle ingiustizie. Questo non è lecito, come dimostra il Libro di Giobbe. Se lo tenga per detto, par di capire, anche chi si è chiesto: ma quale Dio dopo Auschwitz?
Insomma l'Enciclica ci deresponsabilizza di tutto fuorché dalla necessità di trascenderci nella volontà divina, che è imperscrutabile. Ci pare di averlo già sentito dire dal nostro parroco quando eravamo bambini.
ilmanifesto.it
6.2.06
E Silvio insegue il record di Fidel
La svolta del Cavaliere parolaio
di Gian Antonio Stella
Fosse un cubista da reality, un conduttore scarso o un presentatore di quiz, il politico Berlusconi prenderebbe dal Berlusconi padrone di Mediaset una lavata di capelli. Ma come: va in prima serata a Liberitutti, si porta una claque di centravanti, preti e signorine buonasera, presidia l’etere fin quasi a mezzanotte, rinuncia agli spot temendo che la gente cambi canale e cosa fa? Il 5,38% di share! La metà di Superquark! Umiliato da un programma di neutroni, tundre e trichechi!
Non bastasse, la trasmissione condotta da Irene Pivetti, vispa farfalla uscita dal grinzoso bozzolo della badessa della Camera (che bacchettava allora il Cavaliere sul conflitto di interessi e ieri cinguettava: «Ma su, ce l’avrà almeno un difettino!») è finita pure nel mirino dell’Authority. La quale ha deciso di riunirsi d’urgenza per valutare se Liberitutti , oltre a far «marameo» agli appelli di Ciampi alla continenza, non abbia violato la delibera sulla par condicio. Che certo non prevedeva quel coretto di garruli osanna cui non si assisteva dai tempi del Re Sole.
La penuria di ascolti, arrivata dopo altre trasmissioni fluviali non popolarissime quale L’incudine condotta da Claudio Martelli, dovrebbe porre al Cavaliere una domanda: è davvero vincente dilagare nel palinsesto come il Mississippi nelle pianure alluvionali? Funzionerà questo «nuovo» Berlusconi sempre più lontano ed estraneo alle tesi del Berlusconi di una volta? Non aveva dubbi, un tempo, il Cavaliere: basta coi politici parolai. Il discorso della «discesa in campo» era essenziale: 1.085 parole. Studiate per andare al cuore di elettori assetati di poche cose chiare.
L’obiettivo era dichiarato: rifuggire dalle fumosità di sempre, tipo Forlani che gigioneggiava che avrebbe «potuto parlare per ore senza dire niente». Certo, anche per il Messia Azzurro che cerca continui richiami religiosi (gli apostoli, l’unzione, le dodici tavole, le zie suore, l’amaro calice…) non era facile seguire l’esempio sommo di rapporto diretto con la gente. Il Padre Nostro è fatto di 56 parole, l’Ave Maria di 42, il Credo di 95. Per non dire del Vangelo, dove una parabola come quella del buon samaritano (in Matteo) è concentrata in 123 parole. Ma quello era il senso: poche parole, massima chiarezza. Scrisse Michele Serra: «E’ un nullatenente culturale, per metter insieme 500 parole deve riunire il consiglio d’amministrazione». Errore: non era un limite, ma una scelta. L’asciuttezza era vigore. Il rifiuto del mondo di «quelli che nella vita hanno solo chiacchierato». Lo smarcamento dai «faniguttùn».
Quando il Cavaliere abbia cambiato idea non è facile da dire. Non c’è una data. Ma certo, via via che si lamentava di non essere abbastanza capito e apprezzato, ha cominciato ad arrotolarsi in una matassa di parole che, in bocca a chiunque altro, lo avrebbe spinto a sbuffare. Al punto che perfino l’amico Bruno Vespa arrivò a dire: «Di fronte alla domanda "che ore sono?", Parisi è uno che risponde: "Le otto". Berlusconi, invece: "In questo momento sul mio orologio una lancetta sta sulle otto e una su mezzogiorno"». Certo, la deriva ciacolona ha avuto rari ritorni all’antico. Come il «Contratto con gli italiani», riassunto in 288 parole secche secche: «Abbattimento della pressione fiscale con l’esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui; con la riduzione al 23% dell’aliquota per i redditi fino a 200 milioni; con la riduzione al 33% dell’aliquota per i redditi sopra i 200 milioni…».
Ma erano eccezioni. Basti ricordare il discorso alla Camera sull’Iraq del settembre 2002: 10.866 parole. Cioè 198 in più di quelle usate da Marx ed Engels per scrivere il «Manifesto» o diecimila in più della Dichiarazione d’indipendenza americana: 1.374 parole. E più l’attaccano più parla, parla, parla. Due ore e mezzo da Mentana rubando palla a Rutelli, due ore e mezzo da Martelli e dalla Pivetti in solitario… Incurante dei consigli di qualche amico, degli ascolti bassini, delle battute sul suo inseguimento ai record del companero Hugo Chavez (che con la sua diretta «Alò Presidente» è andato in onda sei ore e mezzo di fila) o di Fidel Castro, che nel ’98 riuscì a tenere un comizio di 7 ore e 14 minuti: «Volevo riflettere un po’ con voi». Tema: cosa ne penserebbe, il Berlusconi di una volta? Gli offriamo un termine di paragone: al comizio finale per le comunali di Messina (le comunali di Messina!) parlò due mesi fa per un’ora e 36 minuti. Cinquantanove minuti più di quelli usati da Giovanni XXIII per aprire il Concilio Ecumenico Vaticano II.
repubblica.it
di Gian Antonio Stella
Fosse un cubista da reality, un conduttore scarso o un presentatore di quiz, il politico Berlusconi prenderebbe dal Berlusconi padrone di Mediaset una lavata di capelli. Ma come: va in prima serata a Liberitutti, si porta una claque di centravanti, preti e signorine buonasera, presidia l’etere fin quasi a mezzanotte, rinuncia agli spot temendo che la gente cambi canale e cosa fa? Il 5,38% di share! La metà di Superquark! Umiliato da un programma di neutroni, tundre e trichechi!
Non bastasse, la trasmissione condotta da Irene Pivetti, vispa farfalla uscita dal grinzoso bozzolo della badessa della Camera (che bacchettava allora il Cavaliere sul conflitto di interessi e ieri cinguettava: «Ma su, ce l’avrà almeno un difettino!») è finita pure nel mirino dell’Authority. La quale ha deciso di riunirsi d’urgenza per valutare se Liberitutti , oltre a far «marameo» agli appelli di Ciampi alla continenza, non abbia violato la delibera sulla par condicio. Che certo non prevedeva quel coretto di garruli osanna cui non si assisteva dai tempi del Re Sole.
La penuria di ascolti, arrivata dopo altre trasmissioni fluviali non popolarissime quale L’incudine condotta da Claudio Martelli, dovrebbe porre al Cavaliere una domanda: è davvero vincente dilagare nel palinsesto come il Mississippi nelle pianure alluvionali? Funzionerà questo «nuovo» Berlusconi sempre più lontano ed estraneo alle tesi del Berlusconi di una volta? Non aveva dubbi, un tempo, il Cavaliere: basta coi politici parolai. Il discorso della «discesa in campo» era essenziale: 1.085 parole. Studiate per andare al cuore di elettori assetati di poche cose chiare.
L’obiettivo era dichiarato: rifuggire dalle fumosità di sempre, tipo Forlani che gigioneggiava che avrebbe «potuto parlare per ore senza dire niente». Certo, anche per il Messia Azzurro che cerca continui richiami religiosi (gli apostoli, l’unzione, le dodici tavole, le zie suore, l’amaro calice…) non era facile seguire l’esempio sommo di rapporto diretto con la gente. Il Padre Nostro è fatto di 56 parole, l’Ave Maria di 42, il Credo di 95. Per non dire del Vangelo, dove una parabola come quella del buon samaritano (in Matteo) è concentrata in 123 parole. Ma quello era il senso: poche parole, massima chiarezza. Scrisse Michele Serra: «E’ un nullatenente culturale, per metter insieme 500 parole deve riunire il consiglio d’amministrazione». Errore: non era un limite, ma una scelta. L’asciuttezza era vigore. Il rifiuto del mondo di «quelli che nella vita hanno solo chiacchierato». Lo smarcamento dai «faniguttùn».
Quando il Cavaliere abbia cambiato idea non è facile da dire. Non c’è una data. Ma certo, via via che si lamentava di non essere abbastanza capito e apprezzato, ha cominciato ad arrotolarsi in una matassa di parole che, in bocca a chiunque altro, lo avrebbe spinto a sbuffare. Al punto che perfino l’amico Bruno Vespa arrivò a dire: «Di fronte alla domanda "che ore sono?", Parisi è uno che risponde: "Le otto". Berlusconi, invece: "In questo momento sul mio orologio una lancetta sta sulle otto e una su mezzogiorno"». Certo, la deriva ciacolona ha avuto rari ritorni all’antico. Come il «Contratto con gli italiani», riassunto in 288 parole secche secche: «Abbattimento della pressione fiscale con l’esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui; con la riduzione al 23% dell’aliquota per i redditi fino a 200 milioni; con la riduzione al 33% dell’aliquota per i redditi sopra i 200 milioni…».
Ma erano eccezioni. Basti ricordare il discorso alla Camera sull’Iraq del settembre 2002: 10.866 parole. Cioè 198 in più di quelle usate da Marx ed Engels per scrivere il «Manifesto» o diecimila in più della Dichiarazione d’indipendenza americana: 1.374 parole. E più l’attaccano più parla, parla, parla. Due ore e mezzo da Mentana rubando palla a Rutelli, due ore e mezzo da Martelli e dalla Pivetti in solitario… Incurante dei consigli di qualche amico, degli ascolti bassini, delle battute sul suo inseguimento ai record del companero Hugo Chavez (che con la sua diretta «Alò Presidente» è andato in onda sei ore e mezzo di fila) o di Fidel Castro, che nel ’98 riuscì a tenere un comizio di 7 ore e 14 minuti: «Volevo riflettere un po’ con voi». Tema: cosa ne penserebbe, il Berlusconi di una volta? Gli offriamo un termine di paragone: al comizio finale per le comunali di Messina (le comunali di Messina!) parlò due mesi fa per un’ora e 36 minuti. Cinquantanove minuti più di quelli usati da Giovanni XXIII per aprire il Concilio Ecumenico Vaticano II.
repubblica.it
25.1.06
Offensiva finale
GABRIELE POLO
Silvio Berlusconi ha ragione. Dice la verità quando afferma che il suo governo ha cambiato l'Italia. In peggio. E' pure vero che le tante leggi varate in questa legislatura non sono state solo pro domo sua: hanno trasformato la costituzione materiale del paese e la sinistra - che per troppo tempo ha puntato il dito principalmente sui conflitti d'interesse - se ne sta rendendo conto solo in queste ultime settimane. Forse. Il fatto è che c'è sempre stata una perfetta coincidenza tra gli interessi privati del premier e una cultura di destra liberista e populista. Che cos'è il berlusconismo se non l'incarnazione in un sol uomo di un'intera politica? Quel fiume che segna un'epoca e scava al punto da rendere popolare una legge che sancisce l'impunibilità dell'omicidio preventivo per chi sente minacciata la propria persona e la propria proprietà, che privatizza la pena di morte.
In cinque anni il governo di centrodestra ha sottoposto il lavoro al dominio del mercato (legge 30), privatizzato scuola e ricerca (Moratti), stravolto la Costituzione del `48 (devolution), portato il paese in guerra (Iraq), per non parlare di tutte le leggi un po' troppo semplicisticamente definite «ad personam» (informazione e giustizia), di quelle a uso della maggioranza (riforma elettorale) o delle forche caudine imposte agli immigrati, dello strame fatto ai danni dei beni comuni (dalle privatizzazioni energetiche alle grandi opere). Ha proprio ragione Silvio Berlusconi quando dice di aver lavorato molto. E a fondo.
Ora siamo al rush finale, con due settimane in più per concludere l'opera, presentarsi agli elettori con il pacchetto completo e poterlo agitare in tv o alla radio mentre si realizza. Una perfetta tattica di guerra: offensiva militare e propaganda, in simultanea. Martedì, per la felicità di An e Lega, è stata varata la legge che permette a chiunque di sparare impunemente per il solo fatto di percepire una minaccia: se poi la minaccia non c'era vaglielo a raccontare allo sparato, ma intanto la delega della sicurezza dallo stato al privato è compiuta. Ieri il fascistissimo Codice Rocco sui reati d'opinione è stato emendato ma solo per accontentare i leghisti a cui non piace il tricolore lasciando, invece, intatta la punibilità dei reati d'opinione associativi. Oggi - tra il plauso dei proibizionisti - verrà inasprita la legge Fini sulle droghe con l'equiparazione tra uno spinello e l'eroina. E per farlo in fretta si usa come un autobus un disegno di legge sulle Olimpiadi invernali, forse per l'affinità cromatica col bianco della neve. Nei prossimi giorni la valanga continuerà. Fino allo scioglimento delle camere, cercando di far contenti tutti i tasselli della maggioranza e per affascinare la parte più grigia dell'opinione pubblica. Fino al 9 aprile, quando - parola di Berlusconi - l'Italia che il cavaliere ha cambiato andrà al voto. Ma fino ad allora il veleno inquinerà le falde del paese. Per bonificarlo servirà un intervento radicale di cui non vediamo ancora traccia.
ilmanifesto.it
Silvio Berlusconi ha ragione. Dice la verità quando afferma che il suo governo ha cambiato l'Italia. In peggio. E' pure vero che le tante leggi varate in questa legislatura non sono state solo pro domo sua: hanno trasformato la costituzione materiale del paese e la sinistra - che per troppo tempo ha puntato il dito principalmente sui conflitti d'interesse - se ne sta rendendo conto solo in queste ultime settimane. Forse. Il fatto è che c'è sempre stata una perfetta coincidenza tra gli interessi privati del premier e una cultura di destra liberista e populista. Che cos'è il berlusconismo se non l'incarnazione in un sol uomo di un'intera politica? Quel fiume che segna un'epoca e scava al punto da rendere popolare una legge che sancisce l'impunibilità dell'omicidio preventivo per chi sente minacciata la propria persona e la propria proprietà, che privatizza la pena di morte.
In cinque anni il governo di centrodestra ha sottoposto il lavoro al dominio del mercato (legge 30), privatizzato scuola e ricerca (Moratti), stravolto la Costituzione del `48 (devolution), portato il paese in guerra (Iraq), per non parlare di tutte le leggi un po' troppo semplicisticamente definite «ad personam» (informazione e giustizia), di quelle a uso della maggioranza (riforma elettorale) o delle forche caudine imposte agli immigrati, dello strame fatto ai danni dei beni comuni (dalle privatizzazioni energetiche alle grandi opere). Ha proprio ragione Silvio Berlusconi quando dice di aver lavorato molto. E a fondo.
Ora siamo al rush finale, con due settimane in più per concludere l'opera, presentarsi agli elettori con il pacchetto completo e poterlo agitare in tv o alla radio mentre si realizza. Una perfetta tattica di guerra: offensiva militare e propaganda, in simultanea. Martedì, per la felicità di An e Lega, è stata varata la legge che permette a chiunque di sparare impunemente per il solo fatto di percepire una minaccia: se poi la minaccia non c'era vaglielo a raccontare allo sparato, ma intanto la delega della sicurezza dallo stato al privato è compiuta. Ieri il fascistissimo Codice Rocco sui reati d'opinione è stato emendato ma solo per accontentare i leghisti a cui non piace il tricolore lasciando, invece, intatta la punibilità dei reati d'opinione associativi. Oggi - tra il plauso dei proibizionisti - verrà inasprita la legge Fini sulle droghe con l'equiparazione tra uno spinello e l'eroina. E per farlo in fretta si usa come un autobus un disegno di legge sulle Olimpiadi invernali, forse per l'affinità cromatica col bianco della neve. Nei prossimi giorni la valanga continuerà. Fino allo scioglimento delle camere, cercando di far contenti tutti i tasselli della maggioranza e per affascinare la parte più grigia dell'opinione pubblica. Fino al 9 aprile, quando - parola di Berlusconi - l'Italia che il cavaliere ha cambiato andrà al voto. Ma fino ad allora il veleno inquinerà le falde del paese. Per bonificarlo servirà un intervento radicale di cui non vediamo ancora traccia.
ilmanifesto.it
29.12.05
Quei romanzi pieni di scienza
PIERGIORGIO ODIFREDDI
Ci si può fidare della letteratura, come specchio che riflette la visione del mondo che caratterizza la propria epoca? I letterati naturalmente sostengono di sì, e noi siamo costretti a credere loro sulla parola: anche perché quando un' epoca è passata, di essa non rimangono appunto altro che le descrizioni che ne ha registrate la sua letteratura, comprese le branche fantastiche che vanno sotto il nome di teologia, filosofia e storia. Chi pensa, comunque, che la letteratura sia effettivamente un mezzo per conoscere l' uomo e la sua storia, e non soltanto un futile passatempo, deve anche aspettarsi che la scienza e la tecnologia rivestano per gli scrittori del mondo contemporaneo un ruolo analogo a quello che la mitologia e la religione giocavano per i cantori del mondo antico e medievale. E invece, la maggior parte della letteratura contemporanea è non solo ascientifica e atecnologica, ma addirittura antiscientifica e antitecnologica. La maggioranza dei letterati di ogni tipo, teologi e filosofi compresi, ritiene infatti di poter continuare a interpretare il presente secondo anacronistiche categorie adeguate soltanto, se pure mai lo sono state, alla descrizione di un passato che ormai non c' è più. Fortunatamente, esiste anche una minoranza che costituisce l' avanguardia della letteratura non anacronistica di domani. Essa è composta, da un lato, da quei letterati di formazione umanistica che, da Italo Calvino a Daniele del Giudice, da Raymond Queneau a Hans Magnum Enzensberger, hanno prestato un' attenzione particolare alla cultura scientifica e tecnologica. E, dall' altro lato, da quegli scrittori che sono pervenuti alla letteratura direttamente da una formazione non umanistica: dall' ingegner Carlo Emilio Gadda al chimico Primo Levi, dal fisico Thomas Pynchon al matematico John Coetzee (premio Nobel per letteratura nel 2003). Di questo secondo drappello fa parte Andrew Crumey, un fisico teorico che ha ottenuto un grande successo nel mondo anglosassone coi suoi cinque romanzi, quattro dei quali tradotti in Italia da Ponte alle Grazie: Musica in una lingua straniera (1994), che descrive la faticosa scrittura di un giallo contenuto nel libro, e del libro stesso; Pftiz (1995), che narra le vicende di una città immaginaria progettata da un principe del Settecento in ogni dettaglio, dagli edifici agli abitanti, ma esistente solo sulla carta; Il professore, Rousseau e l' arte dell' adulterio (2000), che espande in una triplice storia due brevi passaggi delle Confessioni che citano di sfuggita due ignoti copisti francesi del Settecento; e L' amore perduto e la teoria dei quanti (2004), il cui mondo macroscopico si comporta come quello microscopico, con un' instabile sovrapposizione di stati potenziali e un molteplice parallelismo di mondi possibili. La caratteristica linguistica comune di questi libri è un esplicito ritorno alle origini del romanzo moderno: quelle, per intenderci, di Jacques il fatalista di Denis Diderot, che aveva additato alla letteratura una promettente strada che essa non seguì, preferendo imboccare il sentiero che la portò a impantanarsi nella melma del romanticismo. Queste origini sono consce ed esplicite nell' opera di Crumey, che già dopo un paio di pagine del suo primo libro si chiede: «Da dove venivano? Dove stavano andando? (Ma c' è mai qualcuno che sappia da dove viene o dove sta andando?)», riecheggiando il famoso incipit di Diderot. E nel secondo libro inscena dialoghi fra il Conte e Pfitz che potrebbero essere usciti direttamente dalla sua penna. E nel terzo discute apertamente la sua teoria del Paradosso sull' attore: cioè, che l' attore e l' artista migliori sono quelli che trasmettono emozioni e idee quando essi stessi non provano nulla, perché i loro sentimenti sarebbero soltanto d' intralcio alla loro capacità di recitare o esprimersi in maniera convincente. Paradossalmente: «poiché la sincerità è la cosa più importante, se uno impara a fingerla è a posto», con tanti saluti al romanticismo. Ma Crumey non è una specie di Pierre Menard, e non cerca di riscrivere Jacques il fatalista: se non altro perché viene dopo Borges, col quale è costretto naturalmente a fare i conti. E li fa nel capitolo 28 di Musica in una lingua straniera, in una riscrittura della «Biblioteca di Babele» in cui dichiara fra l' altro: «che cos' è la scrittura se non una specie di furto, un furto dalla biblioteca delle idee che contiene ogni libro possibile?» Così come fa i conti, oltre che ovviamente con Rousseau, anche con Proust in Il professore, Rousseau e l' arte dell' adulterio», riportando in vita entrambi gli scrittori e facendoli diventare personaggi di un romanzo proustianamente narrato da «questa persona chiamata io, che non coincide sempre con me stesso». Con punti di riferimento come Diderot e Rousseau da un lato, e Proust e Borges dall' altro, quella di Crumey non può che essere una letteratura della divagazione e del coinvolgimento diretto del lettore nell' opera, all' insegna dei motti: «Ogni storia è una infinità di storie», e «Un libro è riuscito se ci fa sentire che siamo noi quel particolare Lettore che l' Autore ha in mente». Ed è anche una letteratura a millefoglie, con livelli intrecciati fra loro fino a confondersi l' un l' altro in una sorta di mise en abyme che coinvolge il libro stesso: il quale a volte entra nel racconto come protagonista, insieme al suo autore e al suo lettore, e altre volte presenta le stesse pagine e le stesse situazioni in versioni multiple, che riprendono continuamente il filo della storia facendola andare in direzioni alternative, tutte vere (o false) allo stesso modo. Ma Crumey ha una marcia in più rispetto ai letterati che in passato hanno suonato variazioni su questi temi: il fatto di essere un fisico che conosce la scienza dal di dentro, e la sa usare a proposito e con criterio. Nei suoi libri essa a volte interviene in maniera parodistica, come nella «Visione dell' universo» inserita in Musica in una lingua straniera: un trattato di pseudofisica che spiega come esistano tre particelle (gli ideoni) che possono viaggiare più velocemente della luce e sono le componenti fondamentali di tutte le cose. O come nel «Trattato sulla poesia meccanica» inserito in Il professore, che propone un marchingegno rotante per la critica letteraria, tutto basato su pesi, fili, leve, pulegge e forze. Altre volte la scienza interviene obliquamente, nella forma di citazioni, immagini, indovinelli, enigmi o allegorie. Come nelle allusioni in Pfitz al paradosso di Russell attraverso «l' indice degli indici che non includono se stessi», o alla teoria dei frattali in una pagina sulla lunghezza della costa d' Inghilterra. O nell' uso narrativo del dilemma delle tre porte di Lewis Carroll, che Il professore eleva a metafora di alcuni degli aspetti problematici e paradossali della fisica moderna. O nella citazione del passo di Moby Dick in cui si descrivono marmitte per bollire il grasso di balena a forma di cicloide, in L' amore perduto e la teoria dei quanti». In quest' ultimo libro, però, la scienza interviene più esplicitamente che negli altri. Esso ruota infatti attorno al cruciale soggiorno sulle alpi svizzere che Erwin Schrcdinger fece nelle vacanze di Natale del 1925, con un' accompagnatrice sconosciuta e in circostanze avvolte di mistero: fu in quei giorni che egli ebbe l' illuminazione che lo portò alla sua celeberrima equazione d' onda, che descrive il comportamento quantistico della materia. Naturalmente, come nota lo stesso Crumey, «riscrivere la storia è facile, ma riscrivere la scienza non lo è affatto». Lui però ci riesce ottimamente, e di passaggio risponde anche alla domanda che abbiamo posto agli inizi, notando in Musica in una lingua straniera che «se lo scrittore è qualcuno che porge uno specchio al mondo, allora si tratta per forza di uno specchio infranto che riflette vari punti della realtà». E che, come diceva Pascal, «se un libro ci parla reggendo uno specchio alla nostra anima, non è nell' autore ma in noi stessi che troviamo tutto ciò che ci vediamo».
Ci si può fidare della letteratura, come specchio che riflette la visione del mondo che caratterizza la propria epoca? I letterati naturalmente sostengono di sì, e noi siamo costretti a credere loro sulla parola: anche perché quando un' epoca è passata, di essa non rimangono appunto altro che le descrizioni che ne ha registrate la sua letteratura, comprese le branche fantastiche che vanno sotto il nome di teologia, filosofia e storia. Chi pensa, comunque, che la letteratura sia effettivamente un mezzo per conoscere l' uomo e la sua storia, e non soltanto un futile passatempo, deve anche aspettarsi che la scienza e la tecnologia rivestano per gli scrittori del mondo contemporaneo un ruolo analogo a quello che la mitologia e la religione giocavano per i cantori del mondo antico e medievale. E invece, la maggior parte della letteratura contemporanea è non solo ascientifica e atecnologica, ma addirittura antiscientifica e antitecnologica. La maggioranza dei letterati di ogni tipo, teologi e filosofi compresi, ritiene infatti di poter continuare a interpretare il presente secondo anacronistiche categorie adeguate soltanto, se pure mai lo sono state, alla descrizione di un passato che ormai non c' è più. Fortunatamente, esiste anche una minoranza che costituisce l' avanguardia della letteratura non anacronistica di domani. Essa è composta, da un lato, da quei letterati di formazione umanistica che, da Italo Calvino a Daniele del Giudice, da Raymond Queneau a Hans Magnum Enzensberger, hanno prestato un' attenzione particolare alla cultura scientifica e tecnologica. E, dall' altro lato, da quegli scrittori che sono pervenuti alla letteratura direttamente da una formazione non umanistica: dall' ingegner Carlo Emilio Gadda al chimico Primo Levi, dal fisico Thomas Pynchon al matematico John Coetzee (premio Nobel per letteratura nel 2003). Di questo secondo drappello fa parte Andrew Crumey, un fisico teorico che ha ottenuto un grande successo nel mondo anglosassone coi suoi cinque romanzi, quattro dei quali tradotti in Italia da Ponte alle Grazie: Musica in una lingua straniera (1994), che descrive la faticosa scrittura di un giallo contenuto nel libro, e del libro stesso; Pftiz (1995), che narra le vicende di una città immaginaria progettata da un principe del Settecento in ogni dettaglio, dagli edifici agli abitanti, ma esistente solo sulla carta; Il professore, Rousseau e l' arte dell' adulterio (2000), che espande in una triplice storia due brevi passaggi delle Confessioni che citano di sfuggita due ignoti copisti francesi del Settecento; e L' amore perduto e la teoria dei quanti (2004), il cui mondo macroscopico si comporta come quello microscopico, con un' instabile sovrapposizione di stati potenziali e un molteplice parallelismo di mondi possibili. La caratteristica linguistica comune di questi libri è un esplicito ritorno alle origini del romanzo moderno: quelle, per intenderci, di Jacques il fatalista di Denis Diderot, che aveva additato alla letteratura una promettente strada che essa non seguì, preferendo imboccare il sentiero che la portò a impantanarsi nella melma del romanticismo. Queste origini sono consce ed esplicite nell' opera di Crumey, che già dopo un paio di pagine del suo primo libro si chiede: «Da dove venivano? Dove stavano andando? (Ma c' è mai qualcuno che sappia da dove viene o dove sta andando?)», riecheggiando il famoso incipit di Diderot. E nel secondo libro inscena dialoghi fra il Conte e Pfitz che potrebbero essere usciti direttamente dalla sua penna. E nel terzo discute apertamente la sua teoria del Paradosso sull' attore: cioè, che l' attore e l' artista migliori sono quelli che trasmettono emozioni e idee quando essi stessi non provano nulla, perché i loro sentimenti sarebbero soltanto d' intralcio alla loro capacità di recitare o esprimersi in maniera convincente. Paradossalmente: «poiché la sincerità è la cosa più importante, se uno impara a fingerla è a posto», con tanti saluti al romanticismo. Ma Crumey non è una specie di Pierre Menard, e non cerca di riscrivere Jacques il fatalista: se non altro perché viene dopo Borges, col quale è costretto naturalmente a fare i conti. E li fa nel capitolo 28 di Musica in una lingua straniera, in una riscrittura della «Biblioteca di Babele» in cui dichiara fra l' altro: «che cos' è la scrittura se non una specie di furto, un furto dalla biblioteca delle idee che contiene ogni libro possibile?» Così come fa i conti, oltre che ovviamente con Rousseau, anche con Proust in Il professore, Rousseau e l' arte dell' adulterio», riportando in vita entrambi gli scrittori e facendoli diventare personaggi di un romanzo proustianamente narrato da «questa persona chiamata io, che non coincide sempre con me stesso». Con punti di riferimento come Diderot e Rousseau da un lato, e Proust e Borges dall' altro, quella di Crumey non può che essere una letteratura della divagazione e del coinvolgimento diretto del lettore nell' opera, all' insegna dei motti: «Ogni storia è una infinità di storie», e «Un libro è riuscito se ci fa sentire che siamo noi quel particolare Lettore che l' Autore ha in mente». Ed è anche una letteratura a millefoglie, con livelli intrecciati fra loro fino a confondersi l' un l' altro in una sorta di mise en abyme che coinvolge il libro stesso: il quale a volte entra nel racconto come protagonista, insieme al suo autore e al suo lettore, e altre volte presenta le stesse pagine e le stesse situazioni in versioni multiple, che riprendono continuamente il filo della storia facendola andare in direzioni alternative, tutte vere (o false) allo stesso modo. Ma Crumey ha una marcia in più rispetto ai letterati che in passato hanno suonato variazioni su questi temi: il fatto di essere un fisico che conosce la scienza dal di dentro, e la sa usare a proposito e con criterio. Nei suoi libri essa a volte interviene in maniera parodistica, come nella «Visione dell' universo» inserita in Musica in una lingua straniera: un trattato di pseudofisica che spiega come esistano tre particelle (gli ideoni) che possono viaggiare più velocemente della luce e sono le componenti fondamentali di tutte le cose. O come nel «Trattato sulla poesia meccanica» inserito in Il professore, che propone un marchingegno rotante per la critica letteraria, tutto basato su pesi, fili, leve, pulegge e forze. Altre volte la scienza interviene obliquamente, nella forma di citazioni, immagini, indovinelli, enigmi o allegorie. Come nelle allusioni in Pfitz al paradosso di Russell attraverso «l' indice degli indici che non includono se stessi», o alla teoria dei frattali in una pagina sulla lunghezza della costa d' Inghilterra. O nell' uso narrativo del dilemma delle tre porte di Lewis Carroll, che Il professore eleva a metafora di alcuni degli aspetti problematici e paradossali della fisica moderna. O nella citazione del passo di Moby Dick in cui si descrivono marmitte per bollire il grasso di balena a forma di cicloide, in L' amore perduto e la teoria dei quanti». In quest' ultimo libro, però, la scienza interviene più esplicitamente che negli altri. Esso ruota infatti attorno al cruciale soggiorno sulle alpi svizzere che Erwin Schrcdinger fece nelle vacanze di Natale del 1925, con un' accompagnatrice sconosciuta e in circostanze avvolte di mistero: fu in quei giorni che egli ebbe l' illuminazione che lo portò alla sua celeberrima equazione d' onda, che descrive il comportamento quantistico della materia. Naturalmente, come nota lo stesso Crumey, «riscrivere la storia è facile, ma riscrivere la scienza non lo è affatto». Lui però ci riesce ottimamente, e di passaggio risponde anche alla domanda che abbiamo posto agli inizi, notando in Musica in una lingua straniera che «se lo scrittore è qualcuno che porge uno specchio al mondo, allora si tratta per forza di uno specchio infranto che riflette vari punti della realtà». E che, come diceva Pascal, «se un libro ci parla reggendo uno specchio alla nostra anima, non è nell' autore ma in noi stessi che troviamo tutto ciò che ci vediamo».
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28.12.05
I ragionieri della felicità
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Le richieste di rallentamento del prodotto interno lordo ignorano il nodo della distribuzione della ricchezzza
LUIGI CAVALLARO
Ma è proprio vero che al capitale interessa la crescita del prodotto interno lordo? La domanda non suoni retorica o impertinente. Per quanto siano in molti a sostenere che la responsabilità della colonizzazione dell'immaginario dell'Occidente, supposto ormai incapace di assumere altri obiettivi che quello della «crescita quantitativa» e di valutare mezzi e fini secondo parametri differenti dal Prodotto interno lordo, sia da ascrivere al dominio sociale dell'impresa capitalistica e a quello ideologico dei suoi aedi, cioè gli economisti, ci sono buoni motivi per dubitare che le cose stiano proprio in questi termini. Non solo perché, fin dalla sua «rifondazione neoclassica» (avvenuta sul finire dell'Ottocento ad opera di Walras, Menger e Jevons), l'economia politica si è connotata per un radicale individualismo metodologico, alieno da ogni discorso sui «fini della società», ma soprattutto perché codesta metodologia non era (e non è) che il pendant analitico del fatto che, sulla base del modo di produzione capitalistico, le decisioni concernenti cosa, come e per chi produrre sono disperse fra una miriade di produttori indipendenti, ciascuno dei quali offre ciò che possiede e chiede quel che desidera per fini che riguardano lui e lui soltanto. S'intende, nessuno ha mai dubitato che il singolo capitalista potesse avere come obiettivo quello di accrescere il proprio capitale (come il lavoratore il proprio salario o il proprietario fondiario la propria rendita), ma nessun economista neoclassico ha mai sostenuto che l'unico modo per conseguirlo era che tutti lo condividessero: al contrario, il problema principale dei neoclassici è sempre stato quello di studiare il modo in cui decisioni individuali di produrre, scambiare e consumare si intrecciano le une con le altre in modo da generare un «equilibrio»: un problema essenzialmente di «statica economica», come non mancarono di rilevare criticamente coloro che, nel secolo or ora concluso, ne eccepirono la limitatezza.
Una riprova di quanto si è detto si può cogliere nel fatto che l'unica forma di contabilità che per circa un secolo e mezzo ha fatto da sfondo agli studi economici è stata la «partita doppia», vero e proprio «monumento» (come la definì Schumpeter) della prassi imprenditoriale di impiegare il denaro come strumento di calcolo razionale dei costi e dei profitti individuali. Nessuna «statistica economica» e nessun «calcolo del Pil» s'imposero invece all'attenzione anteriormente al primo quarto del secolo XX: in un mondo in cui ognuno badava per sé, di concetti del genere, semplicemente, non vi era alcun bisogno. Anzi, se aveste chiesto a un economista come Edgeworth di cosa si occupava la scienza economica, vi avrebbe risposto che si occupava essenzialmente della «felicità».
Come accadde, allora, che l'imperativo della crescita s'impossessò, secondo taluni fino a obnubilarla, della mente occidentale? All'incirca, andò così. Nel 1920, l'economista inglese Arthur Cecil Pigou pubblicò un libro intitolato Economia del benessere. In quel tempo, la cultura anglosassone era dominata dall'idea che la felicità fosse qualcosa di oggettivamente misurabile, un po' come la temperatura, e che di conseguenza fosse possibile calcolare la felicità complessiva della società sommando quella dei suoi componenti. Poiché si possono sommare solo cose uguali (le pere con le pere, le patate con le patate), era implicito ritenere che si potesse confrontare la felicità dell'uno con quella dell'altro e che, per fare un esempio, si potesse calcolare con precisione quanto Tizio fosse più felice di Caio per il fatto di avere una patata o una pera in più.
Pigou non fece altro che ricollegarsi a queste idee e dichiarare programmaticamente che avrebbe ristretto il proprio esame a quel genere di «felicità» che dipendeva dal possesso di denaro. In questo modo, veniva a porre non soltanto le basi per assumere come indice approssimativo del benessere di una società il suo reddito nazionale monetario (che a grandi linee si identifica con quel che oggi noi chiamiamo Pil), ma soprattutto per sostenere che una variazione della distribuzione del reddito a favore dei meno abbienti, purché non conducesse ad una contrazione del volume del reddito nazionale, avrebbe accresciuto il benessere economico collettivo. Insomma, veniva a spianare (teoricamente, s'intende) la strada alla tassazione progressiva, un principio che le classi dominanti della società erano allora ben lungi dall'aver accettato.
Venne allora la reazione, che prese la forma di un attacco all'ipotesi di misurabilità e confrontabilità delle felicità individuali. Sull'onda delle scoperte della psicologia e della psicoanalisi, che negavano che i nostri processi psichici fossero interamente accessibili perfino a noi stessi, molti economisti finirono col trovare più convincente la costruzione di Vilfredo Pareto, che ben prima della comparsa dell'opera di Pigou aveva criticato l'idea benthamiana che la felicità fosse misurabile cardinalmente e che, dunque, potessero sommarsi o confrontarsi sensazioni di pena o piacere di individui diversi. Fu Lord Robbins, nel suo celebre Saggio sulla natura e il significato della scienza economica (1932), a dare alla questione una sistemazione pressoché definitiva: siccome non possiamo stabilire di quanto aumenti la felicità del povero dandogli una sterlina tolta al ricco, meglio lasciare le cose così come stanno e togliersi dalla testa codeste pericolose idee socialiste, cioè sovversive.
Sembrava un colpo mortale, invece - come un'idra dalle sette teste - l'idea redistributiva rispuntò grazie al cosiddetto «principio di indennizzo», formulato per la prima volta da Nicholas Kaldor nel 1939. Ammettiamo pure - disse grosso modo Kaldor - che non si possa confrontare la felicità di individui diversi e che dunque non si abbia alcuna base per stabilire di quanto aumenti il benessere collettivo se togliamo una sterlina al ricco per darla al povero. Il punto, in effetti, è un altro: se lo Stato, come Robin Hood, decide di togliere ai ricchi per dare ai poveri ma, al tempo stesso, interviene nel processo produttivo in modo da aumentare il reddito nazionale, avremo a disposizione un surplus con il quale, se vorremo, potremo «indennizzare» i ricchi. In questo modo, saremo in condizione di aumentare la felicità dei poveri senza diminuire quella dei ricchi, e tutti i termini del problema saranno risolti.
Di qui a fare della crescita del Pil il criterio di legittimazione delle politiche pubbliche il passo era breve e, a partire dal secondo dopoguerra, lo si fece senza esitazioni (barando, peraltro, visto che la prassi odierna di includere nella misurazione del Pil l'ammontare delle spese pubbliche per beni e servizi è assai poco coerente col suo concetto). D'altra parte, se questo sommario resoconto non fa troppo torto alla storia del pensiero economico (e filosofico), bisogna concludere che l'obiettivo della crescita non è, come appunto accennavamo all'inizio, proprio delle società capitalistiche in quanto tali, ma in quanto si trovino a convivere con uno stato che si propone di aumentare il benessere dei più svantaggiati. E soprattutto, che non possiamo rinunciare a quell'obiettivo (senza al contempo rinunciare ad ogni politica redistributiva) se prima non risolviamo il problema - filosofico o economico, fate voi - di trovare un modo per misurare e confrontare la felicità di individui differenti: niente di più, ma soprattutto niente di meno.
Ne è consapevole Ernesto Screpanti, il cui intervento apre la riflessione a più voci consegnata a questo volume curato da Giuseppe Prestipino e Teresa Serra, frutto di una serie di incontri promossi dal Centro per la Filosofia Italiana (Accadde domani. Fra utopia e distopia, Aracne Editrice, pp. 217, € 12). Secondo l'economista senese, infatti, nessuna delle teorie della giustizia elaborate fin qui per ovviare al vincolo della non confrontabilità resiste al maglio della critica di Hayek: «proprio perché la giustizia è fondata su principi etici, non può essere presa a fondamento delle scelte pubbliche. Può riguardare le scelte individuali, ad esempio fare l'elemosina, ma non quelle collettive». E nemmeno si può sfuggire all'impasse ricorrendo al principio democratico di far coincidere le scelte pubbliche con quelle votate dalla maggioranza dei cittadini, almeno fintanto che non si sia risolto il «teorema d'impossibilità» di Arrow e non si sia provato che la razionalità collettiva è conseguibile anche in una società non totalitaria.
C'è solo un modo, per Screpanti, di salvare l'intervento redistributivo dello stato svincolandolo, al contempo, dall'obiettivo di promuovere la crescita del pil, ed è quello di assumere come fine dell'intervento pubblico l'aumento della «libertà» di ciascuno, dove per libertà s'intende semplicemente la «facoltà di scelta» di fare o acquistare qualcosa. Reinterpretata in questi termini, la libertà è qualcosa di oggettivamente misurabile e si può, pertanto, confrontare la quantità in cui individui diversi ne dispongono. E in un sistema in cui la democrazia non fosse solo formale ma anche sostanziale, politiche pubbliche volte alla produzione di beni che accrescano soprattutto la libertà dei poveri (e finanziate con la tassazione progressiva, che riduce soprattutto la libertà dei ricchi) non si limiterebbero a «ridistribuire la libertà», ma ne farebbero aumentare «anche la somma complessiva».
Il problema è che il ristabilimento di un'ipotesi forte di confrontabilità delle situazioni personali, che consenta cioè di confrontare persone diverse nella misura in cui coglie ciò che le rende uguali, rischia di entrare in conflitto con quel «diritto alla differenza» che costituisce un portato ormai ineliminabile della riflessione novecentesca, soprattutto della cultura di genere. Lo rileva Prestipino, quando - nel primo dei suoi contributi al volume - avverte subito di dover distinguere il proprio concetto di libertà (intesa come «espansione di possibilità sociali conquistate entro i limiti delle necessità naturali») da quello di Screpanti. E lo rileva ancor più Teresa Serra, allorché, nella sua riconsiderazione della teoria dello stato, ricorda che il venir meno della «costituzione» di cui parlava Costantino Mortati (cioè di «un certo modo di intendere e di avvertire il bene comune») si deve eminentemente all'imperante «policentrismo e pluriculturalismo che impedisce di avvertire e definire fatti normativi».
Sennonché, è difficile conciliare l'esigenza tipicamente femminista di «adattare le regole astratte al particolare, alla specificità dei contesti e delle esigenze concrete» (Serra), con una programmazione economica che non si proponga più lo scopo della «crescita quantitativa dei beni disponibili», ma si ponga «come luogo di scelte prevalentemente qualitative e come decisione concernente soprattutto la priorità dei beni comuni» (Prestipino). Il rischio, infatti, è che, in assenza di un criterio normativo che consenta una qualche confrontabilità tra preferenze, gusti e soggettività supposte differenti «per natura», la volontà pianificatrice, ancorché ispirata da nobili ragioni ambientaliste, si affermi come dominio totalitario. O è solo per caso che, come ricorda Prestipino, alcuni ambientalisti sostengono che «la libertà dovrebbe essere soltanto libertà di pensiero»?
Esiste, in altre parole, un nesso inscindibile che lega fra loro l'ipotesi di non confrontabilità delle felicità individuali, l'individualismo etico (e metodologico) di marca paretiana e il teorema d'impossibilità di Arrow. Di conseguenza, quanto più aumentiamo l'ambito delle differenze non negoziabili, tanto più riduciamo la possibilità di operare confronti interpersonali e tanto meno possiamo affidare alla programmazione pubblica le scelte concernenti cosa, come e per chi produrre, salvo impostarle sulla «volontà di potenza» di una politica totalitaria. Prestipino sostiene che gli economisti dovrebbero risparmiare agli ambientalisti «l'accusa di voler rinchiudere tutti in un convento», e sono pronto a scommettere che simili obiettivi sono alieni da lui e da tutti coloro le cui riflessioni hanno arricchito questo volume (Raniero La Valle, Fabrizio Giovenale, Carla Ravaioli, Enzo Scandurra). Ma il dilemma resta, né il vagheggiamento dell'utopia può di per sé scansare distopie pericolose: qualcosa il Novecento avrà pur insegnato, no?
Post scriptum. Nel «modello di sviluppo dal volto umano» schizzato nel suo intervento in coda al volume, Screpanti - se ben capisco - si pone esplicitamente come obiettivo un rallentamento della crescita del pil. Che queste cose le scriva Latouche, passi; ma perché un marxista dovrebbe ritenere il pil una misura significativa di qualcosa che non sia la confusione in cui versa l'econometria?
ilmanifesto.it
Il prodotto interno lordo come somma delle felicità individuali, ma anche come costruzione contabile per stabilire politiche redistributive da parte dello stato. Una riflessione su come la teoria economica ha affrontato nel tempo il tema dello sviluppo o della crescita quantitavia a partire dal volume collettivo «Accadde domani»
Statistica economica
L'imperativo della crescita e la misurabilità della ricchezza nazionale come premessa di una statistica economica
Libertà e necessità
Le richieste di rallentamento del prodotto interno lordo ignorano il nodo della distribuzione della ricchezzza
LUIGI CAVALLARO
Ma è proprio vero che al capitale interessa la crescita del prodotto interno lordo? La domanda non suoni retorica o impertinente. Per quanto siano in molti a sostenere che la responsabilità della colonizzazione dell'immaginario dell'Occidente, supposto ormai incapace di assumere altri obiettivi che quello della «crescita quantitativa» e di valutare mezzi e fini secondo parametri differenti dal Prodotto interno lordo, sia da ascrivere al dominio sociale dell'impresa capitalistica e a quello ideologico dei suoi aedi, cioè gli economisti, ci sono buoni motivi per dubitare che le cose stiano proprio in questi termini. Non solo perché, fin dalla sua «rifondazione neoclassica» (avvenuta sul finire dell'Ottocento ad opera di Walras, Menger e Jevons), l'economia politica si è connotata per un radicale individualismo metodologico, alieno da ogni discorso sui «fini della società», ma soprattutto perché codesta metodologia non era (e non è) che il pendant analitico del fatto che, sulla base del modo di produzione capitalistico, le decisioni concernenti cosa, come e per chi produrre sono disperse fra una miriade di produttori indipendenti, ciascuno dei quali offre ciò che possiede e chiede quel che desidera per fini che riguardano lui e lui soltanto. S'intende, nessuno ha mai dubitato che il singolo capitalista potesse avere come obiettivo quello di accrescere il proprio capitale (come il lavoratore il proprio salario o il proprietario fondiario la propria rendita), ma nessun economista neoclassico ha mai sostenuto che l'unico modo per conseguirlo era che tutti lo condividessero: al contrario, il problema principale dei neoclassici è sempre stato quello di studiare il modo in cui decisioni individuali di produrre, scambiare e consumare si intrecciano le une con le altre in modo da generare un «equilibrio»: un problema essenzialmente di «statica economica», come non mancarono di rilevare criticamente coloro che, nel secolo or ora concluso, ne eccepirono la limitatezza.
Una riprova di quanto si è detto si può cogliere nel fatto che l'unica forma di contabilità che per circa un secolo e mezzo ha fatto da sfondo agli studi economici è stata la «partita doppia», vero e proprio «monumento» (come la definì Schumpeter) della prassi imprenditoriale di impiegare il denaro come strumento di calcolo razionale dei costi e dei profitti individuali. Nessuna «statistica economica» e nessun «calcolo del Pil» s'imposero invece all'attenzione anteriormente al primo quarto del secolo XX: in un mondo in cui ognuno badava per sé, di concetti del genere, semplicemente, non vi era alcun bisogno. Anzi, se aveste chiesto a un economista come Edgeworth di cosa si occupava la scienza economica, vi avrebbe risposto che si occupava essenzialmente della «felicità».
Come accadde, allora, che l'imperativo della crescita s'impossessò, secondo taluni fino a obnubilarla, della mente occidentale? All'incirca, andò così. Nel 1920, l'economista inglese Arthur Cecil Pigou pubblicò un libro intitolato Economia del benessere. In quel tempo, la cultura anglosassone era dominata dall'idea che la felicità fosse qualcosa di oggettivamente misurabile, un po' come la temperatura, e che di conseguenza fosse possibile calcolare la felicità complessiva della società sommando quella dei suoi componenti. Poiché si possono sommare solo cose uguali (le pere con le pere, le patate con le patate), era implicito ritenere che si potesse confrontare la felicità dell'uno con quella dell'altro e che, per fare un esempio, si potesse calcolare con precisione quanto Tizio fosse più felice di Caio per il fatto di avere una patata o una pera in più.
Pigou non fece altro che ricollegarsi a queste idee e dichiarare programmaticamente che avrebbe ristretto il proprio esame a quel genere di «felicità» che dipendeva dal possesso di denaro. In questo modo, veniva a porre non soltanto le basi per assumere come indice approssimativo del benessere di una società il suo reddito nazionale monetario (che a grandi linee si identifica con quel che oggi noi chiamiamo Pil), ma soprattutto per sostenere che una variazione della distribuzione del reddito a favore dei meno abbienti, purché non conducesse ad una contrazione del volume del reddito nazionale, avrebbe accresciuto il benessere economico collettivo. Insomma, veniva a spianare (teoricamente, s'intende) la strada alla tassazione progressiva, un principio che le classi dominanti della società erano allora ben lungi dall'aver accettato.
Venne allora la reazione, che prese la forma di un attacco all'ipotesi di misurabilità e confrontabilità delle felicità individuali. Sull'onda delle scoperte della psicologia e della psicoanalisi, che negavano che i nostri processi psichici fossero interamente accessibili perfino a noi stessi, molti economisti finirono col trovare più convincente la costruzione di Vilfredo Pareto, che ben prima della comparsa dell'opera di Pigou aveva criticato l'idea benthamiana che la felicità fosse misurabile cardinalmente e che, dunque, potessero sommarsi o confrontarsi sensazioni di pena o piacere di individui diversi. Fu Lord Robbins, nel suo celebre Saggio sulla natura e il significato della scienza economica (1932), a dare alla questione una sistemazione pressoché definitiva: siccome non possiamo stabilire di quanto aumenti la felicità del povero dandogli una sterlina tolta al ricco, meglio lasciare le cose così come stanno e togliersi dalla testa codeste pericolose idee socialiste, cioè sovversive.
Sembrava un colpo mortale, invece - come un'idra dalle sette teste - l'idea redistributiva rispuntò grazie al cosiddetto «principio di indennizzo», formulato per la prima volta da Nicholas Kaldor nel 1939. Ammettiamo pure - disse grosso modo Kaldor - che non si possa confrontare la felicità di individui diversi e che dunque non si abbia alcuna base per stabilire di quanto aumenti il benessere collettivo se togliamo una sterlina al ricco per darla al povero. Il punto, in effetti, è un altro: se lo Stato, come Robin Hood, decide di togliere ai ricchi per dare ai poveri ma, al tempo stesso, interviene nel processo produttivo in modo da aumentare il reddito nazionale, avremo a disposizione un surplus con il quale, se vorremo, potremo «indennizzare» i ricchi. In questo modo, saremo in condizione di aumentare la felicità dei poveri senza diminuire quella dei ricchi, e tutti i termini del problema saranno risolti.
Di qui a fare della crescita del Pil il criterio di legittimazione delle politiche pubbliche il passo era breve e, a partire dal secondo dopoguerra, lo si fece senza esitazioni (barando, peraltro, visto che la prassi odierna di includere nella misurazione del Pil l'ammontare delle spese pubbliche per beni e servizi è assai poco coerente col suo concetto). D'altra parte, se questo sommario resoconto non fa troppo torto alla storia del pensiero economico (e filosofico), bisogna concludere che l'obiettivo della crescita non è, come appunto accennavamo all'inizio, proprio delle società capitalistiche in quanto tali, ma in quanto si trovino a convivere con uno stato che si propone di aumentare il benessere dei più svantaggiati. E soprattutto, che non possiamo rinunciare a quell'obiettivo (senza al contempo rinunciare ad ogni politica redistributiva) se prima non risolviamo il problema - filosofico o economico, fate voi - di trovare un modo per misurare e confrontare la felicità di individui differenti: niente di più, ma soprattutto niente di meno.
Ne è consapevole Ernesto Screpanti, il cui intervento apre la riflessione a più voci consegnata a questo volume curato da Giuseppe Prestipino e Teresa Serra, frutto di una serie di incontri promossi dal Centro per la Filosofia Italiana (Accadde domani. Fra utopia e distopia, Aracne Editrice, pp. 217, € 12). Secondo l'economista senese, infatti, nessuna delle teorie della giustizia elaborate fin qui per ovviare al vincolo della non confrontabilità resiste al maglio della critica di Hayek: «proprio perché la giustizia è fondata su principi etici, non può essere presa a fondamento delle scelte pubbliche. Può riguardare le scelte individuali, ad esempio fare l'elemosina, ma non quelle collettive». E nemmeno si può sfuggire all'impasse ricorrendo al principio democratico di far coincidere le scelte pubbliche con quelle votate dalla maggioranza dei cittadini, almeno fintanto che non si sia risolto il «teorema d'impossibilità» di Arrow e non si sia provato che la razionalità collettiva è conseguibile anche in una società non totalitaria.
C'è solo un modo, per Screpanti, di salvare l'intervento redistributivo dello stato svincolandolo, al contempo, dall'obiettivo di promuovere la crescita del pil, ed è quello di assumere come fine dell'intervento pubblico l'aumento della «libertà» di ciascuno, dove per libertà s'intende semplicemente la «facoltà di scelta» di fare o acquistare qualcosa. Reinterpretata in questi termini, la libertà è qualcosa di oggettivamente misurabile e si può, pertanto, confrontare la quantità in cui individui diversi ne dispongono. E in un sistema in cui la democrazia non fosse solo formale ma anche sostanziale, politiche pubbliche volte alla produzione di beni che accrescano soprattutto la libertà dei poveri (e finanziate con la tassazione progressiva, che riduce soprattutto la libertà dei ricchi) non si limiterebbero a «ridistribuire la libertà», ma ne farebbero aumentare «anche la somma complessiva».
Il problema è che il ristabilimento di un'ipotesi forte di confrontabilità delle situazioni personali, che consenta cioè di confrontare persone diverse nella misura in cui coglie ciò che le rende uguali, rischia di entrare in conflitto con quel «diritto alla differenza» che costituisce un portato ormai ineliminabile della riflessione novecentesca, soprattutto della cultura di genere. Lo rileva Prestipino, quando - nel primo dei suoi contributi al volume - avverte subito di dover distinguere il proprio concetto di libertà (intesa come «espansione di possibilità sociali conquistate entro i limiti delle necessità naturali») da quello di Screpanti. E lo rileva ancor più Teresa Serra, allorché, nella sua riconsiderazione della teoria dello stato, ricorda che il venir meno della «costituzione» di cui parlava Costantino Mortati (cioè di «un certo modo di intendere e di avvertire il bene comune») si deve eminentemente all'imperante «policentrismo e pluriculturalismo che impedisce di avvertire e definire fatti normativi».
Sennonché, è difficile conciliare l'esigenza tipicamente femminista di «adattare le regole astratte al particolare, alla specificità dei contesti e delle esigenze concrete» (Serra), con una programmazione economica che non si proponga più lo scopo della «crescita quantitativa dei beni disponibili», ma si ponga «come luogo di scelte prevalentemente qualitative e come decisione concernente soprattutto la priorità dei beni comuni» (Prestipino). Il rischio, infatti, è che, in assenza di un criterio normativo che consenta una qualche confrontabilità tra preferenze, gusti e soggettività supposte differenti «per natura», la volontà pianificatrice, ancorché ispirata da nobili ragioni ambientaliste, si affermi come dominio totalitario. O è solo per caso che, come ricorda Prestipino, alcuni ambientalisti sostengono che «la libertà dovrebbe essere soltanto libertà di pensiero»?
Esiste, in altre parole, un nesso inscindibile che lega fra loro l'ipotesi di non confrontabilità delle felicità individuali, l'individualismo etico (e metodologico) di marca paretiana e il teorema d'impossibilità di Arrow. Di conseguenza, quanto più aumentiamo l'ambito delle differenze non negoziabili, tanto più riduciamo la possibilità di operare confronti interpersonali e tanto meno possiamo affidare alla programmazione pubblica le scelte concernenti cosa, come e per chi produrre, salvo impostarle sulla «volontà di potenza» di una politica totalitaria. Prestipino sostiene che gli economisti dovrebbero risparmiare agli ambientalisti «l'accusa di voler rinchiudere tutti in un convento», e sono pronto a scommettere che simili obiettivi sono alieni da lui e da tutti coloro le cui riflessioni hanno arricchito questo volume (Raniero La Valle, Fabrizio Giovenale, Carla Ravaioli, Enzo Scandurra). Ma il dilemma resta, né il vagheggiamento dell'utopia può di per sé scansare distopie pericolose: qualcosa il Novecento avrà pur insegnato, no?
Post scriptum. Nel «modello di sviluppo dal volto umano» schizzato nel suo intervento in coda al volume, Screpanti - se ben capisco - si pone esplicitamente come obiettivo un rallentamento della crescita del pil. Che queste cose le scriva Latouche, passi; ma perché un marxista dovrebbe ritenere il pil una misura significativa di qualcosa che non sia la confusione in cui versa l'econometria?
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Prezzi in libertà
GALAPAGOS
L'avevano giurato: le liberalizzazioni porteranno efficienza e benefici per i consumatori sotto forma di prezzi più bassi. Ma non è andata così: il Dipartimento del Tesoro del ministero dell'Economia ci ha fatto sapere che nel 2005 i prezzi nei settori liberalizzati sono cresciuti molto di più - il doppio abbondante - del tasso di inflazione misurato dall'Istat: il 5,1% contro poco più del 2%. Certo, sul 2005 ha pesato - tanto - il prezzo dei prodotti energetici, ma dare la colpa di tutto agli sceicchi è una semplificazione inaccettabile. Un solo esempio: nei primi 10 mesi del 2005 il costo dei biglietti aerei è aumentato del 19,1%. Colpa del caro carburante, spiegano le compagnie aeree che quasi quotidianamente aumentano i misteriosi supplementi imposti ai passeggeri. Ma i conti non tornano: nello stesso periodo il caro-petrolio ha fatto segnare un incremento di poco superiore al 14,5%, cinque punti in meno del costo dei biglietti. Certo, volare non è un bisogno primario, ma il problema è che aumenti mostruosi caratterizzano anche settori che più primari non si può.
Per le bollette della luce e del gas nel 2005 c'è stata una stangata che andrà avanti anche nel 2006. E poi, come considerare il prezzo dell'acqua potabile, quello degli affitti e perfino quello del latte? Ma c'è un di più, ancora più irritante: per la Rc auto, l'assicurazione obbligatoria sulle auto, nel 2005 le tariffe sono aumentate «solo» del 2,5%. Però, ci spiegano, tra il 1996 e il 2004 le compagnie hanno fatto il pieno con incrementi cumulati del 108,6%, mentre nel resto dell'Europa l'aumento medio è stato solo del 22,7%, con un minimo in Francia dell'8,6%. E qualcuno sa spiegarci perché negli stessi anni il costo dei pacchetti vacanze è aumentato in Italia di quasi il 36%, mentre nell'area dell'euro l'incremento è solo del 24,1%? Anche i pacchetti vacanza non sono un bene necessario. Ma l'istruzione secondaria (che con nostalgia seguitiamo a ritenere un diritto) sicuramente lo è. E il costo della scuola quest'anno è aumentato del 6,1% e dal 2000 l'aumento sfiora il 35%. C'è qualcosa che non va.
Non vanno, ad esempio, i bilanci di alcune società privatizzate - Eni e Enel o Autostrade, seguitano a macinare utili a danno dei consumatori. Altra cosa che non va è che in certi settori, il blocco dei trasferimenti da parte di Berlusconi e Tremonti ha obbligato gli enti locali ad aumentare le tariffe, anche quando gli utili, come nel caso della romana Acea, non giustificherebbero gli aumenti. Ma i Comuni di quei soldi hanno necessità, e quindi si comportano come se distribuissero non un bene necessario, ma prodotti di lusso.
Le statistiche diffuse ieri coprono solo una parte del paniere dei consumi. Per molti prodotti, alimentari e abbigliamento, i prezzi non crescono: è il segnale preoccupante di un ristagno dei consumi che fa il paio con la non crescita di salari e pensioni. E che a quattro anni di distanza penalizza anche quella moltitudine di bottegai che con la compiacenza di Tremonti hanno potuto manovrare a loro piacimento i prezzi con l'alibi dell'euro.
ilmanifesto.it
L'avevano giurato: le liberalizzazioni porteranno efficienza e benefici per i consumatori sotto forma di prezzi più bassi. Ma non è andata così: il Dipartimento del Tesoro del ministero dell'Economia ci ha fatto sapere che nel 2005 i prezzi nei settori liberalizzati sono cresciuti molto di più - il doppio abbondante - del tasso di inflazione misurato dall'Istat: il 5,1% contro poco più del 2%. Certo, sul 2005 ha pesato - tanto - il prezzo dei prodotti energetici, ma dare la colpa di tutto agli sceicchi è una semplificazione inaccettabile. Un solo esempio: nei primi 10 mesi del 2005 il costo dei biglietti aerei è aumentato del 19,1%. Colpa del caro carburante, spiegano le compagnie aeree che quasi quotidianamente aumentano i misteriosi supplementi imposti ai passeggeri. Ma i conti non tornano: nello stesso periodo il caro-petrolio ha fatto segnare un incremento di poco superiore al 14,5%, cinque punti in meno del costo dei biglietti. Certo, volare non è un bisogno primario, ma il problema è che aumenti mostruosi caratterizzano anche settori che più primari non si può.
Per le bollette della luce e del gas nel 2005 c'è stata una stangata che andrà avanti anche nel 2006. E poi, come considerare il prezzo dell'acqua potabile, quello degli affitti e perfino quello del latte? Ma c'è un di più, ancora più irritante: per la Rc auto, l'assicurazione obbligatoria sulle auto, nel 2005 le tariffe sono aumentate «solo» del 2,5%. Però, ci spiegano, tra il 1996 e il 2004 le compagnie hanno fatto il pieno con incrementi cumulati del 108,6%, mentre nel resto dell'Europa l'aumento medio è stato solo del 22,7%, con un minimo in Francia dell'8,6%. E qualcuno sa spiegarci perché negli stessi anni il costo dei pacchetti vacanze è aumentato in Italia di quasi il 36%, mentre nell'area dell'euro l'incremento è solo del 24,1%? Anche i pacchetti vacanza non sono un bene necessario. Ma l'istruzione secondaria (che con nostalgia seguitiamo a ritenere un diritto) sicuramente lo è. E il costo della scuola quest'anno è aumentato del 6,1% e dal 2000 l'aumento sfiora il 35%. C'è qualcosa che non va.
Non vanno, ad esempio, i bilanci di alcune società privatizzate - Eni e Enel o Autostrade, seguitano a macinare utili a danno dei consumatori. Altra cosa che non va è che in certi settori, il blocco dei trasferimenti da parte di Berlusconi e Tremonti ha obbligato gli enti locali ad aumentare le tariffe, anche quando gli utili, come nel caso della romana Acea, non giustificherebbero gli aumenti. Ma i Comuni di quei soldi hanno necessità, e quindi si comportano come se distribuissero non un bene necessario, ma prodotti di lusso.
Le statistiche diffuse ieri coprono solo una parte del paniere dei consumi. Per molti prodotti, alimentari e abbigliamento, i prezzi non crescono: è il segnale preoccupante di un ristagno dei consumi che fa il paio con la non crescita di salari e pensioni. E che a quattro anni di distanza penalizza anche quella moltitudine di bottegai che con la compiacenza di Tremonti hanno potuto manovrare a loro piacimento i prezzi con l'alibi dell'euro.
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3.12.05
LAVORO & WELFARE - Modello danese? Meglio la «flexicurity»
ANDREA FUMAGALLI
Dopo l'intervento di Prodi, l'articolo di Giavazzi sul Corriere della Sera , la risposta di Galapagos su il manifesto del 29 novembre 2005, il modello nordico di regolazione sociale del mercato del lavoro sembra tornato in auge nel dibattito programmatico del centro-sinistra. Si è parlato di modello danese, si è fatto riferimento a quello olandese e a quello svedese; si tratta di tre casi fra loro differenti, ma in parte accomunati da un'unica parola: flex-security, neologismo inglese che potremmo tradurre «flessibilità in sicurezza». Esso deriva dal flexibility and security act (denominato flex-security act), in vigore in Olanda dal 1° gennaio 1999, e dai richiami, molto vaghi, che sono stati fatti negli atti della Commissione europea che hanno accompagnato una serie di summit sino all'ultimo di Lisbona. In tale ambito, si fa riferimento a una serie di misure di governance del mercato del lavoro e di welfare omogenee e in linea di continuità con i processi di compromesso sociale made in Europe all'interno di un restyling del modello sociale europeo. Nella discussione in atto ci sono come minimo due vizi: uno metodologico e uno di sostanza.Riguardo al primo, si parla del modello danese o del modello olandese come se fossero esportabili e imitabili per semplice volontà politica. Non è affatto così: la regolazione del mercato del lavoro e del welfare in Olanda (dove pesa più il welfare) e in Danimarca (dove pesano di più la flessibilità e la precarietà del lavoro) si basa su una triangolazione tra sindacati, associazioni imprenditoriali e stato che si fonda su una struttura produttiva coesa e omogenea con un peso prevalente della media e grande impresa e un peso del lavoro salariato di circa il 90% della forza lavoro complessiva, un tasso di sindacalizzazione degli attivi intorno all'80% e una rete di protezione sociale che data dai primi anni del XX secolo, frutto di un'evoluzione secolare. Si tratta di elementi che non sono presenti in Italia o in Francia e che renderebbero impossibile l'adozione di simili modelli e specie di raggiungere i risultati demagogicamente sperati sia da Prodi che da Giavazzi. Non è difficile immaginare, infatti, che del modello danese, ad esempio, verrebbe accolta solo la parte relativa alla libertà di licenziare e di flessibilizzare (meglio, precarizzare) ulteriormente un mercato del lavoro che già tra i più precari d'Europa.Per quanto riguarda il contenuto, invece, a differenza del recente innamoramento del centro-sinistra, la sinistra radicale e libertaria, che ha inventato e organizzato le prime vertenze sul lavoro precario e sulla precarietà esistenziale culminate con le recenti edizioni della EuroMayDay 005, sta discutendo da tempo la proposta di flexicurity. Essa, e non flexsecurity, fa riferimento ad alcune proposte concrete che poco o nulla hanno a che spartire con il progetto olandese e dei paesi nordici. La proposta di flexicurity ha lo scopo di favorire l'introduzione di un reddito di esistenza come pilastro di un nuovo sistema di welfare e di renderlo praticabile e perseguibile non solo come obiettivo teorico ma soprattutto come obiettivo pratico e immediato. Il ragionamento è, per alcuni versi, molto semplice, anche se a volte non compreso da chi, anche nella sinistra radicale, ha troppo nostalgia del passato industrialista e operista dell'epoca fordista. Partendo dal presupposto che oggi la vita non solo viene asservita al lavoro, ma messa al lavoro (la differenza è sostanziale), l'unica retribuzione corretta è la remunerazione della vita; in secondo luogo, poiché l'attività di produzione, materiale e immateriale, presenta un'organizzazione reticolare sul territorio ed è sempre più caratterizzata dalla gestione dei flussi di merci, informazioni e persone, il luogo del conflitto è composto sia dai luoghi di lavoro (sempre più frammentati e sempre più sottoposti a ricattabilità) che dal territorio in cui la produzione si determina. Ne consegue che per aprire una vertenza territoriale sul reddito di esistenza è necessario allo stesso tempo coniugare le pratiche di conflitto sul territorio con quelle che si autorganizzano nei luoghi di lavoro. La nostra proposta di flexicurity ha proprio questo significato: costituire un ponte tra agitazione sindacale in termini di diritti e garanzie del lavoratore/trice e nuovo welfare che fa del reddito di esistenza, diretto e indiretto, il suo perno essenziale. Non è un caso che i quattro punti in cui si articola la proposta di flexicurity sono la costituzione di una cassa sociale per garantire continuità di reddito monetario incondizionato, una cassa sociale per garantire servizi sociali adeguati (casa, mobilità sapere, socialità, ecc., ovvero reddito indiretto), una drastica riduzione delle tipologie contrattuali oggi esistenti e infine un salario minimo orario per coloro che non sono contrattualizzati (oramai quasi il 50% della forza lavoro e buona parte del lavoro precario).Infine, presuppone l'attuazione di un nuovo tipo di welfare a livello municipale, fondato su una politica fiscale adeguata ai nuovi cespiti di ricchezza che oggi sono dominanti. Sempre più infatti è lo sfruttamento di beni comuni, quali il territorio, la conoscenza, la struttura reticolare e relazionale, l'attività di consumo e di riproduzione, insieme ai nuovi servizi alle imprese (dal trasporto e dalla logistica delle merci sino ai servizi finanziari, linguistico-comunicativi e di design) che è alla base della produzione di ricchezza nei nostri territori, a scapito sempre più della produzione materiale e industriale. Occorre intercettare questi nuovi flussi di reddito per reperire le risorse necessarie alla costruzione di un nuovo welfare municipale.Si tratta di punti, che - come è facile osservare - non hanno nulla a che vedere con la legislazione olandese, danese o con alcune proposte del centro-sinistra o di Giavazzi, tutte tese a cercare, in modo illusorio e strumentale o al limite assistenziale, di governare la flessibilità del lavoro, senza minimamente preoccuparsi delle condizioni di reddito e di vivibilità oggi fortemente compromessi.Tale punto di vista, osserviamo, è assente nelle discussioni sul programma del centro-sinistra. Eppure, proposte in tal senso sono state presentate nei convegni di Sbilanciamoci e su alcuni siti (come www.sinistriprogetti.it) e nelle discussioni preparatorie della MayDay.
ilmanifesto.it
Dopo l'intervento di Prodi, l'articolo di Giavazzi sul Corriere della Sera , la risposta di Galapagos su il manifesto del 29 novembre 2005, il modello nordico di regolazione sociale del mercato del lavoro sembra tornato in auge nel dibattito programmatico del centro-sinistra. Si è parlato di modello danese, si è fatto riferimento a quello olandese e a quello svedese; si tratta di tre casi fra loro differenti, ma in parte accomunati da un'unica parola: flex-security, neologismo inglese che potremmo tradurre «flessibilità in sicurezza». Esso deriva dal flexibility and security act (denominato flex-security act), in vigore in Olanda dal 1° gennaio 1999, e dai richiami, molto vaghi, che sono stati fatti negli atti della Commissione europea che hanno accompagnato una serie di summit sino all'ultimo di Lisbona. In tale ambito, si fa riferimento a una serie di misure di governance del mercato del lavoro e di welfare omogenee e in linea di continuità con i processi di compromesso sociale made in Europe all'interno di un restyling del modello sociale europeo. Nella discussione in atto ci sono come minimo due vizi: uno metodologico e uno di sostanza.Riguardo al primo, si parla del modello danese o del modello olandese come se fossero esportabili e imitabili per semplice volontà politica. Non è affatto così: la regolazione del mercato del lavoro e del welfare in Olanda (dove pesa più il welfare) e in Danimarca (dove pesano di più la flessibilità e la precarietà del lavoro) si basa su una triangolazione tra sindacati, associazioni imprenditoriali e stato che si fonda su una struttura produttiva coesa e omogenea con un peso prevalente della media e grande impresa e un peso del lavoro salariato di circa il 90% della forza lavoro complessiva, un tasso di sindacalizzazione degli attivi intorno all'80% e una rete di protezione sociale che data dai primi anni del XX secolo, frutto di un'evoluzione secolare. Si tratta di elementi che non sono presenti in Italia o in Francia e che renderebbero impossibile l'adozione di simili modelli e specie di raggiungere i risultati demagogicamente sperati sia da Prodi che da Giavazzi. Non è difficile immaginare, infatti, che del modello danese, ad esempio, verrebbe accolta solo la parte relativa alla libertà di licenziare e di flessibilizzare (meglio, precarizzare) ulteriormente un mercato del lavoro che già tra i più precari d'Europa.Per quanto riguarda il contenuto, invece, a differenza del recente innamoramento del centro-sinistra, la sinistra radicale e libertaria, che ha inventato e organizzato le prime vertenze sul lavoro precario e sulla precarietà esistenziale culminate con le recenti edizioni della EuroMayDay 005, sta discutendo da tempo la proposta di flexicurity. Essa, e non flexsecurity, fa riferimento ad alcune proposte concrete che poco o nulla hanno a che spartire con il progetto olandese e dei paesi nordici. La proposta di flexicurity ha lo scopo di favorire l'introduzione di un reddito di esistenza come pilastro di un nuovo sistema di welfare e di renderlo praticabile e perseguibile non solo come obiettivo teorico ma soprattutto come obiettivo pratico e immediato. Il ragionamento è, per alcuni versi, molto semplice, anche se a volte non compreso da chi, anche nella sinistra radicale, ha troppo nostalgia del passato industrialista e operista dell'epoca fordista. Partendo dal presupposto che oggi la vita non solo viene asservita al lavoro, ma messa al lavoro (la differenza è sostanziale), l'unica retribuzione corretta è la remunerazione della vita; in secondo luogo, poiché l'attività di produzione, materiale e immateriale, presenta un'organizzazione reticolare sul territorio ed è sempre più caratterizzata dalla gestione dei flussi di merci, informazioni e persone, il luogo del conflitto è composto sia dai luoghi di lavoro (sempre più frammentati e sempre più sottoposti a ricattabilità) che dal territorio in cui la produzione si determina. Ne consegue che per aprire una vertenza territoriale sul reddito di esistenza è necessario allo stesso tempo coniugare le pratiche di conflitto sul territorio con quelle che si autorganizzano nei luoghi di lavoro. La nostra proposta di flexicurity ha proprio questo significato: costituire un ponte tra agitazione sindacale in termini di diritti e garanzie del lavoratore/trice e nuovo welfare che fa del reddito di esistenza, diretto e indiretto, il suo perno essenziale. Non è un caso che i quattro punti in cui si articola la proposta di flexicurity sono la costituzione di una cassa sociale per garantire continuità di reddito monetario incondizionato, una cassa sociale per garantire servizi sociali adeguati (casa, mobilità sapere, socialità, ecc., ovvero reddito indiretto), una drastica riduzione delle tipologie contrattuali oggi esistenti e infine un salario minimo orario per coloro che non sono contrattualizzati (oramai quasi il 50% della forza lavoro e buona parte del lavoro precario).Infine, presuppone l'attuazione di un nuovo tipo di welfare a livello municipale, fondato su una politica fiscale adeguata ai nuovi cespiti di ricchezza che oggi sono dominanti. Sempre più infatti è lo sfruttamento di beni comuni, quali il territorio, la conoscenza, la struttura reticolare e relazionale, l'attività di consumo e di riproduzione, insieme ai nuovi servizi alle imprese (dal trasporto e dalla logistica delle merci sino ai servizi finanziari, linguistico-comunicativi e di design) che è alla base della produzione di ricchezza nei nostri territori, a scapito sempre più della produzione materiale e industriale. Occorre intercettare questi nuovi flussi di reddito per reperire le risorse necessarie alla costruzione di un nuovo welfare municipale.Si tratta di punti, che - come è facile osservare - non hanno nulla a che vedere con la legislazione olandese, danese o con alcune proposte del centro-sinistra o di Giavazzi, tutte tese a cercare, in modo illusorio e strumentale o al limite assistenziale, di governare la flessibilità del lavoro, senza minimamente preoccuparsi delle condizioni di reddito e di vivibilità oggi fortemente compromessi.Tale punto di vista, osserviamo, è assente nelle discussioni sul programma del centro-sinistra. Eppure, proposte in tal senso sono state presentate nei convegni di Sbilanciamoci e su alcuni siti (come www.sinistriprogetti.it) e nelle discussioni preparatorie della MayDay.
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18.11.05
Biografia indiscreta del grande Wiener
Non solo plasmò il concetto di computer ma intuì prima di altri quanto fosse rischioso delegare alle macchine decisioni essenziali: Flo Conway e Jim Siegelman lo raccontano in L'eroe oscuro dell'era dell'informazione per Codice
TOMMASO PINCIO
Nell'autunno del 1906 un'importante testata americana, il «New York World», presentò al mondo il più giovane studente universitario della storia. Aveva appena undici anni, una pancetta ragguardevole dovuta a una dieta vegetariana ricca di amidi, una forte miopia frutto di sfrenate letture, uno scarso controllo motorio e una psiche alquanto provata dal programma di «sistematico sminuimento» con cui il padre aveva fatto di lui un piccolo genio. Il bambino era stato infatti allevato con metodi a dir poco militareschi, costretto a recitare le lezioni a memoria stando in piedi accanto al padre che, al minimo errore, lo riduceva verbalmente in polvere gridandogli «Bestia! Imbecille! Somaro!» in una delle quaranta lingue che parlava correntemente. La vita dei bambini prodigio, si sa, non è affatto rose e fiori. Non di rado ci si perde lungo il cammino e quel che in un primo tempo sembra una luminosa promessa può risolversi come niente nel più nero dei fallimenti. C'erano tutti i presupposti perché questo bambino rimanesse schiacciato dall'obbligo di diventare un genio. Per lungo tempo, quasi cieco e imbranato, fu tormentato da profondi dubbi sul proprio valore e perfino sulla sua identità. Identità, sì. Perché tra le altre cose, i genitori si erano guardati bene da metterlo al corrente delle sue origini ebraiche.
A diciannove anni, però, mentre si trovava a Gottinga e almanaccava sulle sottigliezze della logica matematica, acquisì una nuova consapevolezza. Smise di considerarsi una specie di orsacchiotto ammaestrato e divenne Norbert Wiener, un nome sconosciuto ai più ma le cui tracce sono bene impresse nel mondo in cui oggi viviamo, il nome di colui che per primo capì l'essenza della nuova materia nota come «informazione». Nel 1948, con la pubblicazione della Cibernetica: controllo e comunicazione nell'animale e nella macchina scatenò un'autentica rivoluzione scientifica e tecnologica. Successivamente guidò l'équipe medica che mise a punto il primo braccio bionico controllato dai pensieri del suo fruitore. Wiener ha plasmato il concetto di computer e conferito al termine feedback il suo significato moderno. Ma non solo. Ha anche intuito prima di altri i rischi di un sviluppo che avrebbe potuto indurre l'umanità a delegare alle macchine decisioni essenziali. Ciò lo ha spinto a dedicare la parte conclusiva della sua vita a un'opera di ammonimento, invocando una maggiore responsabilità morale di scienziati e tecnici. Proprio per le sue cupe quanto scomode predizioni, alla fine degli anni Cinquanta fu relegato nel dimenticatoio dai colleghi - per i quali era ormai un cervellone bizzarro e invecchiato - e, indirettamente, dai consumatori che si mostravano poco inclini a rinunciare alle nuove comodità offerte dalla tecnica.
L'eroe oscuro dell'era dell'informazione (Codice, traduzione di Paola Bonini, pp. 549, 32) è un ritratto a tutto tondo dell'eccentrica figura di Norbert Wiener. Flo Conway e Jim Siegelman hanno scritto la tipica biografia «indiscreta», volta a svelare le intime debolezze di una grande personalità. C'è da dire che il soggetto offre molte possibilità di indulgere in una simile direzione. Tormentato da un padre tirannico, Wiener non smise mai di patire violenti cambi di umore piombando spesso in lunghi periodi di profonda depressione a cui si alternavano fasi di esaltazione e frenetica attività. La donna che sposò - sempre per volere del padre - contribuì a complicargli ulteriormente la vita.
Se possibile, Margaret era un personaggio più strano dello stesso Norbert. Teneva due copie di Mein Kampf in bella mostra sul comodino, una in inglese e l'altra in tedesco, perché a suo modo di vedere Hitler e la Germania erano stati «terribilmente incompresi», sorvolando bellamente sull'Olocausto e soprattutto sul fatto che il marito fosse ebreo. Aberranti idee politiche a parte, Margaret gestiva il focolare domestico con efficiente frugalità. «Norbert si occupa della matematica e io dell'aritmetica» diceva, lasciando chiaramente intendere cosa significasse per lei quel matrimonio.
Definirla moglie fedele e protettiva sarebbe un eufemismo. Era gelosa di tutti e di tutto, finanche delle loro due figlie e dei rapporti professionali del marito. Diede il meglio di sé quando fece in modo che Norbert arrivasse a rinnegare la decennale amicizia con il neurofisiologo Warren McCulloch, lo scienziato che dopo di lui più si adoperò per la divulgazione della cibernetica. I due lavoravano insieme a un importante progetto di ricerca sul funzionamento del cervello e le possibili connessioni con la teoria del feedback. Il loro legame era così solido che per molto tempo i colleghi si domandarono cosa potesse aver spinto Wiener alla rottura.
Ebbene, sembra che Margaret avesse fatto al marito una terribile rivelazione. Secondo lei, alcuni giovani del gruppo di ricerca di McCulloch avevano approfittato a turno delle grazie di una delle due figlie - l'allora diciannovenne Barbara - durante un soggiorno in casa dello stesso McCulloch. Una storia incredibile, praticamente una balla, ma invece di verificare le gravissime accuse, come probabilmente avrebbe fatto una persona più equilibrata, Wiener non dubitò un solo istante della versione di Margaret né si peritò di parlarne con la diretta interessata, la figlia Barbara. Senza alcun indugio interruppe formalmente e per sempre ogni relazione con McCulloch e la sua squadra.
Parallelamente alla rivelazione di dettagli scabrosi - forniti perlopiù dalle figlie che in tutta probabilità avevano bisogno di scrollarsi di dosso il fardello di una vicenda familiare non facile - i biografi non mancano di restituire un quadro del percorso scientifico di Wiener che tra, luci e ombre, dopo Hiroshima si sentì chiamato a nuove responsabilità morali. «L'impatto della macchina pensante rappresenterà di certo uno shock di ordine paragonabile a quello della bomba atomica» disse a partire dalla fine anni Quaranta, passando poi a stigmatizzare la brama industriale di automatizzazione a esclusivi fini di lucro: «un fatto molto pericoloso. Se vogliamo tradire le aspettative dell'uomo e rimpiazzarlo, questo si trasformerà in un uomo molto rabbioso, e gli uomini rabbiosi sono un pericolo».
Non si limitò alle parole. La sua campagna di mobilitazione per preparare la società ai cambiamenti in arrivo fu tale che nel gennaio del 1947 l'ufficio Fbi di Boston aprì un dossier d'inchiesta denominato «Norbert Wiener alias Norbert Weiner» e classificato come «Questioni di sicurezza - C», categoria che designava le «persone sospettate di attività sovversive contro il governo degli Stati Uniti». Quando, nel 1964, la notizia della morte di Wiener fu pubblicata sul «Boston Globe», l'Fbi infilò il ritaglio stampa nel dossier. La partita tra il governo e lo scienziato ribelle giungeva così al capitolo finale. Restava però aperto il confronto delle idee di Wiener con la Storia, un confronto che ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, non può dirsi definitivamente archiviato.
ilmanifesto.it
TOMMASO PINCIO
Nell'autunno del 1906 un'importante testata americana, il «New York World», presentò al mondo il più giovane studente universitario della storia. Aveva appena undici anni, una pancetta ragguardevole dovuta a una dieta vegetariana ricca di amidi, una forte miopia frutto di sfrenate letture, uno scarso controllo motorio e una psiche alquanto provata dal programma di «sistematico sminuimento» con cui il padre aveva fatto di lui un piccolo genio. Il bambino era stato infatti allevato con metodi a dir poco militareschi, costretto a recitare le lezioni a memoria stando in piedi accanto al padre che, al minimo errore, lo riduceva verbalmente in polvere gridandogli «Bestia! Imbecille! Somaro!» in una delle quaranta lingue che parlava correntemente. La vita dei bambini prodigio, si sa, non è affatto rose e fiori. Non di rado ci si perde lungo il cammino e quel che in un primo tempo sembra una luminosa promessa può risolversi come niente nel più nero dei fallimenti. C'erano tutti i presupposti perché questo bambino rimanesse schiacciato dall'obbligo di diventare un genio. Per lungo tempo, quasi cieco e imbranato, fu tormentato da profondi dubbi sul proprio valore e perfino sulla sua identità. Identità, sì. Perché tra le altre cose, i genitori si erano guardati bene da metterlo al corrente delle sue origini ebraiche.
A diciannove anni, però, mentre si trovava a Gottinga e almanaccava sulle sottigliezze della logica matematica, acquisì una nuova consapevolezza. Smise di considerarsi una specie di orsacchiotto ammaestrato e divenne Norbert Wiener, un nome sconosciuto ai più ma le cui tracce sono bene impresse nel mondo in cui oggi viviamo, il nome di colui che per primo capì l'essenza della nuova materia nota come «informazione». Nel 1948, con la pubblicazione della Cibernetica: controllo e comunicazione nell'animale e nella macchina scatenò un'autentica rivoluzione scientifica e tecnologica. Successivamente guidò l'équipe medica che mise a punto il primo braccio bionico controllato dai pensieri del suo fruitore. Wiener ha plasmato il concetto di computer e conferito al termine feedback il suo significato moderno. Ma non solo. Ha anche intuito prima di altri i rischi di un sviluppo che avrebbe potuto indurre l'umanità a delegare alle macchine decisioni essenziali. Ciò lo ha spinto a dedicare la parte conclusiva della sua vita a un'opera di ammonimento, invocando una maggiore responsabilità morale di scienziati e tecnici. Proprio per le sue cupe quanto scomode predizioni, alla fine degli anni Cinquanta fu relegato nel dimenticatoio dai colleghi - per i quali era ormai un cervellone bizzarro e invecchiato - e, indirettamente, dai consumatori che si mostravano poco inclini a rinunciare alle nuove comodità offerte dalla tecnica.
L'eroe oscuro dell'era dell'informazione (Codice, traduzione di Paola Bonini, pp. 549, 32) è un ritratto a tutto tondo dell'eccentrica figura di Norbert Wiener. Flo Conway e Jim Siegelman hanno scritto la tipica biografia «indiscreta», volta a svelare le intime debolezze di una grande personalità. C'è da dire che il soggetto offre molte possibilità di indulgere in una simile direzione. Tormentato da un padre tirannico, Wiener non smise mai di patire violenti cambi di umore piombando spesso in lunghi periodi di profonda depressione a cui si alternavano fasi di esaltazione e frenetica attività. La donna che sposò - sempre per volere del padre - contribuì a complicargli ulteriormente la vita.
Se possibile, Margaret era un personaggio più strano dello stesso Norbert. Teneva due copie di Mein Kampf in bella mostra sul comodino, una in inglese e l'altra in tedesco, perché a suo modo di vedere Hitler e la Germania erano stati «terribilmente incompresi», sorvolando bellamente sull'Olocausto e soprattutto sul fatto che il marito fosse ebreo. Aberranti idee politiche a parte, Margaret gestiva il focolare domestico con efficiente frugalità. «Norbert si occupa della matematica e io dell'aritmetica» diceva, lasciando chiaramente intendere cosa significasse per lei quel matrimonio.
Definirla moglie fedele e protettiva sarebbe un eufemismo. Era gelosa di tutti e di tutto, finanche delle loro due figlie e dei rapporti professionali del marito. Diede il meglio di sé quando fece in modo che Norbert arrivasse a rinnegare la decennale amicizia con il neurofisiologo Warren McCulloch, lo scienziato che dopo di lui più si adoperò per la divulgazione della cibernetica. I due lavoravano insieme a un importante progetto di ricerca sul funzionamento del cervello e le possibili connessioni con la teoria del feedback. Il loro legame era così solido che per molto tempo i colleghi si domandarono cosa potesse aver spinto Wiener alla rottura.
Ebbene, sembra che Margaret avesse fatto al marito una terribile rivelazione. Secondo lei, alcuni giovani del gruppo di ricerca di McCulloch avevano approfittato a turno delle grazie di una delle due figlie - l'allora diciannovenne Barbara - durante un soggiorno in casa dello stesso McCulloch. Una storia incredibile, praticamente una balla, ma invece di verificare le gravissime accuse, come probabilmente avrebbe fatto una persona più equilibrata, Wiener non dubitò un solo istante della versione di Margaret né si peritò di parlarne con la diretta interessata, la figlia Barbara. Senza alcun indugio interruppe formalmente e per sempre ogni relazione con McCulloch e la sua squadra.
Parallelamente alla rivelazione di dettagli scabrosi - forniti perlopiù dalle figlie che in tutta probabilità avevano bisogno di scrollarsi di dosso il fardello di una vicenda familiare non facile - i biografi non mancano di restituire un quadro del percorso scientifico di Wiener che tra, luci e ombre, dopo Hiroshima si sentì chiamato a nuove responsabilità morali. «L'impatto della macchina pensante rappresenterà di certo uno shock di ordine paragonabile a quello della bomba atomica» disse a partire dalla fine anni Quaranta, passando poi a stigmatizzare la brama industriale di automatizzazione a esclusivi fini di lucro: «un fatto molto pericoloso. Se vogliamo tradire le aspettative dell'uomo e rimpiazzarlo, questo si trasformerà in un uomo molto rabbioso, e gli uomini rabbiosi sono un pericolo».
Non si limitò alle parole. La sua campagna di mobilitazione per preparare la società ai cambiamenti in arrivo fu tale che nel gennaio del 1947 l'ufficio Fbi di Boston aprì un dossier d'inchiesta denominato «Norbert Wiener alias Norbert Weiner» e classificato come «Questioni di sicurezza - C», categoria che designava le «persone sospettate di attività sovversive contro il governo degli Stati Uniti». Quando, nel 1964, la notizia della morte di Wiener fu pubblicata sul «Boston Globe», l'Fbi infilò il ritaglio stampa nel dossier. La partita tra il governo e lo scienziato ribelle giungeva così al capitolo finale. Restava però aperto il confronto delle idee di Wiener con la Storia, un confronto che ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, non può dirsi definitivamente archiviato.
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13.11.05
La Repubblica smarrita senza forma
Un'intervista con Jean-Luc Nancy. Dalla rivolta nelle banlieue francesi alla crisi delle forme politiche della modernità. Dallo sfaldamento della sovranità alla necessità di decostruire il ruolo della religione nelle società contemporanee
Guerra interna «La Francia è in guerra con se stessa. Era già stato previsto da anni, ma ora assistiamo alla fine di un modello di accesso alla cittadinanza»
La comunità che non viene «La crisi della democrazia non può essere spiegata a partire dal concetto di popolo. Ma neanche quello di moltitudine riesce ad afferrare la posta in gioco»
ROBERTO CICCARELLI
«La Francia è in guerra con se stessa. Purtroppo. Quello che sta succedendo in questi giorni era stato previsto già da anni». Chi parla è Jean-Luc Nancy, a Roma per un convegno dedicato a Jacques Derrida organizzato dall'Università Roma Tre. Il filosofo francese ha lo sguardo ancora rivolto alle rivolte nelle banlieu francesi. «Il mio paese è in guerra - continua - perché sta vivendo la decomposizione del suo modello di integrazione che non si rivolge soltanto agli immigrati, ma è stato un modello politico». Un modello politico che però ha nascosto sotto il tappeto non solo le disuguaglianze sociali ed economiche, ma anche il suo stesso passato coloniale. «La Francia è il più vecchio paese agricolo d'Europa - aggiunge Nancy - E' stato probabilmente il paese che ha impiegato più tempo ad uscire dal suo passato coloniale. Ed è stata un'uscita niente affatto indolore. Basti ricordare la guerra in Algeria, i conflitti in Africa, l'altra guerra in Indocina. Questo ha creato nel paese una condizione che non rispecchia più quel sogno democratico che si concretizzava nell'uguaglianza dell'accesso alla cittadinanza. Per un certo periodo si è creduto che questa fosse l'eccezione francese. Che in realtà derivava dai giacobini, i quali rimangono i figli della monarchia assoluta».
Quali sono, dunque, le ragioni della crisi di questo modello di integrazione?
Le ragioni possono essere osservate a partire da una analisi del settore educativo. Da una parte ci sono le grandi scuole, o l'Ena, che formano le classi dirigenti. Io stesso le ho frequentate, e sono riconoscente al mio paese di poterlo aver fatto. E' però una scuola elitaria, totalmente separata dalle altre scuole in cui le condizioni sono davvero terribili, dove la gente vive in condizioni disperate. In più, rispetto a trent'anni fa, le classi sociali svantaggiate accedono sempre meno alle Grandes Écoles. Si è passati, se non mi sbaglio, dal 20 per cento al 5 per cento. Questa è la crisi di un modello sociale ispirato al centralismo dello stato. Ed è una crisi da cui non si sa come uscire.
Il primo ministro Dominique de Villepin ha spiegato che le violenze sono il risultato del comunitarismo che si è diffuso nelle banlieue. Ed ha poi aggiunto che il governo francese vuole difendere invece un modello sociale fondato sul riconoscimento dell'individuo. Comunitarismo contro laicità dello stato. E' questo lo scontro in atto secondo lei?
Sono un partigiano della laicità alla francese. Ho difeso la legge sul velo, anche se capisco molti dei dubbi espressi da alcuni amici molto vicini che sostengono che questa legge è una vera sciocchezza per i suoi aspetti coercitivi e imperativi. Ma non credo che il conflitto sia tra il comunitarismo e la laicità. E' vero che nelle banlieue c'è stata una diffusione del comunitarismo. E che ci sono degli Imam, a dire la verità pochi, che soffiano sul fuoco. Ma la rivolta in corso nelle banlieue non è un fenomeno religioso o etnico. Bisogna piuttosto parlare delle bande, un fenomeno che è molto forte in tutto il paese, nelle banlieue come anche nel centro di molte città. Queste bande sono quasi delle associazioni segrete che si creano attorno al commercio di haschisch, ad esempio. Ma allora dobbiamo domandarci se tutto ciò è comunitarismo. Probabilmente è il risultato dell'assenza di una comunità nazionale. E' dall'assenza di un luogo di identificazione che deriva l'enorme crescita dei comportamenti identitari nelle banlieue e altrove. Sono problemi che nascono in una società in cui il lavoro e la giustizia sociale sono assenti, mentre le disuguaglianze continuano a crescere.
In molte opere lei ha criticato questa idea di comunità nazionale a favore di un'idea dell'«essere-in-comune» che precede lo stesso spazio della politica. Alla luce degli avvenimenti nelle banlieue, come è possibile oggi quale rilanciare questa idea di comune?
Per fare questo è necessario superare l'idea di popolo. Il popolo è sempre ispirato ad un'idea di naturalità, di realtà etnica, ma nello stesso tempo bisogna dire che «c'è» un popolo. Alla parola popolo si accompagna tutta la pesantezza della tradizione che si ispira al concetto di Gemeinschaft, di Volk.
C'è chi avanza l'ipotesi della moltitudine per rovesciare il concetto moderno di popolo...
Non credo che la moltitudine sia la soluzione: è una prospettiva che non mi convince. Credo che ci sia bisogno di un concetto di unità che rimpiazzi quella fornita dal popolo. Quando si parla di moltitudine si parla di qualcosa che ha qualcosa a che fare con la singolarità. Mi sembra che Toni Negri intenda per moltitudine un insieme eterogeneo di uomini e donne che impone ai singoli una comunicazione costante ispirata alla creatività e all'erotismo. In questo modo per me è come se la moltitudine si trasformasse in una collettività amorosa che ha sempre bisogno di una forma e di una unità. Ho l'impressione che la creatività della moltitudine, in questa versione elaborata da Negri, riprenda qualcosa della creatività e della spontaneità dei situazionisti. E' un concetto fragile perché la fiducia nella creatività e nella spontaneità della moltitudine si appoggia all'idea di un soggetto tradizionale.
Intende dire che la moltitudine non porta fino in fondo la critica alla politica moderna?
Sì, ma a questo punto direi che il problema è quello della forma. La creatività non è una pura e semplice ebollizione e non è mai semplicemente individuale. La forma è l'espressione di un'epoca, mentre la creatività non è mai un'espressione individuale e non deriva da una programmazione. C'è sempre un equilibrio o uno squilibrio estremamente delicato tra una personalità e un'epoca che offre delle possibilità di creare delle forme. Non esiste un individuo creatore senza un'epoca che gli dia delle forme sulle quali operare.
In questo momento ho l'impressione che ci sia l'attesa che prendano corpo delle forme. Non si aspettano degli individui, dei grandi pensatori, degli artisti. E' proprio il contrario. I grandi pensatori, i grandi artisti arrivano quando le forme sono date ed è allora che essi entrano in scena. Effettivamente ci sono delle epoche che hanno delle forme e delle non forme. Il grande sforzo dell'arte contemporanea è quello di trovare le forme. Noi oggi siamo in una deformazione generale e questa deformazione è la realtà in cui viviamo.
Si riferisce anche alle forme politiche?
Certamente. Quotidianamente si ripete che la destra e la sinistra sono la stessa cosa. E si cerca anche di capire che cosa è di sinistra e che cosa è di destra. La destra e la sinistra sono delle forme e oggi hanno perso la loro definizione. Se questo è vero, allora credo che sia necessario oggi tornare a interrogarsi sul luogo stesso della politica. Bisogna ripensare il politico, che è l'essenza della politica, per poi arrivare a ripensare anche le forme della politica.
Ma allora che cos'è la politica?
Quello che posso dirle che la politica fino ad oggi è completamente dipendente dall'idea di fornire delle forme comuni dell'esistenza. E queste forme comuni dell'esistenza sono la democrazia, il comunismo e la repubblica. Ora, repubblica e comunismo sono delle forme finite. Il comunismo non si è mai realizzato se non nella forma del socialismo reale reale; comunismo è una parola che ancora rimane sospesa, senza forma. La democrazia invece si realizza sempre nella forma della democrazia rappresentativa. Ma c'è un tipo di democrazia che non ha una forma ed è quella della democrazia diretta, quella dei consigli, dei Soviet. Al di là della democrazia reale c'è dunque qualche altra forma politica da cercare. Ma la democrazia, come anche la politica in generale, mi sembra che non diano una forma a tutta l'esistenza.
Il giovane Marx nella Critica alla filosofia del diritto di Hegel dice invece che la politica avrebbe dovuto scomparire come forma separata e avrebbe dovuto invece impregnare tutte le sfere dell'esistenza sociale e questa è esattamente l'illusione, io credo, metafisica per eccellenza. Quella cioè che individua un'essenza che impregna l'intera esistenza degli uomini. Oggi credo sia necessario scoprire la pluralità e la differenza dell'esistenza e riconoscere che la politica rimane separata, ma permette allo stesso tempo di riconoscere la coesistenza di tutte le sfere dell'esistenza.
Dalla politica alla religione. E' in traduzione per Cronopio il suo ultimo, ambizioso, testo La Déclosion. Déconstruction du Christianisme I. Perchè decostruire il cristianesimo?
Perché tutta la nostra tradizione filosofica e politica ha pensato di mettere da parte la religione. A partire da Bodin, l'autorità politica e quella religiosa sono state distinte. Col secolo dei Lumi si è pensato di avere superato filosoficamente il problema della religione. Oggi la sovranità politica viene messa in discussione da una globalizzazione che mette in crisi il diritto internazionale con le operazioni di polizia, o con le guerre.
Filosoficamente lo stesso problema si pone in quella che definisco l'immagine della ragione sospesa. Abbiamo raggiunto il limite della razionalità, ma dobbiamo andare al fondo della nostra tradizione cristiana. Le faccio un esempio: le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, il cuore del cristianesimo, appartengono agli uomini anche senza fare riferimento a Dio o alla religione.
Che cos'è allora Dio nel cristianesimo?
Tutto tranne che un essere supremo. E non solo nel Cristianesimo, ma anche nell'ebraismo e nell'islamismo. Analizziamo i tre grandi momenti del Cristianesimo: l'incarnazione, la redenzione e la trinità. Possiamo dire tutto tranne che facciano riferimento a un Dio supremo. Schelling sosteneva che quando parliamo di monoteismo, parliamo di ateismo. In effetti il monoteismo sostituisce un unico Dio al posto della pluralità delle divinità.
In tutti i politeismi ci sono delle divinità che manifestano dei comportamenti umani. Il cristianesimo invece, in particolare nell'eucarestia, rende Dio presente in una maniera piuttosto strana. Perché il suo è un Dio assente. Ho provato a riflettere su questo Dio come assenza, su Dio inteso come non-Dio. E' molto importante farlo in un tempo in cui molta gente ritorna alla religione perché non c'è più il politico, non ci sono speranze politiche o sociali. E questo è un pericolo perché la religione sta tornando ad essere politica, anzi è la misura stessa della politica.
Quello che colpisce nella sua decostruzione è l'affinità tra il Cristianesimo e il nichilismo. Può spiegarne le ragioni?
In un certo senso si può dire che tutto il Cristianesimo contribuisce a svuotare il cielo dei valori e dei significati. Con una definizione potrei sintetizzare il Cristianesimo come l'idea di vivere nel mondo rinunciando al mondo stesso. E' questa la sua grande novità portata da Cristo: «io sono del Padre e non appartengo a questo mondo». Se lo vogliamo prendere sul serio, il Cristianesimo è la negazione di ogni valore che appartiene al mondo. E non per rimpiazzarlo con altri valori, ma con qualcosa che invita a vivere sempre al di fuori del mondo.
Nietzsche è stato il più grande pensatore del nichilismo perché ha compreso questa verità del Cristianesimo. Il nichilismo esclude dunque l'esistenza delle essenze, dei valori, ma non fa altro che confermare il Cristianesimo. Per Nietzsche non si può uscire dal nichilismo se non a partire dal nichilismo stesso. Cioè dalla sua idea che nel mondo non esistono più i valori. Introdurre un nuovo senso, questo è il nostro scopo. A condizione che sia chiaro che anche questo scopo non ha senso. Questo lo trovo straordinario. Pensi all'esperienza degli artisti, di quei poeti che hanno compreso che non esiste un senso ultimo delle cose. Eppure non c'è nulla di più importante per loro che portare a termine la loro opera. Hanno esperito il niente, ma lo hanno anche rovesciato. Nel senso che hanno capito che il senso del niente sta proprio nel passaggio tra il nascere e il morire, tra il niente e il niente.
ilmanifesto.it
Guerra interna «La Francia è in guerra con se stessa. Era già stato previsto da anni, ma ora assistiamo alla fine di un modello di accesso alla cittadinanza»
La comunità che non viene «La crisi della democrazia non può essere spiegata a partire dal concetto di popolo. Ma neanche quello di moltitudine riesce ad afferrare la posta in gioco»
ROBERTO CICCARELLI
«La Francia è in guerra con se stessa. Purtroppo. Quello che sta succedendo in questi giorni era stato previsto già da anni». Chi parla è Jean-Luc Nancy, a Roma per un convegno dedicato a Jacques Derrida organizzato dall'Università Roma Tre. Il filosofo francese ha lo sguardo ancora rivolto alle rivolte nelle banlieu francesi. «Il mio paese è in guerra - continua - perché sta vivendo la decomposizione del suo modello di integrazione che non si rivolge soltanto agli immigrati, ma è stato un modello politico». Un modello politico che però ha nascosto sotto il tappeto non solo le disuguaglianze sociali ed economiche, ma anche il suo stesso passato coloniale. «La Francia è il più vecchio paese agricolo d'Europa - aggiunge Nancy - E' stato probabilmente il paese che ha impiegato più tempo ad uscire dal suo passato coloniale. Ed è stata un'uscita niente affatto indolore. Basti ricordare la guerra in Algeria, i conflitti in Africa, l'altra guerra in Indocina. Questo ha creato nel paese una condizione che non rispecchia più quel sogno democratico che si concretizzava nell'uguaglianza dell'accesso alla cittadinanza. Per un certo periodo si è creduto che questa fosse l'eccezione francese. Che in realtà derivava dai giacobini, i quali rimangono i figli della monarchia assoluta».
Quali sono, dunque, le ragioni della crisi di questo modello di integrazione?
Le ragioni possono essere osservate a partire da una analisi del settore educativo. Da una parte ci sono le grandi scuole, o l'Ena, che formano le classi dirigenti. Io stesso le ho frequentate, e sono riconoscente al mio paese di poterlo aver fatto. E' però una scuola elitaria, totalmente separata dalle altre scuole in cui le condizioni sono davvero terribili, dove la gente vive in condizioni disperate. In più, rispetto a trent'anni fa, le classi sociali svantaggiate accedono sempre meno alle Grandes Écoles. Si è passati, se non mi sbaglio, dal 20 per cento al 5 per cento. Questa è la crisi di un modello sociale ispirato al centralismo dello stato. Ed è una crisi da cui non si sa come uscire.
Il primo ministro Dominique de Villepin ha spiegato che le violenze sono il risultato del comunitarismo che si è diffuso nelle banlieue. Ed ha poi aggiunto che il governo francese vuole difendere invece un modello sociale fondato sul riconoscimento dell'individuo. Comunitarismo contro laicità dello stato. E' questo lo scontro in atto secondo lei?
Sono un partigiano della laicità alla francese. Ho difeso la legge sul velo, anche se capisco molti dei dubbi espressi da alcuni amici molto vicini che sostengono che questa legge è una vera sciocchezza per i suoi aspetti coercitivi e imperativi. Ma non credo che il conflitto sia tra il comunitarismo e la laicità. E' vero che nelle banlieue c'è stata una diffusione del comunitarismo. E che ci sono degli Imam, a dire la verità pochi, che soffiano sul fuoco. Ma la rivolta in corso nelle banlieue non è un fenomeno religioso o etnico. Bisogna piuttosto parlare delle bande, un fenomeno che è molto forte in tutto il paese, nelle banlieue come anche nel centro di molte città. Queste bande sono quasi delle associazioni segrete che si creano attorno al commercio di haschisch, ad esempio. Ma allora dobbiamo domandarci se tutto ciò è comunitarismo. Probabilmente è il risultato dell'assenza di una comunità nazionale. E' dall'assenza di un luogo di identificazione che deriva l'enorme crescita dei comportamenti identitari nelle banlieue e altrove. Sono problemi che nascono in una società in cui il lavoro e la giustizia sociale sono assenti, mentre le disuguaglianze continuano a crescere.
In molte opere lei ha criticato questa idea di comunità nazionale a favore di un'idea dell'«essere-in-comune» che precede lo stesso spazio della politica. Alla luce degli avvenimenti nelle banlieue, come è possibile oggi quale rilanciare questa idea di comune?
Per fare questo è necessario superare l'idea di popolo. Il popolo è sempre ispirato ad un'idea di naturalità, di realtà etnica, ma nello stesso tempo bisogna dire che «c'è» un popolo. Alla parola popolo si accompagna tutta la pesantezza della tradizione che si ispira al concetto di Gemeinschaft, di Volk.
C'è chi avanza l'ipotesi della moltitudine per rovesciare il concetto moderno di popolo...
Non credo che la moltitudine sia la soluzione: è una prospettiva che non mi convince. Credo che ci sia bisogno di un concetto di unità che rimpiazzi quella fornita dal popolo. Quando si parla di moltitudine si parla di qualcosa che ha qualcosa a che fare con la singolarità. Mi sembra che Toni Negri intenda per moltitudine un insieme eterogeneo di uomini e donne che impone ai singoli una comunicazione costante ispirata alla creatività e all'erotismo. In questo modo per me è come se la moltitudine si trasformasse in una collettività amorosa che ha sempre bisogno di una forma e di una unità. Ho l'impressione che la creatività della moltitudine, in questa versione elaborata da Negri, riprenda qualcosa della creatività e della spontaneità dei situazionisti. E' un concetto fragile perché la fiducia nella creatività e nella spontaneità della moltitudine si appoggia all'idea di un soggetto tradizionale.
Intende dire che la moltitudine non porta fino in fondo la critica alla politica moderna?
Sì, ma a questo punto direi che il problema è quello della forma. La creatività non è una pura e semplice ebollizione e non è mai semplicemente individuale. La forma è l'espressione di un'epoca, mentre la creatività non è mai un'espressione individuale e non deriva da una programmazione. C'è sempre un equilibrio o uno squilibrio estremamente delicato tra una personalità e un'epoca che offre delle possibilità di creare delle forme. Non esiste un individuo creatore senza un'epoca che gli dia delle forme sulle quali operare.
In questo momento ho l'impressione che ci sia l'attesa che prendano corpo delle forme. Non si aspettano degli individui, dei grandi pensatori, degli artisti. E' proprio il contrario. I grandi pensatori, i grandi artisti arrivano quando le forme sono date ed è allora che essi entrano in scena. Effettivamente ci sono delle epoche che hanno delle forme e delle non forme. Il grande sforzo dell'arte contemporanea è quello di trovare le forme. Noi oggi siamo in una deformazione generale e questa deformazione è la realtà in cui viviamo.
Si riferisce anche alle forme politiche?
Certamente. Quotidianamente si ripete che la destra e la sinistra sono la stessa cosa. E si cerca anche di capire che cosa è di sinistra e che cosa è di destra. La destra e la sinistra sono delle forme e oggi hanno perso la loro definizione. Se questo è vero, allora credo che sia necessario oggi tornare a interrogarsi sul luogo stesso della politica. Bisogna ripensare il politico, che è l'essenza della politica, per poi arrivare a ripensare anche le forme della politica.
Ma allora che cos'è la politica?
Quello che posso dirle che la politica fino ad oggi è completamente dipendente dall'idea di fornire delle forme comuni dell'esistenza. E queste forme comuni dell'esistenza sono la democrazia, il comunismo e la repubblica. Ora, repubblica e comunismo sono delle forme finite. Il comunismo non si è mai realizzato se non nella forma del socialismo reale reale; comunismo è una parola che ancora rimane sospesa, senza forma. La democrazia invece si realizza sempre nella forma della democrazia rappresentativa. Ma c'è un tipo di democrazia che non ha una forma ed è quella della democrazia diretta, quella dei consigli, dei Soviet. Al di là della democrazia reale c'è dunque qualche altra forma politica da cercare. Ma la democrazia, come anche la politica in generale, mi sembra che non diano una forma a tutta l'esistenza.
Il giovane Marx nella Critica alla filosofia del diritto di Hegel dice invece che la politica avrebbe dovuto scomparire come forma separata e avrebbe dovuto invece impregnare tutte le sfere dell'esistenza sociale e questa è esattamente l'illusione, io credo, metafisica per eccellenza. Quella cioè che individua un'essenza che impregna l'intera esistenza degli uomini. Oggi credo sia necessario scoprire la pluralità e la differenza dell'esistenza e riconoscere che la politica rimane separata, ma permette allo stesso tempo di riconoscere la coesistenza di tutte le sfere dell'esistenza.
Dalla politica alla religione. E' in traduzione per Cronopio il suo ultimo, ambizioso, testo La Déclosion. Déconstruction du Christianisme I. Perchè decostruire il cristianesimo?
Perché tutta la nostra tradizione filosofica e politica ha pensato di mettere da parte la religione. A partire da Bodin, l'autorità politica e quella religiosa sono state distinte. Col secolo dei Lumi si è pensato di avere superato filosoficamente il problema della religione. Oggi la sovranità politica viene messa in discussione da una globalizzazione che mette in crisi il diritto internazionale con le operazioni di polizia, o con le guerre.
Filosoficamente lo stesso problema si pone in quella che definisco l'immagine della ragione sospesa. Abbiamo raggiunto il limite della razionalità, ma dobbiamo andare al fondo della nostra tradizione cristiana. Le faccio un esempio: le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, il cuore del cristianesimo, appartengono agli uomini anche senza fare riferimento a Dio o alla religione.
Che cos'è allora Dio nel cristianesimo?
Tutto tranne che un essere supremo. E non solo nel Cristianesimo, ma anche nell'ebraismo e nell'islamismo. Analizziamo i tre grandi momenti del Cristianesimo: l'incarnazione, la redenzione e la trinità. Possiamo dire tutto tranne che facciano riferimento a un Dio supremo. Schelling sosteneva che quando parliamo di monoteismo, parliamo di ateismo. In effetti il monoteismo sostituisce un unico Dio al posto della pluralità delle divinità.
In tutti i politeismi ci sono delle divinità che manifestano dei comportamenti umani. Il cristianesimo invece, in particolare nell'eucarestia, rende Dio presente in una maniera piuttosto strana. Perché il suo è un Dio assente. Ho provato a riflettere su questo Dio come assenza, su Dio inteso come non-Dio. E' molto importante farlo in un tempo in cui molta gente ritorna alla religione perché non c'è più il politico, non ci sono speranze politiche o sociali. E questo è un pericolo perché la religione sta tornando ad essere politica, anzi è la misura stessa della politica.
Quello che colpisce nella sua decostruzione è l'affinità tra il Cristianesimo e il nichilismo. Può spiegarne le ragioni?
In un certo senso si può dire che tutto il Cristianesimo contribuisce a svuotare il cielo dei valori e dei significati. Con una definizione potrei sintetizzare il Cristianesimo come l'idea di vivere nel mondo rinunciando al mondo stesso. E' questa la sua grande novità portata da Cristo: «io sono del Padre e non appartengo a questo mondo». Se lo vogliamo prendere sul serio, il Cristianesimo è la negazione di ogni valore che appartiene al mondo. E non per rimpiazzarlo con altri valori, ma con qualcosa che invita a vivere sempre al di fuori del mondo.
Nietzsche è stato il più grande pensatore del nichilismo perché ha compreso questa verità del Cristianesimo. Il nichilismo esclude dunque l'esistenza delle essenze, dei valori, ma non fa altro che confermare il Cristianesimo. Per Nietzsche non si può uscire dal nichilismo se non a partire dal nichilismo stesso. Cioè dalla sua idea che nel mondo non esistono più i valori. Introdurre un nuovo senso, questo è il nostro scopo. A condizione che sia chiaro che anche questo scopo non ha senso. Questo lo trovo straordinario. Pensi all'esperienza degli artisti, di quei poeti che hanno compreso che non esiste un senso ultimo delle cose. Eppure non c'è nulla di più importante per loro che portare a termine la loro opera. Hanno esperito il niente, ma lo hanno anche rovesciato. Nel senso che hanno capito che il senso del niente sta proprio nel passaggio tra il nascere e il morire, tra il niente e il niente.
ilmanifesto.it
11.11.05
Genova G8 «Così ci hanno massacrato»
G8, al processo per la Diaz il racconto di Lena Z. La testimonianza della giovane tedesca la cui foto con il volto coperto di sangue fece il giro del mondo. «Mi hanno bastonata e presa a calci, si divertivano a sentire i miei gemiti». Per lei costole fratturate e una riduzione della capacità polmonare del 30%
ALESSANDRO MANTOVANI
Racconta la fuga disperata al quarto piano, l'ultimo piano della scuola Diaz, «per creare il maggiore spazio possibile tra noi e la polizia». Ricorda di aver pensato a scappare dalle impalcature «ma rinunciammo - dice - perché temevamo che ci buttassero giù». Era in preda al panico mentre quelli sfondavano la porta. Quindi trovò un nascondiglio «in un piccolo locale vicino all'ascensore, una dispensa». Lei e il suo ragazzo decisero di presentarsi con le braccia alzate se la polizia li avesse trovati. Purtroppo non è bastato. Lena Z. ha 28 anni e ne aveva 24 al G8, quando è tornata a casa ad Amburgo con le costole fratturate e lesioni che comportano tuttora una riduzione della capacità polmonare del 30 per cento. Si occupa di botanica. Anche volendo non farebbe paura a nessuno, non certo a un poliziotto in assetto da guerra. E' più esile di quanto non sembri nella foto in barella all'uscita dalla Diaz, con il volto coperto di sangue, che fece il giro del mondo. E ieri è stata la prima delle 93 vittime della Diaz a testimoniare davanti al tribunale di Genova che sta processando i 29 dirigenti e funzionari della polizia accusati a vario titolo di falso, calunnia e lesioni per l'assalto alla Diaz e le prove fasulle (le due famose bottiglie molotov). «Nella dispensa - ha raccontato la giovane tedesca rispondendo al pm Enrico Zucca - siamo rimasti pochissimo, poi abbiamo sentito passi pesanti, di stivali, e altri rumori come se la polizia stesse picchiando con i bastoni sul muro. Sono arrivati e hanno aperto la porta. Il mio ragazzo è stato trascinato fuori subito, lo hanno circondato e hanno iniziato a colpirlo con il bastone. Quanti erano? Dieci-quindici... almeno dieci». C'è una contestazione dell'avvocato Porciani, uomo della destra milanese più estrema che c'è e legale dei capisquadra della celere romana: «Ha detto in ogni caso dieci, non almeno», sostiene l'avvocato. Il presidente Barone: «Se permette mi fido dell'interprete». Ma poco importa. Quel ragazzo fu massacrato da delinquenti in divisa, in sovrannumero e a volto coperto, non identificati e non più identificabili.
«Io - ha continuato Lena tenendo a bada il dolore dei ricordi e la tensione - ero rimasta lì, nella dispensa. Mi hanno tirata fuori per i capelli, credo di essere caduta quasi subito. Ero sdraiata e mi colpivano con i calci nella schiena e sul fianco con i bastoni. Ho sentito le mie costole che si fratturavano. Un poliziotto mi ha picchiato col ginocchio tra le gambe. Loro continuavano a picchiarmi e io sono scivolata di nuovo a terra. Avevo la sensazione che si stessero divertendo - ha esitato Lena - specie sentendo i rumori che facevo quando mi colpivano sullo sterno». «I suoi gemiti?», chiede il pm. «Sì, le mie grida, il mio respiro. Così ho deciso di non gridare più per non invogliarli a colpire ancora». Parole pesanti, pesantissime. Che però non hanno interrotto i feroci sghignazzi di alcuni degli avvocati dei superpoliziotti (non tutti, per carità, ma non facciamo nomi).
«Ero sdraiata contro il muro - ha proseguito la testimone/parte civile - Mi hanno spinta a calci verso le scale e mi hanno buttata giù, uno mi teneva per i capelli, avevo la testa all'altezza della sua anca e le gambe pendevano indietro. E da dietro altri poliziotti mi picchiavano ancora». Lena ricorda «una polvere bianca che bruciava sulle ferite, forse lacrimogeno». «Al secondo piano - prosegue - mi hanno gettata su altre due persone già a terra. Non si sono mossi. Ho chiesto loro in inglese se erano vivi o morti. Non mi hanno risposto. Lì mi sono accorta del sangue che scorreva sulla mia faccia, non riuscivo più a muovere il braccio destro. La polizia è passata più volte accanto a me e ognuno si fermava a sputarmi in faccia, alzandosi la visiera e togliendosi il fazzoletto rosso. Poi - altro particolare inquietante - hanno cercato di mettermi in un sacco di plastica nero, credo non volessero far vedere com'eravamo conciati». Alcuni difensori si sono opposti: «E' una valutazione della teste», hanno detto. Forse era un telo portato dai barellieri delle ambulanze, comunque non è decisivo. Il resto è chiarissimo e sarebbe bello se qualcuno trasmettesse in diretta questo processo, altro che "Un giorno in pretura". Qui infatti si misura la distanza tra la polizia reale e quella «democratica» e «di sicura affidabilità» di cui straparlano il ministro dell'interno Giuseppe Pisanu e i suoi aspiranti successori di centrosinistra. E misurarla è indispensabile se si vogliono rafforzare i poliziotti onesti e democratici, che per fortuna non mancano.
«Non mettiamo in dubbio che le cose siano andate così», questo l'esordio, significativo, del controesame dell'avvocato Romanelli che difende «Canterini and company» (parole sue), ovvero l'ex comandante della celere romana e i suoi capisquadra. Lena ha superato brillantemente i tentativi di trasformarla da vittima in imputata. «Lei e il suo ragazzo eravate state fermati nel pomeriggio, perché? Con chi era a Genova?», chiedeva Romanelli. «Ha detto di essere andata alla Diaz perché era un luogo sicuro per dormire, sicuro da cosa? Dai malviventi? Dai black bloc? Dalla polizia?». Ma lei risponde, schiva, chiarisce. Un buco nell'acqua dopo l'altro. «E' la vecchia tecnica dei processi per stupro», commenta un avvocato di parte civile che ha memoria lunga.
Sui manganelli ha detto «credo che fossero di gomma». Per la procura non era la risposta migliore perché i Canterini boys avevano i micidiali tonfa metallici, ben più duri della gomma, sperimentati al G8 e poi ritirati dal Viminale (i carabinieri ne usano una versione più leggera). Ma poi, quando Romanelli e Porciani hanno insistito sulle divise dei picchiatori, Lena ha indicato senza esitazione la divisa del settimo nucleo, diversa dalle altre per la cinta nera anziché bianca. «Avevano la cinta scura», ha detto, distinguendola da quella bianca dei poliziotti che la piantonarono successivamente in ospedale.
ilmanifesto.it
ALESSANDRO MANTOVANI
Racconta la fuga disperata al quarto piano, l'ultimo piano della scuola Diaz, «per creare il maggiore spazio possibile tra noi e la polizia». Ricorda di aver pensato a scappare dalle impalcature «ma rinunciammo - dice - perché temevamo che ci buttassero giù». Era in preda al panico mentre quelli sfondavano la porta. Quindi trovò un nascondiglio «in un piccolo locale vicino all'ascensore, una dispensa». Lei e il suo ragazzo decisero di presentarsi con le braccia alzate se la polizia li avesse trovati. Purtroppo non è bastato. Lena Z. ha 28 anni e ne aveva 24 al G8, quando è tornata a casa ad Amburgo con le costole fratturate e lesioni che comportano tuttora una riduzione della capacità polmonare del 30 per cento. Si occupa di botanica. Anche volendo non farebbe paura a nessuno, non certo a un poliziotto in assetto da guerra. E' più esile di quanto non sembri nella foto in barella all'uscita dalla Diaz, con il volto coperto di sangue, che fece il giro del mondo. E ieri è stata la prima delle 93 vittime della Diaz a testimoniare davanti al tribunale di Genova che sta processando i 29 dirigenti e funzionari della polizia accusati a vario titolo di falso, calunnia e lesioni per l'assalto alla Diaz e le prove fasulle (le due famose bottiglie molotov). «Nella dispensa - ha raccontato la giovane tedesca rispondendo al pm Enrico Zucca - siamo rimasti pochissimo, poi abbiamo sentito passi pesanti, di stivali, e altri rumori come se la polizia stesse picchiando con i bastoni sul muro. Sono arrivati e hanno aperto la porta. Il mio ragazzo è stato trascinato fuori subito, lo hanno circondato e hanno iniziato a colpirlo con il bastone. Quanti erano? Dieci-quindici... almeno dieci». C'è una contestazione dell'avvocato Porciani, uomo della destra milanese più estrema che c'è e legale dei capisquadra della celere romana: «Ha detto in ogni caso dieci, non almeno», sostiene l'avvocato. Il presidente Barone: «Se permette mi fido dell'interprete». Ma poco importa. Quel ragazzo fu massacrato da delinquenti in divisa, in sovrannumero e a volto coperto, non identificati e non più identificabili.
«Io - ha continuato Lena tenendo a bada il dolore dei ricordi e la tensione - ero rimasta lì, nella dispensa. Mi hanno tirata fuori per i capelli, credo di essere caduta quasi subito. Ero sdraiata e mi colpivano con i calci nella schiena e sul fianco con i bastoni. Ho sentito le mie costole che si fratturavano. Un poliziotto mi ha picchiato col ginocchio tra le gambe. Loro continuavano a picchiarmi e io sono scivolata di nuovo a terra. Avevo la sensazione che si stessero divertendo - ha esitato Lena - specie sentendo i rumori che facevo quando mi colpivano sullo sterno». «I suoi gemiti?», chiede il pm. «Sì, le mie grida, il mio respiro. Così ho deciso di non gridare più per non invogliarli a colpire ancora». Parole pesanti, pesantissime. Che però non hanno interrotto i feroci sghignazzi di alcuni degli avvocati dei superpoliziotti (non tutti, per carità, ma non facciamo nomi).
«Ero sdraiata contro il muro - ha proseguito la testimone/parte civile - Mi hanno spinta a calci verso le scale e mi hanno buttata giù, uno mi teneva per i capelli, avevo la testa all'altezza della sua anca e le gambe pendevano indietro. E da dietro altri poliziotti mi picchiavano ancora». Lena ricorda «una polvere bianca che bruciava sulle ferite, forse lacrimogeno». «Al secondo piano - prosegue - mi hanno gettata su altre due persone già a terra. Non si sono mossi. Ho chiesto loro in inglese se erano vivi o morti. Non mi hanno risposto. Lì mi sono accorta del sangue che scorreva sulla mia faccia, non riuscivo più a muovere il braccio destro. La polizia è passata più volte accanto a me e ognuno si fermava a sputarmi in faccia, alzandosi la visiera e togliendosi il fazzoletto rosso. Poi - altro particolare inquietante - hanno cercato di mettermi in un sacco di plastica nero, credo non volessero far vedere com'eravamo conciati». Alcuni difensori si sono opposti: «E' una valutazione della teste», hanno detto. Forse era un telo portato dai barellieri delle ambulanze, comunque non è decisivo. Il resto è chiarissimo e sarebbe bello se qualcuno trasmettesse in diretta questo processo, altro che "Un giorno in pretura". Qui infatti si misura la distanza tra la polizia reale e quella «democratica» e «di sicura affidabilità» di cui straparlano il ministro dell'interno Giuseppe Pisanu e i suoi aspiranti successori di centrosinistra. E misurarla è indispensabile se si vogliono rafforzare i poliziotti onesti e democratici, che per fortuna non mancano.
«Non mettiamo in dubbio che le cose siano andate così», questo l'esordio, significativo, del controesame dell'avvocato Romanelli che difende «Canterini and company» (parole sue), ovvero l'ex comandante della celere romana e i suoi capisquadra. Lena ha superato brillantemente i tentativi di trasformarla da vittima in imputata. «Lei e il suo ragazzo eravate state fermati nel pomeriggio, perché? Con chi era a Genova?», chiedeva Romanelli. «Ha detto di essere andata alla Diaz perché era un luogo sicuro per dormire, sicuro da cosa? Dai malviventi? Dai black bloc? Dalla polizia?». Ma lei risponde, schiva, chiarisce. Un buco nell'acqua dopo l'altro. «E' la vecchia tecnica dei processi per stupro», commenta un avvocato di parte civile che ha memoria lunga.
Sui manganelli ha detto «credo che fossero di gomma». Per la procura non era la risposta migliore perché i Canterini boys avevano i micidiali tonfa metallici, ben più duri della gomma, sperimentati al G8 e poi ritirati dal Viminale (i carabinieri ne usano una versione più leggera). Ma poi, quando Romanelli e Porciani hanno insistito sulle divise dei picchiatori, Lena ha indicato senza esitazione la divisa del settimo nucleo, diversa dalle altre per la cinta nera anziché bianca. «Avevano la cinta scura», ha detto, distinguendola da quella bianca dei poliziotti che la piantonarono successivamente in ospedale.
ilmanifesto.it
10.11.05
Modello periferia
ROSSANA ROSSANDA
Le periferie parigine sono in tumulto e Romano Prodi ha ammonito: le nostre non sono meno degradate. Forza Italia gli ha dato dell'incendiario. I sindaci gli hanno detto che no, le nostre sono diverse. Calderoli invece che sì, e bisogna cacciare gli immigrati. Pisanu non teme le periferie perché da noi il luogo del tumulto è la Val di Susa. L'opposizione ha obiettato «sì, ma». Adriano Sofri scrive arguzie sulle automobili. Ma Prodi ha ragione, variano soltanto le dimensioni, che non sono poca cosa. E' il grande agglomerato urbano che si è formato negli anni dell'espansione, alimentato dall'immigrazione interna ed esterna, che si separa in zone invalicabili, e più cresce più si separa per censo. La città europea è gerarchica. Attorno al nucleo dei signori si sono andati via via accumulando i poveri e i fragili. A Parigi il centro è dei signori e degli intellettuali che se lo possono permettere, oppure dei turisti, e resta governo, potere, cultura, arte, soldi. Lo circonda una grande fascia di gente assai per bene, come a Milano o a Roma, di quartieri borghesi che detestano i blocchi dormitorio che vengono per chilometri subito dopo, senza soluzione di continuità urbana, dove era una volta la cintura dei comuni rossi e fumavano le ciminiere delle grande aziende. Da essi si ritrae anche una quarta fascia di chi sarebbe disposto ad abitare luoghi più verdi, ma i comuni in cui arriva ancora qualche lembo di foresta si guardano bene dal costruire il venti per cento degli alloggi popolari che la legge prescrive (pena una multa di 150 euro) perché in questo caso la gente bene non ci verrebbe a stare. Quanto agli immigrati di ultimo arrivo non hanno quartiere, fanno gli squatter nelle case vecchie e disabitate dovunque siano, e succede come questa estate che vi muoiano per incendio nelle condoglianze di tutta la città. Questa la geografia di una capitale, ma non soltanto di Parigi.
E' la città tipica dell'Europa affluente, che oggi scricchiola. Il post industriale non ha bisogno di manodopera, i governi dismettono gli alloggi calmierati, e quelli che vi si trovano stentano a pagarsi gli affitti. Questa la geografia sociale che si può leggere nei blocchi ripetitivi di cemento, nella quantità di scuole che ci sono o non ci sono, degli insegnanti che ci vanno o non ci vanno, delle presenze o assenze di teatri, musei, locali, luoghi di cultura. Nella terza fascia il resto di Parigi non si inoltra mai. Chi vi era arrivato trenta o quaranta anni fa trovava lavoro e aveva qualche prospettiva, oggi i suoi rampolli non lo trovano, e non ne hanno nessuna. Sono nati in Francia, scolarizzati in Francia, parlano francese. Non frequentano né scuole né chiese né moschee, non amano una scuola che non gli promette nulla. Sono per le strade. In rottura con i genitori, che li rimproverano e con i quali il dialogo, ammesso che ci sia mai stato, è finito.
Sono in rottura con i simboli di quella ricchezza radiosa che li ammicca da tutte le parti, manifesti e tv, che gli è preclusa. Gli è venuta voglia di spaccarli tutti, non di spaccare tutto - sono dieci giorni che alcune periferie bruciano ma a nessuno viene in testa di prendere la Bastiglia. Sono indifferenti se quella che distruggono è l'auto o la motocicletta del vicino. Gareggiano, come l'età e il cinema vuole, fra quartiere e quartiere. Non hanno organizzazione, non è vero che siano infiltrati dalla criminalità della droga, più che non lo siano le periferie romana o milanese o torinese. Sono tagliati fuori dall'ascensore sociale, lo sanno e se lo sentono dire. Hanno cominciato con un solo slogan: «Rispetto, vogliamo rispetto». E quando il ministro degli interni li ha chiamati teppaglia è stato come versare benzina sul fuoco. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, il primo ministro è venuto alla tv e se occorre i prefetti decideranno il coprifuoco. Il primo ministro, diversamente da Sarkozy, ha balbettato di qualche causa sociale cui però nessuno è in grado di opporre facili rimedi. Vero, i rimedi sono i posti di lavoro che in questa fascia sociale mancano fino al cinquanta per cento dei richiedenti di quella età, mancano scuole qualificate, mancano case che non siano casermoni, manca una rete associativa e, soprattutto, manca la fine della discriminazione che si sentono addosso.
Non si fa in un giorno quel che si è reso precario per anni. Ma questa precarizzazione cresce un poco di più tutti i giorni. Chi se la sente di dire che, salvo le dimensioni, questo non succede anche a Milano, Roma o Bologna? Non è il modello di integrazione sociale francese che va a pezzi, vanno a pezzi tutti i modelli di crescita inseguiti da vent'anni a questa parte in Europa, e cari ai riformisti, una crescita a basso costo del lavoro, se non senza lavoro e a tagli vigorosi di welfare. Un terzo della popolazione ne viene tagliata fuori, emarginata. E oggi è sufficientemente acculturata da non sopportarlo. E sufficientemente scettica davanti allo spettacolo della politica da non vedere via d'uscita. Questo è il modello che anche i nostri riformisti ci propongono, e che in tempi di stagnazione, se non di recessione, diventa una tagliola crudele. Perché le istituzioni se ne accorgano ci vogliono le fiamme e i morti. E quando se ne accorgono altro non sanno fare che mandare i carabinieri e affollare le galere.
ilmanifesto.it
Le periferie parigine sono in tumulto e Romano Prodi ha ammonito: le nostre non sono meno degradate. Forza Italia gli ha dato dell'incendiario. I sindaci gli hanno detto che no, le nostre sono diverse. Calderoli invece che sì, e bisogna cacciare gli immigrati. Pisanu non teme le periferie perché da noi il luogo del tumulto è la Val di Susa. L'opposizione ha obiettato «sì, ma». Adriano Sofri scrive arguzie sulle automobili. Ma Prodi ha ragione, variano soltanto le dimensioni, che non sono poca cosa. E' il grande agglomerato urbano che si è formato negli anni dell'espansione, alimentato dall'immigrazione interna ed esterna, che si separa in zone invalicabili, e più cresce più si separa per censo. La città europea è gerarchica. Attorno al nucleo dei signori si sono andati via via accumulando i poveri e i fragili. A Parigi il centro è dei signori e degli intellettuali che se lo possono permettere, oppure dei turisti, e resta governo, potere, cultura, arte, soldi. Lo circonda una grande fascia di gente assai per bene, come a Milano o a Roma, di quartieri borghesi che detestano i blocchi dormitorio che vengono per chilometri subito dopo, senza soluzione di continuità urbana, dove era una volta la cintura dei comuni rossi e fumavano le ciminiere delle grande aziende. Da essi si ritrae anche una quarta fascia di chi sarebbe disposto ad abitare luoghi più verdi, ma i comuni in cui arriva ancora qualche lembo di foresta si guardano bene dal costruire il venti per cento degli alloggi popolari che la legge prescrive (pena una multa di 150 euro) perché in questo caso la gente bene non ci verrebbe a stare. Quanto agli immigrati di ultimo arrivo non hanno quartiere, fanno gli squatter nelle case vecchie e disabitate dovunque siano, e succede come questa estate che vi muoiano per incendio nelle condoglianze di tutta la città. Questa la geografia di una capitale, ma non soltanto di Parigi.
E' la città tipica dell'Europa affluente, che oggi scricchiola. Il post industriale non ha bisogno di manodopera, i governi dismettono gli alloggi calmierati, e quelli che vi si trovano stentano a pagarsi gli affitti. Questa la geografia sociale che si può leggere nei blocchi ripetitivi di cemento, nella quantità di scuole che ci sono o non ci sono, degli insegnanti che ci vanno o non ci vanno, delle presenze o assenze di teatri, musei, locali, luoghi di cultura. Nella terza fascia il resto di Parigi non si inoltra mai. Chi vi era arrivato trenta o quaranta anni fa trovava lavoro e aveva qualche prospettiva, oggi i suoi rampolli non lo trovano, e non ne hanno nessuna. Sono nati in Francia, scolarizzati in Francia, parlano francese. Non frequentano né scuole né chiese né moschee, non amano una scuola che non gli promette nulla. Sono per le strade. In rottura con i genitori, che li rimproverano e con i quali il dialogo, ammesso che ci sia mai stato, è finito.
Sono in rottura con i simboli di quella ricchezza radiosa che li ammicca da tutte le parti, manifesti e tv, che gli è preclusa. Gli è venuta voglia di spaccarli tutti, non di spaccare tutto - sono dieci giorni che alcune periferie bruciano ma a nessuno viene in testa di prendere la Bastiglia. Sono indifferenti se quella che distruggono è l'auto o la motocicletta del vicino. Gareggiano, come l'età e il cinema vuole, fra quartiere e quartiere. Non hanno organizzazione, non è vero che siano infiltrati dalla criminalità della droga, più che non lo siano le periferie romana o milanese o torinese. Sono tagliati fuori dall'ascensore sociale, lo sanno e se lo sentono dire. Hanno cominciato con un solo slogan: «Rispetto, vogliamo rispetto». E quando il ministro degli interni li ha chiamati teppaglia è stato come versare benzina sul fuoco. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, il primo ministro è venuto alla tv e se occorre i prefetti decideranno il coprifuoco. Il primo ministro, diversamente da Sarkozy, ha balbettato di qualche causa sociale cui però nessuno è in grado di opporre facili rimedi. Vero, i rimedi sono i posti di lavoro che in questa fascia sociale mancano fino al cinquanta per cento dei richiedenti di quella età, mancano scuole qualificate, mancano case che non siano casermoni, manca una rete associativa e, soprattutto, manca la fine della discriminazione che si sentono addosso.
Non si fa in un giorno quel che si è reso precario per anni. Ma questa precarizzazione cresce un poco di più tutti i giorni. Chi se la sente di dire che, salvo le dimensioni, questo non succede anche a Milano, Roma o Bologna? Non è il modello di integrazione sociale francese che va a pezzi, vanno a pezzi tutti i modelli di crescita inseguiti da vent'anni a questa parte in Europa, e cari ai riformisti, una crescita a basso costo del lavoro, se non senza lavoro e a tagli vigorosi di welfare. Un terzo della popolazione ne viene tagliata fuori, emarginata. E oggi è sufficientemente acculturata da non sopportarlo. E sufficientemente scettica davanti allo spettacolo della politica da non vedere via d'uscita. Questo è il modello che anche i nostri riformisti ci propongono, e che in tempi di stagnazione, se non di recessione, diventa una tagliola crudele. Perché le istituzioni se ne accorgano ci vogliono le fiamme e i morti. E quando se ne accorgono altro non sanno fare che mandare i carabinieri e affollare le galere.
ilmanifesto.it
7.11.05
L'intervista allo storico Le Goff
"L'odio è soprattutto rivolto
contro la società e contro uno dei suoi simboli di successo"
"La rivolta di una generazione
che non ha più avvenire"
"Le colpe del governo sono enormi"
di PIETRO DEL RE
"Più che ai moti studenteschi del Sessantotto, la violenza dei ragazzi di banlieue mi fa pensare alla rivolta dei Ciompi che vide opporsi nella Firenze del Trecento i lavoratori tessili alla borghesia cittadina", dice Jacques Le Goff, grande medievalista, raffinato scrittore ed esperto conoscitore della storia d'Italia. "Mi vengono in mente anche le sommosse dei chartists, durante i primi movimenti operai nell'Inghilterra appena industrializzata". La conversazione di Le Goff spazia da jacqueries a sanguinosissime repressioni, da insurrezioni a teste mozzate. Poi però il celebre studioso comincia a sparare a zero sullo stato francese e sulle colpe del suo massimo rappresentante, il presidente Jacques Chirac, che definisce una "nullità politica". "Non è il governo di centrodestra che ha creato la situazione attuale, ma è lui che l'ha aggravata".
Professor Le Goff, come si è giunti a questa crisi?
"È una situazione latente, che cova sotto le ceneri da diversi anni. Perché è esplosa proprio adesso? Per via delle drammatiche condizioni economiche, sociali e culturali in cui si trovano questi giovani che non sono minimamente integrati e che non hanno avvenire".
Ma che cosa ha scatenato il caos?
"Vede, non è esatto sostenere che la polizia francese sia interamente razzista, però è innegabile che tra le sue forze ci sia un certo numero di uomini razzisti e violenti. Qualche giorno fa due giovani banlieusards sono morti durante gli scontri: ebbene, il ruolo della polizia in quell'incidente è rimasto oscuro. Poi ci sono state le dichiarazioni del ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, che ha trattato questi giovani di racaille (feccia, ndr). Quest'ultimo fatto ha modificato lo stato d'animo dei rivoltosi, i quali adesso si sentono abbandonati e insieme disprezzati".
Quali soluzioni suggerisce per riportare la calma?
"Bisognerebbe anzitutto trovare un lavoro ai disoccupati per integrarli in quella società che vorrebbero distruggere. Ma questo mi sembra un obbiettivo difficilmente raggiungibile perché le politiche sociali del governo francese sono disastrose".
Crede che le scuse del ministro Sarkozy, richieste sia da parte dei rivoltosi sia dall'opposizione, servirebbero a placare gli animi?
"Credo che i problemi di rispetto e di disprezzo siano fondamentali. Del resto, la ricerca del perdono è diventata una consuetudine politica. Va di moda. Giovanni Paolo II ha chiesto scusa agli ebrei per le persecuzioni subite durante l'inquisizione. Chirac, e questo è un punto sul quale si è comportato correttamente, ha chiesto scusa per gli eccessi della colonizzazione francese, soprattutto in Algeria. Molti europei esigono dai turchi che questi chiedano scusa per il genocidio degli armeni. Detto ciò, non credo che basterebbe un "mi dispiace" pronunciato da Sarkozy per risolvere la crisi".
E allora come rispondere a tanta violenza?
"L'ostilità dei giovani è rivolta anzitutto contro la polizia, poi contro il governo, infine contro l'insieme della società. È per questo che, sia pure in modo inconsapevole, scatenano il loro odio contro uno dei simboli del successo nella nostra società: l'automobile. L'atto simbolico della rivolta è incendiare le macchine".
Quindi?
"Le colpe prima del governo Raffarin e poi di quello Villepin sono enormi, poiché hanno fatto scomparire quelle strutture che servivano a smussare le tensioni. Mi riferisco, per esempio, alla polizia di quartiere che aveva anche il compito di discutere con i giovani. Oggi, nelle banlieues esiste soltanto una "polizia di repressione". Sono stati anche cancellati molti ruoli di mediazione. Penso a quegli operatori sociali incaricati di far regnare una certa pace sociale creando forme di dialogo tra le comunità".
Sono "organizzati" questi giovani, come sostengono le autorità?
"Non credo. Si tratta piuttosto di fenomeni di contagio, di imitazione, che fanno sì che le violenze si propaghino all'interno della regione parigina".
Come andrà a finire?
"Sono ottimista e ma anche pessimista: ottimista perché non credo che si arriverà a una violenza generalizzata; pessimista perché le cause profonde del disagio di questi giovani dureranno ancora a lungo, almeno fino al 2007, ovvero fino a quando al potere ci sarà Chirac. Fino a quella data, lo stato sarà incapace di trovare soluzioni adeguate".
Da Rio a Nairobi e da Parigi a Roma? Crede che un giorno non troppo lontano si parlerà di mondializzazione della violenza nelle periferie?
"Può darsi. Ma al momento quello che accade nelle favelas brasiliane è molto diverso da quanto accade nelle banlieues parigine. Ma non possiamo escludere che queste differenze vadano assottigliandosi".
Non pensa che nell'era della televisione uno dei motivi che spingono alla devastazione e al saccheggio sia quello di apparire in video?
"Sicuramente. Credo tuttavia che nelle periferie parigine la violenza non sia un fine ma un mezzo: è lo strumento di rivendicazione per portare i problemi di una generazione sulla pubblica piazza".
contro la società e contro uno dei suoi simboli di successo"
"La rivolta di una generazione
che non ha più avvenire"
"Le colpe del governo sono enormi"
di PIETRO DEL RE
"Più che ai moti studenteschi del Sessantotto, la violenza dei ragazzi di banlieue mi fa pensare alla rivolta dei Ciompi che vide opporsi nella Firenze del Trecento i lavoratori tessili alla borghesia cittadina", dice Jacques Le Goff, grande medievalista, raffinato scrittore ed esperto conoscitore della storia d'Italia. "Mi vengono in mente anche le sommosse dei chartists, durante i primi movimenti operai nell'Inghilterra appena industrializzata". La conversazione di Le Goff spazia da jacqueries a sanguinosissime repressioni, da insurrezioni a teste mozzate. Poi però il celebre studioso comincia a sparare a zero sullo stato francese e sulle colpe del suo massimo rappresentante, il presidente Jacques Chirac, che definisce una "nullità politica". "Non è il governo di centrodestra che ha creato la situazione attuale, ma è lui che l'ha aggravata".
Professor Le Goff, come si è giunti a questa crisi?
"È una situazione latente, che cova sotto le ceneri da diversi anni. Perché è esplosa proprio adesso? Per via delle drammatiche condizioni economiche, sociali e culturali in cui si trovano questi giovani che non sono minimamente integrati e che non hanno avvenire".
Ma che cosa ha scatenato il caos?
"Vede, non è esatto sostenere che la polizia francese sia interamente razzista, però è innegabile che tra le sue forze ci sia un certo numero di uomini razzisti e violenti. Qualche giorno fa due giovani banlieusards sono morti durante gli scontri: ebbene, il ruolo della polizia in quell'incidente è rimasto oscuro. Poi ci sono state le dichiarazioni del ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, che ha trattato questi giovani di racaille (feccia, ndr). Quest'ultimo fatto ha modificato lo stato d'animo dei rivoltosi, i quali adesso si sentono abbandonati e insieme disprezzati".
Quali soluzioni suggerisce per riportare la calma?
"Bisognerebbe anzitutto trovare un lavoro ai disoccupati per integrarli in quella società che vorrebbero distruggere. Ma questo mi sembra un obbiettivo difficilmente raggiungibile perché le politiche sociali del governo francese sono disastrose".
Crede che le scuse del ministro Sarkozy, richieste sia da parte dei rivoltosi sia dall'opposizione, servirebbero a placare gli animi?
"Credo che i problemi di rispetto e di disprezzo siano fondamentali. Del resto, la ricerca del perdono è diventata una consuetudine politica. Va di moda. Giovanni Paolo II ha chiesto scusa agli ebrei per le persecuzioni subite durante l'inquisizione. Chirac, e questo è un punto sul quale si è comportato correttamente, ha chiesto scusa per gli eccessi della colonizzazione francese, soprattutto in Algeria. Molti europei esigono dai turchi che questi chiedano scusa per il genocidio degli armeni. Detto ciò, non credo che basterebbe un "mi dispiace" pronunciato da Sarkozy per risolvere la crisi".
E allora come rispondere a tanta violenza?
"L'ostilità dei giovani è rivolta anzitutto contro la polizia, poi contro il governo, infine contro l'insieme della società. È per questo che, sia pure in modo inconsapevole, scatenano il loro odio contro uno dei simboli del successo nella nostra società: l'automobile. L'atto simbolico della rivolta è incendiare le macchine".
Quindi?
"Le colpe prima del governo Raffarin e poi di quello Villepin sono enormi, poiché hanno fatto scomparire quelle strutture che servivano a smussare le tensioni. Mi riferisco, per esempio, alla polizia di quartiere che aveva anche il compito di discutere con i giovani. Oggi, nelle banlieues esiste soltanto una "polizia di repressione". Sono stati anche cancellati molti ruoli di mediazione. Penso a quegli operatori sociali incaricati di far regnare una certa pace sociale creando forme di dialogo tra le comunità".
Sono "organizzati" questi giovani, come sostengono le autorità?
"Non credo. Si tratta piuttosto di fenomeni di contagio, di imitazione, che fanno sì che le violenze si propaghino all'interno della regione parigina".
Come andrà a finire?
"Sono ottimista e ma anche pessimista: ottimista perché non credo che si arriverà a una violenza generalizzata; pessimista perché le cause profonde del disagio di questi giovani dureranno ancora a lungo, almeno fino al 2007, ovvero fino a quando al potere ci sarà Chirac. Fino a quella data, lo stato sarà incapace di trovare soluzioni adeguate".
Da Rio a Nairobi e da Parigi a Roma? Crede che un giorno non troppo lontano si parlerà di mondializzazione della violenza nelle periferie?
"Può darsi. Ma al momento quello che accade nelle favelas brasiliane è molto diverso da quanto accade nelle banlieues parigine. Ma non possiamo escludere che queste differenze vadano assottigliandosi".
Non pensa che nell'era della televisione uno dei motivi che spingono alla devastazione e al saccheggio sia quello di apparire in video?
"Sicuramente. Credo tuttavia che nelle periferie parigine la violenza non sia un fine ma un mezzo: è lo strumento di rivendicazione per portare i problemi di una generazione sulla pubblica piazza".
Il rap dell'illegalità nelle nostre città
Alle volte il diavolo dell'illegalità si nasconde nei dettagli. Sentite questa: la Federcalcio vorrebbe giocare un amichevole della Nazionale a Firenze, in ricordo di Ferruccio Valcareggi. Ma non può. Non il sindaco, non il governatore, non il consiglio comunale o quelle regionale, non il presidente della Fiorentina negano il permesso, ma i capi dei club ultrà dei tifosi.
«E' una decisione irresponsabile, chi la prende se ne assume tutte le responsabilità, non siamo in grado di gestire una situazione così a rischio», comunicano Marzio Brazzini, del Gruppo Storico, e Stefano Sartoni, del Collettivo. Detenendo il monopolio della violenza allo stadio e intorno allo stadio, gli ultrà perpetuano il bando all'azzurro che per vecchie ruggini con Carraro dura ormai da dodici anni. Dunque abbiamo una grande città italiana off limits per la Nazionale. Le «no go areas», luoghi pubblici dai quali la legge dello Stato è esclusa, non si trovano solo nella banlieu parigina, anche se non sempre bruciano.
La cosa singolare è che se chiedete a un cittadino di sinistra, ben educato ai valori della Weltanschauung democratica, diciamo a un Sansonetti, un giudizio sul caso di Firenze, vi risponderà che è un assurdo, un sopruso e uno scandalo. Allo stesso modo quel Sansonetti sarebbe pronto a manifestare perché la legalità si affermi ogni qual volta riguardi Previti, i processi a Berlusca, la 'ndrangheta o la mafia, ma si ribella se si applica a un centro sociale. In Sicilia il Sansonetti è pronto a votare la sorella di un magistrato in nome della legalità, ma a Milano storce il naso se deve votare un prefetto. Se a stringere di assedio la Camera dei Deputati fossero stati dei giovani fascisti, non avrebbe esitato a chiedere l'intervento della forza pubblica, che ha deplorato trattandosi di giovani di sinistra. E' deciso a smantellare i centri di permanenza temporanea degli immigrati clandestini perché sono dei lager, ma non è disposto a smantellare le baraccopoli di clandestini sul Lungoreno, che erano un lager per giunta abusivo.
Il buon cittadino di sinistra cerca la causa sociale dell'illegalità, o la Causa politica ideale: se la trova, è disposto a chiudere un occhio. Chi si ribella, deve essere un emarginato; chi insorge, deve essere un oppresso. I deboli hanno solo diritti, lo Stato solo doveri. La responsabilità individuale è sempre secondaria di fronte alla colpa della Società. Nel frattempo che non cambia la Società, si può solo dialogare, solidarizzare, comprendere. La repressione dell'illegalità è rimozione dell'effetto, non della causa: perciò o è inutile o è dannosa.
Il buon cittadino di sinistra si interroga sui casseurs di Parigi, vuol capirne le motivazioni sociologiche, etniche, generazionali. Non si chiede però di chi sono le 24 mila auto bruciate in un anno. Si deve presumere che appartengano ad altri deboli, se vivono negli stessi ghetti dei maghrebini. Nel centro di Parigi non vola una mosca, i turisti fanno shopping natalizio, gli chauffeur portano le signore ai beauty center. Dovunque c'è una illegalità, c'è un debole che ne paga il prezzo. I forti, i ricchi, i protetti possono tranquillamente infischiarsene.
Così imbevuto di ideologia, il buon cittadino di sinistra non vede l'ideologia nell'occhio iniettato di sangue di chi odia anche lui. Guai a dire che i rivoltosi di Parigi sono islamici, anche se lo sono. Guai a parlare di generazione Jihad, nella quale la guerra santa si fa personale e individuale, perché offre una ideologia allo spaesamento culturale, alla discriminazione sociale, al conflitto generazionale, e trasforma la diversità da umiliazione in orgoglio. Per essere politicamente corretti bisogna negare che l'islam sia diventato il nuovo rap dei ghetti d'Europa. Bisogna negare l'esistenza di un conflitto identitario, e cavarsela con la storia dell'emarginazione, come se tutti gli emarginati del mondo assaltassero gli autobus di notte.
Perché ragionando altrimenti si arriverebbe al colmo del politicamente scorretto. Bisognerebbe dirsi che le risposte della superiore civiltà europea, siano esse integrazioniste alla francese o comunitarie all'inglese, stanno fallendo. Bisognerebbe dire che l'America è meglio. Bisognerebbe rivalutare le politiche delle quote, della «discriminazione positiva», dell'«affermative action», che la sinistra americana inventava negli anni Settanta mentre la sinistra europea sfilava per la rivoluzione. Non ci possiamo chiedere perché il ministro degli Esteri degli Stati Uniti è una donna, nera, dell'Alabama, e quello precedente era un uomo, nero, repubblicano; mentre nelle scuole francesi d'élite come l'Ena e il Polythecnique, tanto care alla sinistra nostrana, gli studenti maghrebini sono come le mosche bianche. Bisognerebbe prendere atto che retorica, buonismo e tolleranza non valgono una efficace legge contro la discriminazione. Perché non c'è progresso senza legge e dunque non c'è cura dell'illegalità che non cominci dalla sua repressione.
«E' una decisione irresponsabile, chi la prende se ne assume tutte le responsabilità, non siamo in grado di gestire una situazione così a rischio», comunicano Marzio Brazzini, del Gruppo Storico, e Stefano Sartoni, del Collettivo. Detenendo il monopolio della violenza allo stadio e intorno allo stadio, gli ultrà perpetuano il bando all'azzurro che per vecchie ruggini con Carraro dura ormai da dodici anni. Dunque abbiamo una grande città italiana off limits per la Nazionale. Le «no go areas», luoghi pubblici dai quali la legge dello Stato è esclusa, non si trovano solo nella banlieu parigina, anche se non sempre bruciano.
La cosa singolare è che se chiedete a un cittadino di sinistra, ben educato ai valori della Weltanschauung democratica, diciamo a un Sansonetti, un giudizio sul caso di Firenze, vi risponderà che è un assurdo, un sopruso e uno scandalo. Allo stesso modo quel Sansonetti sarebbe pronto a manifestare perché la legalità si affermi ogni qual volta riguardi Previti, i processi a Berlusca, la 'ndrangheta o la mafia, ma si ribella se si applica a un centro sociale. In Sicilia il Sansonetti è pronto a votare la sorella di un magistrato in nome della legalità, ma a Milano storce il naso se deve votare un prefetto. Se a stringere di assedio la Camera dei Deputati fossero stati dei giovani fascisti, non avrebbe esitato a chiedere l'intervento della forza pubblica, che ha deplorato trattandosi di giovani di sinistra. E' deciso a smantellare i centri di permanenza temporanea degli immigrati clandestini perché sono dei lager, ma non è disposto a smantellare le baraccopoli di clandestini sul Lungoreno, che erano un lager per giunta abusivo.
Il buon cittadino di sinistra cerca la causa sociale dell'illegalità, o la Causa politica ideale: se la trova, è disposto a chiudere un occhio. Chi si ribella, deve essere un emarginato; chi insorge, deve essere un oppresso. I deboli hanno solo diritti, lo Stato solo doveri. La responsabilità individuale è sempre secondaria di fronte alla colpa della Società. Nel frattempo che non cambia la Società, si può solo dialogare, solidarizzare, comprendere. La repressione dell'illegalità è rimozione dell'effetto, non della causa: perciò o è inutile o è dannosa.
Il buon cittadino di sinistra si interroga sui casseurs di Parigi, vuol capirne le motivazioni sociologiche, etniche, generazionali. Non si chiede però di chi sono le 24 mila auto bruciate in un anno. Si deve presumere che appartengano ad altri deboli, se vivono negli stessi ghetti dei maghrebini. Nel centro di Parigi non vola una mosca, i turisti fanno shopping natalizio, gli chauffeur portano le signore ai beauty center. Dovunque c'è una illegalità, c'è un debole che ne paga il prezzo. I forti, i ricchi, i protetti possono tranquillamente infischiarsene.
Così imbevuto di ideologia, il buon cittadino di sinistra non vede l'ideologia nell'occhio iniettato di sangue di chi odia anche lui. Guai a dire che i rivoltosi di Parigi sono islamici, anche se lo sono. Guai a parlare di generazione Jihad, nella quale la guerra santa si fa personale e individuale, perché offre una ideologia allo spaesamento culturale, alla discriminazione sociale, al conflitto generazionale, e trasforma la diversità da umiliazione in orgoglio. Per essere politicamente corretti bisogna negare che l'islam sia diventato il nuovo rap dei ghetti d'Europa. Bisogna negare l'esistenza di un conflitto identitario, e cavarsela con la storia dell'emarginazione, come se tutti gli emarginati del mondo assaltassero gli autobus di notte.
Perché ragionando altrimenti si arriverebbe al colmo del politicamente scorretto. Bisognerebbe dirsi che le risposte della superiore civiltà europea, siano esse integrazioniste alla francese o comunitarie all'inglese, stanno fallendo. Bisognerebbe dire che l'America è meglio. Bisognerebbe rivalutare le politiche delle quote, della «discriminazione positiva», dell'«affermative action», che la sinistra americana inventava negli anni Settanta mentre la sinistra europea sfilava per la rivoluzione. Non ci possiamo chiedere perché il ministro degli Esteri degli Stati Uniti è una donna, nera, dell'Alabama, e quello precedente era un uomo, nero, repubblicano; mentre nelle scuole francesi d'élite come l'Ena e il Polythecnique, tanto care alla sinistra nostrana, gli studenti maghrebini sono come le mosche bianche. Bisognerebbe prendere atto che retorica, buonismo e tolleranza non valgono una efficace legge contro la discriminazione. Perché non c'è progresso senza legge e dunque non c'è cura dell'illegalità che non cominci dalla sua repressione.
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