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26.6.14
Stipendi, l’Italia rovesciata - Il Sud più «ricco» del Nord
La classifica delle province per potere d’acquisto. Prime Caltanissetta e Crotone, Milano 97esima
di Sergio Rizzo
A Ragusa il reddito disponibile delle famiglie è circa metà di Milano e la disoccupazione morde tre volte di più. Per non parlare dei giovani: dice la Banca d’Italia che in Sicilia il 55% è senza lavoro. Ma per i pochi fortunati ad avere un’occupazione stabile le cose vanno assai meglio che a Milano.
Un cassiere di banca ragusano con cinque anni di anzianità ha uno stipendio del 7,5% inferiore al suo collega milanese. Se però si tiene conto del differente costo della vita, allora scopriamo che la sua busta paga è più alta del 27,3%. E non è ancora tutto, perché per avere il medesimo potere d’acquisto del cassiere di Ragusa, il bancario di Milano dovrebbe guadagnare addirittura il 70% in più. Nel settore pubblico, poi, le differenze a favore dei dipendenti meridionali sono ancora più evidenti. Il salario nominale di un insegnante di scuola elementare con i soliti cinque anni di anzianità è infatti uguale in tutte le regioni italiane: 1.305 euro al mese. Una retribuzione che però in base al diverso indice dei prezzi al consumo nelle due città equivale a 1.051 euro reali a Milano e 1.549 a Ragusa. Con una differenza abissale a vantaggio della città siciliana: 47%. Per pareggiare il potere d’acquisto dell’insegnante ragusano il maestro milanese dovrebbe avere uno stipendio più pesante dell’83%, sottolinea una ricerca che verrà presentata domani a Roma dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti. Obiettivo degli autori, gli economisti Tito Boeri della Bocconi, Andrea Ichino dell’Istituto universitario europeo ed Enrico Moretti dell’università californiana di Berkeley, mettere a fuoco le disuguaglianze di salari, redditi e consumi, in gran parte responsabili di una stagnazione endemica.
I numeri dicono tutto. La Provincia di Bolzano, dove i salari nominali sono i più elevati d’Italia, scivola quasi in fondo alla classifica (posto numero 92) di quelli reali se si considera la differenza del costo della vita. Così Aosta, che dal secondo posto passa al 95. Esattamente al contrario di Crotone, che dalla posizione 95 per i salari nominali balza alla seconda per quelli reali. Appena davanti a Enna, Biella, Siracusa, Pordenone, Vercelli, Taranto, Vibo Valentia e Mantova. Tra le dieci province italiane con i più alti salari reali le meridionali sono ben sei. Prima in assoluto, Caltanissetta.
Dati, secondo gli autori della ricerca, che rappresentano una profonda anomalia rispetto a Paesi nei quali i salari sono allineati alla produttività, con il risultato di avere tassi di disoccupazione con minori differenze fra i territori. Boeri, Ichino e Moretti portano l’esempio di San Francisco, dove la produttività del lavoro è superiore rispetto a Dallas: i salari sono quindi più alti del 50% e il tasso di disoccupazione è simile. Anche a Milano la produttività è superiore a quella di Ragusa, ma la differenza salariale è metà di quella fra San Francisco e Dallas: e a Ragusa la disoccupazione è del 223 % maggiore che a Milano mentre le abitazioni nel capoluogo lombardo sono più care del 247%.
Certo la valutazione complessiva delle differenze non può prescindere da altre variabili. Per avere a Ragusa la stessa qualità di Milano, ad esempio, i servizi sanitari costerebbero 18,7 volte in più. Ed è questa anche la ragione per cui a salari reali più consistenti dei lavoratori non corrisponde automaticamente una migliore qualità della vita. Né un apprezzabile impatto sui redditi. La dimostrazione? La provincia italiana con i redditi nominali più elevati, Modena, è al secondo posto per quelli reali (che tengono conto delle differenze territoriali del costo della vita), dietro Biella e davanti Mantova, Reggio Emilia, Verbano, Ferrara, Ragusa, Novara, Trieste e Rovigo. Tutte del Nord tranne Ragusa.
Conclusione, la «compressione dei salari», come viene definita nella ricerca, è causa di maggiore disoccupazione e disuguaglianza nei salari reali a favore del Sud, e di prezzi più cari delle abitazioni e squilibri nei redditi e nei consumi a favore del Nord. Una situazione tale da creare le condizioni per «frenare la crescita senza migliorare le prospettive del Sud». Sul banco degli imputati, «l’apparente equità della contrattazione nazionale» che determina «distorsioni, inequità ed inefficienze». La svolta, secondo gli autori, sarebbe dunque in un legame più stretto fra retribuzioni e produttività, con gli accordi locali che dovrebbero prevalere sui contratti nazionali.
Impossibile, dopo aver scorso le oltre 50 slide della ricerca, non ripensare alle gabbie salariali. Era un meccanismo nato alla fine del 1945,che divideva l’Italia in 14 aree dove si applicavano salari diversi in rapporto al costo della vita. Durò fino a tutti gli anni Sessanta. Il sipario calò definitivamente nel 1972. Sulle gabbie e sul poco rimasto del boom economico.
22.6.14
Il Patto di San Vittore
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano)
Finalmente se ne sono accorti. Pidini, forzisti e leghisti, curvi da mesi sul sacro incunabolo della cosiddetta riforma del Senato, si erano dimenticati di dare l’immunità ai nuovi senatori. Ora hanno provveduto: anche i nuovi inquilini di Palazzo Madama, pur non essendo più eletti, non potranno essere né arrestati né perquisiti né intercettati senza il loro assenso preventivo. È l’unica novità di rilievo dell’ultimo testo partorito dal trust di cervelli formato Boschi-Romani-Calderoli, oltre alla riduzione dei senatori da 148 a 100 (5 nominati dal Quirinale e 95 dalle Regioni, di cui 74 fra i consiglieri regionali e 21 fra i sindaci). Restano le assurdità più assurde: saranno abolite le elezioni; i senatori non conteranno nulla nella formazione delle leggi e non voteranno la fiducia al governo (infatti lavoreranno gratis); dovranno dividersi fra le amministrazioni locali e l’impegno romano (un dopolavoro non pagato, ma ben spesato); e dureranno in carica quanto le giunte regionali e comunali di provenienza (dove si vota in ordine sparso, così ogni anno qualche senatore perderà il posto e il Senato diventerà un albergo a ore, con maggioranze e minoranze affidate al caso, anzi al caos).
Finora l’immunità-impunità veniva giustificata in due modi: il Parlamento è lo specchio del Paese che lo esprime, dunque gli italiani, se non vogliono un inquisito a rappresentarli, possono non votare per lui o per il partito che l’ha candidato; il plenum dell’aula non può essere intaccato da un giudice che nessuno ha eletto. Ora anche il senatore sarà un tizio che nessuno avrà eletto (o meglio, sarà eletto per fare il sindaco o il consigliere regionale, non per fare il senatore). E il plenum del Senato sarà continuamente intaccato dalla caduta di questa o quella giunta comunale o regionale. Dunque, in linea di principio, non si vede perché un sindaco o un consigliere regionale eletto senza alcuna immunità debba riceverla in dono soltanto perchè il suo consiglio regionale l’ha promosso a senatore. Ma, nel paese dei ladri, si comprano e si vendono anche i princìpi. Specie se chi, come Renzi, proclama ai quattro venti di voler cacciare i ladri si ostina a riformare la Costituzione con il partito dei ladri (che però – osserva l’astuta Boschi – “rappresenta milioni di cittadini”).
Attualmente 17 giunte regionali su 20 sono sotto inchiesta o già sotto processo per le ruberie sui rimborsi pubblici, per un totale di 300 consiglieri inquisiti. E i sindaci indagati non si contano. Se fosse già in vigore la riforma del Senato, anche se volessero, i consigli regionali non riuscirebbero a nominare 95 consiglieri e sindaci intonsi da accuse penali. Ma lo capiscono tutti che la prospettiva di agguantare l’immunità sarà talmente allettante da diventare l’unico criterio di selezione per la carica gratuita di senatore: non appena un consigliere regionale o un sindaco avrà la sventura di finire nei guai con la giustizia, i colleghi – che poi sovente sono i suoi complici – lo spediranno in Senato per salvarlo dalla galera, dalle intercettazioni e dalle perquisizioni. Se no poi magari parla o si fa beccare con il sorcio in bocca. E la cosiddetta Camera Alta del Parlamento diventerà, ancor più di oggi, quel che erano i conventi e le chiese nel Medioevo: un rifugio per manigoldi. Se Giorgio Orsoni, per dire, non avesse commesso l’imprudenza di confessare, accusare il Pd, patteggiare e farsi scaricare da Renzi, ma avesse continuato a negare tutto in attesa del processo, sarebbe ancora sindaco di Venezia, con ottime speranze di farsi nominare senatore dal nuovo consiglio regionale a maggioranza Pd in cambio del suo silenzio.
Ora però, prima del voto di luglio, alla Grande Riforma mancano alcuni dettagli da concordare con Forza Italia. E B. rischia l’arresto per gli ultimi delirii in tribunale. Sarebbe davvero seccante se Renzi, per rinnovare il patto del Nazareno, dovesse raggiungerlo nel parlatorio di San Vittore e comunicare con il detenuto costituente al citofono, attraverso il vetro antiproiettile, come Genny e donna Imma con don Pietro Savastano. Non c’è un minuto da perdere.
Finalmente se ne sono accorti. Pidini, forzisti e leghisti, curvi da mesi sul sacro incunabolo della cosiddetta riforma del Senato, si erano dimenticati di dare l’immunità ai nuovi senatori. Ora hanno provveduto: anche i nuovi inquilini di Palazzo Madama, pur non essendo più eletti, non potranno essere né arrestati né perquisiti né intercettati senza il loro assenso preventivo. È l’unica novità di rilievo dell’ultimo testo partorito dal trust di cervelli formato Boschi-Romani-Calderoli, oltre alla riduzione dei senatori da 148 a 100 (5 nominati dal Quirinale e 95 dalle Regioni, di cui 74 fra i consiglieri regionali e 21 fra i sindaci). Restano le assurdità più assurde: saranno abolite le elezioni; i senatori non conteranno nulla nella formazione delle leggi e non voteranno la fiducia al governo (infatti lavoreranno gratis); dovranno dividersi fra le amministrazioni locali e l’impegno romano (un dopolavoro non pagato, ma ben spesato); e dureranno in carica quanto le giunte regionali e comunali di provenienza (dove si vota in ordine sparso, così ogni anno qualche senatore perderà il posto e il Senato diventerà un albergo a ore, con maggioranze e minoranze affidate al caso, anzi al caos).
Finora l’immunità-impunità veniva giustificata in due modi: il Parlamento è lo specchio del Paese che lo esprime, dunque gli italiani, se non vogliono un inquisito a rappresentarli, possono non votare per lui o per il partito che l’ha candidato; il plenum dell’aula non può essere intaccato da un giudice che nessuno ha eletto. Ora anche il senatore sarà un tizio che nessuno avrà eletto (o meglio, sarà eletto per fare il sindaco o il consigliere regionale, non per fare il senatore). E il plenum del Senato sarà continuamente intaccato dalla caduta di questa o quella giunta comunale o regionale. Dunque, in linea di principio, non si vede perché un sindaco o un consigliere regionale eletto senza alcuna immunità debba riceverla in dono soltanto perchè il suo consiglio regionale l’ha promosso a senatore. Ma, nel paese dei ladri, si comprano e si vendono anche i princìpi. Specie se chi, come Renzi, proclama ai quattro venti di voler cacciare i ladri si ostina a riformare la Costituzione con il partito dei ladri (che però – osserva l’astuta Boschi – “rappresenta milioni di cittadini”).
Attualmente 17 giunte regionali su 20 sono sotto inchiesta o già sotto processo per le ruberie sui rimborsi pubblici, per un totale di 300 consiglieri inquisiti. E i sindaci indagati non si contano. Se fosse già in vigore la riforma del Senato, anche se volessero, i consigli regionali non riuscirebbero a nominare 95 consiglieri e sindaci intonsi da accuse penali. Ma lo capiscono tutti che la prospettiva di agguantare l’immunità sarà talmente allettante da diventare l’unico criterio di selezione per la carica gratuita di senatore: non appena un consigliere regionale o un sindaco avrà la sventura di finire nei guai con la giustizia, i colleghi – che poi sovente sono i suoi complici – lo spediranno in Senato per salvarlo dalla galera, dalle intercettazioni e dalle perquisizioni. Se no poi magari parla o si fa beccare con il sorcio in bocca. E la cosiddetta Camera Alta del Parlamento diventerà, ancor più di oggi, quel che erano i conventi e le chiese nel Medioevo: un rifugio per manigoldi. Se Giorgio Orsoni, per dire, non avesse commesso l’imprudenza di confessare, accusare il Pd, patteggiare e farsi scaricare da Renzi, ma avesse continuato a negare tutto in attesa del processo, sarebbe ancora sindaco di Venezia, con ottime speranze di farsi nominare senatore dal nuovo consiglio regionale a maggioranza Pd in cambio del suo silenzio.
Ora però, prima del voto di luglio, alla Grande Riforma mancano alcuni dettagli da concordare con Forza Italia. E B. rischia l’arresto per gli ultimi delirii in tribunale. Sarebbe davvero seccante se Renzi, per rinnovare il patto del Nazareno, dovesse raggiungerlo nel parlatorio di San Vittore e comunicare con il detenuto costituente al citofono, attraverso il vetro antiproiettile, come Genny e donna Imma con don Pietro Savastano. Non c’è un minuto da perdere.
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21.6.14
Copia privata: la sconfitta della legalità e della trasparenza
di Guido Scorza (Il Fatto Quotidiano)
La notizia è ormai nota: Dario Franceschini, ministro per i Beni e delle attività Culturali ieri ha firmato il decreto per l’aggiornamento delle tariffe del cosiddetto “equo compenso per copia privata”ovvero dell’importo che ogni consumatore italiano deve pagare quando acquista un cd, un dvd, una pendrive usb, un pc, un tablet o uno smartphone, sul presupposto che potrebbe usarlo per registrarci una copia di una canzone o di un film, legittimamente acquistati.
Da domani, pagheremo, tra l’altro, quasi 5 euro all’acquisto di uno smartphone o di un tablet da 32 Gb, 5,20 per un PC, 0,36 centesimi di euro all’acquisto di una pendrive usb da 4 Gb e tanto di più se maggiore ne sarà la capacità di memorizzazione.
Sono oltre cento milioni di euro all’anno che usciranno dalle nostre tasche e andranno ad ingrassare i conti dell’industria dei contenuti, degli autori – specie di quelli più ricchi giacché il riparto degli importi raccolti avviene secondo oscuri criteri che premiano pochi e sacrificano molti – e, soprattutto, della Siae che trattiene una cospicua percentuale, da diversi milioni di euro, a titolo di “costi di gestione”.
Ma il punto non è questo. Tanto per cominciare il ministro Dario Franceschini – cui la legge impone di aggiornare le tariffe della copia privata ogni tre anni ma non necessariamente di aumentarle – ha disposto gli aumenti in questione, in particolare su smartphone e tablet – pur disponendo di una ricerca di mercato, commissionata dal suo predecessore, Massimo Bray, nella quale si mette nero su bianco che la percentuale di italiani che utilizzano tali dispositivi per fare, davvero, una copia privata non arriva al dieci per cento.
E’ curioso, al riguardo, osservare che la ricerca in questione, dopo essere stata, per qualche giorno, pubblicata sul sito del Ministero dei Beni e delle Attività culturali nella sezione nella quale secondo lo stesso Mibac sarebbe “pubblicata la documentazione esaminata ai fini dell’aggiornamento dell’equo compenso”, oggi non vi compare più. Un errore provvidenziale o un puerile tentativo di nascondere agli occhi dei curiosi una scomoda verità [per chi fosse interessato il testo della ricerca è disponibile qui]?
Ma non basta. Il ministro Dario Franceschini, infatti, da ieri va ripetendo che, nonostante gli aumenti, le tariffe italiane restano ampiamente al di sotto della media europea e, al Ministero, nel vano tentativo di supportare questa autentica “menzogna di Stato”, hanno pensato bene di diffondere, assieme al comunicato stampa, una simpatica tabellina intitolata “Ecco le principali novità ed un confronto con la Ue”. Una forma di comunicazione istituzionale rara e straordinariamente efficace.
Peccato solo che la tabella confronti le più basse tra le nuove tariffe varate dal ministro non con la media europea, come il titolo indurrebbe ad attendersi, ma con quelle vigenti solo in Francia e Germania ovvero nei due dei 23 Paesi nei quali vige la regola dell’equo compenso in cui le tariffe sono più alte.
Ce n’è abbastanza per chiedere conto al ministro di una tanto curiosa decisione ma, purtroppo, non basta ancora. I redattori della tabella, infatti, essendosi evidentemente accorti che in Germania le tariffe dell’equo compenso per cd e dvd sono decisamente più basse rispetto alle tariffe appena approvate, hanno pensato bene di nasconderne i dati dietro ad un dilettantesco “non disponibili”, quasi si trattasse dei dati sulle precipitazioni nevose di una qualche remota zona alpina.
Peccato che le tariffe in questione siano pubblicate da mesi nello stesso rapporto dell’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale dal quale provengono tutti gli altri dati inseriti in tabella. Davvero curioso che le tariffe francesi e tedesche maggiori di quelle italiane siano disponibili e quelle inferiori siano date, invece, per “non disponibili”. E’ inaccettabile che un Ministero di un governo che continua a predicare trasparenza si dimostri tanto poco trasparente.
Ma non basta ancora. Perché il punto non è solo ciò che il Ministero finge di non sapere ricorrendo a espedienti di comunicazione di almeno dubbia correttezza. Il punto è che il ministro Franceschini sa – o, almeno, dovrebbe sapere – che nel 2012, in Italia è stato raccolto a titolo di equo compenso per copia privata un importo superiore rispetto a quello raccolto in ogni altro Paese europeo, eccezion fatta per la sola Francia. Lo dice – e dimostra numeri alla mano – ancora una volta, lo stesso Studio dell’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale dal quale al Ministero hanno estrapolato i dati attraverso i quali vorrebbero convincere giornalisti e consumatori italiani del fatto che le nuove tariffe sono più basse di quelle applicate nel resto d’Europa.
Non è così o, almeno, non lo è stato nel 2012, ovvero nell’ultimo anno al quale si riferiscono i dati disponibili. Ma le mezze verità del Ministero nell’annunciare il varo delle nuove tariffe non finiscono qui. Non è vero, ad esempio, che l’equo compenso non debbano pagarlo i consumatori ma i produttori di tecnologia. Regole Ue e leggi nazionali stabiliscono l’esatto contrario e, in Francia – Paese al quale il ministro sembra guardare come importante riferimento quando si tratta di aumentare le tariffe – dal 1° aprile, i venditori di supporti e dispositivi sono addirittura obbligati ad esporre, assieme al prezzo, l’importo dell’equo compenso da versarsi.
Egualmente, il ministro nel ricordare, nel suo comunicato stampa, di aver aumentato le tariffe come richiesto da 4mila autori, dimentica – ed è davvero grave – degli oltre 60mila consumatori italianiche gli hanno chiesto, sulla base di una ricerca di mercato commissionata dallo stesso Ministero,l’esatto contrario. Curiosa regola di governo della cosa pubblica quella per la quale 4mila “voti” di chi vuole un fiume di denaro, valgono di più di 60mila “voti” di chi quel fiume di denaro dovrà pagare, pur in presenza di una ricerca che suggerirebbe l’esatto contrario.
E’ l’ennesima brutta storia italiana ed è un peccato che si consumi proprio nel ministro che dovrebbe garantire la promozione e tutela della nostra cultura. Non ha vinto nessuno ma abbiamo perso tutti perché hanno perso la legalità e la trasparenza.
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Cara giunta, la festa è già finita
Filiberto Maida (La Provincia Pavese)
La festa è già finita, spero. Caro sindaco Massimo Depaoli, vedo che ti sei tenuto le deleghe per Ecologia e Sviluppo sostenibile. So che te ne intendi, o almeno te ne intendevi. Non basta, naturalmente, andare in municipio pedalando. Quello son buoni tutti a farlo. Pensa invece che, oltre alle varie chiacchiere, Pavia sarebbe una città potenzialmente per ciclisti e pedoni, di fatto è di proprietà degli automobilisti. Quindi, vedi di darti da fare, e non spacciare il prossimo piano delle opere pubbliche come la panacea di tutti i mali. Devi intervenire subito, rapido, dando precise indicazioni alla polizia locale perché, a suon di multe e rimozioni, faccia rispettare le brutte piste ciclabili che abbiamo. Opera, subito, pensando all’ordine di priorità: pedoni, ciclisti, automobilisti. E occhio, le piste ciclabili fanno schifo anche in periferia. E se ecologia significa anche gestione dei rifiuti, dì a quelli di Asm di pensare meno ad appalti e forniture, e gestire la raccolta in modo civile. E fai partire subito il porta a porta anche in periferia. Altrimenti, caro sindaco, sono chiacchiere. Sarò più breve con gli altri assessori.
A Giuliano Ruffinazzi, che conosco da un ventennio, oltre al necessario in bocca al lupo, chiedo di fare meno il democristiano e più l’amministratore. Ha l’assessorato principe, il bilancio, e il più delicato, la polizia locale. Se sul primo le capacità di mediazione sono utili, sul secondo, per favore, vediamo di fare sul serio. Ti chiedo, a nome di tutta la città, di tenere, una volta per tutte, in considerazione un aspetto fondamentale: vanno multati, prima di tutto, quelli che creano pericolo. Non solo quelli che posteggiano senza ticket. Da sempre la polizia locale picchia duro, insieme agli ausiliari, per recuperare soldi, soldi e soldi. Posso capire, e poi le regole valgono per tutti. Ma ho due figli giovani che girano per la città, anch’io utilizzo la bicicletta, sono un pedone (nei giorni di riposo, come sai anche tu), e vorrei strade sicure. E le strade sicure si ottengono solo con comportamenti sicuri. Il che significa, per i vigili, lavorare di più, muovere il culo dalle sedie (scusa per il termine “sedie”) e non guardare in faccia a nessuno. Pensi di riuscirci, Giuliano?
Cara Alice Moggi, so bene del tuo impegno nel terzo settore, nel sociale. Quindi, va benissimo che tu sia dove ora sei. Però, per favore, adesso vedi di non prenderci troppo la mano. Non so come dirtelo elegamentente e senza sorprenderti, ma lo dico: non è vero che tutto ciò che è terzo settore è buono. C’è del terzo settore che fa pena. Non è vero che tutto ciò che è gratuito, anche se dato con il cuore, è bello. C’è tanta roba gratis che fa letteralmente schifo. Conosco gente, ma dai la conosci anche tu, che alle spalle del terzo settore e del volontariato, ha fatto i soldi. Ora, se ne parli con qualche assessore, che so, con Galazzo o la Gregorini (cioè Cultura e Turismo), ti spiegheranno, credo, che turismo e cultura non sempre stanno bene con sociale e terzo settore. Magari non la pensi così, ma potrei farti parecchi esempi. Insomma, cara Alice, non farti prendere la mano.
Oh, è arrivato anche Davide Lazzari. Te lo dico subito. Davide: i trasporti non vanno bene. La città è mal collegata. I quartieri periferici pure. Specialmente tra di loro. Conviene muoversi in auto, costa meno e fai meno fatica. Mancano le piste ciclabili che collegano un quartiere con l’altro. Non ci credi? Allora, io abito al Vallone, mia figlia ha la sua cara amica in viale Lodi, dalle parti della Riso Scotti. Prova un po’ tu ad arrivarci in bicicletta. Vivo, intendo dire. E non parliamo di arrivare, sempre vivo, in viale Cremona. Lo so che corri, lo so bene, ma parlo di biciclette, non di runners. Ah, ecco, se ne parli con Castagna (ossia Lavori pubblici) vedi di spiegargli che per salvare la vita dei ciclisti non bastano le piste ciclabili, ma ci vuole un asfalto buono (e senza tombini profondi mezzo metro) lungo le strade dove le ciclabili non ci sono. Anche qui, non è mica difficile, basta decidere quali sono le priorità. E poi, ricordati: finché sarà più veloce, semplice e conveniente muoversi in auto, nessuno utilizzerà l’autobus. Facile, no?
Non conosco bene Angelo Gualandi, ma se è chi ricordo io, beh, mi pare una ottima scelta. Non la farò troppo lunga sull’Urbanistica, che ci sarebbe da scrivere un libro. Mi limito ad un aspetto che ritengo importante anche se secondario rispetto ai fatti e misfatti che conosciamo. L’arredo urbano, che come lei mi può insegnare, fa parte del disegno complessivo di una città. Ci sono, appunto, città nazionali e internazionali che sono spesso riconoscibili dal loro arredo urbano, fondamentale specialmente per dare continuità tra i centri storici e le periferie. Facciamoci un pensierino. E poi è inutile, caro Angelo Gualandi, che le ricordi – avendo lei frequentato gli uffici pubblici – che se c’è qualcosa di sempre trasversale alla politica è il mattone facile. Per una volta, riusciranno i nostri eroi ad evitare compromissioni?
Turismo e Commercio, di cui si occupa Angela Gregorini, sono per Pavia temi essenziali, inutile che spieghi il perchè. Sta di fatto che ho sempre trovato Pavia poco accogliente per i turisti. Questione di ritardi, altre città – quando è iniziata la crisi – hanno scommesso sulle domeniche dedicate ai turisti, con negozi aperti e tante iniziative, Pavia è arrivata come al solito in ritardo. I commercianti sono una categoria di conservatori, prima non investivano perché troppo ricchi, ora non lo fanno perché mancano i soldi. Troppe domeniche, è mia opinione, mi accorgo che in città non c’è proprio niente di interessante da fare, e vado da un’altra parte. E vorrei sommessamente ricordare ad Angela che i centri commerciali non si sconfiggono trasformando la città in un parcheggio, ma offrendo alternative. E spesso le alternative, vero commercianti?, richiedono che si sborsi qualche euro. Altrimenti, andate a quel paese che io vado al centro commerciale.
Direi così, caro Giacomo Galazzo, se mi consenti: “Hey non fare il sapiente tu non sei divertente io che sono ripetente io ti tiro un fendente Forse sei deludente perché hai perso il mordente ma se trovi che ti rende tu diventa pur demente”- Ossia, la cultura cha cha cha. Allora, la cultura non è : 1) Portare tanta gente a vedere una mostra spacciandola per clamorosamente bella e poi scoprire che è robetta; 2) Questione di numeri, di densità di eventi; 3) Mettere insieme pere e mele, che la somma non sempre funziona. Ho sempre pensato che Pavia non sia identificata con un programma culturale preciso. Non serve a niente, secondo me, mettere insieme la mostra di un artista e poi la mostra di un altro se tra i due non c’è un filo logico. Insomma, la cultura va programmata, ogni anno deve avere un suo senso. Non è facile, capisco, ma possiamo provarci. E per cambiare strada, magari vanno cambiati anche i nomi, che se a gestire gli eventi, da dentro o da fuori, sono gli stessi che lo facevano nel 1996, allora qualcosa forse non va bene. Appello personale: pensiamo a qualche grande mostra fotografica e a un vero festival jazz. Ma qui siamo negli interessi personali in atti d’ufficio. Ah, la cultura non è solo di sinistra, altrimenti sai che noia…
Proseguo, allegramente, nella mia riflessione ad alta voce sulla nuova giunta. Prima, però, un passo indietro. Torno alla questione cultura. Cito, integralmente, il commento al mio precedente post fatto da tal Giorgio Montolivo che, non è ironia ovviamente, non ho il piacere di conoscere: “Ma come si può commentare “sai che novità”, a chi propone (…a titolo di esempio…) un grande festival jazz? Ci rendiamo conto di quante cose ci mancano, che potrebbero dare prestigio alla città? C’è nell’aria un misto di assuefazione alla mediocrità, se non addirittura di entusiasmo pavese da cartolina, che ci trascina sempre più lontano dai grandi progetti. Questa città arranca dietro le ultime classificate del Nord Italia. Camminiamo su ciottoli tra cui cresce l’erba, sporcati di urina, di spazzatura, di sabbia per coprire gli odori. Compriamo mostre temporanee prêt-à-porter di cui non ci rimane mai niente. E intanto la Zatti fa conversazioni con Philippe Daverio al Fraschini. Magari facessimo un festival jazz! Fosse anche il milionesimo d’Italia. Ma se fosse una cosa nuova, organizzata dalle forze migliori della città, portata nel cuore del centro storico e di cui si fosse orgogliosi di mettere il nome ‘Pavia’… faremmo certamente un passo avanti. Cominciamo dalle cose banali, scontate, ripetitive… che possono darci una spinta in avanti”. Concordo pienamente, ci pensi assessore Galazzo.
Istruzione, politiche giovanili. Beh, assessore Ilaria Cristiani, a parte il fatto che le suggerisco di farsi un baffo delle critiche per la sua presunta incompatibilità (anche se, volpi che siete, potevate anche pensarci, no?), altrimenti che noia… direi che di lavoro da fare ce n’è parecchio. Penso ai giovani. Penso ai miei due figli (e sì, si deve partire sempre dalle cose personali) e al fatto che mai, dico mai, li ho sentiti dire: eh, pa’, hai visto cosa c’è in centro? No, mai. Saranno figli strani, ma possibile che un 19enne e una 16enne non trovino film, spettacoli, concerti, mostre che li attirino. Possibile che, se c’è qualcosa, lo abbia organizzato quasi a fatica il solito SpazioMusica o qualche simpatica e squattrinata associazione di reduci dell’estrema sinistra? La sera, non solo il sabato, ho la sensazione che i ragazzi navighino in centro storico, tra Strada Nuova e corso Cavour, quasi senza rotta, da un bar all’altro, da un gradino sul quale sedere al tavolino (per chi se lo può permettere). Non parliamo, poi, della musica. Ci sono decine, decine e decine di ragazzi e ragazze che hanno voglia di suonare, le sale prove ci sono, ma spesso faticano ad andare avanti, la collaborazione con il Comune non mi è parsa mai produttiva. Cara Ilaria (il che mi fa effetto, mia figlia si chiama così), datti da fare. Quel che comunque mi tranquillizza è che accanto a te ci sarà quel vulcano di Daniela Bonanni, e tutti ci sentiamo più tranquilli.
Per quanto giovane, Fabio Castagna, è molto, molto esperto. Molto, molto politico. L’esperienza gli servirà con i lavori pubblici. Le richieste non mancano, e da lui mi aspetto non solo attenzione alle periferie – che passare dalle chiacchiere ai fatti è mica semplice – ma anche alle gare, agli appalti. Sì, sì, lo so. Non è competenza dell’assessore, ma del dirigente. Al di là del fatto che mi aspetto un bel giro di valzer sui dirigenti, quasi indispensabile, è anche vero che il mulo va dove lo spinge il padrone (non so se esiste questo modo di dire…). Quindi, trasparenza, chiarezza, ufficio negato agli imprenditori. E poi capitolati chiari e precisi, perizie suppletive e urgenze cancellate o quasi. Una città curata è una città più bella. E io che viaggio ti garantisco, caro Fabio, che le differenze si notano, eccome. Peraltro, diciamola tutta, sostituisci un assessore, Luigi Greco, che la città la conosce bene come la conosci tu. E non ha lavorato male.
Resta Laura Canale. Immigraziome, casa, innovazione sociale, pari opportunità. A parte l’ultimo tema che mi ha sempre fatto sorridere per la sua totale inutilità pratica, ma che sì, va bene, fa parte delle cose che si devono fare e dire per essere progressisti a parole, si tratta di un assessorato molto d’immagine. Nel senso buono, s’intende. Se Pavia sarà più bella dentro, e non solo fuori (per parafrasare una nota pubblicità), lo dovremo anche a come Laura Canale gestirà il suo assessorato. Non la conosco, quindi mi astengo da “cara”, ma suggerisco di non essere talebana. Nel senso che gli sfrattati a volte van sfrattati, gli stranieri sono ladri come sono ladri gli italiani e niente vittimismi, e vanno cacciati a pedate se rubano, che donna è bello è un motto interessante, ma il genere non migliora i contenuti, e l’innovazione sociale non significa – come volle follemente qualcuno negli anni Settanta – mettere le case popolari a fianco del teatro perché fa molto sinistra progressista. Niente “cara”, allora, ma in bocca al lupo. E che crepi.
Non mi resta molto da dire. Quindi non lo dico. Ma dalla giunta, da qualsiasi nuova giunta, mi aspetto molto. Faccio il tifo per voi, ma giusto i primi dieci giorni. Poi, darsi una mossa. Che c’è da fare. E se non lo fate, da scrivere.
La festa è già finita, spero. Caro sindaco Massimo Depaoli, vedo che ti sei tenuto le deleghe per Ecologia e Sviluppo sostenibile. So che te ne intendi, o almeno te ne intendevi. Non basta, naturalmente, andare in municipio pedalando. Quello son buoni tutti a farlo. Pensa invece che, oltre alle varie chiacchiere, Pavia sarebbe una città potenzialmente per ciclisti e pedoni, di fatto è di proprietà degli automobilisti. Quindi, vedi di darti da fare, e non spacciare il prossimo piano delle opere pubbliche come la panacea di tutti i mali. Devi intervenire subito, rapido, dando precise indicazioni alla polizia locale perché, a suon di multe e rimozioni, faccia rispettare le brutte piste ciclabili che abbiamo. Opera, subito, pensando all’ordine di priorità: pedoni, ciclisti, automobilisti. E occhio, le piste ciclabili fanno schifo anche in periferia. E se ecologia significa anche gestione dei rifiuti, dì a quelli di Asm di pensare meno ad appalti e forniture, e gestire la raccolta in modo civile. E fai partire subito il porta a porta anche in periferia. Altrimenti, caro sindaco, sono chiacchiere. Sarò più breve con gli altri assessori.
A Giuliano Ruffinazzi, che conosco da un ventennio, oltre al necessario in bocca al lupo, chiedo di fare meno il democristiano e più l’amministratore. Ha l’assessorato principe, il bilancio, e il più delicato, la polizia locale. Se sul primo le capacità di mediazione sono utili, sul secondo, per favore, vediamo di fare sul serio. Ti chiedo, a nome di tutta la città, di tenere, una volta per tutte, in considerazione un aspetto fondamentale: vanno multati, prima di tutto, quelli che creano pericolo. Non solo quelli che posteggiano senza ticket. Da sempre la polizia locale picchia duro, insieme agli ausiliari, per recuperare soldi, soldi e soldi. Posso capire, e poi le regole valgono per tutti. Ma ho due figli giovani che girano per la città, anch’io utilizzo la bicicletta, sono un pedone (nei giorni di riposo, come sai anche tu), e vorrei strade sicure. E le strade sicure si ottengono solo con comportamenti sicuri. Il che significa, per i vigili, lavorare di più, muovere il culo dalle sedie (scusa per il termine “sedie”) e non guardare in faccia a nessuno. Pensi di riuscirci, Giuliano?
Cara Alice Moggi, so bene del tuo impegno nel terzo settore, nel sociale. Quindi, va benissimo che tu sia dove ora sei. Però, per favore, adesso vedi di non prenderci troppo la mano. Non so come dirtelo elegamentente e senza sorprenderti, ma lo dico: non è vero che tutto ciò che è terzo settore è buono. C’è del terzo settore che fa pena. Non è vero che tutto ciò che è gratuito, anche se dato con il cuore, è bello. C’è tanta roba gratis che fa letteralmente schifo. Conosco gente, ma dai la conosci anche tu, che alle spalle del terzo settore e del volontariato, ha fatto i soldi. Ora, se ne parli con qualche assessore, che so, con Galazzo o la Gregorini (cioè Cultura e Turismo), ti spiegheranno, credo, che turismo e cultura non sempre stanno bene con sociale e terzo settore. Magari non la pensi così, ma potrei farti parecchi esempi. Insomma, cara Alice, non farti prendere la mano.
Oh, è arrivato anche Davide Lazzari. Te lo dico subito. Davide: i trasporti non vanno bene. La città è mal collegata. I quartieri periferici pure. Specialmente tra di loro. Conviene muoversi in auto, costa meno e fai meno fatica. Mancano le piste ciclabili che collegano un quartiere con l’altro. Non ci credi? Allora, io abito al Vallone, mia figlia ha la sua cara amica in viale Lodi, dalle parti della Riso Scotti. Prova un po’ tu ad arrivarci in bicicletta. Vivo, intendo dire. E non parliamo di arrivare, sempre vivo, in viale Cremona. Lo so che corri, lo so bene, ma parlo di biciclette, non di runners. Ah, ecco, se ne parli con Castagna (ossia Lavori pubblici) vedi di spiegargli che per salvare la vita dei ciclisti non bastano le piste ciclabili, ma ci vuole un asfalto buono (e senza tombini profondi mezzo metro) lungo le strade dove le ciclabili non ci sono. Anche qui, non è mica difficile, basta decidere quali sono le priorità. E poi, ricordati: finché sarà più veloce, semplice e conveniente muoversi in auto, nessuno utilizzerà l’autobus. Facile, no?
Non conosco bene Angelo Gualandi, ma se è chi ricordo io, beh, mi pare una ottima scelta. Non la farò troppo lunga sull’Urbanistica, che ci sarebbe da scrivere un libro. Mi limito ad un aspetto che ritengo importante anche se secondario rispetto ai fatti e misfatti che conosciamo. L’arredo urbano, che come lei mi può insegnare, fa parte del disegno complessivo di una città. Ci sono, appunto, città nazionali e internazionali che sono spesso riconoscibili dal loro arredo urbano, fondamentale specialmente per dare continuità tra i centri storici e le periferie. Facciamoci un pensierino. E poi è inutile, caro Angelo Gualandi, che le ricordi – avendo lei frequentato gli uffici pubblici – che se c’è qualcosa di sempre trasversale alla politica è il mattone facile. Per una volta, riusciranno i nostri eroi ad evitare compromissioni?
Turismo e Commercio, di cui si occupa Angela Gregorini, sono per Pavia temi essenziali, inutile che spieghi il perchè. Sta di fatto che ho sempre trovato Pavia poco accogliente per i turisti. Questione di ritardi, altre città – quando è iniziata la crisi – hanno scommesso sulle domeniche dedicate ai turisti, con negozi aperti e tante iniziative, Pavia è arrivata come al solito in ritardo. I commercianti sono una categoria di conservatori, prima non investivano perché troppo ricchi, ora non lo fanno perché mancano i soldi. Troppe domeniche, è mia opinione, mi accorgo che in città non c’è proprio niente di interessante da fare, e vado da un’altra parte. E vorrei sommessamente ricordare ad Angela che i centri commerciali non si sconfiggono trasformando la città in un parcheggio, ma offrendo alternative. E spesso le alternative, vero commercianti?, richiedono che si sborsi qualche euro. Altrimenti, andate a quel paese che io vado al centro commerciale.
Direi così, caro Giacomo Galazzo, se mi consenti: “Hey non fare il sapiente tu non sei divertente io che sono ripetente io ti tiro un fendente Forse sei deludente perché hai perso il mordente ma se trovi che ti rende tu diventa pur demente”- Ossia, la cultura cha cha cha. Allora, la cultura non è : 1) Portare tanta gente a vedere una mostra spacciandola per clamorosamente bella e poi scoprire che è robetta; 2) Questione di numeri, di densità di eventi; 3) Mettere insieme pere e mele, che la somma non sempre funziona. Ho sempre pensato che Pavia non sia identificata con un programma culturale preciso. Non serve a niente, secondo me, mettere insieme la mostra di un artista e poi la mostra di un altro se tra i due non c’è un filo logico. Insomma, la cultura va programmata, ogni anno deve avere un suo senso. Non è facile, capisco, ma possiamo provarci. E per cambiare strada, magari vanno cambiati anche i nomi, che se a gestire gli eventi, da dentro o da fuori, sono gli stessi che lo facevano nel 1996, allora qualcosa forse non va bene. Appello personale: pensiamo a qualche grande mostra fotografica e a un vero festival jazz. Ma qui siamo negli interessi personali in atti d’ufficio. Ah, la cultura non è solo di sinistra, altrimenti sai che noia…
Proseguo, allegramente, nella mia riflessione ad alta voce sulla nuova giunta. Prima, però, un passo indietro. Torno alla questione cultura. Cito, integralmente, il commento al mio precedente post fatto da tal Giorgio Montolivo che, non è ironia ovviamente, non ho il piacere di conoscere: “Ma come si può commentare “sai che novità”, a chi propone (…a titolo di esempio…) un grande festival jazz? Ci rendiamo conto di quante cose ci mancano, che potrebbero dare prestigio alla città? C’è nell’aria un misto di assuefazione alla mediocrità, se non addirittura di entusiasmo pavese da cartolina, che ci trascina sempre più lontano dai grandi progetti. Questa città arranca dietro le ultime classificate del Nord Italia. Camminiamo su ciottoli tra cui cresce l’erba, sporcati di urina, di spazzatura, di sabbia per coprire gli odori. Compriamo mostre temporanee prêt-à-porter di cui non ci rimane mai niente. E intanto la Zatti fa conversazioni con Philippe Daverio al Fraschini. Magari facessimo un festival jazz! Fosse anche il milionesimo d’Italia. Ma se fosse una cosa nuova, organizzata dalle forze migliori della città, portata nel cuore del centro storico e di cui si fosse orgogliosi di mettere il nome ‘Pavia’… faremmo certamente un passo avanti. Cominciamo dalle cose banali, scontate, ripetitive… che possono darci una spinta in avanti”. Concordo pienamente, ci pensi assessore Galazzo.
Istruzione, politiche giovanili. Beh, assessore Ilaria Cristiani, a parte il fatto che le suggerisco di farsi un baffo delle critiche per la sua presunta incompatibilità (anche se, volpi che siete, potevate anche pensarci, no?), altrimenti che noia… direi che di lavoro da fare ce n’è parecchio. Penso ai giovani. Penso ai miei due figli (e sì, si deve partire sempre dalle cose personali) e al fatto che mai, dico mai, li ho sentiti dire: eh, pa’, hai visto cosa c’è in centro? No, mai. Saranno figli strani, ma possibile che un 19enne e una 16enne non trovino film, spettacoli, concerti, mostre che li attirino. Possibile che, se c’è qualcosa, lo abbia organizzato quasi a fatica il solito SpazioMusica o qualche simpatica e squattrinata associazione di reduci dell’estrema sinistra? La sera, non solo il sabato, ho la sensazione che i ragazzi navighino in centro storico, tra Strada Nuova e corso Cavour, quasi senza rotta, da un bar all’altro, da un gradino sul quale sedere al tavolino (per chi se lo può permettere). Non parliamo, poi, della musica. Ci sono decine, decine e decine di ragazzi e ragazze che hanno voglia di suonare, le sale prove ci sono, ma spesso faticano ad andare avanti, la collaborazione con il Comune non mi è parsa mai produttiva. Cara Ilaria (il che mi fa effetto, mia figlia si chiama così), datti da fare. Quel che comunque mi tranquillizza è che accanto a te ci sarà quel vulcano di Daniela Bonanni, e tutti ci sentiamo più tranquilli.
Per quanto giovane, Fabio Castagna, è molto, molto esperto. Molto, molto politico. L’esperienza gli servirà con i lavori pubblici. Le richieste non mancano, e da lui mi aspetto non solo attenzione alle periferie – che passare dalle chiacchiere ai fatti è mica semplice – ma anche alle gare, agli appalti. Sì, sì, lo so. Non è competenza dell’assessore, ma del dirigente. Al di là del fatto che mi aspetto un bel giro di valzer sui dirigenti, quasi indispensabile, è anche vero che il mulo va dove lo spinge il padrone (non so se esiste questo modo di dire…). Quindi, trasparenza, chiarezza, ufficio negato agli imprenditori. E poi capitolati chiari e precisi, perizie suppletive e urgenze cancellate o quasi. Una città curata è una città più bella. E io che viaggio ti garantisco, caro Fabio, che le differenze si notano, eccome. Peraltro, diciamola tutta, sostituisci un assessore, Luigi Greco, che la città la conosce bene come la conosci tu. E non ha lavorato male.
Resta Laura Canale. Immigraziome, casa, innovazione sociale, pari opportunità. A parte l’ultimo tema che mi ha sempre fatto sorridere per la sua totale inutilità pratica, ma che sì, va bene, fa parte delle cose che si devono fare e dire per essere progressisti a parole, si tratta di un assessorato molto d’immagine. Nel senso buono, s’intende. Se Pavia sarà più bella dentro, e non solo fuori (per parafrasare una nota pubblicità), lo dovremo anche a come Laura Canale gestirà il suo assessorato. Non la conosco, quindi mi astengo da “cara”, ma suggerisco di non essere talebana. Nel senso che gli sfrattati a volte van sfrattati, gli stranieri sono ladri come sono ladri gli italiani e niente vittimismi, e vanno cacciati a pedate se rubano, che donna è bello è un motto interessante, ma il genere non migliora i contenuti, e l’innovazione sociale non significa – come volle follemente qualcuno negli anni Settanta – mettere le case popolari a fianco del teatro perché fa molto sinistra progressista. Niente “cara”, allora, ma in bocca al lupo. E che crepi.
Non mi resta molto da dire. Quindi non lo dico. Ma dalla giunta, da qualsiasi nuova giunta, mi aspetto molto. Faccio il tifo per voi, ma giusto i primi dieci giorni. Poi, darsi una mossa. Che c’è da fare. E se non lo fate, da scrivere.
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20.6.14
La prova del dna non è infallibile
Le cose non sono semplici come nei telefilm, e ci sono stati già molti casi di errori. Un’analisi sul caso Gambirasio
L’abbiamo pensato tutti: la svolta del caso Yara Gambirasio sembra una puntata di Csi. Il dna di interi paesi schedato, riesumazioni di cadaveri, la scoperta di figli nati fuori dal matrimonio, fino a giungere all’identità del sospettato. Nella tragedia, un trionfo di investigazione scientifica. Ma l’esame del dna è veramente infallibile?
Il dna profiling, o impronta digitale genetica, è ormai adulto: è stato inventato quasi esattamente 30 anni fa. Ci sono varie tecniche di profiling, e la ricerca continua: alcuni studi addirittura iniziano a poter ricostruire un volto a partire da campioni di dna. La maggior parte dei test comunque si concentra su particolari sequenze di dna chiamate microsatelliti. Sono zone (nel gergo dei genetisti si chiamano loci) del genoma in cui si ripete molte volte una stessa sequenza di due-cinque lettere del dna: per esempio GAGAGAGAGAGA… Le sequenze in sé non hanno un ruolo importante: quello che conta è che la lunghezza di queste zone monotone cambia in modo casuale da individuo a individuo. L’Fbi utilizza per il dna profiling tredici loci del nostro genoma, dove si concentrano i microsatelliti – contando che ciascuno di noi ha due copie del genoma in ogni cellula, abbiamo un totale di 26 microsatelliti. Mettendo insieme le lunghezze dei microsatelliti di ciascuna zona si ottiene una serie di numeri -il profilo di dna – in teoria altamente specifico per ogni individuo.
La probabilità che due profili di dna coincidano per puro caso, in teoria, va da 1 su 100 miliardi a 1 su 10mila miliardi, a seconda del test. Da qui la sua fama di bacchetta magica e inconfutabile. Purtroppo tra la teoria e la pratica c’è un abisso. L’anno scorso fino a 800 casi di stupro risolti grazie al dna, negli Usa, sono stati messi in discussione a causa dell’errore di una singola tecnica di laboratorio. Altre indagini hanno rivelato, sempre in Usa, che molti laboratori di dna profiling sono di scarsissimo livello, con personale poco o nulla specializzato. Alcuni addirittura falsificavano risultati (ahinoi, accade ovunque).
Anche facendo le cose per bene e onestamente, l’incertezza del fattore umano è inevitabile. La lettura dei microsatelliti non è sempre perfettamente precisa, e a volte profili simili (ma diversi) possono sembrare identici. I campioni in teoria dovrebbero essere incontaminati, ma ovviamente non sempre lo sono. Per esempio il dna della vittima può contaminare quello del criminale, creando un profilo ibrido, o un tecnico può accidentalmente inquinare un campione con uno analizzato poco prima. Ci sono casi più bizzarri, come quello del fantasma di Heilbronn, dove una stessa misteriosa assassina sembrava coinvolta in 40 casi in mezza Europa, a giudicare dal dna. Ma non c’era nessuna serial killer: erano i tamponi usati per raccogliere il dna a essere giunti contaminati dalla fabbrica. Molto spesso inoltre la qualità dei campioni sul luogo del delitto è troppo bassa per ottenere un profilo completo, e bisogna affidarsi a un profilo parziale -e quindi più soggetto a errori. Nel 2002 hanno messo alla prova vari laboratori di dna profiling, trovando che la percentuale di errori era molto alta: in più di 1 caso su 100, campioni che non corrispondevano sono stati considerati uguali, o viceversa. Altri test in passato hanno trovato match fasulli addirittura nel 7% dei casi!
Da questi scandali sono passati molti anni, ma qual è oggi è la percentuale di errore reale? Difficilissimo dirlo, visto che dipende dal laboratorio, dal personale, dalla qualità dei campioni e dei database, e di molti altri fattori: ma di sicuro non è di una su vari miliardi. Possiamo stimare una forbice da 1 errore su 1000 a 1 su qualche milione. Attenzione però: questa non è la probabilità di aver sbagliato colpevole (nel qual caso sarebbe comunque un test eccezionale): è solo la probabilità di trovare due profili corrispondenti. È molto facile fare confusione tra le due cose, e infatti questa cantonata ha un nome: prosecutor’s fallacy, o fallacia dell’accusatore. Le chances di aver azzeccato il colpevole possono essere molte di meno.
Come mai? Mettiamo che il nostro laboratorio sia così perfetto da trovare una coincidenza sbagliata solo in un caso su un milione. Giustamente fieri, analizziamo una banca dati del dna di tutti gli italiani, che sono circa 60 milioni, a caccia del colpevole. Quanti match troviamo? Ne troveremo uno vero: ma ne troviamo anche uno falso ogni milione: quindi circa 60. A questo punto il test del dna non ci dice affatto quale sia il vero colpevole. Se restringessimo il campo a soli 500mila sospettati – diciamo una città come Bologna- troveremmo comunque un match fasullo nel 50% dei casi – e quindi inchioderemmo un vero colpevole solo in un caso su due.
Non è solo teoria: nel periodo 2001-2006, nel Regno Unito, le ricerche effettuate nelle banche dati di profili del dna davano, da dati ufficiali, un risultato ambiguo nel 27,6% dei casi -e infatti i casi di persone arrestate per sbaglio sulla base del solo test del dna si sprecano. Altro che impronta infallibile. Nel caso di Yara Gambirasio il match iniziale inoltre era solo parziale (nonostante siano state confrontate 18mila persone), con il sospettato che è stato incastrato solo dopo una rocambolesca ricerca dei parenti. Questo tipo di indagini familiari a ritroso che partono da campioni di migliaia di persone non è una novità, ma è considerato particolarmente vulnerabile a errori statistici.
In realtà il test del dna è importante, ma solo se considerato insieme a tutti gli altri indizi. Nel caso dell’omicidio Gambirasio, ci sono altre circostanze che hanno portato all’arresto: la presenza vicino al luogo del delitto proprio il giorno dell’omicidio, per esempio, e il fatto che il sospettato sia un muratore, come l’assassino, secondo numerose tracce. Tutto questo se verificato rende più plausibile che il match del dna non sia una coincidenza: quante persone con lo stesso profilo del DNA sono coerenti anche con il resto dello scenario del delitto? Ma di nuovo, sono solo probabilità che si accumulano, non marchi d’infamia definitivi. Prima di cantare vittoria come ha fatto incautamente il ministro dell’Interno Angelino Alfano, meglio aspettare il processo.
L’abbiamo pensato tutti: la svolta del caso Yara Gambirasio sembra una puntata di Csi. Il dna di interi paesi schedato, riesumazioni di cadaveri, la scoperta di figli nati fuori dal matrimonio, fino a giungere all’identità del sospettato. Nella tragedia, un trionfo di investigazione scientifica. Ma l’esame del dna è veramente infallibile?
Il dna profiling, o impronta digitale genetica, è ormai adulto: è stato inventato quasi esattamente 30 anni fa. Ci sono varie tecniche di profiling, e la ricerca continua: alcuni studi addirittura iniziano a poter ricostruire un volto a partire da campioni di dna. La maggior parte dei test comunque si concentra su particolari sequenze di dna chiamate microsatelliti. Sono zone (nel gergo dei genetisti si chiamano loci) del genoma in cui si ripete molte volte una stessa sequenza di due-cinque lettere del dna: per esempio GAGAGAGAGAGA… Le sequenze in sé non hanno un ruolo importante: quello che conta è che la lunghezza di queste zone monotone cambia in modo casuale da individuo a individuo. L’Fbi utilizza per il dna profiling tredici loci del nostro genoma, dove si concentrano i microsatelliti – contando che ciascuno di noi ha due copie del genoma in ogni cellula, abbiamo un totale di 26 microsatelliti. Mettendo insieme le lunghezze dei microsatelliti di ciascuna zona si ottiene una serie di numeri -il profilo di dna – in teoria altamente specifico per ogni individuo.
La probabilità che due profili di dna coincidano per puro caso, in teoria, va da 1 su 100 miliardi a 1 su 10mila miliardi, a seconda del test. Da qui la sua fama di bacchetta magica e inconfutabile. Purtroppo tra la teoria e la pratica c’è un abisso. L’anno scorso fino a 800 casi di stupro risolti grazie al dna, negli Usa, sono stati messi in discussione a causa dell’errore di una singola tecnica di laboratorio. Altre indagini hanno rivelato, sempre in Usa, che molti laboratori di dna profiling sono di scarsissimo livello, con personale poco o nulla specializzato. Alcuni addirittura falsificavano risultati (ahinoi, accade ovunque).
Anche facendo le cose per bene e onestamente, l’incertezza del fattore umano è inevitabile. La lettura dei microsatelliti non è sempre perfettamente precisa, e a volte profili simili (ma diversi) possono sembrare identici. I campioni in teoria dovrebbero essere incontaminati, ma ovviamente non sempre lo sono. Per esempio il dna della vittima può contaminare quello del criminale, creando un profilo ibrido, o un tecnico può accidentalmente inquinare un campione con uno analizzato poco prima. Ci sono casi più bizzarri, come quello del fantasma di Heilbronn, dove una stessa misteriosa assassina sembrava coinvolta in 40 casi in mezza Europa, a giudicare dal dna. Ma non c’era nessuna serial killer: erano i tamponi usati per raccogliere il dna a essere giunti contaminati dalla fabbrica. Molto spesso inoltre la qualità dei campioni sul luogo del delitto è troppo bassa per ottenere un profilo completo, e bisogna affidarsi a un profilo parziale -e quindi più soggetto a errori. Nel 2002 hanno messo alla prova vari laboratori di dna profiling, trovando che la percentuale di errori era molto alta: in più di 1 caso su 100, campioni che non corrispondevano sono stati considerati uguali, o viceversa. Altri test in passato hanno trovato match fasulli addirittura nel 7% dei casi!
Da questi scandali sono passati molti anni, ma qual è oggi è la percentuale di errore reale? Difficilissimo dirlo, visto che dipende dal laboratorio, dal personale, dalla qualità dei campioni e dei database, e di molti altri fattori: ma di sicuro non è di una su vari miliardi. Possiamo stimare una forbice da 1 errore su 1000 a 1 su qualche milione. Attenzione però: questa non è la probabilità di aver sbagliato colpevole (nel qual caso sarebbe comunque un test eccezionale): è solo la probabilità di trovare due profili corrispondenti. È molto facile fare confusione tra le due cose, e infatti questa cantonata ha un nome: prosecutor’s fallacy, o fallacia dell’accusatore. Le chances di aver azzeccato il colpevole possono essere molte di meno.
Come mai? Mettiamo che il nostro laboratorio sia così perfetto da trovare una coincidenza sbagliata solo in un caso su un milione. Giustamente fieri, analizziamo una banca dati del dna di tutti gli italiani, che sono circa 60 milioni, a caccia del colpevole. Quanti match troviamo? Ne troveremo uno vero: ma ne troviamo anche uno falso ogni milione: quindi circa 60. A questo punto il test del dna non ci dice affatto quale sia il vero colpevole. Se restringessimo il campo a soli 500mila sospettati – diciamo una città come Bologna- troveremmo comunque un match fasullo nel 50% dei casi – e quindi inchioderemmo un vero colpevole solo in un caso su due.
Non è solo teoria: nel periodo 2001-2006, nel Regno Unito, le ricerche effettuate nelle banche dati di profili del dna davano, da dati ufficiali, un risultato ambiguo nel 27,6% dei casi -e infatti i casi di persone arrestate per sbaglio sulla base del solo test del dna si sprecano. Altro che impronta infallibile. Nel caso di Yara Gambirasio il match iniziale inoltre era solo parziale (nonostante siano state confrontate 18mila persone), con il sospettato che è stato incastrato solo dopo una rocambolesca ricerca dei parenti. Questo tipo di indagini familiari a ritroso che partono da campioni di migliaia di persone non è una novità, ma è considerato particolarmente vulnerabile a errori statistici.
In realtà il test del dna è importante, ma solo se considerato insieme a tutti gli altri indizi. Nel caso dell’omicidio Gambirasio, ci sono altre circostanze che hanno portato all’arresto: la presenza vicino al luogo del delitto proprio il giorno dell’omicidio, per esempio, e il fatto che il sospettato sia un muratore, come l’assassino, secondo numerose tracce. Tutto questo se verificato rende più plausibile che il match del dna non sia una coincidenza: quante persone con lo stesso profilo del DNA sono coerenti anche con il resto dello scenario del delitto? Ma di nuovo, sono solo probabilità che si accumulano, non marchi d’infamia definitivi. Prima di cantare vittoria come ha fatto incautamente il ministro dell’Interno Angelino Alfano, meglio aspettare il processo.
15.6.14
Novantatre posizioni di Alberto Arbasino
Escono da Adelphi i «Ritratti italiani».
Raffaele Manica (Il Manifesto)
Nessuna parola, tra aggettivi e sostantivi, ricorre con più frequenza nei titoli di Arbasino. La serie diceva, finora: Fratelli d’Italia, Fantasmi italiani, Paesaggi italiani con zombi. Vuol dire che lo scrittore ha visto il mondo, ma il suo paesaggio è l’Italia, il «paese senza» dove ha vissuto l’Anonimo lombardo in tutte le stagioni della sua vita. Ora alla suite si aggiunge Ritratti italiani (Adelphi «Biblioteca», pp. 552, euro 28,00; in copertina «Alberto Arbasino ritratto da Marisa Rastellini», prologo fotografico al libro: lo scrittore in altra sua età, in bianco e nero, forse nei felici Sixties, mentre legge adagiato sul divano). I ritratti sono novantatre, da Gianni Agnelli a Federico Zeri, in ordine alfabetico, e il libro è dunque una galleria rappresentativa dell’intero Novecento: il Novecento di Arbasino e il suo «paese con». Stilati di fronte o di lato, si direbbe che la fonte formale di questi ritratti sia rintracciabile in alcuni esemplari del buon vecchio giornalismo d’autore e soprattutto del new journalism (si vedano, sintomatici, i nomi di Irene Brin e di Camilla Cederna), nei modelli alti di certa letteratura (alla quale però la prosa sismica di Arbasino somiglia ben poco) e, infine e forse maggiore, in quel brano della pittura lombarda che, insegnava Longhi, sta nel capitolo «dal Moroni al Ceruti» e, al modo della scuola maggiore di Longhi, nel «Fra Galgario, di lato» di Gianni Testori.
Il libro più somigliante a Ritratti è forse Sessanta posizioni, utilizzato per precedenti risistemazioni (per esempio America amore) nel continuo updating che si conosce (non solo riscrittura stilistica o linguistica, ma di pensiero e di memoria), smembrato e congedato, però persistentemente cult. Nel confronto, Ritratti mostra come, nella mutazione di clima culturale, siano diversi disposizione e sentimento delle cose: ciò che era in presa diretta è ora materia ancora viva però a freddo, base per una autobiografia intellettuale per interposti fatti e persone, al modo di Marescialle e libertini, sezione dei mémoires in divenire. I pezzi non recano date. Non si sa quando siano avvenuti gli incontri né quando siano stati scritti i capitoli: incontriamo un giovane Gianni Morandi e molti agiscono da vivi, come più non sono. Tale rapporto con le date e la cronologia è tratto si direbbe innato dell’autore come coltivatore di memorie e utilizzatore di suoi archivi: comporre a strati successivi, con aggiunte e ritorni, e ritocchi. La musa è l’occasione, e compito del poeta è che l’occasione divenga persistenza e che trovi significato in un campo di relazioni. Ma sappiamo che il libro, nel suo insieme, avvolto dalla copertina carta da zucchero, reca la data di oggi.
Perciò Ritratti italiani è lo stato odierno della memoria di Arbasino: memoria, non va nemmeno aggiunto, privata solo per accidente, e resa pubblica in quanto memoria di epoche e contesti, di climi culturali e di colori del tempo andato. Questo libro di memorie che si affollano e di qua e di là, tirando a destra e a manca e sopra e sotto chi legge, prende stabilità come galleria di ritratti dal nome posto in testa a ogni singolo capitolo: indicatore di direzione, ogni nome funziona prima come segnaletica, poi diventa un addensante, un esaltatore di sapidità, un filtro che trattiene o rilascia; nulla evapora, ma tutto si condensa, e ben s’impingua. Alcuni degli estremi tra i quali oscilla l’indicatore: contesto e aneddoto, antropologia e cronaca, storia e gossip. L’ago del sismografo segna il minimo colpo, ma quasi prima che ne dia rendiconto ci si accorge che il sismografo e il territorio in movimento sono la stessa cosa. Perciò, per esempio, gioco accattivante, ma facile troppo, sarebbe una ricognizione o una semplice infilzatura di aneddoti; non sarebbe errata a scorgere il tono del tomo, però sarebbe largamente insufficiente a delinearne la portata. Invece, siccome Arbasino colloca l’uno accanto all’altro elementi diversi – il suo procedimento è simile alla diffrazione della luce, che si parcellizza ma che è unica – non di rado si scorgono luminescenze accanto a quella che viene annunciata come la via principale. Per esempio, nelle mirabili pagine su Longhi, c’è una segnalazione su uno dei modi di leggere Croce; e nelle stesse pagine ci sono osservazioni su Contini proprio non trascurabili e che magari nella memoria del lettore correranno anche leggendo il capitolo su Contini, dove non ci sono. Il ritratto di Torino che prepara un incontro con Bobbio lascia cadere un’osservazione sulla sintassi di Hemingway e così via; e anche microscopicamente si hanno infinite conferme di accostamenti di piani stilisticamente e concettualmente lontani, come nella fisicità deplorevole di certi antichi siciliani nel capitolo su Fulco Verdura. Questi accostamenti inattesi e di efficacia immediata sono, certo, anche una delle ricette del comico. Perciò, altro avviso ai naviganti in mare aperto.
Si rischia sempre di ridurre Arbasino a ottimo fabbro di battute, ricordando alcune sue peraltro memorabili sintesi, delle quali Ritratti è una miniera; si tratta di un rischio condiviso con altri moralisti di vena all’apparenza comica, dall’immenso Belli a Flaiano: pericolo maggiore nell’uso giornalistico. Non è detto che tale libera estrapolazione non abbia una sua legittimità, ma la vena ha sangue ora malinconioso ora bilioso, per quanto sublimato e talvolta improvvisamente euforico; sicché il discorso così spezzettato, buono come il prezzemolo a ogni minestra, finisce per negare il tessuto in cui quelle sintesi prendono corpo e forma, le assolutizza e le riduce a meno di quel che sono, per quanto l’effetto immediato possa restare fulminante. La battuta è l’antiinfiammatorio, il vicolo per la fuga immediata; al termine si spalancano autostrade con varie corsie per ogni senso di marcia, nelle quali ci si azzarda a itinerari contromano; e rotatorie, e incroci, cunette, rare assai aree di sosta e parcheggi mai: la scrittura di Arbasino si muove sempre, ha bisogno del movimento che è la sua forma propria. Che si trova, si solidifica e poi riparte senza sonno.
Né, in coda, si vuol mancare di rilevare come, grande letteratura, Ritratti sia anche un libro di educazione civica e politica, come lo è ogni osservatorio di costumi. Non si rischiasse di essere fraintesi, lo si dichiarerebbe dominato da un tratto pedagogico, impassibilmente sostenuto, anche nei suoi rivoli più pop e più camp, da intensa pietà e trattenuta commozione verso le cose che svaniscono, da ricordare la mano del curatore di erbari mentre impedisce, con pudore e amore, che le piante diventino povera polvere. Infine, la valutazione di Ritratti italiani si vuole toglierla da dentro il libro stesso, sostituendo al nome del ritrattato quello del ritrattista: «Si fa presto, a dire comunemente: il piacere del testo. Ma quando il testo è Arbasino, i piaceri sono numerosi, e deliziosi. Il diletto dell’erudizione smisurata, proliferante, intersecante, e giustamente bizzarra, con tutte le sue eccentricità giuste – e qualcuna in più. Ancora la voluttà di una sovrana squisita leggerezza, che tutto o quasi può permettersi, perché agisce talmente (e totalmente) dall’alto. Sono doti sempre più insolite in una cultura come la nostra che pure ha avuto personaggi di personalità e charme incantevoli: R. Longhi, M. Praz, C. Brandi, G. Contini, G. Macchia. […]. Ma, finalmente, il testo. Arbasino même, in person, in concert, live. […]Ghiotto, rigoglioso. Succulento e dry». Un po’ Stravinsky un po’ Miles Davis.
Raffaele Manica (Il Manifesto)
Nessuna parola, tra aggettivi e sostantivi, ricorre con più frequenza nei titoli di Arbasino. La serie diceva, finora: Fratelli d’Italia, Fantasmi italiani, Paesaggi italiani con zombi. Vuol dire che lo scrittore ha visto il mondo, ma il suo paesaggio è l’Italia, il «paese senza» dove ha vissuto l’Anonimo lombardo in tutte le stagioni della sua vita. Ora alla suite si aggiunge Ritratti italiani (Adelphi «Biblioteca», pp. 552, euro 28,00; in copertina «Alberto Arbasino ritratto da Marisa Rastellini», prologo fotografico al libro: lo scrittore in altra sua età, in bianco e nero, forse nei felici Sixties, mentre legge adagiato sul divano). I ritratti sono novantatre, da Gianni Agnelli a Federico Zeri, in ordine alfabetico, e il libro è dunque una galleria rappresentativa dell’intero Novecento: il Novecento di Arbasino e il suo «paese con». Stilati di fronte o di lato, si direbbe che la fonte formale di questi ritratti sia rintracciabile in alcuni esemplari del buon vecchio giornalismo d’autore e soprattutto del new journalism (si vedano, sintomatici, i nomi di Irene Brin e di Camilla Cederna), nei modelli alti di certa letteratura (alla quale però la prosa sismica di Arbasino somiglia ben poco) e, infine e forse maggiore, in quel brano della pittura lombarda che, insegnava Longhi, sta nel capitolo «dal Moroni al Ceruti» e, al modo della scuola maggiore di Longhi, nel «Fra Galgario, di lato» di Gianni Testori.
Il libro più somigliante a Ritratti è forse Sessanta posizioni, utilizzato per precedenti risistemazioni (per esempio America amore) nel continuo updating che si conosce (non solo riscrittura stilistica o linguistica, ma di pensiero e di memoria), smembrato e congedato, però persistentemente cult. Nel confronto, Ritratti mostra come, nella mutazione di clima culturale, siano diversi disposizione e sentimento delle cose: ciò che era in presa diretta è ora materia ancora viva però a freddo, base per una autobiografia intellettuale per interposti fatti e persone, al modo di Marescialle e libertini, sezione dei mémoires in divenire. I pezzi non recano date. Non si sa quando siano avvenuti gli incontri né quando siano stati scritti i capitoli: incontriamo un giovane Gianni Morandi e molti agiscono da vivi, come più non sono. Tale rapporto con le date e la cronologia è tratto si direbbe innato dell’autore come coltivatore di memorie e utilizzatore di suoi archivi: comporre a strati successivi, con aggiunte e ritorni, e ritocchi. La musa è l’occasione, e compito del poeta è che l’occasione divenga persistenza e che trovi significato in un campo di relazioni. Ma sappiamo che il libro, nel suo insieme, avvolto dalla copertina carta da zucchero, reca la data di oggi.
Perciò Ritratti italiani è lo stato odierno della memoria di Arbasino: memoria, non va nemmeno aggiunto, privata solo per accidente, e resa pubblica in quanto memoria di epoche e contesti, di climi culturali e di colori del tempo andato. Questo libro di memorie che si affollano e di qua e di là, tirando a destra e a manca e sopra e sotto chi legge, prende stabilità come galleria di ritratti dal nome posto in testa a ogni singolo capitolo: indicatore di direzione, ogni nome funziona prima come segnaletica, poi diventa un addensante, un esaltatore di sapidità, un filtro che trattiene o rilascia; nulla evapora, ma tutto si condensa, e ben s’impingua. Alcuni degli estremi tra i quali oscilla l’indicatore: contesto e aneddoto, antropologia e cronaca, storia e gossip. L’ago del sismografo segna il minimo colpo, ma quasi prima che ne dia rendiconto ci si accorge che il sismografo e il territorio in movimento sono la stessa cosa. Perciò, per esempio, gioco accattivante, ma facile troppo, sarebbe una ricognizione o una semplice infilzatura di aneddoti; non sarebbe errata a scorgere il tono del tomo, però sarebbe largamente insufficiente a delinearne la portata. Invece, siccome Arbasino colloca l’uno accanto all’altro elementi diversi – il suo procedimento è simile alla diffrazione della luce, che si parcellizza ma che è unica – non di rado si scorgono luminescenze accanto a quella che viene annunciata come la via principale. Per esempio, nelle mirabili pagine su Longhi, c’è una segnalazione su uno dei modi di leggere Croce; e nelle stesse pagine ci sono osservazioni su Contini proprio non trascurabili e che magari nella memoria del lettore correranno anche leggendo il capitolo su Contini, dove non ci sono. Il ritratto di Torino che prepara un incontro con Bobbio lascia cadere un’osservazione sulla sintassi di Hemingway e così via; e anche microscopicamente si hanno infinite conferme di accostamenti di piani stilisticamente e concettualmente lontani, come nella fisicità deplorevole di certi antichi siciliani nel capitolo su Fulco Verdura. Questi accostamenti inattesi e di efficacia immediata sono, certo, anche una delle ricette del comico. Perciò, altro avviso ai naviganti in mare aperto.
Si rischia sempre di ridurre Arbasino a ottimo fabbro di battute, ricordando alcune sue peraltro memorabili sintesi, delle quali Ritratti è una miniera; si tratta di un rischio condiviso con altri moralisti di vena all’apparenza comica, dall’immenso Belli a Flaiano: pericolo maggiore nell’uso giornalistico. Non è detto che tale libera estrapolazione non abbia una sua legittimità, ma la vena ha sangue ora malinconioso ora bilioso, per quanto sublimato e talvolta improvvisamente euforico; sicché il discorso così spezzettato, buono come il prezzemolo a ogni minestra, finisce per negare il tessuto in cui quelle sintesi prendono corpo e forma, le assolutizza e le riduce a meno di quel che sono, per quanto l’effetto immediato possa restare fulminante. La battuta è l’antiinfiammatorio, il vicolo per la fuga immediata; al termine si spalancano autostrade con varie corsie per ogni senso di marcia, nelle quali ci si azzarda a itinerari contromano; e rotatorie, e incroci, cunette, rare assai aree di sosta e parcheggi mai: la scrittura di Arbasino si muove sempre, ha bisogno del movimento che è la sua forma propria. Che si trova, si solidifica e poi riparte senza sonno.
Né, in coda, si vuol mancare di rilevare come, grande letteratura, Ritratti sia anche un libro di educazione civica e politica, come lo è ogni osservatorio di costumi. Non si rischiasse di essere fraintesi, lo si dichiarerebbe dominato da un tratto pedagogico, impassibilmente sostenuto, anche nei suoi rivoli più pop e più camp, da intensa pietà e trattenuta commozione verso le cose che svaniscono, da ricordare la mano del curatore di erbari mentre impedisce, con pudore e amore, che le piante diventino povera polvere. Infine, la valutazione di Ritratti italiani si vuole toglierla da dentro il libro stesso, sostituendo al nome del ritrattato quello del ritrattista: «Si fa presto, a dire comunemente: il piacere del testo. Ma quando il testo è Arbasino, i piaceri sono numerosi, e deliziosi. Il diletto dell’erudizione smisurata, proliferante, intersecante, e giustamente bizzarra, con tutte le sue eccentricità giuste – e qualcuna in più. Ancora la voluttà di una sovrana squisita leggerezza, che tutto o quasi può permettersi, perché agisce talmente (e totalmente) dall’alto. Sono doti sempre più insolite in una cultura come la nostra che pure ha avuto personaggi di personalità e charme incantevoli: R. Longhi, M. Praz, C. Brandi, G. Contini, G. Macchia. […]. Ma, finalmente, il testo. Arbasino même, in person, in concert, live. […]Ghiotto, rigoglioso. Succulento e dry». Un po’ Stravinsky un po’ Miles Davis.
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28.5.14
Bisogna saper perdereBisogna saper perdere
StellaDagli sberleffi alle accuse agli elettori. Il leader Grillo che ora attribuisce la colpa ai pensionati
di Gian Antonio Stella
Non sa vincere, non sa perdere. Lo sfogo di Beppe Grillo contro l’Italia di «generazioni di pensionati che forse non hanno voglia di cambiare, di pensare un po’ ai loro nipoti, ai loro figli, ma preferiscono stare così», somiglia a una battuta di Corrado Guzzanti: «Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli ‘sti benedetti elettori». Ed è uno sfogo, infelicissimo, che conferma: il guru pentastellato, incapace di mettere a frutto il trionfo elettorale del 2013, non sa gestire neppure la sconfitta. Così come molti grillini. Che possono anche consolarsi leggendo nel blog che «Cinzia Ferri è stata eletta sindaco con il M5S nella cittadina di Montelabbate» ma appaiono incapaci di chiedersi: dove abbiamo sbagliato, noi, per perdere in un anno quasi tre milioni di voti?
Tutta colpa di «sedici milioni di elettori per gran parte suore di clausura, preti, beghine e paralitici», urlò il comunista Fausto Gullo dopo la bastonata subita dal Fronte Popolare nel ‘48. «Ma non rompetemi le scatole, sto guardando 90° minuto!», sbuffò Mino Martinazzoli coi cronisti che si assiepavano al cancello di casa sua la sera del crollo della Dc nel ‘94.
«Meglio così. Sono contento d’aver perso Milano. Adesso ho le mani libere. Non potevamo vincere perché a Milano e a Torino ci sono troppi terroni venuti a colonizzare il Nord», barrì Umberto Bossi dopo il disastro alle comunali del ‘97, «Del resto nel ‘93 non fui molto contento di aver conquistato Milano perché questo ci legava le mani. Questi terroni ingrati, pur di non liberare il nord dalla schiavitù di Roma, avrebbero votato anche un pezzo di merda. Quei terroni d’ora in avanti bisognerà guardarli malissimo. Quei magistrati, quegli insegnanti, via, pussa!».
«Sono dei deficienti. Egoisti. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori. Questa gente non è stupida. E’ peggio: ignorante e plebea. Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo», sbraitò Vittorio Sgarbi dopo esser stato silurato in Veneto. «La gente si è sbagliata, erano giusti gli exit poll», sospirò Silvio Berlusconi dopo aver perso una tornata di elezioni amministrative. «Queste elezioni non contano, era in ballo il sindaco di Pizzighettone!», fece spallucce dopo una debacle alle comunali in cui erano in ballo Bari, Bologna, Firenze, Padova, Bergamo, Mantova, Perugia...
Il capopopolo genovese, insomma, è in buona compagnia. E in buona compagnia sarebbe anche se facessimo l’elenco di quanti, dopo una vittoria, hanno esibito tanta boria (suicida) da ricordare quanto scrisse Polibio ne «Le storie» raccontando di Scipione in Spagna: «È più difficile far buon uso della vittoria, che vincere».
Ma ve lo ricordate poco più di un anno fa dopo avere sfondato alle politiche? Il rifiuto di ogni contatto coi giornalisti italiani messi tutti nel mucchio dei «servi del regime» e destinati più tardi ad essere sottoposti a un «processo popolare». Le barricate in casa come le dive hollywoodiane: «Parlo solo con la stampa straniera». Le passeggiate in spiaggia con una specie di tuta spaziale che gli occultava il viso. Il raduno «clandestino» dei neo parlamentari a piazzale Flaminio per andare in pullman all’agriturismo «La Quiete» (un nome, un programma politico) per un incontro riservato senza la diretta streaming promessa come prova di trasparenza. La «diretta» imposta a Pierluigi Bersani, sbertucciato da Roberta Lombardi: « Sembra una puntata di Ballarò... Noi non incontriamo le parti sociali perché siamo le parti sociali. Cittadini, lavoratori, cassintegrati, studenti fuori sede... » E poi l’incontro al Quirinale marcato dalla confidenza di Vito Crimi: «Napolitano è stato attento, non si è addormentato. Beppe è stato capace di tenerlo abbastanza sveglio». E i silenzi complici sui senatori grillini che confidavano di andare a Palazzo Madama con la boccetta di disinfettante per lavarsi nel caso gli scappasse di dar la mano a certi colleghi. E le randellate contro la libertà di coscienza garantita a ogni parlamentare: «Insomma, l’eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare». Le espulsioni a raffica di ogni dissidente.
E poi ancora l’avanti e indrè sul Porcellum, prima bollato come la peste che ha consentito ai partiti «di nominare chi volevano» trasformando Camera e Senato «in plotoni di ubbidienti soldatini a comando» ma più tardi accettato pur di andar subito alle elezioni: «Ogni voto un calcio in culo ai parassiti e incapaci che hanno distrutto il Paese. La legge elettorale la cambierà il M5S quando sarà al governo». E gli insulti al Parlamento: «È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica».
E come dimenticare il giorno in cui il Parlamento, per uscire dall’impasse, decise di rieleggere Napolitano? Convocò via web la piazza con toni apocalittici: «Ci sono momenti decisivi nella storia di una Nazione. È in atto un colpo di Stato. Pur di impedire un cambiamento sono disposti a tutto. Sono disperati. Quattro persone: Napolitano, Bersani, Berlusconi e Monti si sono incontrate in un salotto e hanno deciso di mantenere Napolitano al Quirinale, di nominare Amato presidente del Consiglio...» Ciò detto chiamò tutti all’adunata: «Ho terminato la campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia e sto arrivando. Sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese». Dopodiché, dieci minuti dopo le otto, mandò un post scriptum: «Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...» Buona notte.
E via così, per mesi e mesi. Insultando tutti. Di urlo in urlo. Fino all’escalation delle ultime settimane. La vivisezione per Dudù e lo «Psiconano». L’evocazione della «peste rossa». La minaccia dei processi di piazza. La lupara bianca per Renzi, «l’ebetino che è andato a dare due linguate a quel culone tedesco della Merkel»... Spiegò un giorno Simon Bolivar, el Libertador del Sud America spagnolo: «L’arte di vincere si impara nelle sconfitte». Per ora, a Beppe Grillo e a tanti grillini che rovesciano insulti sul blog contro il «popolo di pecoroni» cui nel 78 percento dei casi «va bene il sistema del finanziamento pubblico, della corruzione, della disonestà», non è successo. E non basta un pizzico di auto-ironia sul Maalox... Non sa vincere, non sa perdere. Lo sfogo di Beppe Grillo contro l’Italia di «generazioni di pensionati che forse non hanno voglia di cambiare, di pensare un po’ ai loro nipoti, ai loro figli, ma preferiscono stare così», somiglia a una battuta di Corrado Guzzanti: «Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli ‘sti benedetti elettori». Ed è uno sfogo, infelicissimo, che conferma: il guru pentastellato, incapace di mettere a frutto il trionfo elettorale del 2013, non sa gestire neppure la sconfitta. Così come molti grillini. Che possono anche consolarsi leggendo nel blog che «Cinzia Ferri è stata eletta sindaco con il M5S nella cittadina di Montelabbate» ma appaiono incapaci di chiedersi: dove abbiamo sbagliato, noi, per perdere in un anno quasi tre milioni di voti?
Tutta colpa di «sedici milioni di elettori per gran parte suore di clausura, preti, beghine e paralitici», urlò il comunista Fausto Gullo dopo la bastonata subita dal Fronte Popolare nel ‘48. «Ma non rompetemi le scatole, sto guardando 90° minuto!», sbuffò Mino Martinazzoli coi cronisti che si assiepavano al cancello di casa sua la sera del crollo della Dc nel ‘94.
«Meglio così. Sono contento d’aver perso Milano. Adesso ho le mani libere. Non potevamo vincere perché a Milano e a Torino ci sono troppi terroni venuti a colonizzare il Nord», barrì Umberto Bossi dopo il disastro alle comunali del ‘97, «Del resto nel ‘93 non fui molto contento di aver conquistato Milano perché questo ci legava le mani. Questi terroni ingrati, pur di non liberare il nord dalla schiavitù di Roma, avrebbero votato anche un pezzo di merda. Quei terroni d’ora in avanti bisognerà guardarli malissimo. Quei magistrati, quegli insegnanti, via, pussa!».
«Sono dei deficienti. Egoisti. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori. Questa gente non è stupida. E’ peggio: ignorante e plebea. Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo», sbraitò Vittorio Sgarbi dopo esser stato silurato in Veneto. «La gente si è sbagliata, erano giusti gli exit poll», sospirò Silvio Berlusconi dopo aver perso una tornata di elezioni amministrative. «Queste elezioni non contano, era in ballo il sindaco di Pizzighettone!», fece spallucce dopo una debacle alle comunali in cui erano in ballo Bari, Bologna, Firenze, Padova, Bergamo, Mantova, Perugia...
Il capopopolo genovese, insomma, è in buona compagnia. E in buona compagnia sarebbe anche se facessimo l’elenco di quanti, dopo una vittoria, hanno esibito tanta boria (suicida) da ricordare quanto scrisse Polibio ne «Le storie» raccontando di Scipione in Spagna: «È più difficile far buon uso della vittoria, che vincere».
Ma ve lo ricordate poco più di un anno fa dopo avere sfondato alle politiche? Il rifiuto di ogni contatto coi giornalisti italiani messi tutti nel mucchio dei «servi del regime» e destinati più tardi ad essere sottoposti a un «processo popolare». Le barricate in casa come le dive hollywoodiane: «Parlo solo con la stampa straniera». Le passeggiate in spiaggia con una specie di tuta spaziale che gli occultava il viso. Il raduno «clandestino» dei neo parlamentari a piazzale Flaminio per andare in pullman all’agriturismo «La Quiete» (un nome, un programma politico) per un incontro riservato senza la diretta streaming promessa come prova di trasparenza. La «diretta» imposta a Pierluigi Bersani, sbertucciato da Roberta Lombardi: « Sembra una puntata di Ballarò... Noi non incontriamo le parti sociali perché siamo le parti sociali. Cittadini, lavoratori, cassintegrati, studenti fuori sede... » E poi l’incontro al Quirinale marcato dalla confidenza di Vito Crimi: «Napolitano è stato attento, non si è addormentato. Beppe è stato capace di tenerlo abbastanza sveglio». E i silenzi complici sui senatori grillini che confidavano di andare a Palazzo Madama con la boccetta di disinfettante per lavarsi nel caso gli scappasse di dar la mano a certi colleghi. E le randellate contro la libertà di coscienza garantita a ogni parlamentare: «Insomma, l’eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare». Le espulsioni a raffica di ogni dissidente.
E poi ancora l’avanti e indrè sul Porcellum, prima bollato come la peste che ha consentito ai partiti «di nominare chi volevano» trasformando Camera e Senato «in plotoni di ubbidienti soldatini a comando» ma più tardi accettato pur di andar subito alle elezioni: «Ogni voto un calcio in culo ai parassiti e incapaci che hanno distrutto il Paese. La legge elettorale la cambierà il M5S quando sarà al governo». E gli insulti al Parlamento: «È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica».
E come dimenticare il giorno in cui il Parlamento, per uscire dall’impasse, decise di rieleggere Napolitano? Convocò via web la piazza con toni apocalittici: «Ci sono momenti decisivi nella storia di una Nazione. È in atto un colpo di Stato. Pur di impedire un cambiamento sono disposti a tutto. Sono disperati. Quattro persone: Napolitano, Bersani, Berlusconi e Monti si sono incontrate in un salotto e hanno deciso di mantenere Napolitano al Quirinale, di nominare Amato presidente del Consiglio...» Ciò detto chiamò tutti all’adunata: «Ho terminato la campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia e sto arrivando. Sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese». Dopodiché, dieci minuti dopo le otto, mandò un post scriptum: «Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...» Buona notte.
E via così, per mesi e mesi. Insultando tutti. Di urlo in urlo. Fino all’escalation delle ultime settimane. La vivisezione per Dudù e lo «Psiconano». L’evocazione della «peste rossa». La minaccia dei processi di piazza. La lupara bianca per Renzi, «l’ebetino che è andato a dare due linguate a quel culone tedesco della Merkel»... Spiegò un giorno Simon Bolivar, el Libertador del Sud America spagnolo: «L’arte di vincere si impara nelle sconfitte». Per ora, a Beppe Grillo e a tanti grillini che rovesciano insulti sul blog contro il «popolo di pecoroni» cui nel 78 percento dei casi «va bene il sistema del finanziamento pubblico, della corruzione, della disonestà», non è successo. E non basta un pizzico di auto-ironia sul Maalox...
di Gian Antonio Stella
Non sa vincere, non sa perdere. Lo sfogo di Beppe Grillo contro l’Italia di «generazioni di pensionati che forse non hanno voglia di cambiare, di pensare un po’ ai loro nipoti, ai loro figli, ma preferiscono stare così», somiglia a una battuta di Corrado Guzzanti: «Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli ‘sti benedetti elettori». Ed è uno sfogo, infelicissimo, che conferma: il guru pentastellato, incapace di mettere a frutto il trionfo elettorale del 2013, non sa gestire neppure la sconfitta. Così come molti grillini. Che possono anche consolarsi leggendo nel blog che «Cinzia Ferri è stata eletta sindaco con il M5S nella cittadina di Montelabbate» ma appaiono incapaci di chiedersi: dove abbiamo sbagliato, noi, per perdere in un anno quasi tre milioni di voti?
Tutta colpa di «sedici milioni di elettori per gran parte suore di clausura, preti, beghine e paralitici», urlò il comunista Fausto Gullo dopo la bastonata subita dal Fronte Popolare nel ‘48. «Ma non rompetemi le scatole, sto guardando 90° minuto!», sbuffò Mino Martinazzoli coi cronisti che si assiepavano al cancello di casa sua la sera del crollo della Dc nel ‘94.
«Meglio così. Sono contento d’aver perso Milano. Adesso ho le mani libere. Non potevamo vincere perché a Milano e a Torino ci sono troppi terroni venuti a colonizzare il Nord», barrì Umberto Bossi dopo il disastro alle comunali del ‘97, «Del resto nel ‘93 non fui molto contento di aver conquistato Milano perché questo ci legava le mani. Questi terroni ingrati, pur di non liberare il nord dalla schiavitù di Roma, avrebbero votato anche un pezzo di merda. Quei terroni d’ora in avanti bisognerà guardarli malissimo. Quei magistrati, quegli insegnanti, via, pussa!».
«Sono dei deficienti. Egoisti. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori. Questa gente non è stupida. E’ peggio: ignorante e plebea. Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo», sbraitò Vittorio Sgarbi dopo esser stato silurato in Veneto. «La gente si è sbagliata, erano giusti gli exit poll», sospirò Silvio Berlusconi dopo aver perso una tornata di elezioni amministrative. «Queste elezioni non contano, era in ballo il sindaco di Pizzighettone!», fece spallucce dopo una debacle alle comunali in cui erano in ballo Bari, Bologna, Firenze, Padova, Bergamo, Mantova, Perugia...
Il capopopolo genovese, insomma, è in buona compagnia. E in buona compagnia sarebbe anche se facessimo l’elenco di quanti, dopo una vittoria, hanno esibito tanta boria (suicida) da ricordare quanto scrisse Polibio ne «Le storie» raccontando di Scipione in Spagna: «È più difficile far buon uso della vittoria, che vincere».
Ma ve lo ricordate poco più di un anno fa dopo avere sfondato alle politiche? Il rifiuto di ogni contatto coi giornalisti italiani messi tutti nel mucchio dei «servi del regime» e destinati più tardi ad essere sottoposti a un «processo popolare». Le barricate in casa come le dive hollywoodiane: «Parlo solo con la stampa straniera». Le passeggiate in spiaggia con una specie di tuta spaziale che gli occultava il viso. Il raduno «clandestino» dei neo parlamentari a piazzale Flaminio per andare in pullman all’agriturismo «La Quiete» (un nome, un programma politico) per un incontro riservato senza la diretta streaming promessa come prova di trasparenza. La «diretta» imposta a Pierluigi Bersani, sbertucciato da Roberta Lombardi: « Sembra una puntata di Ballarò... Noi non incontriamo le parti sociali perché siamo le parti sociali. Cittadini, lavoratori, cassintegrati, studenti fuori sede... » E poi l’incontro al Quirinale marcato dalla confidenza di Vito Crimi: «Napolitano è stato attento, non si è addormentato. Beppe è stato capace di tenerlo abbastanza sveglio». E i silenzi complici sui senatori grillini che confidavano di andare a Palazzo Madama con la boccetta di disinfettante per lavarsi nel caso gli scappasse di dar la mano a certi colleghi. E le randellate contro la libertà di coscienza garantita a ogni parlamentare: «Insomma, l’eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare». Le espulsioni a raffica di ogni dissidente.
E poi ancora l’avanti e indrè sul Porcellum, prima bollato come la peste che ha consentito ai partiti «di nominare chi volevano» trasformando Camera e Senato «in plotoni di ubbidienti soldatini a comando» ma più tardi accettato pur di andar subito alle elezioni: «Ogni voto un calcio in culo ai parassiti e incapaci che hanno distrutto il Paese. La legge elettorale la cambierà il M5S quando sarà al governo». E gli insulti al Parlamento: «È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica».
E come dimenticare il giorno in cui il Parlamento, per uscire dall’impasse, decise di rieleggere Napolitano? Convocò via web la piazza con toni apocalittici: «Ci sono momenti decisivi nella storia di una Nazione. È in atto un colpo di Stato. Pur di impedire un cambiamento sono disposti a tutto. Sono disperati. Quattro persone: Napolitano, Bersani, Berlusconi e Monti si sono incontrate in un salotto e hanno deciso di mantenere Napolitano al Quirinale, di nominare Amato presidente del Consiglio...» Ciò detto chiamò tutti all’adunata: «Ho terminato la campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia e sto arrivando. Sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese». Dopodiché, dieci minuti dopo le otto, mandò un post scriptum: «Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...» Buona notte.
E via così, per mesi e mesi. Insultando tutti. Di urlo in urlo. Fino all’escalation delle ultime settimane. La vivisezione per Dudù e lo «Psiconano». L’evocazione della «peste rossa». La minaccia dei processi di piazza. La lupara bianca per Renzi, «l’ebetino che è andato a dare due linguate a quel culone tedesco della Merkel»... Spiegò un giorno Simon Bolivar, el Libertador del Sud America spagnolo: «L’arte di vincere si impara nelle sconfitte». Per ora, a Beppe Grillo e a tanti grillini che rovesciano insulti sul blog contro il «popolo di pecoroni» cui nel 78 percento dei casi «va bene il sistema del finanziamento pubblico, della corruzione, della disonestà», non è successo. E non basta un pizzico di auto-ironia sul Maalox... Non sa vincere, non sa perdere. Lo sfogo di Beppe Grillo contro l’Italia di «generazioni di pensionati che forse non hanno voglia di cambiare, di pensare un po’ ai loro nipoti, ai loro figli, ma preferiscono stare così», somiglia a una battuta di Corrado Guzzanti: «Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli ‘sti benedetti elettori». Ed è uno sfogo, infelicissimo, che conferma: il guru pentastellato, incapace di mettere a frutto il trionfo elettorale del 2013, non sa gestire neppure la sconfitta. Così come molti grillini. Che possono anche consolarsi leggendo nel blog che «Cinzia Ferri è stata eletta sindaco con il M5S nella cittadina di Montelabbate» ma appaiono incapaci di chiedersi: dove abbiamo sbagliato, noi, per perdere in un anno quasi tre milioni di voti?
Tutta colpa di «sedici milioni di elettori per gran parte suore di clausura, preti, beghine e paralitici», urlò il comunista Fausto Gullo dopo la bastonata subita dal Fronte Popolare nel ‘48. «Ma non rompetemi le scatole, sto guardando 90° minuto!», sbuffò Mino Martinazzoli coi cronisti che si assiepavano al cancello di casa sua la sera del crollo della Dc nel ‘94.
«Meglio così. Sono contento d’aver perso Milano. Adesso ho le mani libere. Non potevamo vincere perché a Milano e a Torino ci sono troppi terroni venuti a colonizzare il Nord», barrì Umberto Bossi dopo il disastro alle comunali del ‘97, «Del resto nel ‘93 non fui molto contento di aver conquistato Milano perché questo ci legava le mani. Questi terroni ingrati, pur di non liberare il nord dalla schiavitù di Roma, avrebbero votato anche un pezzo di merda. Quei terroni d’ora in avanti bisognerà guardarli malissimo. Quei magistrati, quegli insegnanti, via, pussa!».
«Sono dei deficienti. Egoisti. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori. Questa gente non è stupida. E’ peggio: ignorante e plebea. Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo», sbraitò Vittorio Sgarbi dopo esser stato silurato in Veneto. «La gente si è sbagliata, erano giusti gli exit poll», sospirò Silvio Berlusconi dopo aver perso una tornata di elezioni amministrative. «Queste elezioni non contano, era in ballo il sindaco di Pizzighettone!», fece spallucce dopo una debacle alle comunali in cui erano in ballo Bari, Bologna, Firenze, Padova, Bergamo, Mantova, Perugia...
Il capopopolo genovese, insomma, è in buona compagnia. E in buona compagnia sarebbe anche se facessimo l’elenco di quanti, dopo una vittoria, hanno esibito tanta boria (suicida) da ricordare quanto scrisse Polibio ne «Le storie» raccontando di Scipione in Spagna: «È più difficile far buon uso della vittoria, che vincere».
Ma ve lo ricordate poco più di un anno fa dopo avere sfondato alle politiche? Il rifiuto di ogni contatto coi giornalisti italiani messi tutti nel mucchio dei «servi del regime» e destinati più tardi ad essere sottoposti a un «processo popolare». Le barricate in casa come le dive hollywoodiane: «Parlo solo con la stampa straniera». Le passeggiate in spiaggia con una specie di tuta spaziale che gli occultava il viso. Il raduno «clandestino» dei neo parlamentari a piazzale Flaminio per andare in pullman all’agriturismo «La Quiete» (un nome, un programma politico) per un incontro riservato senza la diretta streaming promessa come prova di trasparenza. La «diretta» imposta a Pierluigi Bersani, sbertucciato da Roberta Lombardi: « Sembra una puntata di Ballarò... Noi non incontriamo le parti sociali perché siamo le parti sociali. Cittadini, lavoratori, cassintegrati, studenti fuori sede... » E poi l’incontro al Quirinale marcato dalla confidenza di Vito Crimi: «Napolitano è stato attento, non si è addormentato. Beppe è stato capace di tenerlo abbastanza sveglio». E i silenzi complici sui senatori grillini che confidavano di andare a Palazzo Madama con la boccetta di disinfettante per lavarsi nel caso gli scappasse di dar la mano a certi colleghi. E le randellate contro la libertà di coscienza garantita a ogni parlamentare: «Insomma, l’eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare». Le espulsioni a raffica di ogni dissidente.
E poi ancora l’avanti e indrè sul Porcellum, prima bollato come la peste che ha consentito ai partiti «di nominare chi volevano» trasformando Camera e Senato «in plotoni di ubbidienti soldatini a comando» ma più tardi accettato pur di andar subito alle elezioni: «Ogni voto un calcio in culo ai parassiti e incapaci che hanno distrutto il Paese. La legge elettorale la cambierà il M5S quando sarà al governo». E gli insulti al Parlamento: «È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica».
E come dimenticare il giorno in cui il Parlamento, per uscire dall’impasse, decise di rieleggere Napolitano? Convocò via web la piazza con toni apocalittici: «Ci sono momenti decisivi nella storia di una Nazione. È in atto un colpo di Stato. Pur di impedire un cambiamento sono disposti a tutto. Sono disperati. Quattro persone: Napolitano, Bersani, Berlusconi e Monti si sono incontrate in un salotto e hanno deciso di mantenere Napolitano al Quirinale, di nominare Amato presidente del Consiglio...» Ciò detto chiamò tutti all’adunata: «Ho terminato la campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia e sto arrivando. Sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese». Dopodiché, dieci minuti dopo le otto, mandò un post scriptum: «Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...» Buona notte.
E via così, per mesi e mesi. Insultando tutti. Di urlo in urlo. Fino all’escalation delle ultime settimane. La vivisezione per Dudù e lo «Psiconano». L’evocazione della «peste rossa». La minaccia dei processi di piazza. La lupara bianca per Renzi, «l’ebetino che è andato a dare due linguate a quel culone tedesco della Merkel»... Spiegò un giorno Simon Bolivar, el Libertador del Sud America spagnolo: «L’arte di vincere si impara nelle sconfitte». Per ora, a Beppe Grillo e a tanti grillini che rovesciano insulti sul blog contro il «popolo di pecoroni» cui nel 78 percento dei casi «va bene il sistema del finanziamento pubblico, della corruzione, della disonestà», non è successo. E non basta un pizzico di auto-ironia sul Maalox...
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23.5.14
Il “Compagno F”. La mai finita Tangentopoli pavese
di Giovanni Giovannetti (direfarebaciare)
Nella classifica delle peggio città settentrionali per qualità della vita, prima di Pavia c’è solo Imperia, il feudo degli Scajola (l’ex ministro Claudio detto “Sciaboletta” e l’ex sindaco Alessandro, suo fratello).
Del resto, la città lombarda – «sindaco italiano più amato» a parte – non pare incline ai primati; sicché figura seconda dopo Padova anche nella classifica italiana delle città più inquinate. E non tragga in inganno quel quinto posto mondiale (prima città italiana) nello sniffo pro capite di coca; o quell’altro primato con cui si pavoneggia – prima assoluta per spesa pro capite nel gioco d’azzardo – poiché certe classifiche trovano il tempo che trovano.
Eterna seconda. Tuttavia, a dare buona stampa alla città delle eccellenze sanitarie concorre ormai da tempo l’ardimentoso operato di taluni pavesi: chirurghi «crudeli» come Pier Paolo Brega Massone, condannato all’ergastolo per aver volontariamente procurato la morte di 4 pazienti e lesioni gravi ad altri quaranta; oculisti come Aldo Fronterrè, agli arresti dopo aver decretato semicieco un sanguinario killer di Camorra dalla mira infallibile; odontoiatri come Carlo Chiriaco, condannato in primo grado a 13 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Fuori da ospedali e cliniche, nel salotto buono di piazza Vittoria si incrociavano tributaristi come il calabrese Pino Neri, capo reggente della ‘Ndrangheta lombarda e “grande elettore” del «sindaco più amato d’Italia» (condannato in primo grado a 18 anni di reclusione) e politici tutti d’un prezzo come il dirimpettaio Ettore Filippi, l’ex vicesindaco sodale di Neri e del «sindaco più amato d’Italia», arrestato per alcuni pubblici favori a privati cementificatori di cui era a libro paga (insomma, corruzione).
Sarà per caso, ma non c’è inchiesta di un certo qual rilievo nazionale che non abbia fascicoli aperti su Pavia e dintorni, a partire dall’indagine antindrangheta Infinito (oltre a Neri e Chiriaco, manette e condanna anche per il capolocale Franco Bertucca) e a finire con la retata di Expo2015: arresto per Enrico Maltauro (proprietario dell’area Chatillon alle porte di Pavia) e indagine aperta su Daniela Troiano, direttore generale dell’azienda ospedaliera pavese.
Le trinità
Expo2015. Una “trinità” composta dal postcomunista Primo Greganti, da Sergio Cattozzo dell’Udc e dal postdemocristo Gianstefano Frigerio è sorpresa dall’antimafia nel gestire intrallazzi, spartire favoritismi e incassare tangenti. Un copione ben noto a Pavia.
Un passo indietro e siamo al 26 marzo 1992: in riva al Ticino vengono arrestati il democristiano Giuseppe Girani e il comunista Giuseppe Inzaghi, membri del Cda dell’ospedale San Matteo; il primo detiene la delega al patrimonio, il secondo all’edilizia. Sono al vertice di una «cupola» che lucra sugli appalti al San Matteo, «una congrega di politici e amministratori – come scrive il 5 luglio 2010 il direttore della “Provincia pavese” Sergio Baraldi – che avevano trasformato reparti e lavori che servivano per ampliare l’ospedale, in un losco giro di tangenti». Baraldi rincara poi la dose: «Ci accorgiamo che una vera e propria associazione a delinquere, invece di fare politica al servizio dei cittadini, si preoccupava di dirigere i propri affari, di occupare le istituzioni per spremere denaro ed accrescere il suo potere». Associazione a delinquere? Il 4 giugno vengono incarcerati altri membri del Cda: il socialista Luigi Panigazzi, il comunista Armelino Milani (morto nel 1994) e il democristiano Albini. Come spiegherà Panigazzi, «le bustarelle, erano un sistema, non si poteva fare diversamente…»
Così la Ivces costruzioni di Vigevano otterrà l’appalto del valore di 15 miliardi in lire per la nuova Ematologia, versando 350 milioni in tangenti; la Castagnetti (impianti di condizionamento) esborserà 108 milioni – il 10 per cento – «per non essere estromessa dalla gara»; la Bull Honeywell donerà alla “cupola” 50 milioni in contanti per ottenere l’appalto dell’informatizzazione del Policlinico. Cifre minori saranno versate dalla Sorin (valvole cardiache), dalla Florenzia (settore costruzioni) e dalla Siemens (multinazionale delle apparecchiature elettromedicali).
Ma la madre di tutte le tangenti (560 milioni in comode rate da 100 milioni brevimano, più o meno equamente divisi tra Dc, Psi e Pci-Pds) è quella versata per la costruzione dei Reparti speciali, il cosiddetto “palazzone”: appalto affidato alla Cogefar-Impresit (gruppo Fiat) per 2 miliardi e 842 milioni di lire. L’impresa infine verrà a costare oltre 45 miliardi.
Così la raccontano Fabrizio Guerrini e Filiberto Mayda in Mala Pavia scritto “a caldo” nel 1992: «Nel 1990, con la gestione di Trespi [Virginio Trespi, democristiano, presidente del Cda del San Matteo], viene presentata la perizia di completamento; 28 miliardi e 253 milioni ed il Consiglio di amministrazione ne approva la delibera. [...] Il progetto Cogefar-Impresit è del tipo “chiavi in mano”, un appalto-concorso, visto e rivisto da apposite commissioni tecnico-scientifiche ed elaborato secondo le norme Cee sulla trasparenza. Tant’è che, in tangenti, costerà oltre mezzo miliardo».
Un anno prima, il 3 febbraio 1991 al congresso di Rimini, il Partito comunista era confluito nel Partito democratico della sinistra (Pds). L’ex sindaco di Vigevano Luigi Bertone ne è il segretario provinciale. Due giorni dopo l’arresto di Inzaghi e Girani, al quotidiano locale Bertone dichiara che, di fronte a una storia così grave, andava fatta giustizia, invitando a «ricostruire nuove regole» perché l’accaduto non poteva essere liquidato «come un semplice incidente». Il democristiano Girani si mantiene zitto e cheto (vuoterà il sacco solo due mesi dopo) anche se lì per lì si assume ogni responsabilità contabile in quanto amministratore del partito, offrendo così più di un paracadute al segretario provinciale Luigino Maggi.
Più loquace un frastornato nonché “pentito” Inzaghi. Per le mazzette al Policlinico accusa Girani di essere stato «il referente della Democrazia cristiana e di tutti i partiti» dando addosso altresì al suo segretario politico: «Avevo ricevuto l’incarico di seguire l’attività di Girani e di informare lo stesso Bertone del progredire di tutte le pratiche che avrebbero avuto un ritorno economico per il mio partito [...] Bertone svolgeva il ruolo di collettore del denaro destinato a finanziare il Pds [...] lo stesso Bertone disse a me e a Milani che il referente per ricevere il denaro delle tangenti del Policlinico era, per il Pds come per la Dc e il Psi, Giuseppe Girani. [...] In più occasioni Girani si è recato presso la federazione Pci/Pds, rivolgendosi direttamente a Bertone, sia per consegnare denaro sia per discutere di problemi in generale».
Di fronte al pm Vincenzo Calia, Inzaghi aggiunge che la tangente pagata dalla Ivces venne subito consegnata «direttamente a Bertone». E ancora: dal segretario provinciale della Quercia «mi fu chiesto se, nell’ambito dei programmi di edilizia ospedaliera del San Matteo, era possibile affidare alcuni lavori a CoopSette, che era stata indicata a Bertone dagli organi regionali del partito». Secondo Inzaghi, «Bertone si era particolarmente impegnato nel risolvere il problema dei ritardi nel rilascio delle concessioni edilizie per la realizzazione della nuova Ematologia».
Nell’aprile 1990 Bertone era assessore comunale pavese all’Urbanistica. C’era da ristrutturare l’ex padiglione “contagiosi” – l’attuale clinica di Ematologia – da parte della Ivces per un importo indicato in tre miliardi di lire (infine se ne spenderanno tredici!) e il presidente Trespi chiede al Comune l’aumento dell’indice di utilizzazione fondiaria, in deroga al Piano regolatore. L’approvazione, nel febbraio 1991, «consentirà al San Matteo di edificare su 17.000 metri quadrati fuori dalle regole del Piano regolatore», come sottolineano gli autori di Mala Pavia.
Il 4 giugno 1992 Bertone si ritrova in carcere insieme a democristiani, socialisti e altri comunisti, accusato di corruzione, concussione e associazione a delinquere. Lo denuncia anche Girani: «Ho portato io a Bertone una quota dei 100 milioni della Ivces (20 milioni in contanti). In quell’occasione dissi a Bertone che per i successivi versamenti avrebbe dovuto pensarci direttamente Inzaghi, che nel frattempo mi era stato indicato da Bertone come colui al quale avrei dovuto consegnare i soldi per il Pci».
Nonostante le ricostruzioni circostanziate, Bertone si è sempre dichiarato estraneo alla vicenda, così come Armelino Milani.
Tuttavia, nel marzo 1993 lui e Girani sono di nuovo agli arresti domiciliari. Bertone è accusato di tentata concussione: una mazzetta di 200 milioni – e altre concordate ma non consegnate – per l’affare mai realizzato del teleriscaldamento in città (dopo Tangentopoli, nel 1992 saltò tutto), metà della cifra sarà intascata dal Pci. L’indagine si concluse con l’arresto dell’assessore regionale Giancarlo Magenta (Psi), del consigliere comunale Roberto Portolan (Psi) e dell’ex assessore comunale pavese ai Lavori pubblici Giovanni Grieco (Dc).
Tutti assolti. Bertone lo troveremo nuovamente inquisito, ancora nel 1993, per un appalto truccato al Bosco Negri, e infine condannato a 1 anno e 4 mesi per corruzione e finanziamento illecito dei partiti, dopo aver patteggiato per un giro di bustarelle volto a favorire l’edificazione di un parcheggio lungo il Ticino. Patteggiarono anche altri inquisiti: il consigliere comunale Renzo Cavioni (Psi, 8 mesi); e gli imprenditori Danilo Brera, Pietro Pecora, Vittorio Pacchiarotti e Augusto Graziadei, tutti e quattro condannati a 1 anno e 3 mesi.
Dall’inchiesta milanese di “Mani Pulite” il Pds emerge con meno graffi di altri: il partito – scrive l’ex cronista di giudiziaria de “l’Unità” Marco Brando – non aveva partecipato in modo diffuso e organico alla spartizione delle tangenti: «Ma uscì pure che non ne aveva bisogno, perché la Lega della cooperative otteneva una quota di appalti concordata e poi finanziava – diciamo legalmente – il Pci-Pds. Solo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta gli altri partiti, prima beneficiari di soldi attraverso l’incasso di soldi provenienti da tangenti vere e proprie versate dalle aziende vincitrici di appalti pubblici, cominciarono col chiedere» a Milano come a Pavia «che anche il Pci-Pds seguisse la stessa trafila. Così si passò dal finanziamento formalmente legale attraverso le coop all’unico calderone di mazzette in cui anche una parte dell’ex partito comunista dovette attingere».
La stagione pavese di “Mani pulite” cade grossomodo negli anni in cui in Procura operano magistrati di valore come Vincenzo Calia (dal maggio 2002 è a Genova; nel 2008 è nominato procuratore aggiunto) o come il futuro presidente della sezione penale presso il Tribunale pavese Cesare Beretta.
Beretta si spinge persino ad inquisire “intoccabili” come Gian Carlo Abelli detto “il faraone”, il ras della sanità in Lombardia. Era il 13 febbraio 1985 quando il “faraone” venne arrestato – insieme a Dino Landini e al cognato Claudio Gariboldi – con l’accusa di peculato e concorso in truffa. Gariboldi è il fratello di Rosanna, l’ex assessore provinciale pavese e moglie di Abelli balzata nel 2009 agli onori delle cronache per alcuni movimenti in denaro “sporco” dell’amico e sodale ciellino Giuseppe Grossi presso un conto cifrato (17964 A) alla banca J. Safra di Montecarlo condiviso con il marito.
1985, altri tempi? A Tangentopoli mancano sette anni e c’è ancora la Democrazia cristiana, il partito per il quale si industriava l’allora apprendista “faraone”. Tra gli arrestati figurano il “compagno G” Primo Greganti e Gianstefano Frigerio.
1985. A Expo2015 di anni ne mancano trenta: di nuovo arrestati Frigerio e il “compagno G”.
Il costruttore Grossi, ormai deceduto, lo ricordiamo in affari con Mario Resca (erano anche proprietari dell’ex zuccherificio di Casei Gerola in Oltrepo), l’imprenditore vicinissimo a Paolo e Silvio Berlusconi, nonché direttore generale del Ministero dei Beni culturali e vicepresidente della Sesto Immobiliare (la società di Davide Brizzi che nel 2008 – in cordata con il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna, Bancaintesa, Unicredit, un Fondo coreano e uno americano – ha acquistato da Luigi Zunino l’area Falk di Sesto San Giovanni), al centro dello scandalo mazzette che ha visto coinvolto anche l’ex sindaco e presidente della Provincia di Milano Filippo Penati (Pd), candidato governatore per il centrosinistra alle elezioni regionali lombarde nel 2010.
La casta ci costa
A “sinistra”, la moralità della casta ci è oggi restituita da personaggi quali Penati (Partito democratico, ex presidente della Provincia, ex responsabile della segreteria politica di Bersani, già candidato nel 2010 alla presidenza della Regione Lombardia), a giudizio per concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti. La storia è nota: quando era sindaco di Sesto San Giovanni, per la modifica del Prg cittadino (l’inserimento di alcune autorizzazioni edilizie volte a favorire speculazioni sull’ex area Falk e sull’ex Magneti Marelli), Penati avrebbe preteso da Giuseppe Pasini mazzette per 20 miliardi delle vecchie lire, di cui “solo” 5 miliardi e 750 milioni sarebbero stati infine versati, tra contanti consegnati a mano e la permuta di terreni dal diverso valore.
Secondo la procura di Monza, i soldi sarebbero serviti a finanziare l’attività degli allora Democratici di sinistra.
Una brutta storia, non diversa da un’altra, meno nota: quando era presidente della Provincia di Milano, nel 2005 Penati comprò dal defunto Marcellino Gavio il 15 per cento delle azioni dell’autostrada Milano-Serravalle. Così la racconta Marco Travaglio: «preceduto da una serie di telefonate di Pierluigi Bersani, Penati gli ha garantito una ricca buonuscita, strapagandogli le azioni. Una plusvalenza di 175 milioni di euro, di poco successiva all’ingresso di Gavio nelle scalate di Gian Piero Fiorani [il capocordata dei "furbetti", in manette nel 2005] all’Antonveneta e di Consorte – & furbetti al seguito – alla Bnl». Delle azioni Milano-Serravalle, il compianto Gavio ne parla in alcune intercettazioni telefoniche: «sto facendo un pensierino sottovoce a vendere tutto per 4 euro». Dopo l’intervento di Bersani, Penati compra con il pubblico denaro le azioni di Gavio a 8,83 euro per azione.
Per un decennio Bruno Binasco è stato amministratore delegato del gruppo Gavio e braccio destro dell’imprenditore (fra l’altro Gavio è primo azionista di Impregilo, il principale gruppo italiano di costruzioni). A lui danno il benservito del luglio 2013.
Binasco lo ricordiamo agli arresti nel 1993 per una mazzetta di 150 milioni a Primo Greganti, il “compagno G” coinvolto in Tangentopoli, l’omertoso funzionario postcomunista infine condannato a 2 anni e 6 mesi di carcere per il finanziamento illecito del suo partito. Nel 2008 Binasco si era impegnato ad acquistare un immobile da Pietro Di Caterina, titolare della Caronte srl, un imprenditore che vantava cospicui crediti nei confronti di Penati, soldi che l’ex presidente della Provincia aveva promesso di restituire. Una clausola del preliminare di compravendita tra Binasco e Di Caterina stabiliva la generosissima caparra di 2 milioni qualora l’uomo di Gavio non fosse passato all’acquisto entro il 2010. Inutile sottolineare che le cose sono andate proprio così, a conforto di chi sospetta che la somma fosse in onore del dovuto “Democratico” a Di Caterina.
Il “Compagno F”
E Pavia? In città molti ancora ricordano l’operato di Stefano Francesca, funzionario genovese in quota Bersani. Si faceva chiamare «dottore» ma non era laureato. Passava per giornalista ma non era iscritto all’Ordine. Come informava la sua nota biografica, «dal 1998 è socio fondatore della cooperativa Mandragola» di Grugliasco presso Torino, una associazione di giornalisti nata nel 1992. Diceva di essere tra i primi membri della genovese Fondazione De Andrè, insieme a Dori Ghezzi e ai figli; ma nella pagina web della Fondazione, dove sono pubblicate la storia e lo Statuto, il suo nome non compare. Pare che Battisti gli avesse dedicato una canzone. Non è Francesca ma Confusione.
Il “Compagno F” emulo del “Compagno G”? Chi può dirlo. Certo è che i pubblici fondi della prima edizione del Festival dei Saperi – congegnato dal Francesca e fiore all’occhiello dell’amministrazione di centrosinistra Capitelli (oltre un milione di euro per cinque giorni di conferenze: quattro volte più del necessario) – andarono a ingrossare le tasche di alcune aziende d’area, di amici di amici e di Francesca, rispedito a Genova e subito incarcerato nel maggio 2008, a conclusione dell’inchiesta su Mensopoli, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d’asta: in alcune intercettazioni, il “Compagno F” parla di fatture fittizie a Gino Mamone – imprenditore in presunto odore di mafia indagato nel 2005 dalla procura di Alessandria per la bonifica illegale delle aree Ip di La Spezia e dell’ex Shell di Fegino presso Genova – da parte della Wam&co di Francesca, fatture necessarie a coprire tangenti (nell’aprile 2010 patteggerà un anno e mezzo di pena). Sono gli stessi “amici” che un anno prima avevano suggerito idee e lavorato “gratuitamente” e nell’ombra alla privatissima campagna elettorale del futuro sindaco. Una volta eletta, Capitelli ha finalmente saldato i sospesi, usando però i soldi dei contribuenti, e cioè una parte rilevante del pubblico denaro speso impunemente per la prima edizione del Festival.
Secondo recenti calcoli, ad ogni italiano la corruzione costa circa mille euro annuali: 60 miliardi tondi, neonati inclusi. Alcuni assessori di quella triste stagione sono oggi nuovamente candidati. È forse questa l’improrogabile alternativa politica e morale al centrodestra dei Cattaneo, dei Labate, dei Gimigliano, dei Greco, dei Bobbio Pallavicini e altri amici degli amici?
Nella classifica delle peggio città settentrionali per qualità della vita, prima di Pavia c’è solo Imperia, il feudo degli Scajola (l’ex ministro Claudio detto “Sciaboletta” e l’ex sindaco Alessandro, suo fratello).
Del resto, la città lombarda – «sindaco italiano più amato» a parte – non pare incline ai primati; sicché figura seconda dopo Padova anche nella classifica italiana delle città più inquinate. E non tragga in inganno quel quinto posto mondiale (prima città italiana) nello sniffo pro capite di coca; o quell’altro primato con cui si pavoneggia – prima assoluta per spesa pro capite nel gioco d’azzardo – poiché certe classifiche trovano il tempo che trovano.
Eterna seconda. Tuttavia, a dare buona stampa alla città delle eccellenze sanitarie concorre ormai da tempo l’ardimentoso operato di taluni pavesi: chirurghi «crudeli» come Pier Paolo Brega Massone, condannato all’ergastolo per aver volontariamente procurato la morte di 4 pazienti e lesioni gravi ad altri quaranta; oculisti come Aldo Fronterrè, agli arresti dopo aver decretato semicieco un sanguinario killer di Camorra dalla mira infallibile; odontoiatri come Carlo Chiriaco, condannato in primo grado a 13 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Fuori da ospedali e cliniche, nel salotto buono di piazza Vittoria si incrociavano tributaristi come il calabrese Pino Neri, capo reggente della ‘Ndrangheta lombarda e “grande elettore” del «sindaco più amato d’Italia» (condannato in primo grado a 18 anni di reclusione) e politici tutti d’un prezzo come il dirimpettaio Ettore Filippi, l’ex vicesindaco sodale di Neri e del «sindaco più amato d’Italia», arrestato per alcuni pubblici favori a privati cementificatori di cui era a libro paga (insomma, corruzione).
Sarà per caso, ma non c’è inchiesta di un certo qual rilievo nazionale che non abbia fascicoli aperti su Pavia e dintorni, a partire dall’indagine antindrangheta Infinito (oltre a Neri e Chiriaco, manette e condanna anche per il capolocale Franco Bertucca) e a finire con la retata di Expo2015: arresto per Enrico Maltauro (proprietario dell’area Chatillon alle porte di Pavia) e indagine aperta su Daniela Troiano, direttore generale dell’azienda ospedaliera pavese.
Le trinità
Expo2015. Una “trinità” composta dal postcomunista Primo Greganti, da Sergio Cattozzo dell’Udc e dal postdemocristo Gianstefano Frigerio è sorpresa dall’antimafia nel gestire intrallazzi, spartire favoritismi e incassare tangenti. Un copione ben noto a Pavia.
Un passo indietro e siamo al 26 marzo 1992: in riva al Ticino vengono arrestati il democristiano Giuseppe Girani e il comunista Giuseppe Inzaghi, membri del Cda dell’ospedale San Matteo; il primo detiene la delega al patrimonio, il secondo all’edilizia. Sono al vertice di una «cupola» che lucra sugli appalti al San Matteo, «una congrega di politici e amministratori – come scrive il 5 luglio 2010 il direttore della “Provincia pavese” Sergio Baraldi – che avevano trasformato reparti e lavori che servivano per ampliare l’ospedale, in un losco giro di tangenti». Baraldi rincara poi la dose: «Ci accorgiamo che una vera e propria associazione a delinquere, invece di fare politica al servizio dei cittadini, si preoccupava di dirigere i propri affari, di occupare le istituzioni per spremere denaro ed accrescere il suo potere». Associazione a delinquere? Il 4 giugno vengono incarcerati altri membri del Cda: il socialista Luigi Panigazzi, il comunista Armelino Milani (morto nel 1994) e il democristiano Albini. Come spiegherà Panigazzi, «le bustarelle, erano un sistema, non si poteva fare diversamente…»
Così la Ivces costruzioni di Vigevano otterrà l’appalto del valore di 15 miliardi in lire per la nuova Ematologia, versando 350 milioni in tangenti; la Castagnetti (impianti di condizionamento) esborserà 108 milioni – il 10 per cento – «per non essere estromessa dalla gara»; la Bull Honeywell donerà alla “cupola” 50 milioni in contanti per ottenere l’appalto dell’informatizzazione del Policlinico. Cifre minori saranno versate dalla Sorin (valvole cardiache), dalla Florenzia (settore costruzioni) e dalla Siemens (multinazionale delle apparecchiature elettromedicali).
Ma la madre di tutte le tangenti (560 milioni in comode rate da 100 milioni brevimano, più o meno equamente divisi tra Dc, Psi e Pci-Pds) è quella versata per la costruzione dei Reparti speciali, il cosiddetto “palazzone”: appalto affidato alla Cogefar-Impresit (gruppo Fiat) per 2 miliardi e 842 milioni di lire. L’impresa infine verrà a costare oltre 45 miliardi.
Così la raccontano Fabrizio Guerrini e Filiberto Mayda in Mala Pavia scritto “a caldo” nel 1992: «Nel 1990, con la gestione di Trespi [Virginio Trespi, democristiano, presidente del Cda del San Matteo], viene presentata la perizia di completamento; 28 miliardi e 253 milioni ed il Consiglio di amministrazione ne approva la delibera. [...] Il progetto Cogefar-Impresit è del tipo “chiavi in mano”, un appalto-concorso, visto e rivisto da apposite commissioni tecnico-scientifiche ed elaborato secondo le norme Cee sulla trasparenza. Tant’è che, in tangenti, costerà oltre mezzo miliardo».
Un anno prima, il 3 febbraio 1991 al congresso di Rimini, il Partito comunista era confluito nel Partito democratico della sinistra (Pds). L’ex sindaco di Vigevano Luigi Bertone ne è il segretario provinciale. Due giorni dopo l’arresto di Inzaghi e Girani, al quotidiano locale Bertone dichiara che, di fronte a una storia così grave, andava fatta giustizia, invitando a «ricostruire nuove regole» perché l’accaduto non poteva essere liquidato «come un semplice incidente». Il democristiano Girani si mantiene zitto e cheto (vuoterà il sacco solo due mesi dopo) anche se lì per lì si assume ogni responsabilità contabile in quanto amministratore del partito, offrendo così più di un paracadute al segretario provinciale Luigino Maggi.
Più loquace un frastornato nonché “pentito” Inzaghi. Per le mazzette al Policlinico accusa Girani di essere stato «il referente della Democrazia cristiana e di tutti i partiti» dando addosso altresì al suo segretario politico: «Avevo ricevuto l’incarico di seguire l’attività di Girani e di informare lo stesso Bertone del progredire di tutte le pratiche che avrebbero avuto un ritorno economico per il mio partito [...] Bertone svolgeva il ruolo di collettore del denaro destinato a finanziare il Pds [...] lo stesso Bertone disse a me e a Milani che il referente per ricevere il denaro delle tangenti del Policlinico era, per il Pds come per la Dc e il Psi, Giuseppe Girani. [...] In più occasioni Girani si è recato presso la federazione Pci/Pds, rivolgendosi direttamente a Bertone, sia per consegnare denaro sia per discutere di problemi in generale».
Di fronte al pm Vincenzo Calia, Inzaghi aggiunge che la tangente pagata dalla Ivces venne subito consegnata «direttamente a Bertone». E ancora: dal segretario provinciale della Quercia «mi fu chiesto se, nell’ambito dei programmi di edilizia ospedaliera del San Matteo, era possibile affidare alcuni lavori a CoopSette, che era stata indicata a Bertone dagli organi regionali del partito». Secondo Inzaghi, «Bertone si era particolarmente impegnato nel risolvere il problema dei ritardi nel rilascio delle concessioni edilizie per la realizzazione della nuova Ematologia».
Nell’aprile 1990 Bertone era assessore comunale pavese all’Urbanistica. C’era da ristrutturare l’ex padiglione “contagiosi” – l’attuale clinica di Ematologia – da parte della Ivces per un importo indicato in tre miliardi di lire (infine se ne spenderanno tredici!) e il presidente Trespi chiede al Comune l’aumento dell’indice di utilizzazione fondiaria, in deroga al Piano regolatore. L’approvazione, nel febbraio 1991, «consentirà al San Matteo di edificare su 17.000 metri quadrati fuori dalle regole del Piano regolatore», come sottolineano gli autori di Mala Pavia.
Il 4 giugno 1992 Bertone si ritrova in carcere insieme a democristiani, socialisti e altri comunisti, accusato di corruzione, concussione e associazione a delinquere. Lo denuncia anche Girani: «Ho portato io a Bertone una quota dei 100 milioni della Ivces (20 milioni in contanti). In quell’occasione dissi a Bertone che per i successivi versamenti avrebbe dovuto pensarci direttamente Inzaghi, che nel frattempo mi era stato indicato da Bertone come colui al quale avrei dovuto consegnare i soldi per il Pci».
Nonostante le ricostruzioni circostanziate, Bertone si è sempre dichiarato estraneo alla vicenda, così come Armelino Milani.
Tuttavia, nel marzo 1993 lui e Girani sono di nuovo agli arresti domiciliari. Bertone è accusato di tentata concussione: una mazzetta di 200 milioni – e altre concordate ma non consegnate – per l’affare mai realizzato del teleriscaldamento in città (dopo Tangentopoli, nel 1992 saltò tutto), metà della cifra sarà intascata dal Pci. L’indagine si concluse con l’arresto dell’assessore regionale Giancarlo Magenta (Psi), del consigliere comunale Roberto Portolan (Psi) e dell’ex assessore comunale pavese ai Lavori pubblici Giovanni Grieco (Dc).
Tutti assolti. Bertone lo troveremo nuovamente inquisito, ancora nel 1993, per un appalto truccato al Bosco Negri, e infine condannato a 1 anno e 4 mesi per corruzione e finanziamento illecito dei partiti, dopo aver patteggiato per un giro di bustarelle volto a favorire l’edificazione di un parcheggio lungo il Ticino. Patteggiarono anche altri inquisiti: il consigliere comunale Renzo Cavioni (Psi, 8 mesi); e gli imprenditori Danilo Brera, Pietro Pecora, Vittorio Pacchiarotti e Augusto Graziadei, tutti e quattro condannati a 1 anno e 3 mesi.
Dall’inchiesta milanese di “Mani Pulite” il Pds emerge con meno graffi di altri: il partito – scrive l’ex cronista di giudiziaria de “l’Unità” Marco Brando – non aveva partecipato in modo diffuso e organico alla spartizione delle tangenti: «Ma uscì pure che non ne aveva bisogno, perché la Lega della cooperative otteneva una quota di appalti concordata e poi finanziava – diciamo legalmente – il Pci-Pds. Solo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta gli altri partiti, prima beneficiari di soldi attraverso l’incasso di soldi provenienti da tangenti vere e proprie versate dalle aziende vincitrici di appalti pubblici, cominciarono col chiedere» a Milano come a Pavia «che anche il Pci-Pds seguisse la stessa trafila. Così si passò dal finanziamento formalmente legale attraverso le coop all’unico calderone di mazzette in cui anche una parte dell’ex partito comunista dovette attingere».
La stagione pavese di “Mani pulite” cade grossomodo negli anni in cui in Procura operano magistrati di valore come Vincenzo Calia (dal maggio 2002 è a Genova; nel 2008 è nominato procuratore aggiunto) o come il futuro presidente della sezione penale presso il Tribunale pavese Cesare Beretta.
Beretta si spinge persino ad inquisire “intoccabili” come Gian Carlo Abelli detto “il faraone”, il ras della sanità in Lombardia. Era il 13 febbraio 1985 quando il “faraone” venne arrestato – insieme a Dino Landini e al cognato Claudio Gariboldi – con l’accusa di peculato e concorso in truffa. Gariboldi è il fratello di Rosanna, l’ex assessore provinciale pavese e moglie di Abelli balzata nel 2009 agli onori delle cronache per alcuni movimenti in denaro “sporco” dell’amico e sodale ciellino Giuseppe Grossi presso un conto cifrato (17964 A) alla banca J. Safra di Montecarlo condiviso con il marito.
1985, altri tempi? A Tangentopoli mancano sette anni e c’è ancora la Democrazia cristiana, il partito per il quale si industriava l’allora apprendista “faraone”. Tra gli arrestati figurano il “compagno G” Primo Greganti e Gianstefano Frigerio.
1985. A Expo2015 di anni ne mancano trenta: di nuovo arrestati Frigerio e il “compagno G”.
Il costruttore Grossi, ormai deceduto, lo ricordiamo in affari con Mario Resca (erano anche proprietari dell’ex zuccherificio di Casei Gerola in Oltrepo), l’imprenditore vicinissimo a Paolo e Silvio Berlusconi, nonché direttore generale del Ministero dei Beni culturali e vicepresidente della Sesto Immobiliare (la società di Davide Brizzi che nel 2008 – in cordata con il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna, Bancaintesa, Unicredit, un Fondo coreano e uno americano – ha acquistato da Luigi Zunino l’area Falk di Sesto San Giovanni), al centro dello scandalo mazzette che ha visto coinvolto anche l’ex sindaco e presidente della Provincia di Milano Filippo Penati (Pd), candidato governatore per il centrosinistra alle elezioni regionali lombarde nel 2010.
La casta ci costa
A “sinistra”, la moralità della casta ci è oggi restituita da personaggi quali Penati (Partito democratico, ex presidente della Provincia, ex responsabile della segreteria politica di Bersani, già candidato nel 2010 alla presidenza della Regione Lombardia), a giudizio per concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti. La storia è nota: quando era sindaco di Sesto San Giovanni, per la modifica del Prg cittadino (l’inserimento di alcune autorizzazioni edilizie volte a favorire speculazioni sull’ex area Falk e sull’ex Magneti Marelli), Penati avrebbe preteso da Giuseppe Pasini mazzette per 20 miliardi delle vecchie lire, di cui “solo” 5 miliardi e 750 milioni sarebbero stati infine versati, tra contanti consegnati a mano e la permuta di terreni dal diverso valore.
Secondo la procura di Monza, i soldi sarebbero serviti a finanziare l’attività degli allora Democratici di sinistra.
Una brutta storia, non diversa da un’altra, meno nota: quando era presidente della Provincia di Milano, nel 2005 Penati comprò dal defunto Marcellino Gavio il 15 per cento delle azioni dell’autostrada Milano-Serravalle. Così la racconta Marco Travaglio: «preceduto da una serie di telefonate di Pierluigi Bersani, Penati gli ha garantito una ricca buonuscita, strapagandogli le azioni. Una plusvalenza di 175 milioni di euro, di poco successiva all’ingresso di Gavio nelle scalate di Gian Piero Fiorani [il capocordata dei "furbetti", in manette nel 2005] all’Antonveneta e di Consorte – & furbetti al seguito – alla Bnl». Delle azioni Milano-Serravalle, il compianto Gavio ne parla in alcune intercettazioni telefoniche: «sto facendo un pensierino sottovoce a vendere tutto per 4 euro». Dopo l’intervento di Bersani, Penati compra con il pubblico denaro le azioni di Gavio a 8,83 euro per azione.
Per un decennio Bruno Binasco è stato amministratore delegato del gruppo Gavio e braccio destro dell’imprenditore (fra l’altro Gavio è primo azionista di Impregilo, il principale gruppo italiano di costruzioni). A lui danno il benservito del luglio 2013.
Binasco lo ricordiamo agli arresti nel 1993 per una mazzetta di 150 milioni a Primo Greganti, il “compagno G” coinvolto in Tangentopoli, l’omertoso funzionario postcomunista infine condannato a 2 anni e 6 mesi di carcere per il finanziamento illecito del suo partito. Nel 2008 Binasco si era impegnato ad acquistare un immobile da Pietro Di Caterina, titolare della Caronte srl, un imprenditore che vantava cospicui crediti nei confronti di Penati, soldi che l’ex presidente della Provincia aveva promesso di restituire. Una clausola del preliminare di compravendita tra Binasco e Di Caterina stabiliva la generosissima caparra di 2 milioni qualora l’uomo di Gavio non fosse passato all’acquisto entro il 2010. Inutile sottolineare che le cose sono andate proprio così, a conforto di chi sospetta che la somma fosse in onore del dovuto “Democratico” a Di Caterina.
Il “Compagno F”
E Pavia? In città molti ancora ricordano l’operato di Stefano Francesca, funzionario genovese in quota Bersani. Si faceva chiamare «dottore» ma non era laureato. Passava per giornalista ma non era iscritto all’Ordine. Come informava la sua nota biografica, «dal 1998 è socio fondatore della cooperativa Mandragola» di Grugliasco presso Torino, una associazione di giornalisti nata nel 1992. Diceva di essere tra i primi membri della genovese Fondazione De Andrè, insieme a Dori Ghezzi e ai figli; ma nella pagina web della Fondazione, dove sono pubblicate la storia e lo Statuto, il suo nome non compare. Pare che Battisti gli avesse dedicato una canzone. Non è Francesca ma Confusione.
Il “Compagno F” emulo del “Compagno G”? Chi può dirlo. Certo è che i pubblici fondi della prima edizione del Festival dei Saperi – congegnato dal Francesca e fiore all’occhiello dell’amministrazione di centrosinistra Capitelli (oltre un milione di euro per cinque giorni di conferenze: quattro volte più del necessario) – andarono a ingrossare le tasche di alcune aziende d’area, di amici di amici e di Francesca, rispedito a Genova e subito incarcerato nel maggio 2008, a conclusione dell’inchiesta su Mensopoli, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d’asta: in alcune intercettazioni, il “Compagno F” parla di fatture fittizie a Gino Mamone – imprenditore in presunto odore di mafia indagato nel 2005 dalla procura di Alessandria per la bonifica illegale delle aree Ip di La Spezia e dell’ex Shell di Fegino presso Genova – da parte della Wam&co di Francesca, fatture necessarie a coprire tangenti (nell’aprile 2010 patteggerà un anno e mezzo di pena). Sono gli stessi “amici” che un anno prima avevano suggerito idee e lavorato “gratuitamente” e nell’ombra alla privatissima campagna elettorale del futuro sindaco. Una volta eletta, Capitelli ha finalmente saldato i sospesi, usando però i soldi dei contribuenti, e cioè una parte rilevante del pubblico denaro speso impunemente per la prima edizione del Festival.
Secondo recenti calcoli, ad ogni italiano la corruzione costa circa mille euro annuali: 60 miliardi tondi, neonati inclusi. Alcuni assessori di quella triste stagione sono oggi nuovamente candidati. È forse questa l’improrogabile alternativa politica e morale al centrodestra dei Cattaneo, dei Labate, dei Gimigliano, dei Greco, dei Bobbio Pallavicini e altri amici degli amici?
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21.5.14
Elezioni e effetto Draghi: le cose da sapere per investire nei prossimi mesi
Secondo Ubs non vi saranno grossi contraccolpi sui mercati dopo le consultazioni europee. Ma la politica della Bce deve riportare la crescita in Europa. Tre possibili strategie di portafoglio da qui alla fine dell'anno
di Giovanni Pons (La Repubblica)
A soli quattro giorni dalle elezioni europee, lo spread (differenziale tra tassi di interesse) tra Btp e Bund tedesco è tornato sopra i 200 punti, invertendo una tendenza che solo pochi giorni prima l'aveva portato al minimo di 140 punti. Che cosa è successo e come si deve interpretare questo segnale proveniente dai mercati finanziari? Vediamo di mettere un po' di ordine in questa situazione che anche agli esperti di settore appare assai confusa cercando poi di capire quali possono essere le conseguenze per gli investimenti dei risparmiatori basati nell'area euro.
Lo spread si è rialzato principalmente per due motivi: in primo luogo c'è una crescente apprensione per l'esito delle elezioni europee che potrebbe portare i partiti euro-scettici a detenere una quota intorno al 25% dei consensi totali. In secondo luogo, ma non meno importante, vi è il disappunto del mondo finanziario per la crescita del primo trimestre 2014 in Europa che in alcuni paesi è risultata addirittura negativa (come in Italia). Questi due elementi mixati tra di loro hanno portato a un inasprimento del cosiddetto "premio per il rischio" sui titoli dell'area euro che avevano beneficiato di grandi afflussi di capitali da almeno sei mesi a questa parte.
Quindi la domanda che un risparmiatore si deve porre a questo punto è la seguente: devo riaggiustare il portafoglio in vista delle elezioni europee e degli interventi di politica monetaria annunciati dal governatore Mario Draghi per il 5 giugno? La risposta, ovviamente, non può essere univoca o certa, ma si possono fare alcune considerazioni. Per esempio, secondo il global economist della banca Ubs, Paul Donovan, l'impatto sui mercati delle elezioni europee sarà abbastanza limitato ma potrebbero verificarsi dei contraccolpi nei singoli paesi. "Se in Gran Bretagna l'"Ukip" raggiungerà il 35% non sarà una sorpresa mentre se il "Front National" in Francia diventasse il primo partito ciò potrebbe rappresentare un pericolo per i mercati", scrive Donovan nella sua ricerca intotolata: "Elezioni europee: perchè bisogna stare attenti". Ma anche un forte consenso per "Alternative fur Deutschland" potrebbe far nascere timori verso la politica economica europea e l'Unione bancaria. Un po' a sorpresa sembra i mercati si debbano preoccupare meno dal fenomeno Grillo in Italia: "Gli investitori sanno che i Cinque Stelle hanno già ottenuto un buon risultato alle elezioni politiche di un anno fa - scrive ancora Donovan - e anche se Grillo dovesse andar bene alle europee è scontato che non vi saranno elezioni in Italia prima di un anno. Inoltre l'Italia è conosciuta per avere alta volatilità politica e le preoccupazioni riguardano piuttosto che cosa farà l'Italia nel caso le poiltiche eurocentriche subissero un rallentamento in tutta Europa". In ogni caso, poichè l'afflusso di capitali verso l'Europa è stato particolarmente elevato negli ultimi 6-8 mesi, portandosi con sè un rafforzamento dell'euro rispetto al dollaro, è abbastanza facile prevedere una fuoriuscita di capitali nei prossimi 3-6 mesi dovuta a una maggiore incertezza in Europa e un relativo indebolimento dell'euro. Nel solo mese di dicembre 2013 i capitali arrivati da investitori americani ha raggiunto la cifra record di 126,4 miliardi di dollari e non si può escludere un ridimensionamento nei prossimi mesi. Ma potrebbe trattarsi di un fenomeno di breve termine anche in funzione delle azioni che Draghi è pronto a mettere in campo: nell'ultima conferenza stampa ha fatto capire di voler abbassare i tassi di rifinanziamento e il tasso di sconto di uno 0,10-0,15% in modo da far scivolare in negativo i tassi di interesse reali. Ciò significa che non sarà più conveniente sia per le banche sia per i privati tenere i soldi fermi sul conto corrente perchè al netto dell'inflazione perdono di valore. Conviene invece reinvestirli in attività produttive e così facendo si rimetteranno in moto i consumi e quindi l'inflazione. Solo così l'economia potrà ripartire in maniera più decisa. Dal punto di vista dell'investitore tassi ufficiali sempre più bassi in Europa con premi per il rischio in aumento ma contenuti significano sofferenza per il classico investimento in obbligazioni. Chi ha già bond in portafoglio si vedrà diminuire i prezzi rispetto ai massimi degli ultimi giorni, chi ha intenzione di comprare adesso rischia di vedere prezzi ancora più bassi in un prossimo futuro. Una soluzione potrebbero essere i titoli governativi a tasso variabile (come i Cct in Italia) che però al momento rendono veramente poco. Un'altra alternativa potrebbe essere quella di realizzare una parte del portafoglio dove si è guadagnato di più e tenersi liquidi per un po' in attesa che la situazione si chiarisca. Oppure, per chi crede che questo sia solo un movimento passeggero si può cogliere l'opportunità di una correzione dei prezzi dei titoli azionari in Borsa per aumentare il proprio profilo di rischio. I consigli dei gestori in questa fase, oscillano tra questi tre consigli operativi.Per non sbagliare occorre sempre tener d'occhio l'evolversi della situazione negli Stati Uniti. Le ultime minute della Fed indicano che i governatori americani hanno discusso della possibilità di rialzare i tassi ma non hanno preso alcuna decisione riguardo al quando e al come. Preoccupa il settore immobiliare per i prezzi alti raggiunti in alcune località e per la scarsità di nuove costruzioni. E preoccupa l'andamento della Cina. Il prossimo ottobre la banca centrale terminerà gli acquisti mesili di bond sul mercato e a quel punto l'economia dovrà viaggaire con le proprie gambe con un tasso di disoccupazione che dovrà essere sceso intorno al 6% (la metà di quel 12% toccato al picco della crisi nel 2009). Sul rialzo dei tassi Usa gli economisti hanno diversi pareri: "Un aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti non arriverà prima del 2015 - spiega ancora Donovan - ma persiste incertezza su quanto presto e quanto velocemente salirà il costo del denaro. Molto dipenderà dai dati sulla crescita del Pil e sul mercato del lavoro". Eccoci dunque al riepilogo di questo delicato momento: sembra probabile che in fronte a noi vi saranno alcuni mesi di incertezza derivanti da instabilità politica e dati sulla crescita economica in Europa ancora insufficienti. Questa incertezza potrebbe portare all'uscita di capitali dall'Europa e a un rialzo degli spread nei paesi con gli indebitamenti più elevati e i tassi di crescita più bassi. Uscita di capitali dalla zona euro e progressivo aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti significa indebolimento dell'euro rispetto al dollaro che dovrebbe facilitare le esportazioni dei paesi europei verso il resto del mondo e portare così maggiore crescita nel Vecchio Continente e maggiore inflazione allontanando così il rischio di una deflazione, cioè crescita zero sia dell'economia sia dei prezzi. Questo scenario potrebbe essere messo in discussione solo da un risultato del voto che portasse in Francia e in Germania i partiti anti-euro a prendere il sopravvento. L'investitore può dunque scegliere tra prendere profitto dei guadagni accumulati sinora, stando per qualche mese alla finestra: restare fermo e mantenere gli investimenti nella consapevolezza che la situazione si riaggiusterà nell'arco di qualche mese, oppure anche approfittare di prezzi più bassi per incrementare la posizione in azioni a discapito delle obbligazioni. Ma operando in tale direzione si aumentano le possibilità di guadagno ma il rischio che un individuo è in grado di affrontare.
di Giovanni Pons (La Repubblica)
A soli quattro giorni dalle elezioni europee, lo spread (differenziale tra tassi di interesse) tra Btp e Bund tedesco è tornato sopra i 200 punti, invertendo una tendenza che solo pochi giorni prima l'aveva portato al minimo di 140 punti. Che cosa è successo e come si deve interpretare questo segnale proveniente dai mercati finanziari? Vediamo di mettere un po' di ordine in questa situazione che anche agli esperti di settore appare assai confusa cercando poi di capire quali possono essere le conseguenze per gli investimenti dei risparmiatori basati nell'area euro.
Lo spread si è rialzato principalmente per due motivi: in primo luogo c'è una crescente apprensione per l'esito delle elezioni europee che potrebbe portare i partiti euro-scettici a detenere una quota intorno al 25% dei consensi totali. In secondo luogo, ma non meno importante, vi è il disappunto del mondo finanziario per la crescita del primo trimestre 2014 in Europa che in alcuni paesi è risultata addirittura negativa (come in Italia). Questi due elementi mixati tra di loro hanno portato a un inasprimento del cosiddetto "premio per il rischio" sui titoli dell'area euro che avevano beneficiato di grandi afflussi di capitali da almeno sei mesi a questa parte.
Quindi la domanda che un risparmiatore si deve porre a questo punto è la seguente: devo riaggiustare il portafoglio in vista delle elezioni europee e degli interventi di politica monetaria annunciati dal governatore Mario Draghi per il 5 giugno? La risposta, ovviamente, non può essere univoca o certa, ma si possono fare alcune considerazioni. Per esempio, secondo il global economist della banca Ubs, Paul Donovan, l'impatto sui mercati delle elezioni europee sarà abbastanza limitato ma potrebbero verificarsi dei contraccolpi nei singoli paesi. "Se in Gran Bretagna l'"Ukip" raggiungerà il 35% non sarà una sorpresa mentre se il "Front National" in Francia diventasse il primo partito ciò potrebbe rappresentare un pericolo per i mercati", scrive Donovan nella sua ricerca intotolata: "Elezioni europee: perchè bisogna stare attenti". Ma anche un forte consenso per "Alternative fur Deutschland" potrebbe far nascere timori verso la politica economica europea e l'Unione bancaria. Un po' a sorpresa sembra i mercati si debbano preoccupare meno dal fenomeno Grillo in Italia: "Gli investitori sanno che i Cinque Stelle hanno già ottenuto un buon risultato alle elezioni politiche di un anno fa - scrive ancora Donovan - e anche se Grillo dovesse andar bene alle europee è scontato che non vi saranno elezioni in Italia prima di un anno. Inoltre l'Italia è conosciuta per avere alta volatilità politica e le preoccupazioni riguardano piuttosto che cosa farà l'Italia nel caso le poiltiche eurocentriche subissero un rallentamento in tutta Europa". In ogni caso, poichè l'afflusso di capitali verso l'Europa è stato particolarmente elevato negli ultimi 6-8 mesi, portandosi con sè un rafforzamento dell'euro rispetto al dollaro, è abbastanza facile prevedere una fuoriuscita di capitali nei prossimi 3-6 mesi dovuta a una maggiore incertezza in Europa e un relativo indebolimento dell'euro. Nel solo mese di dicembre 2013 i capitali arrivati da investitori americani ha raggiunto la cifra record di 126,4 miliardi di dollari e non si può escludere un ridimensionamento nei prossimi mesi. Ma potrebbe trattarsi di un fenomeno di breve termine anche in funzione delle azioni che Draghi è pronto a mettere in campo: nell'ultima conferenza stampa ha fatto capire di voler abbassare i tassi di rifinanziamento e il tasso di sconto di uno 0,10-0,15% in modo da far scivolare in negativo i tassi di interesse reali. Ciò significa che non sarà più conveniente sia per le banche sia per i privati tenere i soldi fermi sul conto corrente perchè al netto dell'inflazione perdono di valore. Conviene invece reinvestirli in attività produttive e così facendo si rimetteranno in moto i consumi e quindi l'inflazione. Solo così l'economia potrà ripartire in maniera più decisa. Dal punto di vista dell'investitore tassi ufficiali sempre più bassi in Europa con premi per il rischio in aumento ma contenuti significano sofferenza per il classico investimento in obbligazioni. Chi ha già bond in portafoglio si vedrà diminuire i prezzi rispetto ai massimi degli ultimi giorni, chi ha intenzione di comprare adesso rischia di vedere prezzi ancora più bassi in un prossimo futuro. Una soluzione potrebbero essere i titoli governativi a tasso variabile (come i Cct in Italia) che però al momento rendono veramente poco. Un'altra alternativa potrebbe essere quella di realizzare una parte del portafoglio dove si è guadagnato di più e tenersi liquidi per un po' in attesa che la situazione si chiarisca. Oppure, per chi crede che questo sia solo un movimento passeggero si può cogliere l'opportunità di una correzione dei prezzi dei titoli azionari in Borsa per aumentare il proprio profilo di rischio. I consigli dei gestori in questa fase, oscillano tra questi tre consigli operativi.Per non sbagliare occorre sempre tener d'occhio l'evolversi della situazione negli Stati Uniti. Le ultime minute della Fed indicano che i governatori americani hanno discusso della possibilità di rialzare i tassi ma non hanno preso alcuna decisione riguardo al quando e al come. Preoccupa il settore immobiliare per i prezzi alti raggiunti in alcune località e per la scarsità di nuove costruzioni. E preoccupa l'andamento della Cina. Il prossimo ottobre la banca centrale terminerà gli acquisti mesili di bond sul mercato e a quel punto l'economia dovrà viaggaire con le proprie gambe con un tasso di disoccupazione che dovrà essere sceso intorno al 6% (la metà di quel 12% toccato al picco della crisi nel 2009). Sul rialzo dei tassi Usa gli economisti hanno diversi pareri: "Un aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti non arriverà prima del 2015 - spiega ancora Donovan - ma persiste incertezza su quanto presto e quanto velocemente salirà il costo del denaro. Molto dipenderà dai dati sulla crescita del Pil e sul mercato del lavoro". Eccoci dunque al riepilogo di questo delicato momento: sembra probabile che in fronte a noi vi saranno alcuni mesi di incertezza derivanti da instabilità politica e dati sulla crescita economica in Europa ancora insufficienti. Questa incertezza potrebbe portare all'uscita di capitali dall'Europa e a un rialzo degli spread nei paesi con gli indebitamenti più elevati e i tassi di crescita più bassi. Uscita di capitali dalla zona euro e progressivo aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti significa indebolimento dell'euro rispetto al dollaro che dovrebbe facilitare le esportazioni dei paesi europei verso il resto del mondo e portare così maggiore crescita nel Vecchio Continente e maggiore inflazione allontanando così il rischio di una deflazione, cioè crescita zero sia dell'economia sia dei prezzi. Questo scenario potrebbe essere messo in discussione solo da un risultato del voto che portasse in Francia e in Germania i partiti anti-euro a prendere il sopravvento. L'investitore può dunque scegliere tra prendere profitto dei guadagni accumulati sinora, stando per qualche mese alla finestra: restare fermo e mantenere gli investimenti nella consapevolezza che la situazione si riaggiusterà nell'arco di qualche mese, oppure anche approfittare di prezzi più bassi per incrementare la posizione in azioni a discapito delle obbligazioni. Ma operando in tale direzione si aumentano le possibilità di guadagno ma il rischio che un individuo è in grado di affrontare.
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13.5.14
Lombroso fa arrabbiare i neoborbonici
Cosa avrebbe ponderato Cesare Lombroso se avesse avuto la ventura di incontrare Scilipoti Insospettabilmente i due potevano piacersi: bassini e tendenti alla pinguedine, in comune la professione e l’interesse per la medicina non convenzionale. La gustosa scenetta è disattesa da uno dei primi slanci situazionisti dell’ex Italia dei Valori, messosi in testa a un drappello di neoborbonici inferociti dal fondatore dell’antropologia criminale.
A che pro? Correva l’anno 2010. In seguito alle celebrazioni dei 150 anni dello stato italiano e al rinnovato clima nostalgico duosiciliano, un centinaio di manifestanti fomentati dal libro Terroni di Pino Aprile (nel quale si parla di improbabili lager e fosse comuni per migliaia di napoletani passati per le armi piemontesi), in un clima da ultras in cui Savoia e Mazzini finivano nello stesso bieco calderone insaporito dai coretti “Garibaldi boia/Anita la sua troia”, marciavano alla volta del riallestito museo Lombroso di Torino, chiuso al pubblico per decenni. Alla testa, insieme al secondo voltagabbana più celebre d’Italia – recentemente superato da quell’abruzzese che imita un personaggio di Crozza – l’avvocato Colacino, sindaco di Motta S. Lucia, comune della provincia di Catanzaro ove ebbe i natali Giuseppe Villella, presunto brigante e feticcio di quei rabdomantici cercatori di eroi sudisti. I cento reclamavano brevi manu il celebre teschio di Villella, esposto nel museo in quanto catalizzatore della celebre e infondata teoria dell’atavismo criminale di Lombroso: il geniale scienziato pasticcione vi aveva riscontrato una presunta malformazione, la celebre fossetta occipitale situata a supporto del cervelletto che fu assunta come dimostrazione del legame tra criminale ed esseri inferiori sulla scala evolutiva. Colacino nel mentre si diceva discendente diretto di Villella, unico mezzo per richiederne le spoglie mortali. Così, mentre la seria questione meridionale veniva diluita in un milieu culturale non così dissimile da quello dei supporter anti scie chimiche e microchip sottocutanei, una causa era avviata e il giudice del Tribunale di Lamezia Terme Gustavo Danise ha disposto la sepoltura dell’ambìto cranio; l’appello è previsto per il prossimo dicembre. Peccato che un documentatissimo testo di recente pubblicazione, Lombroso e il brigante di Maria Teresa Milicia, antropologa concittadina di Colacino e Villella, dimostra che quest’ultimo brigante non era: un modesto ladruncolo di caciotte morto in carcere per cause naturali piuttosto, ben lontano dalla figura autenticamente idealista di un Passannante. Disinnescando inoltre le accuse di razzismo anticalabrese del deamicisiano Lombroso. Del clima velenoso paga le conseguenze Silvano Montaldo, giovane direttore del museo che nel suo allestimento si presenta rigoroso e imparziale, con una encomiabile cura per gli aspetti controversi e il valore euristico e storico delle teorie dell’alienista ottocentesco: lamenta di essere stato abbandonato anche dalle istituzioni locali e non poter avviare l’ampliamento del museo con le sezioni sul paranormale e sul genio, con il cranio di Alessandro Volta in attesa. Tutto questo mentre alcune teorie lombrosiane stanno clamorosamente tornando in auge, come peraltro evidenziato dall’ottimo volume di Emilia Musumeci Cesare Lombroso e le neuroscienze: un parricidio mancato. Esperimenti come quelli di Libet mostrano come l’istante in cui un soggetto diviene consapevole di compiere un’azione è successivo a quello in cui è attivata l’area cerebrale interessata: la volontà cosciente potrebbe solo selezionare quali iniziative portare avanti o quali bloccare, con un potere di libero veto più che di libero arbitrio. Tutto in direzione dell’impossibile imputabilità dei natural born killer, cavallo di battaglia lombrosiano. Non solo: le nuove tecniche di neuroimaging ci mostrano le inequivocabili malfunzionalità dei cervelli di assassini o antisociali – in particolare, le atrofie del lobo frontale rilevate negli studi di Blake e in quelli di Raine, fino al classico caso di Phineas Gage, il ferroviere trafitto da una lancia in zona frontale che, sopravvissuto, si trasformò da esemplare padre di famiglia in individuo patologicamente irresponsabile. E se Lombroso avesse ragione?
Maria Teresa Milicia. Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso. Salerno ed., Roma, 2014. Pp. 168, euro 12.
A che pro? Correva l’anno 2010. In seguito alle celebrazioni dei 150 anni dello stato italiano e al rinnovato clima nostalgico duosiciliano, un centinaio di manifestanti fomentati dal libro Terroni di Pino Aprile (nel quale si parla di improbabili lager e fosse comuni per migliaia di napoletani passati per le armi piemontesi), in un clima da ultras in cui Savoia e Mazzini finivano nello stesso bieco calderone insaporito dai coretti “Garibaldi boia/Anita la sua troia”, marciavano alla volta del riallestito museo Lombroso di Torino, chiuso al pubblico per decenni. Alla testa, insieme al secondo voltagabbana più celebre d’Italia – recentemente superato da quell’abruzzese che imita un personaggio di Crozza – l’avvocato Colacino, sindaco di Motta S. Lucia, comune della provincia di Catanzaro ove ebbe i natali Giuseppe Villella, presunto brigante e feticcio di quei rabdomantici cercatori di eroi sudisti. I cento reclamavano brevi manu il celebre teschio di Villella, esposto nel museo in quanto catalizzatore della celebre e infondata teoria dell’atavismo criminale di Lombroso: il geniale scienziato pasticcione vi aveva riscontrato una presunta malformazione, la celebre fossetta occipitale situata a supporto del cervelletto che fu assunta come dimostrazione del legame tra criminale ed esseri inferiori sulla scala evolutiva. Colacino nel mentre si diceva discendente diretto di Villella, unico mezzo per richiederne le spoglie mortali. Così, mentre la seria questione meridionale veniva diluita in un milieu culturale non così dissimile da quello dei supporter anti scie chimiche e microchip sottocutanei, una causa era avviata e il giudice del Tribunale di Lamezia Terme Gustavo Danise ha disposto la sepoltura dell’ambìto cranio; l’appello è previsto per il prossimo dicembre. Peccato che un documentatissimo testo di recente pubblicazione, Lombroso e il brigante di Maria Teresa Milicia, antropologa concittadina di Colacino e Villella, dimostra che quest’ultimo brigante non era: un modesto ladruncolo di caciotte morto in carcere per cause naturali piuttosto, ben lontano dalla figura autenticamente idealista di un Passannante. Disinnescando inoltre le accuse di razzismo anticalabrese del deamicisiano Lombroso. Del clima velenoso paga le conseguenze Silvano Montaldo, giovane direttore del museo che nel suo allestimento si presenta rigoroso e imparziale, con una encomiabile cura per gli aspetti controversi e il valore euristico e storico delle teorie dell’alienista ottocentesco: lamenta di essere stato abbandonato anche dalle istituzioni locali e non poter avviare l’ampliamento del museo con le sezioni sul paranormale e sul genio, con il cranio di Alessandro Volta in attesa. Tutto questo mentre alcune teorie lombrosiane stanno clamorosamente tornando in auge, come peraltro evidenziato dall’ottimo volume di Emilia Musumeci Cesare Lombroso e le neuroscienze: un parricidio mancato. Esperimenti come quelli di Libet mostrano come l’istante in cui un soggetto diviene consapevole di compiere un’azione è successivo a quello in cui è attivata l’area cerebrale interessata: la volontà cosciente potrebbe solo selezionare quali iniziative portare avanti o quali bloccare, con un potere di libero veto più che di libero arbitrio. Tutto in direzione dell’impossibile imputabilità dei natural born killer, cavallo di battaglia lombrosiano. Non solo: le nuove tecniche di neuroimaging ci mostrano le inequivocabili malfunzionalità dei cervelli di assassini o antisociali – in particolare, le atrofie del lobo frontale rilevate negli studi di Blake e in quelli di Raine, fino al classico caso di Phineas Gage, il ferroviere trafitto da una lancia in zona frontale che, sopravvissuto, si trasformò da esemplare padre di famiglia in individuo patologicamente irresponsabile. E se Lombroso avesse ragione?
Maria Teresa Milicia. Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso. Salerno ed., Roma, 2014. Pp. 168, euro 12.
Emilia Musumeci. Cesare Lombroso e le neuroscienze: un parricidio mancato. Devianza, libero arbitrio, imputabilità tra antiche chimere ed inediti scenari. Franco Angeli ed., Roma, 2012. Pp. 208, euro 27.
12.5.14
Fisco, 730 e Unico precompilato. Tutto quello che bisogna sapere
Stefano Latini
L'onda lunga del modello pre-compilato bussa oramai anche alle porte dell'Italia. Una dichiarazione dei redditi a toni e con ruoli inversi. In pratica, il Fisco la compila, la trascrive e dopo aver raccolto i dati e i profili tributari del contribuente la invia, rigorosamente via Internet. I risparmi che promette questa novità sono stimati a livelli non alti ma stellari. Più complesso invece, quasi oscuro, l'insieme di criticità e di complessità procedurali da seguire, o da inseguire, per raggiungere un livello accettabile d'invio e di ricezione finalmente emissario di risparmi significativi. Ma vediamo nel dettaglio.
Le possibili modalitàPre-filled o pre-compilled. O ancora, l'ultima, pre-populated. La varianza nei nomi sotto i quali si identifica l'inserimento di procedure per l'invio, e il trattamento, di dichiarazioni dei redditi pre-compilate è sufficientemente indicativo d'un fenomeno in crescita, ma non da ora. Si tratta, infatti, di un obiettivo che ha anticipato l'avvento di Internet. Piuttosto, la chance di coinvolgere successivamente la Rete, il Web e le diverse strumentazioni che queste piattaforme offrono ha semplicemente rilanciato un progetto che un lungo elenco di amministrazioni finanziarie, ultima arrivata l'agenzia delle Entrate sudafricana, avevano , nel corso degli anni, quasi abbandonato. Infatti, mentre per gli esperti, in generale, introdurre una rivoluzione come quella che sarebbe indotta dall'invio di dichiarazioni dei redditi individuali già predefinite, dove al contribuente è richiesto in via esclusiva di accettare i testi e i modelli trascritti o, al massimo, di apportare alcune modifiche marginali, ebbene un cambiamento del genere equivarrebbe ad uno scambio di ruoli tra contribuente e Amministrazione finanziaria. In pratica, quest'ultima compilerebbe e trasmetterebbe la dichiarazione al contribuente, chiamato a interpretare il ruolo di controllore e di verificatore di se stesso.
Le cifre all'estero
Una rivoluzione nient'affatto marginale. E l'esempio della Danimarca, come sottolineato più volte nell'ultimo rapporto diffuso in materia dall'Ocse, è d'aiuto per comprendere il senso di questa trasformazione sia nella pienezza degli sforzi richiesti alle Amministrazioni sia in riferimento ai termini numerici d'un possibile guadagno, e in alcuni casi persino d'una eventuale perdita sul versante dei costi.
Una rivoluzione nient'affatto marginale. E l'esempio della Danimarca, come sottolineato più volte nell'ultimo rapporto diffuso in materia dall'Ocse, è d'aiuto per comprendere il senso di questa trasformazione sia nella pienezza degli sforzi richiesti alle Amministrazioni sia in riferimento ai termini numerici d'un possibile guadagno, e in alcuni casi persino d'una eventuale perdita sul versante dei costi.
I fattori necessari
Al di là dei risparmi, o delle eventuali maggiori spese, la realizzazione d'un progetto con al centro la dichiarazione dei redditi pre-compilata richiede la compresenza di diversi fattori. La disponibilità, da parte dell'amministrazione delle strumentazioni automatizzate e di Rete necessarie per il trattamento degli invii e dei rapporti. A seguire, un sistema fiscale che non ammetta il superamento d'una determinata soglia minima nell'elenco, solitamente lungo, di deduzioni, detrazioni, esenzioni, agevolazioni e misure speciali da cui i contribuenti possono attingere. In pratica, lo sfoltimento delle voci che generalmente incidono sul fenomeno dell'erosione fiscale deve essere innestato prioritariamente. Altrimenti si rischia il caso francese o statunitense. Anche questi Paesi, infatti, hanno puntato sulla strategia pre-compilata. Entrambi però han dovuto desistere di fronte all'infinità di norme fiscali premianti che rendevano, e rendono tutt'ora, la pre-compilazione non ardua ma impossibile.
Al di là dei risparmi, o delle eventuali maggiori spese, la realizzazione d'un progetto con al centro la dichiarazione dei redditi pre-compilata richiede la compresenza di diversi fattori. La disponibilità, da parte dell'amministrazione delle strumentazioni automatizzate e di Rete necessarie per il trattamento degli invii e dei rapporti. A seguire, un sistema fiscale che non ammetta il superamento d'una determinata soglia minima nell'elenco, solitamente lungo, di deduzioni, detrazioni, esenzioni, agevolazioni e misure speciali da cui i contribuenti possono attingere. In pratica, lo sfoltimento delle voci che generalmente incidono sul fenomeno dell'erosione fiscale deve essere innestato prioritariamente. Altrimenti si rischia il caso francese o statunitense. Anche questi Paesi, infatti, hanno puntato sulla strategia pre-compilata. Entrambi però han dovuto desistere di fronte all'infinità di norme fiscali premianti che rendevano, e rendono tutt'ora, la pre-compilazione non ardua ma impossibile.
Centrale è anche la disponibilità d'una ampia rete di intermediari e di banche dati interagenti con le amministrazioni finanziarie. Questa connessione è decisiva nel trasferimento dei dati, rapidamente, consentendo agli operatori di inserirli sulle dichiarazioni da trasmettere. Si tratta di un flusso continuo di numeri e di elenchi che coinvolge banche, assicurazioni e svariati enti pubblici. In pratica, il Fisco diviene una sorta di centrale permanente di recezione dati. Naturalmente, questo comporta anche una normativa che consenta la disponibilità, l'utilizzo e la trasmissione di questi dati che, spesso, possono esser considerati riservati.
I passi avanti sulla telematicaAl dunque, l'Italia, quindi l'agenzia delle Entrate, è ritenuta oggi essere tra i candidati più vicini ad aprire il confronto con il precompilato. Di fatto, come da analisi e studi dell'Ocse, è un ulteriore riconoscimento dei passi avanti realizzati dall'Amministrazione sul terreno del telematico, dell'informatica e dei servizi online destinati a decine di milioni di contribuenti, il 100 per cento. Per comprendere quanto questo costituisca un valore largamente riconosciuto oltreconfine, meno in patria, negli Usa, o nel Regno Unito, i contribuenti che ad oggi possono trasmettere la rispettive dichiarazione in via telematica, utilizzando i canali gestiti dal Fisco, non oltrepassano la soglia dell'80 per cento. E questo nonostante i due Paesi abbiano investito nel corso del decennio passato diversi miliardi di euro sull'autostrada telematica. E per finire, le Entrate italiane vantano anche una significativa esperienza sia nella gestione sia nell'integrazione tecnico-normativa in materia di banche dati. Insomma, tradotto «competenza».
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