di Barbara Spinelli
Esiste dunque un’ira funesta della Francia, che l’ha spinta a sollevarsi contro la costituzione siglata nel 2004 dai governi europei e a pronunciare ieri un fragoroso no al nuovo edificio dell’Unione. Il popolo francese ha detto no in maniera confusa, perché nel rifiuto si mescolano le passioni più contraddittorie: il viscerale desiderio di chiudersi nazionalisticamente dietro le frontiere e la speranza delusa in un’Europa che non è ancora potenza; la paura xenofoba legata all’allargamento e il timore che l’Unione così come si sta facendo non protegga dalle tempeste che possono venire da un mondo in mutazione, dove rude sarà la competizione tra molti Grandi.
Ma da Parigi viene un messaggio talmente tonante, la differenza tra i sì e i no è talmente enorme, che l’Europa esce a pezzi anche se il fronte negazionista è un’accozzaglia di contraddizioni, resa compatta dal rigetto incollerito della presidenza Chirac e dalla mescolanza letale tra politica nazionale ed europea. A partire dal momento in cui l’Europa esce a pezzi è la componente di estrema destra nazionalista che trionfa, monopolizzando per intero il no. I socialisti che negli ultimi anni hanno vinto tante battaglie (regionali, cantonali, europee) sono d’un tratto condannati al disastro per il cinismo di un suo dirigente, ieri europeo oggi antieuropeo per mera convenienza personalistica: Laurent Fabius. Nel 2002 la sinistra francese precipitò nel marasma aprendo la strada a Le Pen, che vinse il primo turno delle presidenziali. Oggi per colpa di Fabius la sinistra apre le strada all’estrema destra nazionalista di De Villiers, che è l’alter ego meno scandaloso di Le Pen. Per le sinistre europee, per la sinistra italiana che proprio in queste ore si dilania mentre sembrava vincente, l’ora è buia.
Il no francese riguarda tutti noi. Visto che l’Unione continua a esistere e a legarci gli uni agli altri siamo nella stessa zattera, e il rifiuto di una stragrande maggioranza di francesi è un pezzo della nostra stessa anima che entra in tumulto e chiede risposte alternative, vie d’uscita, soluzioni dei dilemmi, scioglimenti di enigmi. E non è un pezzo qualunque: la Francia con la Germania ha inventato l’Europa, e niente si è fatto o disfatto senza che lei fosse protagonista, lungo i decenni. Tutti siamo davanti a un bivio, e davanti a esso per tutti toccherà scegliere: o rispondere alla crisi con una reazione a catena positiva, o con una reazione a catena rinunciataria, regressiva. O far nascere dalla crisi un’Europa ancor più ambiziosa, meno timorosa e povera di mezzi e istituzioni di quella negoziata da Giscard con gli Stati, o ridurre le aspettative rinazionalizzando l'intero progetto emerso nel dopoguerra.
Il cammino comunque minaccia d’esser lungo, per chi vuol medicare l’Europa ferita. Ci vorranno anni, forse.
Crisi in origine non vuol dire patologia, malanno: la parola indica l’ora della decisione, del discernimento tra due possibili vie. È il malessere provato ogni qualvolta giungiamo al punto in cui i sentieri si biforcano che ha dato, alla crisi, il colore di una condizione patologica, dalla quale si uscirebbe con farmaci o addirittura col riposo e non, come invece urge, con la contromossa consistente nel prendere una decisione, nell’agire scegliendo la via ritenuta migliore. L’unica cosa che non si può dire è che l’Europa muore a Parigi: sarebbe non solo cupio dissolvi ma controverità.
L’esigenza di una crisi-decisione vale per la Francia come per l’Unione, e per questo il no pronunciato ieri è una prova alla quale ambedue dovranno al più presto sottoporsi, Chirac e i socialisti e la società francesi da una parte, gli europei dall’altra, per vedere se la gara potrà alla fine esser vinta. Non siamo infatti di fronte a un incidente momentaneo, non possiamo fischiettare nella notte per meglio allontanare gli spettri veri e immaginari che hanno acceso tante paure in Francia. Siamo di fronte a un sommovimento che viene dai sottofondi di una Francia specialmente inferma ma anche dai sottofondi d’Europa. Siamo alle prese con una strana bestia che ha il calore attraente d’ogni negazione e che somiglia non poco a quello che Nietzsche chiamava grosser Ekel, Grande Repulsione o letteralmente Schifo, Nausea. Con un gesto iracondo il Ribrezzo cancella l’essere stesso, installando al suo posto la potenza del nulla.
Quel che la Francia può imparare dalla veemenza di tale gesto negazionista è l’importanza di rispondere a paure e malcontenti con radicali svolte in politica interna e, in Europa, con argomenti più arditi e netti, meno rituali o evasivi. Una cosa, infatti, è apparsa limpida nella campagna referendaria per quanto riguarda l’Unione. Il fronte del no accampava una parola precisa, non equivocabile, e proprio qui era il suo fascino. Ben altro era il sì detto da gran parte della classe dirigente (politici e stampa): non da oggi, ma da decenni, è un sì caratterizzato da intenebrate ambiguità. Non da oggi mostra d’aver coscienza di quanto siano divenuti deboli gli Stati nazione, e dunque bisognosi di un’Unione di dimensione continentale, e al tempo stesso chiude gli occhi alla realtà, fingendo l’inossidabilità della grandeur nazionale.
Paradossalmente, una vittoria del sì avrebbe confortato l’Unione ma avrebbe prolungato quest’abitudine francese ad avere perennemente i piedi in due staffe, a presentarsi sempre con due anime. Il no obbliga molto più del sì a sceglierne infine una. Obbliga i dirigenti a dire quel che fin qui si son guardati di dire: che l’Europa intera e non solo gli sconfitti del ‘45 sono usciti perdenti dal ‘900. Che l’Europa è la risposta a questo declino storico, e alle sovranità assolute dei singoli Stati da cui il declino è scaturito. Che è insieme agli altri che Parigi può ritrovare grandezza. Che il suo universalismo deve trasformarsi in cosmopolitismo, perché nell’Unione non è lecito uniformare i valori di tutti attorno al credo d’uno solo. Il no è precipizio in un passato immaginario ma è anche immensa stanchezza (ribrezzo, appunto) per l’incessante doppiezza dei piccoli passi.
Ma un lavoro non meno impegnativo spetta ora agli altri stati dell’Unione. Sono questi che saranno chiamati a decidere il che fare, perché Parigi possa rientrare e la Costituzione esser tratta in salvo dai tifoni, senza naufragare e neppure subire danni completamente distruttivi da eventuali correzioni di rotta. Spetta in primo luogo a loro gestire il no francese e quello che altri paesi, a cominciare dall’Olanda, il 1° giugno, poi Danimarca, Polonia, Inghilterra, potrebbero pronunciare. È come se una nazione della Comunità fosse stata aggredita, non dall’esterno ma dall’interno. Ora si tratta di far valere la clausola di solidarietà e venirle in aiuto con senso dell’urgenza e del dramma.
Gli ostacoli a tale cammino sono certo rilevanti. Oggi manca una leadership forte nell’Unione in particolare nel drappello dei Fondatori, determinante per una ripresa europea che sappia cogliere l’attimo storico e ripartire come seppero Kohl e Adenauer, De Gasperi o Andreotti, Schuman o Delors. Ciampi ha questo fiato tenace, ed è sperabile che da lui vengano iniziative. Ma urgono segnali di tutti i fondatori, visto che l’importante non è solo la leadership, in questa fase.
In questa fase occorre prefigurare una strada percorribile perché il popolo francese possa tornare a votare in condizioni di maggiore chiarezza: sia tra francesi sia tra alleati; sia avendo di fronte una classe politica nazionale meno ambigua e più disposta all’ascolto negli affari interni, sia avendo di fronte un’Europa che può accettare molte correzioni, ma non l’immobilismo e ancor meno l’arretramento e la rinuncia a una costituzione. I compiti che gli stati europei avranno l’interesse ad assumersi nell’immediato sono molti, ma potremmo provvisoriamente riassumerli i due punti.
Primo punto: è più che mai necessario che il processo delle ratifiche continui, in Europa: sia nei parlamenti sia nei referendum. 500 milioni di abitanti non possono rinunciare solo perché più della metà degli elettori ha detto no in un paese, e sarà bene che i francesi lo capiscano. Gli accordi prevedono che se quattro quinti degli stati (almeno 20) approveranno la Costituzione, non si imporrà in maniera automatica il rinegoziato ma il Consiglio dei capi di stato e di governo ridiscuterà e delibererà. Non è escluso anche se improbabile che i francesi escano dall’ebbrezza del no, quando vedranno di essere molto isolati alla fine delle ratifiche, nel 2006.
Secondo punto: i più vari compromessi e rilanci sono possibili, purché l’obiettivo (salvare l’idea d’una costituzione e i suoi muri maestri) sia salvaguardato. Si può attutire questo o quel paragrafo, o precisarlo. In teoria si potrebbe anche stralciare dalla Costituzione la terza parte (quella che costituzionalizza le politiche contenute nei trattati precedenti) e lasciare in piedi definizione e obiettivi dell’Unione, carta dei diritti, disposizioni generali e finali (Parti I, II e IV).
Ma il vero compito riguarda quel che avverrà dopo le azioni immediate, intese a salvare la costituzione. Ed è compito cruciale perché più profondo, che concerne la filosofia e la strategia stessa dell’Unione. Si è visto nel referendum francese (e lo si vedrà nei prossimi in Europa) quanto abbiano pesato temi come l’allargamento, l’eventuale inclusione della Turchia, la questione d’Oriente in Ucraina. Si è visto come il sì fosse muto in materia: privo non solo di visione, ma anche riluttante quando si trattava di denunciare la xenofobia che andava concentrandosi nel fronte del no. È su questi temi che urgerà, non troppo tardi, dire quel che si vuole.
Questo vuol dire che anche per l’Europa verrà presto il momento di uscire dalla doppiezza. A parole, essa vuole essere innanzitutto un’unità capace di governarsi, e di avere i mezzi e le istituzioni e il metodo politico per una politica estera comune. Nel linguaggio comunitario, questo scopo si chiama approfondimento, e nessun allargamento dovrebbe prodursi senza di esso. In realtà le due cose non sono veramente progredite insieme, e preminente col tempo è divenuto l’allargamento. O per esser precisi: lo strumento attraverso il quale l’Unione si è data una politica di stabilizzazione e democratizzazione del proprio retroterra orientale e sudorientale, ai confini della Russia come della Turchia, è divenuto l’allargamento e l’allargamento stesso si è trasformato in vera finalità anche istituzionale dell’Europa.
Naturalmente è essenziale che questa politica di stabilizzazione riesca, anche attraverso un’estensione della democrazia. Ma lo strumento privilegiato non può essere la sola adesione. Né l’Europa può imbarcarsi in una serie sterminata di allargamenti senza porre preliminarmente i quesiti essenziali: la lealtà primaria che i candidati devono all’Unione, le associazioni che possono esser offerte in alternativa all’adesione, la preminenza assoluta che convien dare al rafforzamento politico dell’Unione e alla sua costituzione interna. Costituzione che deve divenire, se mai nascerà, il vero confine dell’Europa unita.
Forse questo diverrà col tempo il punto principale. Il compito per l’Europa non è oggi di dare una risposta alla sfida americana dell’esportazione delle democrazie, ma di creare un’Unione sufficientemente legittimata da poter avere le politiche che rispondono ai suoi interessi di grande potenza. Prima di darsi una certa linea politica (estensione della democrazia, ordine ottenuto con adesioni o associazioni) occorre sapere chi siamo, quanti vogliamo essere, che tipo di governo (sovrannazionale e nazionale) vorremo dare al nostro voler essere insieme. Se l’Europa potenza esistesse già, molti più europei voterebbero la Costituzione. E la prima sarebbe forse proprio la Francia, che da sempre coltiva il sogno di un’Europa che parli da pari a pari con le potenze del mondo.
lastampa.it
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