Rivive in un volume anche la stagione «dimenticata» Dopo l' esordio a Rio de Janeiro venne qui a dirigere l' Aida. Nel 1951 il ritorno tra lacrime e commozione In extremis Il maestro fu sfidato a duello da un ufficiale di cavalleria, ma intervenne il vicesindaco che evitò il sangue
Voghera, 1951. Arriva in città un' automobile, che giunge da Genova, con a bordo Arturo Toscanini e Orio Vergani. Sosta all' allora pasticceria Fossati &Tomaghelli. Il celebre direttore scende, guadagna un tavolo e poi chiede con piglio sicuro, nonostante la veneranda età: «Esiste ancora quel teatrino nel quale io diressi, quasi ragazzo, tanti anni fa?». La risposta non si fece attendere: «Certo, maestro, è quasi davanti a noi...». Il vecchio signore del podio espresse a quel punto il desiderio di rivederlo, seppur per un momento. Si crea un gruppo, guidato dalle autorità subito accorse, si accendono le luci e Toscanini, che non era facile alle lacrime, ha negli occhi un luccichio imprevisto. «Grazie, grazie - sussurra - avevo soltanto 22 anni quando diressi qui. Era una delle mie prime stagioni». L' episodio, carico di ricordi e di storia, è poco noto ed è ora narrato nel libro di Vittorio Emiliani Vitelloni e Giacobini (Donzelli, pp. 288, 16). Una sorta di diario brillante, scritto tra Voghera e Milano in un periodo carico di aspettative, dove appare un Arbasino giovane, lo stesso Emiliani con i calzoni corti, Giuseppe Tarozzi (critico musicale e poi all' ufficio stampa del Comune di Milano), Italo Pietra, gli artisti che si ritrovavano nei bar di Brera, le stagioni del ricordato Teatro Sociale, i giornali locali tra cui «Il Cittadino», Paolo Grassi, Elio Vittorini e troppi altri personaggi che non riusciamo a elencare. Toscanini è fatto rivivere tra queste pagine anche per la stagione vogherese del 1889, allorché la Società del Teatro ebbe il coraggio di chiamare da Parma il giovane Arturo che aveva già un bel caratterino. Dopo l' esordio a Rio de Janeiro nel 1886, il maestro venne qui per dirigere un' Aida e una Norma (opera, quest' ultima, che mai realizzerà in tutta la sua carriera). Emiliani ricorda le sue battute, la mondanità vogherese che lo coinvolgeva, soprattutto non tace gli incidenti con l' orchestra e la compagnia. A un violoncellista che non riusciva a dirozzare rivolse, dopo averlo bloccato, queste parole che suonarono terribili nel silenzio generale: «Lei domani porti una sega. Almeno taglierà un po' di legna». Del resto, durante un' ennesima prova, lanciò la bacchetta sul naso del suonatore del corno da caccia. Ma l' incidente più gustoso fu con il soprano. Riluttante a nuove prove, la poverina si era accomodata su una sedia e non trovava più ragioni per alzarsi. Il maestro non fu delicato: «Va bene che sei seduta sulla parte migliore di te, ma quest' aria qua la devi riprovare da capo, perdio!». In sala si udì un commento indignato. Toscanini guardò in giro e vide in un palco un ufficiale di cavalleria che, probabilmente, stravedeva per la cantante; era riuscito a entrare, e ora interveniva. Fermò l' orchestra, pose la bacchetta sul leggio e scandì infuriato: «Chi ha fatto entrare quel pagnottista?». Era un insulto a sangue, a cui seguì una sfida a duello. Emiliani racconta che Toscanini era pronto a battersi ma intervenne il vice-sindaco, Desiderio Beltrami, che evitò la sfida all' ultimo sangue. Salvando in tal modo tanta musica. Il libro Il libro di Vittorio Emiliani Vitelloni e Giacobini. Voghera-Milano fra dopoguerra e «boom» (Donzelli) è una densa e vivace autobiografia scritta in un osservatorio che si rivelerà come privilegiato. Ci sono i giornali di provincia degli anni Cinquanta (laboratori per un mondo migliore), con un Alberto Arbasino già inviato e sempre in viaggio; c' è una vita sociale intensissima con quei protagonisti che assomigliano sovente ai vitelloni di felliniana memoria; c' è una foto di gruppo nella quale si distinguono i profili di Antonio e Camilla Cederna, Paolo Grassi, Italo Pietra, Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari, Ugo Mulas, Nazareno Fabretti. Ci sono infine i luoghi-simbolo che entrano nella storia con riflessi e altro, come il Giamaica di via Brera, il Piccolo Teatro e la Scala al massimo splendore; insomma, nella «capitalina» dell' Oltrepò, sospesa tra l' universitaria Pavia e una Milano europea, c' è la palestra di un' Italia che farà qualcosa. Oltre i ricordi e le storie, c' è il bilancio di una generazione. Che ha avuto più di quanto potesse sperare. (Ar. To.)
corriere.it
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
28.2.09
La Voghera di Toscanini tra musica, liti e duelli
24.2.09
Gli Zombie del credito
(da La Repubblica)
PAUL KRUGMAN
Il collega Greenspan vuole che prendiamo possesso dei vertici dell'economia. Beh, non esattamente. Ciò che ha detto Alan Greenspan, ex presidente della Federal Re serve - nonché strenuo difensore del libero mercato - per la precisione è stato: «Potrebbe essere necessario procedere a una temporanea nazionalizzazione di alcune banche».
Privatizzarle con l'obiettivo di rendere più facile una loro ristrutturazione in tempi rapidi e con ordine». Condivido pienamente.
Gli argomenti validi adducibili a favore della nazionalizzazione si basano essenzialmente su tre osservazioni. La prima è che alcune banche di grosse proporzioni sono pericolosamente vicine al baratro, anzi, sarebbero già precipitate nell'abisso se gli investitori non avessero dato per scontato che sarebbe stato il governo a soccorrerli, qualora se ne fosse presentatala necessità. La seconda è che le banche devono essere salvate: il crollo della Lehman Brothers ha pressoché distrutto il sistema finanziario mondiale e non possiamo rischiare di lasciare che altri istituti ancora più importanti, come Citigroup o Bank of America, implodano su se stessi. La terza è che se da un lato è necessario salvare le banche, dall'altro il governo degli Stati Uniti non può permettersi, né da un punto di vista fiscale, né da un punto di vista politico, di elargire grossi regali agli azionisti delle banche.
Cerchiamo però di esser e pragmatici. Esistono ragionevoli possibilità - per quanto non si possa ancora parlare di certezze - che Citi (Citigroup) e BofA (Bank of America) possano perdere complessivamente entro i prossimi anni centinaia di miliardi di dollari. E i loro capitali, gli asset eccedenti i loro passivi, non sono nemmeno lontanamente sufficienti a coprire queste perdite presunte.
Forse, l’unica ragione per la quale non sono già fallite è che il governo sta fungendo da rete di contenimento, a garanzia implicita delle loro obbligazioni. Si tratta in ogni caso di banche-zombie, incapaci di fornire quel credito di cui necessita l'economia. Per porre fine al loro status di zombie, le banche hanno un bisogno vitale di maggiori capitali, che non possono attingere più da investitori privati: da qui la necessità che sia il governo a fornire i finanziamenti necessari.
Ecco il problema, però: i finanziamenti necessari a riportare pienamente in vita queste banche supererebbero di gran lunga per ammontare il loro stesso valore attuale. Citi e BofA hanno insieme un valore di mercato inferiore a 30 miliardi di dollari. In realtà, perfino questo presunto valore si basa principalmente (se non interamente) sulla speranza che gli azionisti ottengano una parte di ciò che il governo distribuirà sotto forma di sovvenzioni. Di conseguenza, se in sostanza il governo ci mette i soldi, in pratica dovrebbe in cambio ottenere la proprietà di questi istituti.
Ma la nazionalizzazione non era qualcosa di totalmente alieno all'America? Niente affatto: è americana tanto quanto la torta di mele. Negli ultimi tempi la Federai Deposit Insurance Corporation sta rilevando banche che reputa essere insolventi al ritmo di due a settimana. Quando la Fdic procede a tale operazione, si appropria degli asset negativi della banca, salda parte dei suoi debiti e rivende a investitori privati l'istituto bancario riassestato. Questo è esattamente ciò che i propugnatori della nazionalizzazione temporanea auspicano di veder realizzato, non soltanto nel caso delle piccole banche di cui la Fdic sta assumendo il controllo, ma anche delle grosse banche insolventi nello stesso modo.
La vera domanda da porsi è perché l'Amministrazione Obama continui a venirsene fuori con proposte che sembrano plausibili alternative al processo di nazionalizzazione, ma che in realtà si rivelano comportare ingenti sovvenzioni agli azionisti delle banche.
Per esempio, l'Amministrazione in un primo tempo aveva ventilato l'idea di offrire alle banche garanzie contro perdite o asset problematici. Ciò avrebbe rappresentato un gran bell'affare per gli azionisti delle banche, ma non altrettanto per il resto di noi: se esce testa vincono, se esce croce ci rimettono i contribuenti.
Adesso l'Amministrazione parla di una «partnership tra pubblico e privato» per acquisire asset problematici dalle banche. A tal fine, il governo dovrebbe prestare i soldi agli investitori del settore privato e ciò di fatto offrirebbe loro una "one-way bet", ovvero una scommessa a senso unico: se gli asset aumentano di prezzo, gli investitori ci guadagnano; se calano considerevolmente, gli investitori possono ritirarsi e lasciare che ad accollarsene l'onere sia il governo. Anche in questo caso dunque, se esce testa vincono, se esce croce ci rimettiamo in ogni caso noi.
Perché dunque non procedere direttamente alla nazionalizzazione? Sappiatelo: quanto più a lungo convivremo con queste banche-zombie, tanto più difficile sarà porre fine alla crisi economica.
Come dovrebbe svolgersi la nazionalizzazione? Tutto ciò che l'Amministrazione deve fare è prendere sul serio lo "stress test" da lei stessa messo a punto per le banche più grosse, e non occultarne i risultati quando una di esse non riesce a superare tale test, rendendo inevitabile la sua acquisizione. Ebbene sì, l'intera operazione riporterebbe vagamente alla mente Claude Rains, nei momento in cui un governo che da mesi puntella e sostiene le banche dovesse dichiararsi all'improvviso sconvolto e completamente sbigottito per la miserabile situazione dei loro bilanci.
Ma va bene così. Ancora una volta, l'obiettivo di tutto ciò non è che il governo acquisisca proprietà a lungo termine: al pari delle piccole banche rilevate di settimana in settimana dalla Fdic, le banche più grosse dovrebbero fare ritorno al controllo dei privati quanto prima possibile. Il blog di finanza Calculated Risk suggerisce di utilizzare il termine "pre-privatizzazione", invece di definire l'intero processo "nazionalizzazione".
L'Amministrazione Obama, dice Robert Gibbs, portavoce della Casa Bianca, crede che «il sistema giusto e corretto per procedere sia un sistema bancario di proprietà privata». Lo stesso crediamo noi tutti, ma per il momento per le mani non ci troviamo un'imprenditoria privata, bensì un socialismo-bidone: le banche ottengono benefici, ma i rischi li corrono i contribuenti. E tutto ciò significa una cosa soltanto: tenere in vita le banche-zombie, precludendo la ripresa economica.
Noi, invece, vogliamo un sistema nel quale le banche si accollino anche gli svantaggi oltre che beneficiare dei vantaggi: e la strada giusta verso un sistema di questo tipo passa solo attraverso la nazionalizzazione.
©2009 The New York Times
Traduzione di Anna Bissanti
PAUL KRUGMAN
Il collega Greenspan vuole che prendiamo possesso dei vertici dell'economia. Beh, non esattamente. Ciò che ha detto Alan Greenspan, ex presidente della Federal Re serve - nonché strenuo difensore del libero mercato - per la precisione è stato: «Potrebbe essere necessario procedere a una temporanea nazionalizzazione di alcune banche».
Privatizzarle con l'obiettivo di rendere più facile una loro ristrutturazione in tempi rapidi e con ordine». Condivido pienamente.
Gli argomenti validi adducibili a favore della nazionalizzazione si basano essenzialmente su tre osservazioni. La prima è che alcune banche di grosse proporzioni sono pericolosamente vicine al baratro, anzi, sarebbero già precipitate nell'abisso se gli investitori non avessero dato per scontato che sarebbe stato il governo a soccorrerli, qualora se ne fosse presentatala necessità. La seconda è che le banche devono essere salvate: il crollo della Lehman Brothers ha pressoché distrutto il sistema finanziario mondiale e non possiamo rischiare di lasciare che altri istituti ancora più importanti, come Citigroup o Bank of America, implodano su se stessi. La terza è che se da un lato è necessario salvare le banche, dall'altro il governo degli Stati Uniti non può permettersi, né da un punto di vista fiscale, né da un punto di vista politico, di elargire grossi regali agli azionisti delle banche.
Cerchiamo però di esser e pragmatici. Esistono ragionevoli possibilità - per quanto non si possa ancora parlare di certezze - che Citi (Citigroup) e BofA (Bank of America) possano perdere complessivamente entro i prossimi anni centinaia di miliardi di dollari. E i loro capitali, gli asset eccedenti i loro passivi, non sono nemmeno lontanamente sufficienti a coprire queste perdite presunte.
Forse, l’unica ragione per la quale non sono già fallite è che il governo sta fungendo da rete di contenimento, a garanzia implicita delle loro obbligazioni. Si tratta in ogni caso di banche-zombie, incapaci di fornire quel credito di cui necessita l'economia. Per porre fine al loro status di zombie, le banche hanno un bisogno vitale di maggiori capitali, che non possono attingere più da investitori privati: da qui la necessità che sia il governo a fornire i finanziamenti necessari.
Ecco il problema, però: i finanziamenti necessari a riportare pienamente in vita queste banche supererebbero di gran lunga per ammontare il loro stesso valore attuale. Citi e BofA hanno insieme un valore di mercato inferiore a 30 miliardi di dollari. In realtà, perfino questo presunto valore si basa principalmente (se non interamente) sulla speranza che gli azionisti ottengano una parte di ciò che il governo distribuirà sotto forma di sovvenzioni. Di conseguenza, se in sostanza il governo ci mette i soldi, in pratica dovrebbe in cambio ottenere la proprietà di questi istituti.
Ma la nazionalizzazione non era qualcosa di totalmente alieno all'America? Niente affatto: è americana tanto quanto la torta di mele. Negli ultimi tempi la Federai Deposit Insurance Corporation sta rilevando banche che reputa essere insolventi al ritmo di due a settimana. Quando la Fdic procede a tale operazione, si appropria degli asset negativi della banca, salda parte dei suoi debiti e rivende a investitori privati l'istituto bancario riassestato. Questo è esattamente ciò che i propugnatori della nazionalizzazione temporanea auspicano di veder realizzato, non soltanto nel caso delle piccole banche di cui la Fdic sta assumendo il controllo, ma anche delle grosse banche insolventi nello stesso modo.
La vera domanda da porsi è perché l'Amministrazione Obama continui a venirsene fuori con proposte che sembrano plausibili alternative al processo di nazionalizzazione, ma che in realtà si rivelano comportare ingenti sovvenzioni agli azionisti delle banche.
Per esempio, l'Amministrazione in un primo tempo aveva ventilato l'idea di offrire alle banche garanzie contro perdite o asset problematici. Ciò avrebbe rappresentato un gran bell'affare per gli azionisti delle banche, ma non altrettanto per il resto di noi: se esce testa vincono, se esce croce ci rimettono i contribuenti.
Adesso l'Amministrazione parla di una «partnership tra pubblico e privato» per acquisire asset problematici dalle banche. A tal fine, il governo dovrebbe prestare i soldi agli investitori del settore privato e ciò di fatto offrirebbe loro una "one-way bet", ovvero una scommessa a senso unico: se gli asset aumentano di prezzo, gli investitori ci guadagnano; se calano considerevolmente, gli investitori possono ritirarsi e lasciare che ad accollarsene l'onere sia il governo. Anche in questo caso dunque, se esce testa vincono, se esce croce ci rimettiamo in ogni caso noi.
Perché dunque non procedere direttamente alla nazionalizzazione? Sappiatelo: quanto più a lungo convivremo con queste banche-zombie, tanto più difficile sarà porre fine alla crisi economica.
Come dovrebbe svolgersi la nazionalizzazione? Tutto ciò che l'Amministrazione deve fare è prendere sul serio lo "stress test" da lei stessa messo a punto per le banche più grosse, e non occultarne i risultati quando una di esse non riesce a superare tale test, rendendo inevitabile la sua acquisizione. Ebbene sì, l'intera operazione riporterebbe vagamente alla mente Claude Rains, nei momento in cui un governo che da mesi puntella e sostiene le banche dovesse dichiararsi all'improvviso sconvolto e completamente sbigottito per la miserabile situazione dei loro bilanci.
Ma va bene così. Ancora una volta, l'obiettivo di tutto ciò non è che il governo acquisisca proprietà a lungo termine: al pari delle piccole banche rilevate di settimana in settimana dalla Fdic, le banche più grosse dovrebbero fare ritorno al controllo dei privati quanto prima possibile. Il blog di finanza Calculated Risk suggerisce di utilizzare il termine "pre-privatizzazione", invece di definire l'intero processo "nazionalizzazione".
L'Amministrazione Obama, dice Robert Gibbs, portavoce della Casa Bianca, crede che «il sistema giusto e corretto per procedere sia un sistema bancario di proprietà privata». Lo stesso crediamo noi tutti, ma per il momento per le mani non ci troviamo un'imprenditoria privata, bensì un socialismo-bidone: le banche ottengono benefici, ma i rischi li corrono i contribuenti. E tutto ciò significa una cosa soltanto: tenere in vita le banche-zombie, precludendo la ripresa economica.
Noi, invece, vogliamo un sistema nel quale le banche si accollino anche gli svantaggi oltre che beneficiare dei vantaggi: e la strada giusta verso un sistema di questo tipo passa solo attraverso la nazionalizzazione.
©2009 The New York Times
Traduzione di Anna Bissanti
Basta soldi pubblici al teatro
di Alessandro Baricco
Sotto la lente della crisi economica, piccole crepe diventano enormi, nella ceramica di tante vite individuali, ma anche nel muro di pietra del nostro convivere civile. Una che si sta spalancando, non sanguinosa ma solenne, è quella che riguarda le sovvenzioni pubbliche alla cultura. Il fiume di denaro che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni. Dato che il fiume si sta estinguendo, ci si interroga. Si protesta. Si dibatte. Un commissariamento qui, un'indagine per malversazione là, si collezionano sintomi di un'agonia che potrebbe anche essere lunghissima, ma che questa volta non lo sarà. Sotto la lente della crisi economica, prenderà tutto fuoco, molto più velocemente di quanto si creda.
In situazioni come queste, nei film americani puoi solo fare due cose: o scappi o pensi molto velocemente. Scappare è inelegante. Ecco il momento di pensare molto velocemente. Lo devono fare tutti quelli cui sta a cuore la tensione culturale del nostro Paese, e tutti quelli che quella situazione la conoscono da vicino, per averci lavorato, a qualsiasi livello. Io rispondo alla descrizione, quindi eccomi qui. In realtà mi ci vorrebbe un libro per dire tutto ciò che penso dell'intreccio fra denaro pubblico e cultura, ma pensare velocemente vuol dire anche pensare l'essenziale, ed è ciò che cercherò di fare qui.
Se cerco di capire cosa, tempo fa, ci abbia portato a usare il denaro pubblico per sostenere la vita culturale di un Paese, mi vengono in mente due buone ragioni. Prima: allargare il privilegio della crescita culturale, rendendo accessibili i luoghi e i riti della cultura alla maggior parte della comunità. Seconda: difendere dall'inerzia del mercato alcuni gesti, o repertori, che probabilmente non avrebbero avuto la forza di sopravvivere alla logica del profitto, e che tuttavia ci sembravano irrinunciabili per tramandare un certo grado di civiltà.
A queste due ragioni ne aggiungerei una terza, più generale, più sofisticata, ma altrettanto importante: la necessità che hanno le democrazie di motivare i cittadini ad assumersi la responsabilità della democrazia: il bisogno di avere cittadini informati, minimamente colti, dotati di principi morali saldi, e di riferimenti culturali forti. Nel difendere la statura culturale del cittadino, le democrazie salvano se stesse, come già sapevano i greci del quinto secolo, e come hanno perfettamente capito le giovani e fragili democrazie europee all'indomani della stagione dei totalitarismi e delle guerre mondiali.
Adesso la domanda dovrebbe essere: questi tre obbiettivi, valgono ancora? Abbiamo voglia di chiederci, con tutta l'onestà possibile, se sono ancora obbiettivi attuali? Io ne ho voglia. E darei questa risposta: probabilmente sono ancora giusti, legittimi, ma andrebbero ricollocati nel paesaggio che ci circonda. Vanno aggiornati alla luce di ciò che è successo da quando li abbiamo concepiti. Provo a spiegare.
Prendiamo il primo obbiettivo: estendere il privilegio della cultura, rendere accessibili i luoghi dell'intelligenza e del sapere. Ora, ecco una cosa che è successa negli ultimi quindici anni nell'ambito dei consumi culturali: una reale esplosione dei confini, un'estensione dei privilegi, e un generale incremento dell'accessibilità. L'espressione che meglio ha registrato questa rivoluzione è americana: the age of mass intelligence, l'epoca dell'intelligenza di massa.
Oggi non avrebbe più senso pensare alla cultura come al privilegio circoscritto di un'élite abbiente: è diventata un campo aperto in cui fanno massicce scorribande fasce sociali che da sempre erano state tenute fuori dalla porta. Quel che è importante è capire perché questo è successo. Grazie al paziente lavoro dei soldi pubblici? No, o almeno molto di rado, e sempre a traino di altre cose già successe. La cassaforte dei privilegi culturali è stata scassinata da una serie di cause incrociate: Internet, globalizzazione, nuove tecnologie, maggior ricchezza collettiva, aumento del tempo libero, aggressività delle imprese private in cerca di un'espansione dei mercati. Tutte cose accadute nel campo aperto del mercato, senza alcuna protezione specifica di carattere pubblico.
Se andiamo a vedere i settori in cui lo spalancamento è stato più clamoroso, vengono in mente i libri, la musica leggera, la produzione audiovisiva: sono ambiti in cui il denaro pubblico è quasi assente. Al contrario, dove l'intervento pubblico è massiccio, l'esplosione appare molto più contratta, lenta, se non assente: pensate all'opera lirica, alla musica classica, al teatro: se non sono stagnanti, poco ci manca. Non è il caso di fare deduzioni troppo meccaniche, ma l'indizio è chiaro: se si tratta di eliminare barriere e smantellare privilegi, nel 2009, è meglio lasciar fare al mercato e non disturbare. Questo non significa dimenticare che la battaglia contro il privilegio culturale è ancora lontana dall'essere vinta: sappiamo bene che esistono ancora grandi caselle del Paese in cui il consumo culturale è al lumicino. Ma i confini si sono spostati. Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione. Quando si parla di fondi pubblici per la cultura, non si parla di scuola e di televisione. Sono soldi che spendiamo altrove. Apparentemente dove non servono più. Se una lotta contro l'emarginazione culturale è sacrosanta, noi la stiamo combattendo su un campo in cui la battaglia è già finita.
Secondo obbiettivo: la difesa di gesti e repertori preziosi che, per gli alti costi o il relativo appeal, non reggerebbero all'impatto con una spietata logica di mercato. Per capirci: salvare le regie teatrali da milioni di euro, La figlia del reggimento di Donizetti, il corpo di ballo della Scala, la musica di Stockhausen, i convegni sulla poesia dialettale, e così via. Qui la faccenda è delicata. Il principio, in sé, è condivisibile. Ma, nel tempo, l'ingenuità che gli è sottesa ha raggiunto livelli di evidenza quasi offensivi.
Il punto è: solo col candore e l'ottimismo degli anni Sessanta si poteva davvero credere che la politica, l'intelligenza e il sapere della politica, potessero decretare cos'era da salvare e cosa no. Se uno pensa alla filiera di intelligenze e saperi che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico, passando per i vari assessori, siamo proprio sicuri di avere davanti agli occhi una rete di impressionante lucidità intellettuale, capace di capire, meglio di altri, lo spirito del tempo e le dinamiche dell'intelligenza collettiva? Con tutto il rispetto, la risposta è no. Potrebbero fare di meglio i privati, il mercato? Probabilmente no, ma sono convinto che non avrebbero neanche potuto fare di peggio.
Mi resta la certezza che l'accanimento terapeutico su spettacoli agonizzanti, e ancor di più la posizione monopolistica in cui il denaro pubblico si mette per difenderli, abbiano creato guasti imprevisti di cui bisognerebbe ormai prendere atto. Non riesco a non pensare, ad esempio, che l'insistita difesa della musica contemporanea abbia generato una situazione artificiale da cui pubblico e compositori, in Italia, non si sono più rimessi: chi scrive musica non sa più esattamente cosa sta facendo e per chi, e il pubblico è in confusione, tanto da non capire neanche più Allevi da che parte sta (io lo so, ma col cavolo che ve lo dico).
Oppure: vogliamo parlare dell'appassionata difesa del teatro di regia, diventato praticamente l'unico teatro riconosciuto in Italia? Adesso possiamo dire con tranquillità che ci ha regalato tanti indimenticabili spettacoli, ma anche che ha decimato le file dei drammaturghi e complicato la vita degli attori: il risultato è che nel nostro paese non esiste quasi più quel fare rotondo e naturale che mettendo semplicemente in linea uno che scrive, uno che recita, uno che mette in scena e uno che ha soldi da investire, produce il teatro come lo conoscono i paesi anglosassoni: un gesto naturale, che si incrocia facilmente con letteratura e cinema, e che entra nella normale quotidianità della gente.
Come vedete, i principi sarebbero anche buoni, ma gli effetti collaterali sono incontrollati. Aggiungo che la vera rovina si è raggiunta quando la difesa di qualcosa ha portato a una posizione monopolistica. Quando un mecenate, non importa se pubblico o privato, è l'unico soggetto operativo in un determinato mercato, e in più non è costretto a fare di conto, mettendo in preventivo di perdere denaro, l'effetto che genera intorno è la desertificazione. Opera, teatro, musica classica, festival culturali, premi, formazione professionale: tutti ambiti che il denaro pubblico presidia più o meno integralmente. Margini di manovra per i privati: minimi. Siamo sicuri che è quello che vogliamo? Siamo sicuri che sia questo il sistema giusto per non farci derubare dell'eredità culturale che abbiamo ricevuto e che vogliamo passare ai nostri figli?
Terzo obbiettivo: nella crescita culturale dei cittadini le democrazie fondano la loro stabilità. Giusto. Ma ho un esempietto che può far riflettere, fatalmente riservato agli elettori di centrosinistra. Berlusconi. Circola la convinzione che quell'uomo, con tre televisioni, più altre tre a traino o episodicamente controllate, abbia dissestato la caratura morale e la statura culturale di questo Paese dalle fondamenta: col risultato di generare, quasi come un effetto meccanico, una certa inadeguatezza collettiva alle regole impegnative della democrazia. Nel modo più chiaro e sintetico ho visto enunciata questa idea da Nanni Moretti, nel suo lavoro e nelle sue parole. Non è una posizione che mi convince (a me Berlusconi sembra più una conseguenza che una causa) ma so che è largamente condivisa, e quindi la possiamo prendere per buona. E chiederci: come mai la grandiosa diga culturale che avevamo immaginato di issare con i soldi dei contribuenti (cioè i nostri) ha ceduto per così poco?
Bastava mettere su tre canali televisivi per aggirare la grandiosa cerchia di mura a cui avevamo lavorato? Evidentemente sì. E i torrioni che abbiamo difeso, i concerti di lieder, le raffinate messe in scena di Cechov, la Figlia del reggimento, le mostre sull'arte toscana del quattrocento, i musei di arte contemporanea, le fiere del libro? Dov'erano, quando servivano? Possibile che non abbiano visto passare il Grande Fratello? Sì, possibile. E allora siamo costretti a dedurre che la battaglia era giusta, ma la linea di difesa sbagliata. O friabile. O marcia. O corrotta. Ma più probabilmente: l'avevamo solo alzata nel luogo sbagliato.
Riassunto. L'idea di avvitare viti nel legno per rendere il tavolo più robusto è buona: ma il fatto è che avvitiamo a martellate, o con forbicine da unghie. Avvitiamo col pelapatate. Fra un po' avviteremo con le dita, quando finiranno i soldi.
Cosa fare, allora? Tenere saldi gli obbiettivi e cambiare strategia, è ovvio. A me sembrerebbe logico, ad esempio, fare due, semplici mosse, che qui sintetizzo, per l'ulcera di tanti.
1. Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo? Che senso ha salvare l'Opera e produrre studenti che ne sanno più di chimica che di Verdi? Cosa vuol dire pagare stagioni di concerti per un Paese in cui non si studia la storia della musica neanche quando si studia il romanticismo? Perché fare tanto i fighetti programmando teatro sublime, quando in televisione già trasmettere Benigni pare un atto di eroismo? Con che faccia sovvenzionare festival di storia, medicina, filosofia, etnomusicologia, quando il sapere, in televisione - dove sarebbe per tutti - esisterà solo fino a quando gli Angela faranno figli? Chiudete i Teatri Stabili e aprite un teatro in ogni scuola. Azzerate i convegni e pensate a costruire una nuova generazione di insegnanti preparati e ben pagati. Liberatevi delle Fondazioni e delle Case che promuovono la lettura, e mettete una trasmissione decente sui libri in prima serata. Abbandonate i cartelloni di musica da camera e con i soldi risparmiati permettiamoci una sera alla settimana di tivù che se ne frega dell'Auditel.
Lo dico in un altro modo: smettetela di pensare che sia un obbiettivo del denaro pubblico produrre un'offerta di spettacoli, eventi, festival: non lo è più. Il mercato sarebbe oggi abbastanza maturo e dinamico da fare tranquillamente da solo. Quei soldi servono a una cosa fondamentale, una cosa che il mercato non sa e non vuole fare: formare un pubblico consapevole, colto, moderno. E farlo là dove il pubblico è ancora tutto, senza discriminazioni di ceto e di biografia personale: a scuola, innanzitutto, e poi davanti alla televisione.
La funzione pubblica deve tornare alla sua vocazione originaria: alfabetizzare. C'è da realizzare una seconda alfabetizzazione del paese, che metta in grado tutti di leggere e scrivere il moderno. Solo questo può generare uguaglianza e trasmettere valori morali e intellettuali. Tutto il resto, è un falso scopo.
2. Lasciare che negli enormi spazi aperti creati da questa sorta di ritirata strategica si vadano a piazzare i privati. Questo è un punto delicato, perché passa attraverso la distruzione di un tabù: la cultura come business. Uno ha in mente subito il cattivo che arriva e distrugge tutto. Ma, ad esempio, la cosa non ci fa paura nel mondo dei libri o dell'informazione: avete mai sentito la mancanza di una casa editrice o di un quotidiano statale, o regionale, o comunale? Per restare ai libri: vi sembrano banditi Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Adelphi, per non parlare dei piccoli e medi editori? Vi sembrano pirati i librai? È gente che fa cultura e fa business. Il mondo dei libri è quello che ci consegnano loro. Non sarà un paradiso, ma l'inferno è un'altra cosa. E allora perché il teatro no? Provate a immaginare che nella vostra città ci siano quattro cartelloni teatrali, fatti da Mondadori, De Agostini, Benetton e vostro cugino. È davvero così terrorizzante? Sentireste la lancinante mancanza di un Teatro Stabile finanziato dai vostri soldi?
Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell'ambito della cultura. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull'accessibilità economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti. Basta con l'ipocrisia delle associazioni o delle fondazioni, che non possono produrre utili: come se non fossero utili gli stipendi, e i favori, e le regalie, e l'autopromozione personale, e i piccoli poteri derivati. Abituiamoci ad accettare imprese vere e proprie che producono cultura e profitti economici, e usiamo le risorse pubbliche per metterle in condizione di tenere prezzi bassi e di generare qualità. Dimentichiamoci di fargli pagare tasse, apriamogli l'accesso al patrimonio immobiliare delle città, alleggeriamo il prezzo del lavoro, costringiamo le banche a politiche di prestito veloci e superagevolate.
Il mondo della cultura e dello spettacolo, nel nostro Paese, è tenuto in piedi ogni giorno da migliaia di persone, a tutti i livelli, che fanno quel lavoro con passione e capacità: diamogli la possibilità di lavorare in un campo aperto, sintonizzato coi consumi reali, alleggerito dalle pastoie politiche, e rivitalizzato da un vero confronto col mercato. Sono grandi ormai, chiudiamo questo asilo infantile. Sembra un problema tecnico, ma è invece soprattutto una rivoluzione mentale. I freni sono ideologici, non pratici. Sembra un'utopia, ma l'utopia è nella nostra testa: non c'è posto in cui sia più facile farla diventare realtà.
repubblica.it
Sotto la lente della crisi economica, piccole crepe diventano enormi, nella ceramica di tante vite individuali, ma anche nel muro di pietra del nostro convivere civile. Una che si sta spalancando, non sanguinosa ma solenne, è quella che riguarda le sovvenzioni pubbliche alla cultura. Il fiume di denaro che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni. Dato che il fiume si sta estinguendo, ci si interroga. Si protesta. Si dibatte. Un commissariamento qui, un'indagine per malversazione là, si collezionano sintomi di un'agonia che potrebbe anche essere lunghissima, ma che questa volta non lo sarà. Sotto la lente della crisi economica, prenderà tutto fuoco, molto più velocemente di quanto si creda.
In situazioni come queste, nei film americani puoi solo fare due cose: o scappi o pensi molto velocemente. Scappare è inelegante. Ecco il momento di pensare molto velocemente. Lo devono fare tutti quelli cui sta a cuore la tensione culturale del nostro Paese, e tutti quelli che quella situazione la conoscono da vicino, per averci lavorato, a qualsiasi livello. Io rispondo alla descrizione, quindi eccomi qui. In realtà mi ci vorrebbe un libro per dire tutto ciò che penso dell'intreccio fra denaro pubblico e cultura, ma pensare velocemente vuol dire anche pensare l'essenziale, ed è ciò che cercherò di fare qui.
Se cerco di capire cosa, tempo fa, ci abbia portato a usare il denaro pubblico per sostenere la vita culturale di un Paese, mi vengono in mente due buone ragioni. Prima: allargare il privilegio della crescita culturale, rendendo accessibili i luoghi e i riti della cultura alla maggior parte della comunità. Seconda: difendere dall'inerzia del mercato alcuni gesti, o repertori, che probabilmente non avrebbero avuto la forza di sopravvivere alla logica del profitto, e che tuttavia ci sembravano irrinunciabili per tramandare un certo grado di civiltà.
A queste due ragioni ne aggiungerei una terza, più generale, più sofisticata, ma altrettanto importante: la necessità che hanno le democrazie di motivare i cittadini ad assumersi la responsabilità della democrazia: il bisogno di avere cittadini informati, minimamente colti, dotati di principi morali saldi, e di riferimenti culturali forti. Nel difendere la statura culturale del cittadino, le democrazie salvano se stesse, come già sapevano i greci del quinto secolo, e come hanno perfettamente capito le giovani e fragili democrazie europee all'indomani della stagione dei totalitarismi e delle guerre mondiali.
Adesso la domanda dovrebbe essere: questi tre obbiettivi, valgono ancora? Abbiamo voglia di chiederci, con tutta l'onestà possibile, se sono ancora obbiettivi attuali? Io ne ho voglia. E darei questa risposta: probabilmente sono ancora giusti, legittimi, ma andrebbero ricollocati nel paesaggio che ci circonda. Vanno aggiornati alla luce di ciò che è successo da quando li abbiamo concepiti. Provo a spiegare.
Prendiamo il primo obbiettivo: estendere il privilegio della cultura, rendere accessibili i luoghi dell'intelligenza e del sapere. Ora, ecco una cosa che è successa negli ultimi quindici anni nell'ambito dei consumi culturali: una reale esplosione dei confini, un'estensione dei privilegi, e un generale incremento dell'accessibilità. L'espressione che meglio ha registrato questa rivoluzione è americana: the age of mass intelligence, l'epoca dell'intelligenza di massa.
Oggi non avrebbe più senso pensare alla cultura come al privilegio circoscritto di un'élite abbiente: è diventata un campo aperto in cui fanno massicce scorribande fasce sociali che da sempre erano state tenute fuori dalla porta. Quel che è importante è capire perché questo è successo. Grazie al paziente lavoro dei soldi pubblici? No, o almeno molto di rado, e sempre a traino di altre cose già successe. La cassaforte dei privilegi culturali è stata scassinata da una serie di cause incrociate: Internet, globalizzazione, nuove tecnologie, maggior ricchezza collettiva, aumento del tempo libero, aggressività delle imprese private in cerca di un'espansione dei mercati. Tutte cose accadute nel campo aperto del mercato, senza alcuna protezione specifica di carattere pubblico.
Se andiamo a vedere i settori in cui lo spalancamento è stato più clamoroso, vengono in mente i libri, la musica leggera, la produzione audiovisiva: sono ambiti in cui il denaro pubblico è quasi assente. Al contrario, dove l'intervento pubblico è massiccio, l'esplosione appare molto più contratta, lenta, se non assente: pensate all'opera lirica, alla musica classica, al teatro: se non sono stagnanti, poco ci manca. Non è il caso di fare deduzioni troppo meccaniche, ma l'indizio è chiaro: se si tratta di eliminare barriere e smantellare privilegi, nel 2009, è meglio lasciar fare al mercato e non disturbare. Questo non significa dimenticare che la battaglia contro il privilegio culturale è ancora lontana dall'essere vinta: sappiamo bene che esistono ancora grandi caselle del Paese in cui il consumo culturale è al lumicino. Ma i confini si sono spostati. Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione. Quando si parla di fondi pubblici per la cultura, non si parla di scuola e di televisione. Sono soldi che spendiamo altrove. Apparentemente dove non servono più. Se una lotta contro l'emarginazione culturale è sacrosanta, noi la stiamo combattendo su un campo in cui la battaglia è già finita.
Secondo obbiettivo: la difesa di gesti e repertori preziosi che, per gli alti costi o il relativo appeal, non reggerebbero all'impatto con una spietata logica di mercato. Per capirci: salvare le regie teatrali da milioni di euro, La figlia del reggimento di Donizetti, il corpo di ballo della Scala, la musica di Stockhausen, i convegni sulla poesia dialettale, e così via. Qui la faccenda è delicata. Il principio, in sé, è condivisibile. Ma, nel tempo, l'ingenuità che gli è sottesa ha raggiunto livelli di evidenza quasi offensivi.
Il punto è: solo col candore e l'ottimismo degli anni Sessanta si poteva davvero credere che la politica, l'intelligenza e il sapere della politica, potessero decretare cos'era da salvare e cosa no. Se uno pensa alla filiera di intelligenze e saperi che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico, passando per i vari assessori, siamo proprio sicuri di avere davanti agli occhi una rete di impressionante lucidità intellettuale, capace di capire, meglio di altri, lo spirito del tempo e le dinamiche dell'intelligenza collettiva? Con tutto il rispetto, la risposta è no. Potrebbero fare di meglio i privati, il mercato? Probabilmente no, ma sono convinto che non avrebbero neanche potuto fare di peggio.
Mi resta la certezza che l'accanimento terapeutico su spettacoli agonizzanti, e ancor di più la posizione monopolistica in cui il denaro pubblico si mette per difenderli, abbiano creato guasti imprevisti di cui bisognerebbe ormai prendere atto. Non riesco a non pensare, ad esempio, che l'insistita difesa della musica contemporanea abbia generato una situazione artificiale da cui pubblico e compositori, in Italia, non si sono più rimessi: chi scrive musica non sa più esattamente cosa sta facendo e per chi, e il pubblico è in confusione, tanto da non capire neanche più Allevi da che parte sta (io lo so, ma col cavolo che ve lo dico).
Oppure: vogliamo parlare dell'appassionata difesa del teatro di regia, diventato praticamente l'unico teatro riconosciuto in Italia? Adesso possiamo dire con tranquillità che ci ha regalato tanti indimenticabili spettacoli, ma anche che ha decimato le file dei drammaturghi e complicato la vita degli attori: il risultato è che nel nostro paese non esiste quasi più quel fare rotondo e naturale che mettendo semplicemente in linea uno che scrive, uno che recita, uno che mette in scena e uno che ha soldi da investire, produce il teatro come lo conoscono i paesi anglosassoni: un gesto naturale, che si incrocia facilmente con letteratura e cinema, e che entra nella normale quotidianità della gente.
Come vedete, i principi sarebbero anche buoni, ma gli effetti collaterali sono incontrollati. Aggiungo che la vera rovina si è raggiunta quando la difesa di qualcosa ha portato a una posizione monopolistica. Quando un mecenate, non importa se pubblico o privato, è l'unico soggetto operativo in un determinato mercato, e in più non è costretto a fare di conto, mettendo in preventivo di perdere denaro, l'effetto che genera intorno è la desertificazione. Opera, teatro, musica classica, festival culturali, premi, formazione professionale: tutti ambiti che il denaro pubblico presidia più o meno integralmente. Margini di manovra per i privati: minimi. Siamo sicuri che è quello che vogliamo? Siamo sicuri che sia questo il sistema giusto per non farci derubare dell'eredità culturale che abbiamo ricevuto e che vogliamo passare ai nostri figli?
Terzo obbiettivo: nella crescita culturale dei cittadini le democrazie fondano la loro stabilità. Giusto. Ma ho un esempietto che può far riflettere, fatalmente riservato agli elettori di centrosinistra. Berlusconi. Circola la convinzione che quell'uomo, con tre televisioni, più altre tre a traino o episodicamente controllate, abbia dissestato la caratura morale e la statura culturale di questo Paese dalle fondamenta: col risultato di generare, quasi come un effetto meccanico, una certa inadeguatezza collettiva alle regole impegnative della democrazia. Nel modo più chiaro e sintetico ho visto enunciata questa idea da Nanni Moretti, nel suo lavoro e nelle sue parole. Non è una posizione che mi convince (a me Berlusconi sembra più una conseguenza che una causa) ma so che è largamente condivisa, e quindi la possiamo prendere per buona. E chiederci: come mai la grandiosa diga culturale che avevamo immaginato di issare con i soldi dei contribuenti (cioè i nostri) ha ceduto per così poco?
Bastava mettere su tre canali televisivi per aggirare la grandiosa cerchia di mura a cui avevamo lavorato? Evidentemente sì. E i torrioni che abbiamo difeso, i concerti di lieder, le raffinate messe in scena di Cechov, la Figlia del reggimento, le mostre sull'arte toscana del quattrocento, i musei di arte contemporanea, le fiere del libro? Dov'erano, quando servivano? Possibile che non abbiano visto passare il Grande Fratello? Sì, possibile. E allora siamo costretti a dedurre che la battaglia era giusta, ma la linea di difesa sbagliata. O friabile. O marcia. O corrotta. Ma più probabilmente: l'avevamo solo alzata nel luogo sbagliato.
Riassunto. L'idea di avvitare viti nel legno per rendere il tavolo più robusto è buona: ma il fatto è che avvitiamo a martellate, o con forbicine da unghie. Avvitiamo col pelapatate. Fra un po' avviteremo con le dita, quando finiranno i soldi.
Cosa fare, allora? Tenere saldi gli obbiettivi e cambiare strategia, è ovvio. A me sembrerebbe logico, ad esempio, fare due, semplici mosse, che qui sintetizzo, per l'ulcera di tanti.
1. Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo? Che senso ha salvare l'Opera e produrre studenti che ne sanno più di chimica che di Verdi? Cosa vuol dire pagare stagioni di concerti per un Paese in cui non si studia la storia della musica neanche quando si studia il romanticismo? Perché fare tanto i fighetti programmando teatro sublime, quando in televisione già trasmettere Benigni pare un atto di eroismo? Con che faccia sovvenzionare festival di storia, medicina, filosofia, etnomusicologia, quando il sapere, in televisione - dove sarebbe per tutti - esisterà solo fino a quando gli Angela faranno figli? Chiudete i Teatri Stabili e aprite un teatro in ogni scuola. Azzerate i convegni e pensate a costruire una nuova generazione di insegnanti preparati e ben pagati. Liberatevi delle Fondazioni e delle Case che promuovono la lettura, e mettete una trasmissione decente sui libri in prima serata. Abbandonate i cartelloni di musica da camera e con i soldi risparmiati permettiamoci una sera alla settimana di tivù che se ne frega dell'Auditel.
Lo dico in un altro modo: smettetela di pensare che sia un obbiettivo del denaro pubblico produrre un'offerta di spettacoli, eventi, festival: non lo è più. Il mercato sarebbe oggi abbastanza maturo e dinamico da fare tranquillamente da solo. Quei soldi servono a una cosa fondamentale, una cosa che il mercato non sa e non vuole fare: formare un pubblico consapevole, colto, moderno. E farlo là dove il pubblico è ancora tutto, senza discriminazioni di ceto e di biografia personale: a scuola, innanzitutto, e poi davanti alla televisione.
La funzione pubblica deve tornare alla sua vocazione originaria: alfabetizzare. C'è da realizzare una seconda alfabetizzazione del paese, che metta in grado tutti di leggere e scrivere il moderno. Solo questo può generare uguaglianza e trasmettere valori morali e intellettuali. Tutto il resto, è un falso scopo.
2. Lasciare che negli enormi spazi aperti creati da questa sorta di ritirata strategica si vadano a piazzare i privati. Questo è un punto delicato, perché passa attraverso la distruzione di un tabù: la cultura come business. Uno ha in mente subito il cattivo che arriva e distrugge tutto. Ma, ad esempio, la cosa non ci fa paura nel mondo dei libri o dell'informazione: avete mai sentito la mancanza di una casa editrice o di un quotidiano statale, o regionale, o comunale? Per restare ai libri: vi sembrano banditi Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Adelphi, per non parlare dei piccoli e medi editori? Vi sembrano pirati i librai? È gente che fa cultura e fa business. Il mondo dei libri è quello che ci consegnano loro. Non sarà un paradiso, ma l'inferno è un'altra cosa. E allora perché il teatro no? Provate a immaginare che nella vostra città ci siano quattro cartelloni teatrali, fatti da Mondadori, De Agostini, Benetton e vostro cugino. È davvero così terrorizzante? Sentireste la lancinante mancanza di un Teatro Stabile finanziato dai vostri soldi?
Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell'ambito della cultura. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull'accessibilità economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti. Basta con l'ipocrisia delle associazioni o delle fondazioni, che non possono produrre utili: come se non fossero utili gli stipendi, e i favori, e le regalie, e l'autopromozione personale, e i piccoli poteri derivati. Abituiamoci ad accettare imprese vere e proprie che producono cultura e profitti economici, e usiamo le risorse pubbliche per metterle in condizione di tenere prezzi bassi e di generare qualità. Dimentichiamoci di fargli pagare tasse, apriamogli l'accesso al patrimonio immobiliare delle città, alleggeriamo il prezzo del lavoro, costringiamo le banche a politiche di prestito veloci e superagevolate.
Il mondo della cultura e dello spettacolo, nel nostro Paese, è tenuto in piedi ogni giorno da migliaia di persone, a tutti i livelli, che fanno quel lavoro con passione e capacità: diamogli la possibilità di lavorare in un campo aperto, sintonizzato coi consumi reali, alleggerito dalle pastoie politiche, e rivitalizzato da un vero confronto col mercato. Sono grandi ormai, chiudiamo questo asilo infantile. Sembra un problema tecnico, ma è invece soprattutto una rivoluzione mentale. I freni sono ideologici, non pratici. Sembra un'utopia, ma l'utopia è nella nostra testa: non c'è posto in cui sia più facile farla diventare realtà.
repubblica.it
23.2.09
Walter ultimo fallimento
Barbara Spinelli
Vale la pena osservare il naufragio dell’opposizione italiana con l’aiuto d’un terzo occhio, più ingenuo forse ma più vero: l’occhio che ci guarda da fuori. Perché il nostro sguardo s’è come consumato col tempo, se ne sta appeso alla noia, è al tempo stesso astioso e non severo, collerico e passivo. Non credendo possibile cambiare la cultura italiana dell’illegalità, siamo da essa cambiati. Se qualcuno riscrivesse le Lettere Persiane di Montesquieu, racconterebbe il nostro presente come i due principi Usbek e Rica videro, nel 1700, la Francia di Luigi XIV: con stupore, senso del ridicolo, e realismo. È quello che i giornali stranieri hanno fatto negli ultimi giorni: dal New York Times alla Süddeutsche Zeitung, da Le Monde al Guardian o El País. Tutti si son domandati, candidamente, come mai tanto clamore sul caos nel Pd e quasi nulla sull’evento per loro sostanziale: la condanna di Mills. Come mai Veltroni addirittura si scusava, mentre il capo del governo protetto da una legge che lo immunizza avallava il più singolare dei paradossi (il corrotto c’è, ma non il corruttore).
Chi fuori Italia si interroga ha poco a vedere con la sinistra salottiera o giustizialista criticata da Veltroni. Naturalmente c’è caos, nel partito nato dalle primarie del 2007. Ma soprattutto c’è incapacità di fare opposizione, di dire quel che si pensa su laicità, testamento biologico, sicurezza, immigrazione, giustizia, per non urtare gli apparati che compongono il nuovo-non nuovo ancor ieri esaltato all’assemblea che ha eletto Franceschini segretario provvisorio. Il partito democratico non è nato mai, e oggi è chiaro che alle primarie 3 milioni di italiani hanno eletto il leader di un partito senza statuto, senza iscritti, in nome del quale si è distrutto il governo Prodi per poi lasciare l’elettore solo. Arturo Parisi lo spiega bene a Fabio Martini: «Quando un partito si costituisce come somma di apparati, assumendo come premessa la continuità di una storia e di un gruppo dirigente, ogni scelta rischia di essere o apparire come l’imposizione di una componente sull’altra e quindi di mettere a rischio la sopravvivenza del partito». Solo un «partito nuovo, fatto di persone che decidono ex novo, democraticamente» può riuscire (La Stampa, 18-2). Solo un’analisi spietata di errori passati: i siluramenti di Prodi, la fretta di presentarsi da soli, le intese con Berlusconi quando questi parve finito nell’autunno 2007.
Veltroni ha giustamente difeso, mercoledì, il «tempo lungo, quello in cui si misura il progetto (...) che deve convincere milioni di esseri umani». Ma lui per primo ha tolto tempo al tempo, ha avuto fretta d’arrivare, di esserci. Non è un errore di anziani ma di cacicchi, che della politica hanno una visione patrimoniale. L’Ulivo cancella i cacicchi: è stato quindi seppellito. I cacicchi vogliono il potere, senza dire per quale politica: lo vogliono dunque nichilisticamente, al pari delle destre. Come scrive Gustavo Zagrebelsky: lo vogliono «come fine, puro potere per il potere» (la Repubblica 9-2). Per questo il Pd non ha un leader, che rappresenti l’opposizione nella società e sia sovrano sulle tribù. Anche qui Parisi ha ragione: non di facce nuove e giovani c’è bisogno (ci sono giovani vecchissimi), perché «in politica le generazioni che contano sono le generazioni politiche». Si capisce bene lo scoramento di Veltroni: le correnti del Pd e Di Pietro lo hanno logorato. Ma non l’avrebbero logorato se il suo sguardo si fosse interamente fissato sul fine, che non era il potere partitico ma la risposta a Berlusconi. Se Di Pietro non fosse stato bollato, ogni volta che parlava, di giustizialismo.
Naufragi analoghi si son già visti in Europa, conviene ricordarli. Il socialismo francese, prima di Mitterrand, era assai simile. La Sfio (Sezione francese dell’internazionale operaia) fu per decenni un’accozzaglia di partitelli incapaci d’opporsi a De Gaulle. Oscillavano fra il centro e il marxismo, un giorno erano colonialisti l’altro no, volevano e non volevano ampie coalizioni. Erano perpetuamente in attesa, assorti nel rinvio della scelta: proprio come ieri all’assemblea Pd, che ha rinviato primarie e nomina d’un vero leader («Perché Bersani non si candida segretario oggi, e invece rinvia?», ha chiesto Gad Lerner). Sempre c’era un segretario a termine, guatato da falsi amici. La parabola fu tragica: nel ’45 avevano il 24 per cento dei voti, nel ’69 quando Defferre sindaco di Marsiglia si candidò alle presidenziali precipitarono al 5.
È a quel punto che apparve Mitterrand: non mettendosi alla testa d’un partito ormai cadavere, ma creando una vasta Federazione a partire dalla quale s’impossessò della Sfio e di tutti i frammenti e club. Anche la Sfio era un accumulo di clan in lotta. Mitterrand guardò alto e oltre: l’avversario non era questo o quel clan, ma De Gaulle e poi Pompidou. In una decina d’anni costruì un Partito socialista, lo rese più forte del Pc, portò l’insieme della sinistra al potere.
Prodi ha fatto una cosa simile, battendo Berlusconi due volte. Anch’egli edificò inizialmente una federazione (Ulivo, Unione): è stata l’unica strategia di sinistra che ha vinto. Mentre non è risultata vincente né coraggiosa l’iniziativa veltroniana di correre da solo, liberandosi dell’Unione. A volte accade che si frantumi un’unione per riprodurne una ancor più frantumata. Veltroni osserva correttamente che «Berlusconi ha vinto una battaglia di “egemonia” nella società. L’ha vinta perché ha avuto gli strumenti e la possibilità di cambiare dal mio punto di vista di stravolgere il sistema dei valori e persino le tradizioni migliori» in Italia. Ma che vuol dire «avere strumenti»? Berlusconi ha le tv ma Soru ha ragione quando dice che su Internet la sinistra «ha già vinto, anzi stravinto». Quel che occorre è «lavorare in profondità sulla cultura degli ignoranti, sulle coscienze dei qualunquisti e battere l’incultura del nichilismo aprendo dappertutto sezioni di partito e perfino case del popolo». Berlusconi da tempo inventa realtà televisive, ma è anche sul territorio che lavora.
Per questo è così importante il terzo sguardo. Perché da fuori si vedono cose su cui il nostro occhio ormai scivola: l’illegalità, il fastidio di Berlusconi per ogni potere che freni il suo potere, il diritto offeso degli immigrati, la fine del monopolio statale sulla sicurezza con l’introduzione delle ronde. Perché fuori casa fanno impressione più che da noi certi tristi scherzetti: sui campi di concentramento, su Obama, sulle belle ragazze stuprate, sulla gravidanza di Eluana, su Englaro che «per comodità» si disfa della figlia, sui voli della morte in Argentina: voli concepiti dall’ammiraglio argentino Massera, membro con Berlusconi della P2 di Gelli.
Veltroni ha lasciato senza rappresentanza molti italiani d’opposizione, e il suo monito non è generoso («Non venga mai in nessun momento la tentazione di pensare che esista uno ieri migliore dell’oggi»). Per chi si sente abbandonato c’è stato uno ieri migliore, e la sensazione è che da lì urga ripartire: dalle cadute di Prodi, inspiegate.
Come nell’Angelo Sterminatore di Buñuel, è l’errore inaugurale che va rammemorato. In un aristocratico salotto messicano, a Via della Provvidenza, un gruppo di smagati signori non è più capace, d’un tratto, d’uscire dal palazzo. È paralizzato dal sortilegio della non volontà, o meglio della non-volizione. Sfugge alla prigione volontaria quando ripensa al modo in cui, giorni prima, si dispose nel salotto. È vero, appena scampato s’accorge che liberazione non è libertà: anche il vasto mondo è una gabbia, tutti come pecore affluiscono in una Cattedrale oscura. Ma almeno i naufraghi hanno sentito una brezza, e in quella Cattedrale potrebbero anche non entrare, e fuori dal Palazzo il mondo è un poco più vasto.
lastampa.it
Vale la pena osservare il naufragio dell’opposizione italiana con l’aiuto d’un terzo occhio, più ingenuo forse ma più vero: l’occhio che ci guarda da fuori. Perché il nostro sguardo s’è come consumato col tempo, se ne sta appeso alla noia, è al tempo stesso astioso e non severo, collerico e passivo. Non credendo possibile cambiare la cultura italiana dell’illegalità, siamo da essa cambiati. Se qualcuno riscrivesse le Lettere Persiane di Montesquieu, racconterebbe il nostro presente come i due principi Usbek e Rica videro, nel 1700, la Francia di Luigi XIV: con stupore, senso del ridicolo, e realismo. È quello che i giornali stranieri hanno fatto negli ultimi giorni: dal New York Times alla Süddeutsche Zeitung, da Le Monde al Guardian o El País. Tutti si son domandati, candidamente, come mai tanto clamore sul caos nel Pd e quasi nulla sull’evento per loro sostanziale: la condanna di Mills. Come mai Veltroni addirittura si scusava, mentre il capo del governo protetto da una legge che lo immunizza avallava il più singolare dei paradossi (il corrotto c’è, ma non il corruttore).
Chi fuori Italia si interroga ha poco a vedere con la sinistra salottiera o giustizialista criticata da Veltroni. Naturalmente c’è caos, nel partito nato dalle primarie del 2007. Ma soprattutto c’è incapacità di fare opposizione, di dire quel che si pensa su laicità, testamento biologico, sicurezza, immigrazione, giustizia, per non urtare gli apparati che compongono il nuovo-non nuovo ancor ieri esaltato all’assemblea che ha eletto Franceschini segretario provvisorio. Il partito democratico non è nato mai, e oggi è chiaro che alle primarie 3 milioni di italiani hanno eletto il leader di un partito senza statuto, senza iscritti, in nome del quale si è distrutto il governo Prodi per poi lasciare l’elettore solo. Arturo Parisi lo spiega bene a Fabio Martini: «Quando un partito si costituisce come somma di apparati, assumendo come premessa la continuità di una storia e di un gruppo dirigente, ogni scelta rischia di essere o apparire come l’imposizione di una componente sull’altra e quindi di mettere a rischio la sopravvivenza del partito». Solo un «partito nuovo, fatto di persone che decidono ex novo, democraticamente» può riuscire (La Stampa, 18-2). Solo un’analisi spietata di errori passati: i siluramenti di Prodi, la fretta di presentarsi da soli, le intese con Berlusconi quando questi parve finito nell’autunno 2007.
Veltroni ha giustamente difeso, mercoledì, il «tempo lungo, quello in cui si misura il progetto (...) che deve convincere milioni di esseri umani». Ma lui per primo ha tolto tempo al tempo, ha avuto fretta d’arrivare, di esserci. Non è un errore di anziani ma di cacicchi, che della politica hanno una visione patrimoniale. L’Ulivo cancella i cacicchi: è stato quindi seppellito. I cacicchi vogliono il potere, senza dire per quale politica: lo vogliono dunque nichilisticamente, al pari delle destre. Come scrive Gustavo Zagrebelsky: lo vogliono «come fine, puro potere per il potere» (la Repubblica 9-2). Per questo il Pd non ha un leader, che rappresenti l’opposizione nella società e sia sovrano sulle tribù. Anche qui Parisi ha ragione: non di facce nuove e giovani c’è bisogno (ci sono giovani vecchissimi), perché «in politica le generazioni che contano sono le generazioni politiche». Si capisce bene lo scoramento di Veltroni: le correnti del Pd e Di Pietro lo hanno logorato. Ma non l’avrebbero logorato se il suo sguardo si fosse interamente fissato sul fine, che non era il potere partitico ma la risposta a Berlusconi. Se Di Pietro non fosse stato bollato, ogni volta che parlava, di giustizialismo.
Naufragi analoghi si son già visti in Europa, conviene ricordarli. Il socialismo francese, prima di Mitterrand, era assai simile. La Sfio (Sezione francese dell’internazionale operaia) fu per decenni un’accozzaglia di partitelli incapaci d’opporsi a De Gaulle. Oscillavano fra il centro e il marxismo, un giorno erano colonialisti l’altro no, volevano e non volevano ampie coalizioni. Erano perpetuamente in attesa, assorti nel rinvio della scelta: proprio come ieri all’assemblea Pd, che ha rinviato primarie e nomina d’un vero leader («Perché Bersani non si candida segretario oggi, e invece rinvia?», ha chiesto Gad Lerner). Sempre c’era un segretario a termine, guatato da falsi amici. La parabola fu tragica: nel ’45 avevano il 24 per cento dei voti, nel ’69 quando Defferre sindaco di Marsiglia si candidò alle presidenziali precipitarono al 5.
È a quel punto che apparve Mitterrand: non mettendosi alla testa d’un partito ormai cadavere, ma creando una vasta Federazione a partire dalla quale s’impossessò della Sfio e di tutti i frammenti e club. Anche la Sfio era un accumulo di clan in lotta. Mitterrand guardò alto e oltre: l’avversario non era questo o quel clan, ma De Gaulle e poi Pompidou. In una decina d’anni costruì un Partito socialista, lo rese più forte del Pc, portò l’insieme della sinistra al potere.
Prodi ha fatto una cosa simile, battendo Berlusconi due volte. Anch’egli edificò inizialmente una federazione (Ulivo, Unione): è stata l’unica strategia di sinistra che ha vinto. Mentre non è risultata vincente né coraggiosa l’iniziativa veltroniana di correre da solo, liberandosi dell’Unione. A volte accade che si frantumi un’unione per riprodurne una ancor più frantumata. Veltroni osserva correttamente che «Berlusconi ha vinto una battaglia di “egemonia” nella società. L’ha vinta perché ha avuto gli strumenti e la possibilità di cambiare dal mio punto di vista di stravolgere il sistema dei valori e persino le tradizioni migliori» in Italia. Ma che vuol dire «avere strumenti»? Berlusconi ha le tv ma Soru ha ragione quando dice che su Internet la sinistra «ha già vinto, anzi stravinto». Quel che occorre è «lavorare in profondità sulla cultura degli ignoranti, sulle coscienze dei qualunquisti e battere l’incultura del nichilismo aprendo dappertutto sezioni di partito e perfino case del popolo». Berlusconi da tempo inventa realtà televisive, ma è anche sul territorio che lavora.
Per questo è così importante il terzo sguardo. Perché da fuori si vedono cose su cui il nostro occhio ormai scivola: l’illegalità, il fastidio di Berlusconi per ogni potere che freni il suo potere, il diritto offeso degli immigrati, la fine del monopolio statale sulla sicurezza con l’introduzione delle ronde. Perché fuori casa fanno impressione più che da noi certi tristi scherzetti: sui campi di concentramento, su Obama, sulle belle ragazze stuprate, sulla gravidanza di Eluana, su Englaro che «per comodità» si disfa della figlia, sui voli della morte in Argentina: voli concepiti dall’ammiraglio argentino Massera, membro con Berlusconi della P2 di Gelli.
Veltroni ha lasciato senza rappresentanza molti italiani d’opposizione, e il suo monito non è generoso («Non venga mai in nessun momento la tentazione di pensare che esista uno ieri migliore dell’oggi»). Per chi si sente abbandonato c’è stato uno ieri migliore, e la sensazione è che da lì urga ripartire: dalle cadute di Prodi, inspiegate.
Come nell’Angelo Sterminatore di Buñuel, è l’errore inaugurale che va rammemorato. In un aristocratico salotto messicano, a Via della Provvidenza, un gruppo di smagati signori non è più capace, d’un tratto, d’uscire dal palazzo. È paralizzato dal sortilegio della non volontà, o meglio della non-volizione. Sfugge alla prigione volontaria quando ripensa al modo in cui, giorni prima, si dispose nel salotto. È vero, appena scampato s’accorge che liberazione non è libertà: anche il vasto mondo è una gabbia, tutti come pecore affluiscono in una Cattedrale oscura. Ma almeno i naufraghi hanno sentito una brezza, e in quella Cattedrale potrebbero anche non entrare, e fuori dal Palazzo il mondo è un poco più vasto.
lastampa.it
22.2.09
Gli stranieri e la mecca del crimine
Luca Ricolfi
Periodicamente l`opinione pubblica si allarma per il problema della criminalità e della violenza. I giornali soffiano sul fuoco. Il governo tenta di fare qualcosa (è di ieri l`approvazione in Consiglio dei ministri del decreto anti-stupri).
Maggioranza e opposizione tirano acqua ai rispettivi mulini. Quando al governo c`è la sinistra e all`opposizione c`è la destra, il copione è già scritto:
la sinistra minimizza e la destra drammatizza.
Quando invece, come oggi, i ruoli di governo e opposizione sono invertiti, il copione va in crisi. La sinistra vorrebbe cavalcare la paura, ma non può farlo perché i suoi riflessi condizionati buonisti le suggeriscono di sdrammatizzare. La destra, per contro, vorrebbe tanto drammatizzare, ma deve trattenersi perché è al governo e teme di essere considerata responsabile di quel che succede.
Dopo i recenti casi di stupro a danno di donne italiane e straniere siamo dunque tornati a farci le solite domande.
La criminalità è in aumento? Gli stranieri delinquono di più degli italiani? I romeni hanno una speciale vocazione per i reati di violenza sessuale? O sono tutte «percezioni»? Sull`andamento della criminalità non si può dire molto. Con i dati finora disponibili (non definitivi e fermi al 1 ° semestre 2008) possiamo solo fissare qualche punto. La criminalità è aumentata molto subito dopo l`indulto: +15,1% in un anno, fra il primo semestre 2006 e il primo semestre 2007. Nel primo semestre del 2008 è diminuita rispetto al 2007, presumibilmente a causa dell`elevato numero di «indultati» recidivi, liberati e poi riacciuffati dalle forze dell`ordine. Ma la diminuzione non è stata sufficiente a compensare l`impennata del 2007, cosicché due anni dopo l`indulto il numero di delitti era un po` maggiore di quello pre-indulto.
Per esempio abbiamo più rapine (+4,9%), più omicidi volontari consumati (+7,7%), più truffe e frodi informatiche (+10,7%). In breve: le carceri sono strapiene, esattamente come lo erano prima dell`indulto (60 mila detenuti), e il numero di delitti è un po` maggiore di allora.
Sul tasso di criminalità dei cittadini stranieri è difficile lavorare con statistiche precise, perché si ignora il numero esatto degli irregolari, però la situazione è piuttosto chiara. Il tasso di criminalità degli stranieri regolari è 3-4 volte quello degli italiani, il tasso di criminalità degli stranieri irregolari è circa 28 volte quello degli italiani (dati 2005-6). Fino a qualche anno fa la pericolosità degli stranieri, pur restando molto superiore a quella degli italiani, era in costante diminuzione, ma negli ultimi anni questa tendenza sembra essersi invertita: la pericolosità degli stranieri non solo resta molto superiore a quella degli italiani, ma il divario tende ad accentuarsi.
Resta il problema della violenza sessuale e degli stupri. Qui la prima cosa da dire è che i mass media sono morbosamente attratti dalle violenze inter-etniche - lo straniero che stupra un`italiana, l`italiano che stupra una straniera e riservano pochissima attenzione alle violenze intra-etniche, che a loro volta sono spesso intra-famigliari (donne violentate da padri, zii, suoceri, partner più o meno ufficiali). Ma i mass media, a loro volta, amplificano una distorsione che è già presente nelle denunce:
l`assalto di un branco di adolescenti a una ragazzina all`uscita da scuola ha molte più probabilità di essere denunciato di quante ne abbiano le vessazioni di un padre-padrone, non importa qui se dentro un campo nomadi o in una linda villetta piccolo borghese.
Basandosi esclusivamente sulle denunce, quel che si può dire è che la propensione allo stupro degli stranieri è 13-14 volte più alta di quella degli italiani (dato 2007), e che - anche qui - il divario si sta allargando: l`ultimo dato disponibile (2007) indicava un rischio re- lativo (stranieri rispetto a italiani) cresciuto di circa il 20% rispetto a tre anni prima (2004).
Infine, i romeni. In base ai pochi dati fin qui resi pubblici, la loro propensione allo stupro risulta circa 17 volte più alta di quella degli italiani, e una volta e mezza quella degli altri stranieri presenti in Italia. Lo stupro non è però il reato in cui i romeni primeggiano rispetto agli altri stranieri. Nella rapina sono 2 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 15 volte rispetto agli italiani), nel furto sono 3-4 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 42 volte rispetto agli italiani). Nel tentato omicidio e nelle lesioni dolose, invece, sono leggermente meno pericolosi degli altri stranieri, ma comunque molto più pericolosi degli italiani (7 e 5 volte di più rispettivamente).
Si può discettare all`infinito sul perché il tasso di criminalità degli stranieri, anche regolari, sia cosi più alto di quello degli italiani. Razzisti e xenofobi diranno che l`alta propensione al crimine di determinate etnie dipende dai loro usi e costumi, se non dal loro Dna. Ma la spiegazione più solida, a mio parere, è tutta un`altra: se gli stranieri delinquono tanto più degli italiani non è perché noi siamo buoni e loro cattivi, ma perché i cittadini stranieri che arrivano in Italia non sono campioni rappresentativi dei popoli di provenienza.
Con la sua giustizia lentissima, con le sue leggi farraginose, con le sue carceri al collasso, l`Italia è diventata la Mecca del crimine. Un luogo che, oltre a una maggioranza di stranieri per bene, attira ingenti minoranze criminali provenienti da un po` tutti i Paesi, e cosi facendo crea l`illusione prospettica dello straniero delinquente.
Perciò hanno perfettamente ragione gli italiani che hanno paura degli immigrati, ma hanno altrettanto ragione gli stranieri onesti che si sentono ingiustamente guardati con sospetto. I cittadini italiani privi di paraocchi ideologici non possono sorvolare sul fatto che uno straniero è dieci volte più pericoloso di un italiano. Ma farebbero ancor meglio a rendersi conto che ogni comunità straniera è costituita da due sottopopolazioni distinte: gli onesti attirati dalle opportunità di lavoro, e i criminali attirati dalla debolezza delle nostre istituzioni. Il problema è che le due sottopopolazioni non si possono distinguere a occhio nudo, e quindi - in mancanza di segnali che consentano di separarle - la diffidenza diventa l`unico atteggiamento razionale. Un atteggiamento che non si supera con lezioncine di democrazia, tolleranza e senso civico, ma solo rendendo l`Italia un paradiso per gli stranieri di buona volontà e un inferno per i criminali, stranieri o italiani che siano.
La Stampa (http://rassegna.governo.it/testo.asp?d=35017200)
Periodicamente l`opinione pubblica si allarma per il problema della criminalità e della violenza. I giornali soffiano sul fuoco. Il governo tenta di fare qualcosa (è di ieri l`approvazione in Consiglio dei ministri del decreto anti-stupri).
Maggioranza e opposizione tirano acqua ai rispettivi mulini. Quando al governo c`è la sinistra e all`opposizione c`è la destra, il copione è già scritto:
la sinistra minimizza e la destra drammatizza.
Quando invece, come oggi, i ruoli di governo e opposizione sono invertiti, il copione va in crisi. La sinistra vorrebbe cavalcare la paura, ma non può farlo perché i suoi riflessi condizionati buonisti le suggeriscono di sdrammatizzare. La destra, per contro, vorrebbe tanto drammatizzare, ma deve trattenersi perché è al governo e teme di essere considerata responsabile di quel che succede.
Dopo i recenti casi di stupro a danno di donne italiane e straniere siamo dunque tornati a farci le solite domande.
La criminalità è in aumento? Gli stranieri delinquono di più degli italiani? I romeni hanno una speciale vocazione per i reati di violenza sessuale? O sono tutte «percezioni»? Sull`andamento della criminalità non si può dire molto. Con i dati finora disponibili (non definitivi e fermi al 1 ° semestre 2008) possiamo solo fissare qualche punto. La criminalità è aumentata molto subito dopo l`indulto: +15,1% in un anno, fra il primo semestre 2006 e il primo semestre 2007. Nel primo semestre del 2008 è diminuita rispetto al 2007, presumibilmente a causa dell`elevato numero di «indultati» recidivi, liberati e poi riacciuffati dalle forze dell`ordine. Ma la diminuzione non è stata sufficiente a compensare l`impennata del 2007, cosicché due anni dopo l`indulto il numero di delitti era un po` maggiore di quello pre-indulto.
Per esempio abbiamo più rapine (+4,9%), più omicidi volontari consumati (+7,7%), più truffe e frodi informatiche (+10,7%). In breve: le carceri sono strapiene, esattamente come lo erano prima dell`indulto (60 mila detenuti), e il numero di delitti è un po` maggiore di allora.
Sul tasso di criminalità dei cittadini stranieri è difficile lavorare con statistiche precise, perché si ignora il numero esatto degli irregolari, però la situazione è piuttosto chiara. Il tasso di criminalità degli stranieri regolari è 3-4 volte quello degli italiani, il tasso di criminalità degli stranieri irregolari è circa 28 volte quello degli italiani (dati 2005-6). Fino a qualche anno fa la pericolosità degli stranieri, pur restando molto superiore a quella degli italiani, era in costante diminuzione, ma negli ultimi anni questa tendenza sembra essersi invertita: la pericolosità degli stranieri non solo resta molto superiore a quella degli italiani, ma il divario tende ad accentuarsi.
Resta il problema della violenza sessuale e degli stupri. Qui la prima cosa da dire è che i mass media sono morbosamente attratti dalle violenze inter-etniche - lo straniero che stupra un`italiana, l`italiano che stupra una straniera e riservano pochissima attenzione alle violenze intra-etniche, che a loro volta sono spesso intra-famigliari (donne violentate da padri, zii, suoceri, partner più o meno ufficiali). Ma i mass media, a loro volta, amplificano una distorsione che è già presente nelle denunce:
l`assalto di un branco di adolescenti a una ragazzina all`uscita da scuola ha molte più probabilità di essere denunciato di quante ne abbiano le vessazioni di un padre-padrone, non importa qui se dentro un campo nomadi o in una linda villetta piccolo borghese.
Basandosi esclusivamente sulle denunce, quel che si può dire è che la propensione allo stupro degli stranieri è 13-14 volte più alta di quella degli italiani (dato 2007), e che - anche qui - il divario si sta allargando: l`ultimo dato disponibile (2007) indicava un rischio re- lativo (stranieri rispetto a italiani) cresciuto di circa il 20% rispetto a tre anni prima (2004).
Infine, i romeni. In base ai pochi dati fin qui resi pubblici, la loro propensione allo stupro risulta circa 17 volte più alta di quella degli italiani, e una volta e mezza quella degli altri stranieri presenti in Italia. Lo stupro non è però il reato in cui i romeni primeggiano rispetto agli altri stranieri. Nella rapina sono 2 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 15 volte rispetto agli italiani), nel furto sono 3-4 volte più pericolosi degli altri stranieri (e 42 volte rispetto agli italiani). Nel tentato omicidio e nelle lesioni dolose, invece, sono leggermente meno pericolosi degli altri stranieri, ma comunque molto più pericolosi degli italiani (7 e 5 volte di più rispettivamente).
Si può discettare all`infinito sul perché il tasso di criminalità degli stranieri, anche regolari, sia cosi più alto di quello degli italiani. Razzisti e xenofobi diranno che l`alta propensione al crimine di determinate etnie dipende dai loro usi e costumi, se non dal loro Dna. Ma la spiegazione più solida, a mio parere, è tutta un`altra: se gli stranieri delinquono tanto più degli italiani non è perché noi siamo buoni e loro cattivi, ma perché i cittadini stranieri che arrivano in Italia non sono campioni rappresentativi dei popoli di provenienza.
Con la sua giustizia lentissima, con le sue leggi farraginose, con le sue carceri al collasso, l`Italia è diventata la Mecca del crimine. Un luogo che, oltre a una maggioranza di stranieri per bene, attira ingenti minoranze criminali provenienti da un po` tutti i Paesi, e cosi facendo crea l`illusione prospettica dello straniero delinquente.
Perciò hanno perfettamente ragione gli italiani che hanno paura degli immigrati, ma hanno altrettanto ragione gli stranieri onesti che si sentono ingiustamente guardati con sospetto. I cittadini italiani privi di paraocchi ideologici non possono sorvolare sul fatto che uno straniero è dieci volte più pericoloso di un italiano. Ma farebbero ancor meglio a rendersi conto che ogni comunità straniera è costituita da due sottopopolazioni distinte: gli onesti attirati dalle opportunità di lavoro, e i criminali attirati dalla debolezza delle nostre istituzioni. Il problema è che le due sottopopolazioni non si possono distinguere a occhio nudo, e quindi - in mancanza di segnali che consentano di separarle - la diffidenza diventa l`unico atteggiamento razionale. Un atteggiamento che non si supera con lezioncine di democrazia, tolleranza e senso civico, ma solo rendendo l`Italia un paradiso per gli stranieri di buona volontà e un inferno per i criminali, stranieri o italiani che siano.
La Stampa (http://rassegna.governo.it/testo.asp?d=35017200)
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19.2.09
Mutazione di retorica nello spettro del noir - Crime, un bilancio
Giuseppe Genna
Oscenamente più splatter e abissalmente più nera di ogni genere narrativo, la morbosità derivata dalla esibizione della morte, che ci viene compulsivamente propinata dai media, sta modificando il genoma di correnti letterarie che vanno dall'hard boiled al romanzo epico. Contribuiscono alla mutazione le fiction, spesso apologetiche nei confronti delle forze dell'ordine, e le strategie dei nuovi serial tv
Più o meno da sempre i critici letterari italiani hanno inveito contro il successo di massa di alcuni libri: thriller o noir che fossero, i loro autori provenivano da zone troppo lumpen della narrativa. Ma l'onda lunga dei «libri neri» non sembra essersi perciò arrestata: la trilogia Millennium di Stieg Larsson, e tutto lo tsunami svedese, sono una conferma, almeno apparente, di questa vitalità. Tuttavia, per l'appunto, non è consigliabile fermarsi alle apparenze. Dal momento in cui si è imposto il genere nero, che soltanto in Italia veniva considerato di serie B, molte variabili sono mutate - essenzialmente quella sociale. Se la crime novel è passata (anche presso di noi) ai ranghi della letteratura lo deve all'opera di James Ellroy, che con il suo American Tabloid (Mondadori) ha mostrato, grazie a una lingua suprema, di quali e quante chiavi fosse dotato questo genere popolare. Istantaneo e spiazzante, il passaggio da hard boiled a romanzo epico, praticato da Ellroy, ha rappresentato un momento formativo per l'immaginario degli scrittori italiani, in ritardo su quanto accadeva al di fuori dei nostri confini. Grazie a quel libro si comprese finalmente quanto una crime novel fosse in grado di raccontare efficacemente la storia collettiva, quanto fosse in grado di storicizzare misteri, raccontare snodi della vicenda sociale di una nazione, utilizzare materiali controinformativi, iconizzare, rendere conto di un'intera cultura.
Per merito di Ellroy, autore anche di un'altra crime story titolata White Jazz, tutta la retorica letteraria, relegata nei Meridiani dedicati a Quintiliano, riprendeva vita e dinamismo psichico, anche avvantaggiandosi di una lingua evidentemente mutuata dalla poesia di Ginsberg. Era una fase in cui già si avvertiva l'incrinarsi di quanto l'industria culturale italiana aveva proiettato negli anni Ottanta come pacco regalo, qualcosa di cui, dal punto di vista della critica, pareva non fregare niente a nessuno: il legal thriller di Grisham e Scott Turow; il genere nero al femminile di Patricia Cornwell e Kathy Reichs; le spy story di John Le Carré e Robert Ludlum. E il meglio della narrativa di genere veniva relegato in poche nicchie. Jean-Claude Izzo con la sua quadrilogia marsigliese suscitava un culto che rimane letterariamente giustificabile, mentre non altrettanto si può dire dell'eterna furbizia narrativa di Manuel Vásquez Montalbán. In Italia gli autori che hanno dato corso a una qualche forma di sperimentazione lo hanno fatto, per lo più, allargando le gabbie di un genere che mal sopporta le gabbie. Il fenomeno Camilleri è eminentemente letterario ed è nato in quegli anni. E così il caso di Carlotto o di De Cataldo o dell'Evangelisti di Noi saremo tutto o di Biondillo o di Alan D. Altieri. La crime novel, in Italia, soprattutto grazie allo strepitoso Romanzo criminale di De Cataldo, ha compiuto una impresa che non è riuscita nel contesto politico né in quello sociale: storicizzare significa conoscere, sospettare in maniera adeguata e ambigua, però abbandonando il dramma stesso dell'ambiguità. Sono stati gli anni in cui la saggistica ha conosciuto un successo editoriale che non si registrava dai '60 - l'ansia di conoscere prevaleva sull'eventuale grado artistico dell'opera, che moltiplicava i suoi livelli di ricezione: da una parte se ne prendeva il divertimento derivato dalla soluzione di un racconto della morte, e in più la si faceva funzionare come una strategia accattivante per addivenire alla conoscenza dell'altro da noi. A distanza soltanto di qualche anno, quei testi appaiono depositati nella tradizione come testi letterari. E l'intero spettro del genere nero conosce una esplosione, quasi una forma di vaporizzazione del racconto criminale.
Quel che nasce dalla morbosità
La ragione è che lo spettacolo che ci circonda, con tutta la sua commistione di realtà e finzione, colpisce l'immaginario anzitutto grazie alla sua percentuale di morbosità. E nulla è più morboso dell'osservazione estranea della morte, come dimostrano le code che si formano in autostrada quando nell'altra carreggiata è avvenuto un incidente e gli automobilisti rallentano per spiare la morte. Tutta questa morbosità, che ci viene compulsivamente propinata attraverso qualunque medium, è oscenamente più splatter e abissalmente più nera di qualunque narrativa. La morte, il sospetto e l'indagine sono soggetti ideali per essere spettacolarizzati con quella particolare retorica offerta dalla crime novel. E così nasce l'esaltazione televisiva dei comparti repressivi e legalisti, insomma la fiction che produce l'elogio delle forze dell'ordine: squadre di poliziotti, carabinieri, preti insieme ai carabinieri, marescialli dei carabinieri, reparti di indagine scientifica, perfino la guardia di finanza. Una narrazione rassicurante per il citoyen.
Fuori dall'Italia accade lo stesso, ma per tutt'altri motivi. Se la retorica è cambiata lo si deve soprattutto ai nuovi serial tv americani. Questi, che prima si erano limitati a utilizzare elementi della letteratura nera, hanno elaborato una strategia autonoma, psichicamente assai potente, quasi convulsiva. Serie come 24 o Lost, per non parlare di opere di sapore shakespeariano come Damages, sviluppano un arco di eventi che porta ai suoi estremi la suspence. È un genere di retorica che sbilancia ogni equilibrio preesistente, implicando perfino il cinema: quell'arco voltaico sviluppato dai serial americani è molto più coinvolgente di un action movie o di un thriller da grande schermo, perché riesce a mettere più personaggi e più tempo a disposizione del suo pubblico, che ha così maggior agio nell'affezionarsi alla vicenda e più tempo per elaborare la perdita di un protagonista, mentre ne subentra uno nuovo. Il cinema reagisce con le trilogie (valga per tutte quella di Jason Bourne) o con i dissestamenti cronotopici (per esempio, Collateral di Michael Mann). Gli scrittori reagiscono invece allargando la plastilina della crime novel, per creare nuove forme ibride. Infatti, è ormai stato avviato un nuovo spettro europeo del genere nero. Manuel Manzano, in uscita per Kowalski con il suo esilarante Le incredibili disavventure di un autentico cacasotto, trasforma il noir in surrealtà, comica all'inverosimile. Serge Quadruppani, con Y, pubblicato da Marsilio, crea un cortocircuito tra locale e globale, tra vicenda esistenziale e complotto dei poteri occulti, con una lingua di clamorosa raffinatezza, modulando sarcasmo e detournément situazionista. L'erede designato di James Ellroy, l'inglese David Peace, già autore dello sconcertante Red Riding Quartet, va a utilizzare i suoi disturbi ossessivi compulsivi nel cuore del dopoguerra giapponese, in una trilogia iniziata con Tokyo Anno Zero (il Saggiatore). Ma la più impressionante delle mutazioni interne alla crime novel è di marca italiana: si tratta, ovviamente, di Gomorra di Roberto Saviano, nato come un testo letterario piuttosto che come una nonfiction, anche se è così che, per il momento, in molti continuano a percepirlo. Altro caso rilevante è Cinacittà di Tommaso Pincio (Einaudi Stile Libero), dove una struttura noir funziona per una mappatura relazionale e psichica del sé.
Negli Stati Uniti, che sono il punto focale e d'irradiazione del genere hard-boiled, il giallo sporcato di putridume morale e fisico sta mutando il suo genoma. Lì la strumentazione della crime novel è stata utilizzata senza tanti problemi da quella che da noi è catalogata come «letteratura alta»: basti pensare a Falconer di Cheever, a Libra di DeLillo, ad alcuni elementi portanti di Un uomo vero di Wolfe, al Lotto 49 di Pynchon. È che negli Stati Uniti la letteratura ha vissuto un'autentica stagione postmodernista, la cui radicalità risulta ignota alle nostre latitudini. Ne è una ulteriore dimostrazione il Guardiano del buio di George Pelecanos (appena pubblicato da Piemme), il cantore nero dell'ombra criminale di Washington D.C., il quale arriva a inserire tessere teologiche in un romanzo che è, probabilmente, è il suo più complesso e sofferto. Ma l'elemento più sorprendente, quello che testimonia meglio la vitalità del genere viene paradossalmente dal caso Ludlum. Robert Ludlum, infatti, è morto nel 2001, ma quest'anno è stato pubblicato a sua firma un nuovo romanzo titolato The Bourne Deception. Si dirà: certo, è l'uscita postuma di uno tra i tanti testi che giacevano nei cassetti dell'autore. Per nulla. Il fatto è che esiste una factory di eccellenti autori, organizzati e istruiti da Ludlum stesso quand'era in vita, che continuano a scrivere, con stile fedele all'originale, storie in grado di fare approdare la teoria cospirazionista di Ludlum a una sorta di epica a puntate. E non a caso: una tra le atout di questo genere narrativo, in Italia da sempre considerato paraletteratura, è che dorme in esso una chance epica, del tutto diversa da quella classica. In campo non c'è il rapporto con un dio, bensì con il mistero e con il destino. Inoltre, non c'è alcuna preoccupazione o autolimitazione stilistica, in questo genere. L'epica verso cui tende la crime novel contempla pressoché tutti i generi romanzeschi: dal comico allo psicologico all'esistenzialista al tragico. La crime novel, per sua natura, si fa forte di una spinta che non si preoccupa di attingere alla tradizione del romanzo, perché il suo compito è quello di mettere in crisi la realtà usando il mito della realtà. Ciò che è in questione non sta tanto nel raccontare un efferato omicidio, o l'arrivo di un ispettore, o la soluzione del caso: si tratta, piuttosto, di raccontare la morte, l'avvento di un messia, il superamento della morte stessa. Relegata tra i paria della letteratura insieme alla fantascienza, proprio insieme a questa (che vive una stagione calante) la crime novel incarna il massimalismo letterario allo stato potenziale. I suoi temi sono archetipici, le sue valenze sono profondamente allegoriche - a patto che gli autori che ne utilizzano la retorica siano adeguatamente avvertiti e le sappiano piegare in forme adeguate.
Per esplorare la condizione umana
Questa vocazione epica, con tutte le sue strumentazioni, viene evidenziata nel saggio letterario pop New Italian Epic, firmato da Wu Ming (Einaudi Stile Libero). Gran parte dei testi che vengono qui citati, per delineare un'instabile nebulosa epica, sono stati scritti da autori che hanno fatto esperienza del genere nero. Le tesi di Wu Ming possono essere osservate anche (ma non solo) da questa prospettiva: la crime novel ha permesso agli scrittori italiani di far fiorire una retorica tradotta in finzione e indirizzata alla collettività, con sguardi alternativi a quelli utilizzati in Italia prima di Tangentopoli: è una faglia storica che viene individuata come elemento di discontinuità rispetto a una deriva del romanzo psicologico e intimista, ma anche neoavanguardista. In questo spazio preciso, che riguarda tutti, Wu Ming pone la produzione di determinati romanzi, sfuggenti ai canoni della ristretta tradizione italiana. «La verità non sembra mai vera» scrisse Simenon nelle Memorie di Maigret - un'affermazione che poteva trovarsi in Omero o Eschilo. In quella differenza tra l'essere e il sembrare della verità, si pone quanto suona come incredibile e perturbante di una narrazione collettiva che ha nel thriller, nel noir, nell'hard-boiled e nella crime novel un passaggio aperto, per esplorare con rinnovata forza il regno umano sul pianeta.
ilmanifesto.it
Oscenamente più splatter e abissalmente più nera di ogni genere narrativo, la morbosità derivata dalla esibizione della morte, che ci viene compulsivamente propinata dai media, sta modificando il genoma di correnti letterarie che vanno dall'hard boiled al romanzo epico. Contribuiscono alla mutazione le fiction, spesso apologetiche nei confronti delle forze dell'ordine, e le strategie dei nuovi serial tv
Più o meno da sempre i critici letterari italiani hanno inveito contro il successo di massa di alcuni libri: thriller o noir che fossero, i loro autori provenivano da zone troppo lumpen della narrativa. Ma l'onda lunga dei «libri neri» non sembra essersi perciò arrestata: la trilogia Millennium di Stieg Larsson, e tutto lo tsunami svedese, sono una conferma, almeno apparente, di questa vitalità. Tuttavia, per l'appunto, non è consigliabile fermarsi alle apparenze. Dal momento in cui si è imposto il genere nero, che soltanto in Italia veniva considerato di serie B, molte variabili sono mutate - essenzialmente quella sociale. Se la crime novel è passata (anche presso di noi) ai ranghi della letteratura lo deve all'opera di James Ellroy, che con il suo American Tabloid (Mondadori) ha mostrato, grazie a una lingua suprema, di quali e quante chiavi fosse dotato questo genere popolare. Istantaneo e spiazzante, il passaggio da hard boiled a romanzo epico, praticato da Ellroy, ha rappresentato un momento formativo per l'immaginario degli scrittori italiani, in ritardo su quanto accadeva al di fuori dei nostri confini. Grazie a quel libro si comprese finalmente quanto una crime novel fosse in grado di raccontare efficacemente la storia collettiva, quanto fosse in grado di storicizzare misteri, raccontare snodi della vicenda sociale di una nazione, utilizzare materiali controinformativi, iconizzare, rendere conto di un'intera cultura.
Per merito di Ellroy, autore anche di un'altra crime story titolata White Jazz, tutta la retorica letteraria, relegata nei Meridiani dedicati a Quintiliano, riprendeva vita e dinamismo psichico, anche avvantaggiandosi di una lingua evidentemente mutuata dalla poesia di Ginsberg. Era una fase in cui già si avvertiva l'incrinarsi di quanto l'industria culturale italiana aveva proiettato negli anni Ottanta come pacco regalo, qualcosa di cui, dal punto di vista della critica, pareva non fregare niente a nessuno: il legal thriller di Grisham e Scott Turow; il genere nero al femminile di Patricia Cornwell e Kathy Reichs; le spy story di John Le Carré e Robert Ludlum. E il meglio della narrativa di genere veniva relegato in poche nicchie. Jean-Claude Izzo con la sua quadrilogia marsigliese suscitava un culto che rimane letterariamente giustificabile, mentre non altrettanto si può dire dell'eterna furbizia narrativa di Manuel Vásquez Montalbán. In Italia gli autori che hanno dato corso a una qualche forma di sperimentazione lo hanno fatto, per lo più, allargando le gabbie di un genere che mal sopporta le gabbie. Il fenomeno Camilleri è eminentemente letterario ed è nato in quegli anni. E così il caso di Carlotto o di De Cataldo o dell'Evangelisti di Noi saremo tutto o di Biondillo o di Alan D. Altieri. La crime novel, in Italia, soprattutto grazie allo strepitoso Romanzo criminale di De Cataldo, ha compiuto una impresa che non è riuscita nel contesto politico né in quello sociale: storicizzare significa conoscere, sospettare in maniera adeguata e ambigua, però abbandonando il dramma stesso dell'ambiguità. Sono stati gli anni in cui la saggistica ha conosciuto un successo editoriale che non si registrava dai '60 - l'ansia di conoscere prevaleva sull'eventuale grado artistico dell'opera, che moltiplicava i suoi livelli di ricezione: da una parte se ne prendeva il divertimento derivato dalla soluzione di un racconto della morte, e in più la si faceva funzionare come una strategia accattivante per addivenire alla conoscenza dell'altro da noi. A distanza soltanto di qualche anno, quei testi appaiono depositati nella tradizione come testi letterari. E l'intero spettro del genere nero conosce una esplosione, quasi una forma di vaporizzazione del racconto criminale.
Quel che nasce dalla morbosità
La ragione è che lo spettacolo che ci circonda, con tutta la sua commistione di realtà e finzione, colpisce l'immaginario anzitutto grazie alla sua percentuale di morbosità. E nulla è più morboso dell'osservazione estranea della morte, come dimostrano le code che si formano in autostrada quando nell'altra carreggiata è avvenuto un incidente e gli automobilisti rallentano per spiare la morte. Tutta questa morbosità, che ci viene compulsivamente propinata attraverso qualunque medium, è oscenamente più splatter e abissalmente più nera di qualunque narrativa. La morte, il sospetto e l'indagine sono soggetti ideali per essere spettacolarizzati con quella particolare retorica offerta dalla crime novel. E così nasce l'esaltazione televisiva dei comparti repressivi e legalisti, insomma la fiction che produce l'elogio delle forze dell'ordine: squadre di poliziotti, carabinieri, preti insieme ai carabinieri, marescialli dei carabinieri, reparti di indagine scientifica, perfino la guardia di finanza. Una narrazione rassicurante per il citoyen.
Fuori dall'Italia accade lo stesso, ma per tutt'altri motivi. Se la retorica è cambiata lo si deve soprattutto ai nuovi serial tv americani. Questi, che prima si erano limitati a utilizzare elementi della letteratura nera, hanno elaborato una strategia autonoma, psichicamente assai potente, quasi convulsiva. Serie come 24 o Lost, per non parlare di opere di sapore shakespeariano come Damages, sviluppano un arco di eventi che porta ai suoi estremi la suspence. È un genere di retorica che sbilancia ogni equilibrio preesistente, implicando perfino il cinema: quell'arco voltaico sviluppato dai serial americani è molto più coinvolgente di un action movie o di un thriller da grande schermo, perché riesce a mettere più personaggi e più tempo a disposizione del suo pubblico, che ha così maggior agio nell'affezionarsi alla vicenda e più tempo per elaborare la perdita di un protagonista, mentre ne subentra uno nuovo. Il cinema reagisce con le trilogie (valga per tutte quella di Jason Bourne) o con i dissestamenti cronotopici (per esempio, Collateral di Michael Mann). Gli scrittori reagiscono invece allargando la plastilina della crime novel, per creare nuove forme ibride. Infatti, è ormai stato avviato un nuovo spettro europeo del genere nero. Manuel Manzano, in uscita per Kowalski con il suo esilarante Le incredibili disavventure di un autentico cacasotto, trasforma il noir in surrealtà, comica all'inverosimile. Serge Quadruppani, con Y, pubblicato da Marsilio, crea un cortocircuito tra locale e globale, tra vicenda esistenziale e complotto dei poteri occulti, con una lingua di clamorosa raffinatezza, modulando sarcasmo e detournément situazionista. L'erede designato di James Ellroy, l'inglese David Peace, già autore dello sconcertante Red Riding Quartet, va a utilizzare i suoi disturbi ossessivi compulsivi nel cuore del dopoguerra giapponese, in una trilogia iniziata con Tokyo Anno Zero (il Saggiatore). Ma la più impressionante delle mutazioni interne alla crime novel è di marca italiana: si tratta, ovviamente, di Gomorra di Roberto Saviano, nato come un testo letterario piuttosto che come una nonfiction, anche se è così che, per il momento, in molti continuano a percepirlo. Altro caso rilevante è Cinacittà di Tommaso Pincio (Einaudi Stile Libero), dove una struttura noir funziona per una mappatura relazionale e psichica del sé.
Negli Stati Uniti, che sono il punto focale e d'irradiazione del genere hard-boiled, il giallo sporcato di putridume morale e fisico sta mutando il suo genoma. Lì la strumentazione della crime novel è stata utilizzata senza tanti problemi da quella che da noi è catalogata come «letteratura alta»: basti pensare a Falconer di Cheever, a Libra di DeLillo, ad alcuni elementi portanti di Un uomo vero di Wolfe, al Lotto 49 di Pynchon. È che negli Stati Uniti la letteratura ha vissuto un'autentica stagione postmodernista, la cui radicalità risulta ignota alle nostre latitudini. Ne è una ulteriore dimostrazione il Guardiano del buio di George Pelecanos (appena pubblicato da Piemme), il cantore nero dell'ombra criminale di Washington D.C., il quale arriva a inserire tessere teologiche in un romanzo che è, probabilmente, è il suo più complesso e sofferto. Ma l'elemento più sorprendente, quello che testimonia meglio la vitalità del genere viene paradossalmente dal caso Ludlum. Robert Ludlum, infatti, è morto nel 2001, ma quest'anno è stato pubblicato a sua firma un nuovo romanzo titolato The Bourne Deception. Si dirà: certo, è l'uscita postuma di uno tra i tanti testi che giacevano nei cassetti dell'autore. Per nulla. Il fatto è che esiste una factory di eccellenti autori, organizzati e istruiti da Ludlum stesso quand'era in vita, che continuano a scrivere, con stile fedele all'originale, storie in grado di fare approdare la teoria cospirazionista di Ludlum a una sorta di epica a puntate. E non a caso: una tra le atout di questo genere narrativo, in Italia da sempre considerato paraletteratura, è che dorme in esso una chance epica, del tutto diversa da quella classica. In campo non c'è il rapporto con un dio, bensì con il mistero e con il destino. Inoltre, non c'è alcuna preoccupazione o autolimitazione stilistica, in questo genere. L'epica verso cui tende la crime novel contempla pressoché tutti i generi romanzeschi: dal comico allo psicologico all'esistenzialista al tragico. La crime novel, per sua natura, si fa forte di una spinta che non si preoccupa di attingere alla tradizione del romanzo, perché il suo compito è quello di mettere in crisi la realtà usando il mito della realtà. Ciò che è in questione non sta tanto nel raccontare un efferato omicidio, o l'arrivo di un ispettore, o la soluzione del caso: si tratta, piuttosto, di raccontare la morte, l'avvento di un messia, il superamento della morte stessa. Relegata tra i paria della letteratura insieme alla fantascienza, proprio insieme a questa (che vive una stagione calante) la crime novel incarna il massimalismo letterario allo stato potenziale. I suoi temi sono archetipici, le sue valenze sono profondamente allegoriche - a patto che gli autori che ne utilizzano la retorica siano adeguatamente avvertiti e le sappiano piegare in forme adeguate.
Per esplorare la condizione umana
Questa vocazione epica, con tutte le sue strumentazioni, viene evidenziata nel saggio letterario pop New Italian Epic, firmato da Wu Ming (Einaudi Stile Libero). Gran parte dei testi che vengono qui citati, per delineare un'instabile nebulosa epica, sono stati scritti da autori che hanno fatto esperienza del genere nero. Le tesi di Wu Ming possono essere osservate anche (ma non solo) da questa prospettiva: la crime novel ha permesso agli scrittori italiani di far fiorire una retorica tradotta in finzione e indirizzata alla collettività, con sguardi alternativi a quelli utilizzati in Italia prima di Tangentopoli: è una faglia storica che viene individuata come elemento di discontinuità rispetto a una deriva del romanzo psicologico e intimista, ma anche neoavanguardista. In questo spazio preciso, che riguarda tutti, Wu Ming pone la produzione di determinati romanzi, sfuggenti ai canoni della ristretta tradizione italiana. «La verità non sembra mai vera» scrisse Simenon nelle Memorie di Maigret - un'affermazione che poteva trovarsi in Omero o Eschilo. In quella differenza tra l'essere e il sembrare della verità, si pone quanto suona come incredibile e perturbante di una narrazione collettiva che ha nel thriller, nel noir, nell'hard-boiled e nella crime novel un passaggio aperto, per esplorare con rinnovata forza il regno umano sul pianeta.
ilmanifesto.it
«Immigrati e reati, io di sinistra non volevo vedere»
Intervista di Francesco Alberti al sociologo Marzio Barbagli - Corriere
«Sì, in quegli anni andava così, non volevo vedere: c'era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i dati sull'incidenza dell’immigrazione rispetto alla criminalità. Ero condizionato dalle mie posizioni di uomo di sinistra. E quando finalmente ho cominciato a prendere atto della realtà e a scrivere che l'ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull'aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tolto il saluto». Marzio Barbagli ha 70 anni, è professore di sociologia all'Università di Bologna, ha scritto libri importanti sul tema immigrazione e delinquenza e ha curato per il Viminale (ai tempi di Enzo Bianco e Giuliano Amato) il rapporto sullo stato della criminalità. Nel suo libro, Immigrazione e sicurezza (edito dal Mulino), fissa l'impressionante impennata di stupri compiuti dagli extracomunitari: dal 9% al 40% negli ultimi 20 anni, con romeni, marocchini e albanesi a guidare la classifica».
Professore, a quando risale questa specie di cecità scientifica?
«Parlo di una decina di anni fa... Ma guardi che non ero l'unico, c'erano anche altri colleghi, della mia stessa parte politica, che si rifiutavano di vedere i cambiamenti, sotto il profilo dell'ordine pubblico, che l'ondata migratoria comportava».
Eppure non mancavano dati e statistiche. O no?
«Certo che c'erano, ma non volevo crederci, non li cercavo nemmeno. Ho fatto il possibile per ingannare me stesso. Mi dicevo: ma no, le cifre sono sbagliate, le procedure d'analisi difettose. Era come se avessi un blocco mentale...». Poi cos'è successo? «Ho capito che non erano i dati ad essere sbagliati, ma le mie ipotesi di partenza».
E a quel punto?
«Sono finalmente riuscito a tenere distinti i due piani: il ricercatore dall'uomo di sinistra. E ho scritto quello che la realtà mi suggeriva».
E alcuni suoi colleghi le hanno tolto il saluto.
«Sì, alcuni. Poi ce n'erano altri che, pur sapendo che avevo ragione, mi dicevano che quelle cose non andavano comunque scritte».
Lei ha avuto l'onestà e il coraggio di ammettere l'errore: pensa che a sinistra questi condizionamenti ideologici siano molto diffusi?
«Di sicuro lo sono stati. E non solo in Italia. Un gap culturale che ha costretto la sinistra ad una faticosa rincorsa, che in parte però sta avvenendo. La stessa Livio Turco, promotrice assieme a Giorgio Napolitano di una legge importante sull'immigrazione, ha ammesso che inizialmente, quando si trovò ad affrontare la questione, non fu semplice superare certi schematismi, una certa immaturità».
Cosa le ha insegnato questa esperienza?
«È stato un processo faticoso, ma di grande crescita. Ora sono un ricercatore. E nient'altro».
«Sì, in quegli anni andava così, non volevo vedere: c'era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i dati sull'incidenza dell’immigrazione rispetto alla criminalità. Ero condizionato dalle mie posizioni di uomo di sinistra. E quando finalmente ho cominciato a prendere atto della realtà e a scrivere che l'ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull'aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tolto il saluto». Marzio Barbagli ha 70 anni, è professore di sociologia all'Università di Bologna, ha scritto libri importanti sul tema immigrazione e delinquenza e ha curato per il Viminale (ai tempi di Enzo Bianco e Giuliano Amato) il rapporto sullo stato della criminalità. Nel suo libro, Immigrazione e sicurezza (edito dal Mulino), fissa l'impressionante impennata di stupri compiuti dagli extracomunitari: dal 9% al 40% negli ultimi 20 anni, con romeni, marocchini e albanesi a guidare la classifica».
Professore, a quando risale questa specie di cecità scientifica?
«Parlo di una decina di anni fa... Ma guardi che non ero l'unico, c'erano anche altri colleghi, della mia stessa parte politica, che si rifiutavano di vedere i cambiamenti, sotto il profilo dell'ordine pubblico, che l'ondata migratoria comportava».
Eppure non mancavano dati e statistiche. O no?
«Certo che c'erano, ma non volevo crederci, non li cercavo nemmeno. Ho fatto il possibile per ingannare me stesso. Mi dicevo: ma no, le cifre sono sbagliate, le procedure d'analisi difettose. Era come se avessi un blocco mentale...». Poi cos'è successo? «Ho capito che non erano i dati ad essere sbagliati, ma le mie ipotesi di partenza».
E a quel punto?
«Sono finalmente riuscito a tenere distinti i due piani: il ricercatore dall'uomo di sinistra. E ho scritto quello che la realtà mi suggeriva».
E alcuni suoi colleghi le hanno tolto il saluto.
«Sì, alcuni. Poi ce n'erano altri che, pur sapendo che avevo ragione, mi dicevano che quelle cose non andavano comunque scritte».
Lei ha avuto l'onestà e il coraggio di ammettere l'errore: pensa che a sinistra questi condizionamenti ideologici siano molto diffusi?
«Di sicuro lo sono stati. E non solo in Italia. Un gap culturale che ha costretto la sinistra ad una faticosa rincorsa, che in parte però sta avvenendo. La stessa Livio Turco, promotrice assieme a Giorgio Napolitano di una legge importante sull'immigrazione, ha ammesso che inizialmente, quando si trovò ad affrontare la questione, non fu semplice superare certi schematismi, una certa immaturità».
Cosa le ha insegnato questa esperienza?
«È stato un processo faticoso, ma di grande crescita. Ora sono un ricercatore. E nient'altro».
14.2.09
Gelmini bocciata dai consiglieri
Il Cnpi da' parere negativo al Regolamento delle scuole materne, elementari e medie. Il ministero: 'Riformeremo il Consiglio nazionale'
FLAVIA AMABILE
Finora a bocciare il ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini e la sua riforma della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, erano stati soltanto i sindacati e l’opposizione. Ora invece è arrivata una bocciatura anche da parte del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, organo dello stesso Ministero, che liquida il Regolamento con alcuni giudizi molto severi: «non coerente» con l’autonomia scolastica, «compromette l’efficacia dell’offerta formativa», «non garantisce pari opportunità di offerta e di scelta sull’intero territorio nazionale» e renderà difficile soddisfare le aspettative delle famiglie sui tempi offerti dalle singole scuole. Detto in altre parole: mamme e papà potrete dire addio al tempo pieno. A meno di miracoli come l’improvviso arrivo di finanziamenti straordinari.
Dal ministero rispondono al giudizio del Consiglio ricordando che «il Cnpi è un organo con funzioni meramente consultive, e che comunque mai ha accolto con favore una riforma scolastica perché è un organo conservatore, teso a difendere lo status quo». E, quindi, aggiungono, «bisognerà rivedere la sua composizione, riformarlo in modo da rendere meno politico e sindacale il suo contributo, aumentando invece il carattere tecnico dei suoi pareri».
Il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, infatti, è un organo nato nel 1974. Ha come funzione quella di fornire una consulenza tecnico-professionale al ministro, a volte su richiesta del ministro, altre volte perché obbligato a farlo. Presidente è lo stesso ministro della Pubblica Istruzione, ed è composto da 74 consiglieri, la maggior parte eletti dalle varie categorie del personale scolastico.
Il 17 novembre scorso i consiglieri avevano già espresso «fermo dissenso e viva preoccupazione sulle scelte operate» dal ministro Gelmini in materia di maestro unico e orario di 24 ore settimanali, che avrebbero provocato - denunciavano i consiglieri del ministro - «una destrutturazione del sistema scolastico pubblico ed una netta riduzione quantitativa e qualitativa dell’offerta formativa». E quindi avevano chiesto «una profonda revisione dei provvedimenti adottati» ed un coinvolgimento nelle future decisioni.
Il 29 dicembre il ministro accetta, almeno in parte, le loro richieste. Invia al Consiglio una nota con il Regolamento approvato e chiede il loro parere. Il parere arriva un mese e mezzo dopo, il 12 febbraio, ed è una bocciatura a 360 gradi dei provvedimenti del ministro dell’Istruzione. Bocciato «l’azzeramento delle compresenze e di fatto di tutte le forme di utilizzo del personale docente in compiti diversi dall’insegnamento frontale» che «influisce pesantemente sulla qualità dell’offerta formativa» e «induce a ricercare risorse compensative esterne», e quindi gli studenti avranno insegnanti sempre meno garantiti e non necessariamente adeguati alle discipline da insegnare.
Bocciata l’introduzione dei cambiamenti anche dalle classi successive alla prima «non tenendo conto delle scelte organizzative e didattiche della scuola, delle scelte già operate dalle famiglie, della prassi consolidata di una graduale implementazione di modifiche ordinamentali». Il modello delle 24 ore settimanali «diventa, da subito, il modello della suola pubblica. In tal modo si rendono residuali gli altri modelli». E, quindi, i consiglieri conludono la loro relazione rilevando che sui tempi scuola il Regolamento «possa alimentare nelle famiglie aspettative che, in assenza di congrue e correlate risorse, potranno difficilmente essere soddisfatte, mettendo la scuola nella difficile situazione di dover riorientare le scelte e riorganizzare l’offerta».
lastampa.it
FLAVIA AMABILE
Finora a bocciare il ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini e la sua riforma della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, erano stati soltanto i sindacati e l’opposizione. Ora invece è arrivata una bocciatura anche da parte del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, organo dello stesso Ministero, che liquida il Regolamento con alcuni giudizi molto severi: «non coerente» con l’autonomia scolastica, «compromette l’efficacia dell’offerta formativa», «non garantisce pari opportunità di offerta e di scelta sull’intero territorio nazionale» e renderà difficile soddisfare le aspettative delle famiglie sui tempi offerti dalle singole scuole. Detto in altre parole: mamme e papà potrete dire addio al tempo pieno. A meno di miracoli come l’improvviso arrivo di finanziamenti straordinari.
Dal ministero rispondono al giudizio del Consiglio ricordando che «il Cnpi è un organo con funzioni meramente consultive, e che comunque mai ha accolto con favore una riforma scolastica perché è un organo conservatore, teso a difendere lo status quo». E, quindi, aggiungono, «bisognerà rivedere la sua composizione, riformarlo in modo da rendere meno politico e sindacale il suo contributo, aumentando invece il carattere tecnico dei suoi pareri».
Il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, infatti, è un organo nato nel 1974. Ha come funzione quella di fornire una consulenza tecnico-professionale al ministro, a volte su richiesta del ministro, altre volte perché obbligato a farlo. Presidente è lo stesso ministro della Pubblica Istruzione, ed è composto da 74 consiglieri, la maggior parte eletti dalle varie categorie del personale scolastico.
Il 17 novembre scorso i consiglieri avevano già espresso «fermo dissenso e viva preoccupazione sulle scelte operate» dal ministro Gelmini in materia di maestro unico e orario di 24 ore settimanali, che avrebbero provocato - denunciavano i consiglieri del ministro - «una destrutturazione del sistema scolastico pubblico ed una netta riduzione quantitativa e qualitativa dell’offerta formativa». E quindi avevano chiesto «una profonda revisione dei provvedimenti adottati» ed un coinvolgimento nelle future decisioni.
Il 29 dicembre il ministro accetta, almeno in parte, le loro richieste. Invia al Consiglio una nota con il Regolamento approvato e chiede il loro parere. Il parere arriva un mese e mezzo dopo, il 12 febbraio, ed è una bocciatura a 360 gradi dei provvedimenti del ministro dell’Istruzione. Bocciato «l’azzeramento delle compresenze e di fatto di tutte le forme di utilizzo del personale docente in compiti diversi dall’insegnamento frontale» che «influisce pesantemente sulla qualità dell’offerta formativa» e «induce a ricercare risorse compensative esterne», e quindi gli studenti avranno insegnanti sempre meno garantiti e non necessariamente adeguati alle discipline da insegnare.
Bocciata l’introduzione dei cambiamenti anche dalle classi successive alla prima «non tenendo conto delle scelte organizzative e didattiche della scuola, delle scelte già operate dalle famiglie, della prassi consolidata di una graduale implementazione di modifiche ordinamentali». Il modello delle 24 ore settimanali «diventa, da subito, il modello della suola pubblica. In tal modo si rendono residuali gli altri modelli». E, quindi, i consiglieri conludono la loro relazione rilevando che sui tempi scuola il Regolamento «possa alimentare nelle famiglie aspettative che, in assenza di congrue e correlate risorse, potranno difficilmente essere soddisfatte, mettendo la scuola nella difficile situazione di dover riorientare le scelte e riorganizzare l’offerta».
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9.2.09
Giù le mani da quel corpo
Natalia Aspesi - La Repubblica
Attorno a un corpo assente, in cui il tempo e il sangue scorrono insensibili come sabbia in una clessidra, isolato nel silenzio e nell´estraneità alla vita, continua ad agitarsi dissennata una parte del Paese.
Quella parte di Paese che ha perso la testa umiliando oltre a se stesso anche la sacralità di un lunghissimo calvario, la sofferenza eroica di una famiglia, il vuoto muto di un´inesistenza. Nell´assoluto disprezzo di quel corpo, che avrebbe diritto di finire nella quiete e nell´amore il prolungamento di un interminabile doloroso viaggio già concluso 17 anni fa, prosegue un fracasso di pareri, un esibizionismo di cortei, un vergognoso andirivieni di ispettori, di incaricati, di ficcanaso governativi, e adesso di bollettini che raccontano le raccapriccianti fasi che dovrebbero accompagnarlo dove il tormento finirà.
Non si tratta più di Eluana, che del resto manca al mondo da un tempo infinito, se se ne contano i giorni; né si tratta più del diritto alla vita o a una fine dignitosa, della morale religiosa o dell´etica laica, di Dio o dello Stato. Ma di un drammatico conflitto istituzionale, e si può già immaginare che chi lo ha provocato, continuerà a servirsi politicamente di quel corpo, sia che trovi finalmente, cristianamente pace o che sia costretto dalla più torva crudeltà degli interessi di potere a ripiombare nella prigione disumana delle funzioni fisiche artificiali.
Il signor Englaro, nella cadenza quotidiana di troppi anni, ha visto, giorno dopo giorno, il giovane corpo della sua bellissima, ridente figlia, trasformarsi, perdersi, rinchiudersi, sbiadire, diventare altro, neppure l´ombra di quello che era, una forma immobile e perduta, svincolata da ciò che la circonda, che la grandezza di un padre ha potuto continuare ad accudire teneramente, dolcemente, per inestinguibile amore. In quel corpo che ha sostituito Eluana, lui solo può riconoscere sua figlia, e continuare ad amarla: è per questo che con eroico orgoglio l´ha difeso da ogni squallido tentativo, e ce ne sono stati, di rubarne le immagini drammatiche. Per tutti, per chi crede al diritto di interrompere l´inesistenza e per chi invece questo diritto vuole negarlo, Eluana è sempre quella selva di capelli neri, quel sorriso splendente, quello sguardo felice, quella ragazza che invece ha finito di vivere tanti anni fa.
Adesso il signor Englaro invita sia il premier che il capo dello Stato a visitare ciò che resta di sua figlia. Si fa, lo fanno sempre i nostri rappresentanti quando accadono disastri e "si recano", come dicono i telegiornali, al capezzale dei feriti, a consolare i parenti delle vittime. Essi non possono esimersi, soprattutto il premier che tanto tiene che quel corpo continui il suo percorso artificiale, ha il dovere, al più presto, di portare in quella stanza in penombra il conforto della sua presenza, e di restarci da solo, per un lungo tempo, a riflettere, pensando alla vita, immaginandosi padre di quella creatura, dimenticandosi per un momento della sua smania di potere.
Sarebbe vile rifiutarlo, sarebbe come rendere vane tutte le parole, e non solo le sue, in difesa non della vita in generale, ma solo di questa vita spenta, diventata ostaggio politico. Certo se il premier farà il suo dovere, in quella stanza della clinica di Udine non pensi di trovare quella deliziosa attrice che nel film di Almodovar "Parla con lei", è una ragazza in coma da quattro anni, così bella da far innamorare l´infermiere che cura anche troppo intimamente il suo corpo insensibile. Pensava a quella storia il premier quando ha pronunciato quella tragica frase, «Eluana potrebbe avere dei figli»? Nel film di Almodovar la ragazza in stato vegetativo, che non sa, non sente, non può reagire, non esiste, resta incinta, vittima ovviamente di uno stupro necrofilo. Pensandoci, oggi vengono i brividi, e non c´è altro da dire.
Attorno a un corpo assente, in cui il tempo e il sangue scorrono insensibili come sabbia in una clessidra, isolato nel silenzio e nell´estraneità alla vita, continua ad agitarsi dissennata una parte del Paese.
Quella parte di Paese che ha perso la testa umiliando oltre a se stesso anche la sacralità di un lunghissimo calvario, la sofferenza eroica di una famiglia, il vuoto muto di un´inesistenza. Nell´assoluto disprezzo di quel corpo, che avrebbe diritto di finire nella quiete e nell´amore il prolungamento di un interminabile doloroso viaggio già concluso 17 anni fa, prosegue un fracasso di pareri, un esibizionismo di cortei, un vergognoso andirivieni di ispettori, di incaricati, di ficcanaso governativi, e adesso di bollettini che raccontano le raccapriccianti fasi che dovrebbero accompagnarlo dove il tormento finirà.
Non si tratta più di Eluana, che del resto manca al mondo da un tempo infinito, se se ne contano i giorni; né si tratta più del diritto alla vita o a una fine dignitosa, della morale religiosa o dell´etica laica, di Dio o dello Stato. Ma di un drammatico conflitto istituzionale, e si può già immaginare che chi lo ha provocato, continuerà a servirsi politicamente di quel corpo, sia che trovi finalmente, cristianamente pace o che sia costretto dalla più torva crudeltà degli interessi di potere a ripiombare nella prigione disumana delle funzioni fisiche artificiali.
Il signor Englaro, nella cadenza quotidiana di troppi anni, ha visto, giorno dopo giorno, il giovane corpo della sua bellissima, ridente figlia, trasformarsi, perdersi, rinchiudersi, sbiadire, diventare altro, neppure l´ombra di quello che era, una forma immobile e perduta, svincolata da ciò che la circonda, che la grandezza di un padre ha potuto continuare ad accudire teneramente, dolcemente, per inestinguibile amore. In quel corpo che ha sostituito Eluana, lui solo può riconoscere sua figlia, e continuare ad amarla: è per questo che con eroico orgoglio l´ha difeso da ogni squallido tentativo, e ce ne sono stati, di rubarne le immagini drammatiche. Per tutti, per chi crede al diritto di interrompere l´inesistenza e per chi invece questo diritto vuole negarlo, Eluana è sempre quella selva di capelli neri, quel sorriso splendente, quello sguardo felice, quella ragazza che invece ha finito di vivere tanti anni fa.
Adesso il signor Englaro invita sia il premier che il capo dello Stato a visitare ciò che resta di sua figlia. Si fa, lo fanno sempre i nostri rappresentanti quando accadono disastri e "si recano", come dicono i telegiornali, al capezzale dei feriti, a consolare i parenti delle vittime. Essi non possono esimersi, soprattutto il premier che tanto tiene che quel corpo continui il suo percorso artificiale, ha il dovere, al più presto, di portare in quella stanza in penombra il conforto della sua presenza, e di restarci da solo, per un lungo tempo, a riflettere, pensando alla vita, immaginandosi padre di quella creatura, dimenticandosi per un momento della sua smania di potere.
Sarebbe vile rifiutarlo, sarebbe come rendere vane tutte le parole, e non solo le sue, in difesa non della vita in generale, ma solo di questa vita spenta, diventata ostaggio politico. Certo se il premier farà il suo dovere, in quella stanza della clinica di Udine non pensi di trovare quella deliziosa attrice che nel film di Almodovar "Parla con lei", è una ragazza in coma da quattro anni, così bella da far innamorare l´infermiere che cura anche troppo intimamente il suo corpo insensibile. Pensava a quella storia il premier quando ha pronunciato quella tragica frase, «Eluana potrebbe avere dei figli»? Nel film di Almodovar la ragazza in stato vegetativo, che non sa, non sente, non può reagire, non esiste, resta incinta, vittima ovviamente di uno stupro necrofilo. Pensandoci, oggi vengono i brividi, e non c´è altro da dire.
8.2.09
Il potere apparente della Chiesa
BARBARA SPINELLI
Solo in apparenza c’è contraddizione fra l’enorme caduta di autorità manifestatasi ai vertici della Chiesa in occasione della riabilitazione dei vescovi lefebvriani e il potere non meno grande che il Vaticano ha esercitato, e sta esercitando, sul caso Englaro e sullo scontro tra istituzioni in Italia. Nel lungo periodo il primo caso finirà forse col pesare di più: i libri di storia racconteranno nei prossimi secoli quel che è accaduto nella Santa Sede, quando un Pontefice volle metter fine a uno scisma, tolse la scomunica ai vescovi di Lefebvre, e mostrò di non sapere bene quello che faceva. Mostrò di ignorare quel che la setta sostiene, e quel che un suo rappresentante, il vescovo Williamson, afferma sul genocidio nazista degli ebrei: genocidio che il vescovo nega («gli uccisi non furono 6 milioni e non morirono in camere a gas») e che non giustificherebbe il senso di colpa della Germania. Un papa tedesco inconsapevole di quel che Williamson divulga da anni fa specialmente impressione.
I libri di storia racconteranno com’è avvenuto il ravvedimento, non appena il cancelliere Angela Merkel gli ha chiesto d’esser «più chiaro»: i giornali tedeschi, impietosi, descrivono il suo cedimento alla politica, la sua caduta nel peccato (è un titolo della Süddeutsche Zeitung), la fine di un’infallibilità che è dogma della Chiesa dal 1870, per volontà di Pio IX. Il rapporto con il caso Eluana c’è perché anche quando esercita poteri d’influenza sproporzionati, nei rapporti con lo Stato italiano, la Chiesa pare agire come per istinto, senza calcolare a fondo le conseguenze: interferisce nelle leggi del potere civile, sorvola su sentenze passate in giudicato, disturba gravemente lo scabro equilibrio fra Stato italiano e Vaticano. Difende l’idea che lo Stato debba essere etico, e che solo il Vaticano possa dire l’etica. Dopo essersi rivelato impotente di fronte al mondo - impotente al punto di «piegarsi» sulla questione lefebvriana - è come se il Vaticano si prendesse una rivincita locale in Italia, esibendo una forza che tuttavia è più apparente che reale. È apparente perché le questioni morali poste dalla Chiesa sono usate dai politici per scopi a essa estranei.
Nell’interferire, la Chiesa non mostra autorità né autentica forza di persuasione. Mostra di possedere quel che viene prima del potere di governo (prima di quello che nella Chiesa è chiamato donum regiminis, un carisma da coniugare col «dono della contemplazione»): esibisce pre-potenza. Proprio questo accadde nel 1870: il Papa stava perdendo il potere temporale, e per questo accampò l’infallibilità spirituale. La prepotenza ecclesiastica verso Eluana e verso chi dissente dalla riabilitazione dei vescovi sembra avere tratti comuni. Ambedue i gesti hanno radici nella superficialità, e in una sorta di volontaria, diffusa incoscienza. Riconciliandosi con la setta, non mettendo subito alcune condizioni irrinunciabili e accennando enigmaticamente a una «comunione non ancora piena», il Papa ha trascurato molte altre cose, sostenute nelle confraternite da decenni. Gli scismatici non si limitavano a dire la messa in latino, volgendo le spalle ai fedeli. Si opponevano con veemenza alle aperture del Concilio Vaticano II, e soprattutto alla dichiarazione di Paolo VI sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra Aetate, 1965). Totale resta la loro opposizione al dialogo con chi crede e pensa in modo diverso.
Granitica la convinzione, contro cui insorge la dichiarazione di Paolo VI, che gli ebrei non convertiti siano gli uccisori di Cristo. Nostra Aetate non parla solo dell’ecumenismo cristiano. Parla di tutti i monoteismi (Ebraismo, Islam) e anche di religione indù e di buddismo. Apre a altri modi di credere, non ritenendo che la Chiesa romana sia unica depositaria della verità e della morale. Rispondendo a Alain Elkann, monsignor Tissier de Mallerais della confraternita San Pio X dice: «Noi non cambiamo le nostre posizioni ma abbiamo intenzione di convertire Roma, cioè di portare il Vaticano verso le nostre posizioni» (La Stampa, 1-2-09). L’atteggiamento che la Chiesa ha verso l’autonomia dello Stato di diritto in Italia non è molto diverso, nella sostanza, da alcune idee lefebvriane. Il diritto e la Costituzione tengono insieme, per vocazione, etiche e individui diversi. Il dubbio su questioni di vita e morte è in ciascuna persona, e proprio per questo si fa parlare la legge e si separa lo Stato dalle chiese.
È quello che permette allo Stato di non essere Stato etico, dunque ideologico. Nell’ignorare la necessità di questi vincoli il Vaticano non si differenzia in fondo da Berlusconi, oscurando quel che invece li divide eticamente. L’interesse o la morale del principe contano per loro più della legge, della costituzione. Il particolare, sotto forma di spirito animale dell’imprenditore-re o di convinzione etica del sacerdote-guida, non si limita a chiedere un suo spazio d’espressione e obbedienza (com’è giusto), ma esige che lo Stato rinunci a fare la laica sintesi di opinioni contrarie. La laicità non è un credo antitetico alla Chiesa, ma un metodo di sintesi. Su questi temi sembra esserci affinità della Chiesa con Berlusconi e perfino con i lefebvriani, favorevoli da sempre al cattolicesimo religione di Stato. I vertici del Vaticano si sono rivelati in queste settimane assai deboli e assai forti al tempo stesso. Deboli, perché per ben 14 giorni Benedetto XVI è apparso prima ignaro, poi male informato, infine - appena seppe quel che faceva - paralizzato.
Il cardinale Lehman ha accennato a errori di management e comunicazione, ma c’è qualcosa di più. Aspettare l’intervento della Merkel è stato distruttivo di un’autorità. Nei libri di storia alcuni parleranno di clamoroso fallimento di leadership. Una leadership così scossa, è cosa triste recuperarla su Eluana. La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli. Non si capisce come questo aiuti la Chiesa. Condannando Napolitano, la Chiesa non sceglie la maestà della legge e la vera sovranità: dice solo che le leggi di uno Stato pesano poco, e invece di usare la politica ne è usata in maniera indecente. La questione Englaro non divide religiosi e non religiosi, fautori della vita e della morte. Divide chi rispetta la legge e chi no; chi auspica rapporti di rispetto fra due Stati e chi ritiene che lo Stato vaticano possa legiferare al posto dell’italiano. Sono ministri del Vaticano che hanno attaccato Napolitano: dal cardinale Martino presidente del consiglio Pontificio Giustizia e Pace al cardinale Barragan, responsabile per la Sanità nello Stato della Chiesa.
Il loro dovere istituzionale sarebbe stato quello di tacere, come laicamente ha deciso di fare, unico e solitario nella maggioranza, Gianfranco Fini Presidente della Camera. Come difendere la Chiesa, ora che non ha più potere temporale e che vacilla? La questione sembrava risolta: non lo è. Non si tratta di seguire l’opinione dominante: sarebbe autodistruttivo, proprio in questi giorni il Papa ne ha fatto l’esperienza. Si tratta di ascoltare il diverso, di documentarsi su quel che dicono i tribunali e la scienza, come rammenta Beppino Englaro. Sull’accanimento terapeutico e l’alimentazione-idratazione artificiale si possono avere opinioni diverse e si hanno comunque dubbi, per questo urge una legge sul testamento biologico: non discussa precipitosamente tuttavia. Non perché una maggioranza, adoperando il povero corpo vivo-morto di Eluana, accresca i suoi poteri. Non annunciando che «Eluana può generare figli» come dice, impudicamente, Berlusconi. Prima d’annunciare e sparlare occorre informarsi, studiare, capire. È il dono di governo e contemplazione che manca tragicamente sia in chi conduce la Chiesa, sia in chi governa la Repubblica.
lastampa.it
Solo in apparenza c’è contraddizione fra l’enorme caduta di autorità manifestatasi ai vertici della Chiesa in occasione della riabilitazione dei vescovi lefebvriani e il potere non meno grande che il Vaticano ha esercitato, e sta esercitando, sul caso Englaro e sullo scontro tra istituzioni in Italia. Nel lungo periodo il primo caso finirà forse col pesare di più: i libri di storia racconteranno nei prossimi secoli quel che è accaduto nella Santa Sede, quando un Pontefice volle metter fine a uno scisma, tolse la scomunica ai vescovi di Lefebvre, e mostrò di non sapere bene quello che faceva. Mostrò di ignorare quel che la setta sostiene, e quel che un suo rappresentante, il vescovo Williamson, afferma sul genocidio nazista degli ebrei: genocidio che il vescovo nega («gli uccisi non furono 6 milioni e non morirono in camere a gas») e che non giustificherebbe il senso di colpa della Germania. Un papa tedesco inconsapevole di quel che Williamson divulga da anni fa specialmente impressione.
I libri di storia racconteranno com’è avvenuto il ravvedimento, non appena il cancelliere Angela Merkel gli ha chiesto d’esser «più chiaro»: i giornali tedeschi, impietosi, descrivono il suo cedimento alla politica, la sua caduta nel peccato (è un titolo della Süddeutsche Zeitung), la fine di un’infallibilità che è dogma della Chiesa dal 1870, per volontà di Pio IX. Il rapporto con il caso Eluana c’è perché anche quando esercita poteri d’influenza sproporzionati, nei rapporti con lo Stato italiano, la Chiesa pare agire come per istinto, senza calcolare a fondo le conseguenze: interferisce nelle leggi del potere civile, sorvola su sentenze passate in giudicato, disturba gravemente lo scabro equilibrio fra Stato italiano e Vaticano. Difende l’idea che lo Stato debba essere etico, e che solo il Vaticano possa dire l’etica. Dopo essersi rivelato impotente di fronte al mondo - impotente al punto di «piegarsi» sulla questione lefebvriana - è come se il Vaticano si prendesse una rivincita locale in Italia, esibendo una forza che tuttavia è più apparente che reale. È apparente perché le questioni morali poste dalla Chiesa sono usate dai politici per scopi a essa estranei.
Nell’interferire, la Chiesa non mostra autorità né autentica forza di persuasione. Mostra di possedere quel che viene prima del potere di governo (prima di quello che nella Chiesa è chiamato donum regiminis, un carisma da coniugare col «dono della contemplazione»): esibisce pre-potenza. Proprio questo accadde nel 1870: il Papa stava perdendo il potere temporale, e per questo accampò l’infallibilità spirituale. La prepotenza ecclesiastica verso Eluana e verso chi dissente dalla riabilitazione dei vescovi sembra avere tratti comuni. Ambedue i gesti hanno radici nella superficialità, e in una sorta di volontaria, diffusa incoscienza. Riconciliandosi con la setta, non mettendo subito alcune condizioni irrinunciabili e accennando enigmaticamente a una «comunione non ancora piena», il Papa ha trascurato molte altre cose, sostenute nelle confraternite da decenni. Gli scismatici non si limitavano a dire la messa in latino, volgendo le spalle ai fedeli. Si opponevano con veemenza alle aperture del Concilio Vaticano II, e soprattutto alla dichiarazione di Paolo VI sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra Aetate, 1965). Totale resta la loro opposizione al dialogo con chi crede e pensa in modo diverso.
Granitica la convinzione, contro cui insorge la dichiarazione di Paolo VI, che gli ebrei non convertiti siano gli uccisori di Cristo. Nostra Aetate non parla solo dell’ecumenismo cristiano. Parla di tutti i monoteismi (Ebraismo, Islam) e anche di religione indù e di buddismo. Apre a altri modi di credere, non ritenendo che la Chiesa romana sia unica depositaria della verità e della morale. Rispondendo a Alain Elkann, monsignor Tissier de Mallerais della confraternita San Pio X dice: «Noi non cambiamo le nostre posizioni ma abbiamo intenzione di convertire Roma, cioè di portare il Vaticano verso le nostre posizioni» (La Stampa, 1-2-09). L’atteggiamento che la Chiesa ha verso l’autonomia dello Stato di diritto in Italia non è molto diverso, nella sostanza, da alcune idee lefebvriane. Il diritto e la Costituzione tengono insieme, per vocazione, etiche e individui diversi. Il dubbio su questioni di vita e morte è in ciascuna persona, e proprio per questo si fa parlare la legge e si separa lo Stato dalle chiese.
È quello che permette allo Stato di non essere Stato etico, dunque ideologico. Nell’ignorare la necessità di questi vincoli il Vaticano non si differenzia in fondo da Berlusconi, oscurando quel che invece li divide eticamente. L’interesse o la morale del principe contano per loro più della legge, della costituzione. Il particolare, sotto forma di spirito animale dell’imprenditore-re o di convinzione etica del sacerdote-guida, non si limita a chiedere un suo spazio d’espressione e obbedienza (com’è giusto), ma esige che lo Stato rinunci a fare la laica sintesi di opinioni contrarie. La laicità non è un credo antitetico alla Chiesa, ma un metodo di sintesi. Su questi temi sembra esserci affinità della Chiesa con Berlusconi e perfino con i lefebvriani, favorevoli da sempre al cattolicesimo religione di Stato. I vertici del Vaticano si sono rivelati in queste settimane assai deboli e assai forti al tempo stesso. Deboli, perché per ben 14 giorni Benedetto XVI è apparso prima ignaro, poi male informato, infine - appena seppe quel che faceva - paralizzato.
Il cardinale Lehman ha accennato a errori di management e comunicazione, ma c’è qualcosa di più. Aspettare l’intervento della Merkel è stato distruttivo di un’autorità. Nei libri di storia alcuni parleranno di clamoroso fallimento di leadership. Una leadership così scossa, è cosa triste recuperarla su Eluana. La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli. Non si capisce come questo aiuti la Chiesa. Condannando Napolitano, la Chiesa non sceglie la maestà della legge e la vera sovranità: dice solo che le leggi di uno Stato pesano poco, e invece di usare la politica ne è usata in maniera indecente. La questione Englaro non divide religiosi e non religiosi, fautori della vita e della morte. Divide chi rispetta la legge e chi no; chi auspica rapporti di rispetto fra due Stati e chi ritiene che lo Stato vaticano possa legiferare al posto dell’italiano. Sono ministri del Vaticano che hanno attaccato Napolitano: dal cardinale Martino presidente del consiglio Pontificio Giustizia e Pace al cardinale Barragan, responsabile per la Sanità nello Stato della Chiesa.
Il loro dovere istituzionale sarebbe stato quello di tacere, come laicamente ha deciso di fare, unico e solitario nella maggioranza, Gianfranco Fini Presidente della Camera. Come difendere la Chiesa, ora che non ha più potere temporale e che vacilla? La questione sembrava risolta: non lo è. Non si tratta di seguire l’opinione dominante: sarebbe autodistruttivo, proprio in questi giorni il Papa ne ha fatto l’esperienza. Si tratta di ascoltare il diverso, di documentarsi su quel che dicono i tribunali e la scienza, come rammenta Beppino Englaro. Sull’accanimento terapeutico e l’alimentazione-idratazione artificiale si possono avere opinioni diverse e si hanno comunque dubbi, per questo urge una legge sul testamento biologico: non discussa precipitosamente tuttavia. Non perché una maggioranza, adoperando il povero corpo vivo-morto di Eluana, accresca i suoi poteri. Non annunciando che «Eluana può generare figli» come dice, impudicamente, Berlusconi. Prima d’annunciare e sparlare occorre informarsi, studiare, capire. È il dono di governo e contemplazione che manca tragicamente sia in chi conduce la Chiesa, sia in chi governa la Repubblica.
lastampa.it
6.2.09
Gli Ossimori Concilianti
di Umberto Eco
Non sapendo più come far quadrare scelte che non possono stare insieme, tutti ricorrono a questa forma retorica con esiti a volte esilaranti
Ancora alcuni anni fa, quando si usava la parola 'ossimoro', si doveva spiegare di che cosa si trattasse. Vi si faceva ricorso per definire espressioni celebri come le 'convergenze parallele' ed era opportuno chiarire che si ha ossimoro quando si mettono insieme due termini che si contraddicono a vicenda, come forte debolezza, disperata speranza, dolce violenza, insensato senso (Manganelli) e - per non dimenticare il latino - "formosa deformitas, concordia discors, festina lente".
Ora tutti parlano di ossimoro: lo si legge sovente sulla stampa, l'ho sentito dire da politici alla televisione, insomma, o tutti si sono messi a leggere trattati di retorica oppure c'è qualcosa di ossimorico in giro. Si potrebbe obiettare che la faccenda non è sintomo di nulla, si formano sempre delle mode linguistiche dovute a pigrizia e imitazione, talune durano lo spazio di un mattino ed altre sopravvivono più a lungo ma - insomma - negli anni Cinquanta le ragazzine dicevano 'bestiale' e recentemente dicevano 'assurdo', senza per questo riferirsi né alla zoologia né a Ionesco. Per un poco tutti avevano preso a dire 'un attimino', ma non perché il tempo si fosse davvero accorciato; oppure dicevano 'esatto' invece di 'sì' (anche quando si sposavano in chiesa), ma non per puntigliosità matematica bensì per l'influenza dei programmi quiz. Resiste ancora l'insopportabile vezzo del 'coniugare', e Dio sa perché, in tempi in cui non si presenta il proprio marito ma il proprio compagno, e infine i francesi da un po' di anni abusano del termine 'incontournable', nel senso di qualcosa che non si può evitare e di cui si deve tener conto, e tutto alla radio, alla televisione, nelle conversazioni a cena, è diventato 'incontournable', un film, un problema, un libro, un cibo, un tipo di scarpe.
Temo proprio che da noi presto si parlerà di qualcosa di incontornabile - e si finirà per dire che ciò che è incontornabile è qualcosa che 'ci appella' - ma non perché sia improvvisamente aumentato il numero delle cose inevitabili (anzi, quando tutto diventa incontornabile, tutto può essere tranquillamente trascurato, o scontornato). Invece il mio sospetto è che l'ossimoro abbia guadagnato in popolarità perché viviamo in un mondo dove, tramontate le ideologie (che cercavano, talora rozzamente, di ridurre le contraddizioni e imporre una visione univoca delle cose), ci si dibatte ormai solo tra situazioni contraddittorie.
Se volete un esempio travolgente, ecco la Realtà Virtuale, che è un poco come un Niente Concreto. Poi ci sono le Bombe Intelligenti, che ossimoro non pare, ma lo è se si considera che una bomba, per propria natura, è stupida e dovrebbe cadere dove la buttano, altrimenti se fa di propria iniziativa rischia di diventare Fuoco Amico, bellissimo ossimoro, se per fuoco si intende qualcosa messo in essere (altro bel vezzo linguistico, anche se non ossimorico) per danneggiare chi amico non è. Mi pare abbastanza ossimorica la Esportazione della Libertà, se la libertà è per definizione qualcosa che un popolo o un gruppo si guadagnano per decisione personale e non per imposizione altrui, ma a ben sottilizzare c'è un ossimoro implicito nel Conflitto di Interessi, perché si può tradurre come Interesse Privato Perseguito per il Pubblico Bene - o Interesse Collettivo Perseguito per il Proprio Utile Particolare.
Vorrei fare notare come siano ossimorici la Mobilitazione Globale dei No-global, la Pace Armata e l'Intervento Umanitario (se per intervento s'intende, come s'intende, una serie di azioni belliche in casa altrui). Mi vedo sempre più d'intorno, a sentire i programmi elettorali dei nuovi alleati di Berlusconi, una Sinistra Fascista, e ritengo abbastanza ossimorici gli Atei Clericali come Pera o Ferrara. Non trascurerei, anche se ci siamo abituati, l'Intelligenza Artificiale e persino il Cervello Elettronico (se il cervello è quella cosa molle che abbiamo nella scatola cranica), per non dire degli Embrioni con Anima e persino della Variante di Valico - visto che per definizione un valico è l'unico punto ('incontournable') per cui si può passare tra due montagne. Per essere 'bipartisan' (e ditemi se non è ossimoro questo Prendere Coraggiosamente Parte Tenendo i Piedi in Due Scarpe), altrettanto ossimorica mi pare una prospettiva ventilata dall'Ulivo, di un Volontariato per il Servizio Civile Obbligatorio.
Insomma, non sapendo più come far quadrare scelte che non possono stare insieme, si ricorre a Ossimori Concilianti (ecco un altro bell'ossimoro) per dare l'impressione che ciò che non può convivere conviva, la missione di pace in Iraq, le leggi contro i magistrati (che le leggi dovrebbero applicarle), la politica in televisione e le farse in parlamento, la censura della satira non autorizzata, le profezie a ritroso come il terzo segreto di Fatima, i kamikaze arabi che sarebbero un poco come dei saraceni scintoisti, i sessantottini che sono andati a lavorare con Berlusconi, il populismo liberal. Per finire coi Pacs virtuosamente avversati da concubini divorziati.
espresso.it
Non sapendo più come far quadrare scelte che non possono stare insieme, tutti ricorrono a questa forma retorica con esiti a volte esilaranti
Ancora alcuni anni fa, quando si usava la parola 'ossimoro', si doveva spiegare di che cosa si trattasse. Vi si faceva ricorso per definire espressioni celebri come le 'convergenze parallele' ed era opportuno chiarire che si ha ossimoro quando si mettono insieme due termini che si contraddicono a vicenda, come forte debolezza, disperata speranza, dolce violenza, insensato senso (Manganelli) e - per non dimenticare il latino - "formosa deformitas, concordia discors, festina lente".
Ora tutti parlano di ossimoro: lo si legge sovente sulla stampa, l'ho sentito dire da politici alla televisione, insomma, o tutti si sono messi a leggere trattati di retorica oppure c'è qualcosa di ossimorico in giro. Si potrebbe obiettare che la faccenda non è sintomo di nulla, si formano sempre delle mode linguistiche dovute a pigrizia e imitazione, talune durano lo spazio di un mattino ed altre sopravvivono più a lungo ma - insomma - negli anni Cinquanta le ragazzine dicevano 'bestiale' e recentemente dicevano 'assurdo', senza per questo riferirsi né alla zoologia né a Ionesco. Per un poco tutti avevano preso a dire 'un attimino', ma non perché il tempo si fosse davvero accorciato; oppure dicevano 'esatto' invece di 'sì' (anche quando si sposavano in chiesa), ma non per puntigliosità matematica bensì per l'influenza dei programmi quiz. Resiste ancora l'insopportabile vezzo del 'coniugare', e Dio sa perché, in tempi in cui non si presenta il proprio marito ma il proprio compagno, e infine i francesi da un po' di anni abusano del termine 'incontournable', nel senso di qualcosa che non si può evitare e di cui si deve tener conto, e tutto alla radio, alla televisione, nelle conversazioni a cena, è diventato 'incontournable', un film, un problema, un libro, un cibo, un tipo di scarpe.
Temo proprio che da noi presto si parlerà di qualcosa di incontornabile - e si finirà per dire che ciò che è incontornabile è qualcosa che 'ci appella' - ma non perché sia improvvisamente aumentato il numero delle cose inevitabili (anzi, quando tutto diventa incontornabile, tutto può essere tranquillamente trascurato, o scontornato). Invece il mio sospetto è che l'ossimoro abbia guadagnato in popolarità perché viviamo in un mondo dove, tramontate le ideologie (che cercavano, talora rozzamente, di ridurre le contraddizioni e imporre una visione univoca delle cose), ci si dibatte ormai solo tra situazioni contraddittorie.
Se volete un esempio travolgente, ecco la Realtà Virtuale, che è un poco come un Niente Concreto. Poi ci sono le Bombe Intelligenti, che ossimoro non pare, ma lo è se si considera che una bomba, per propria natura, è stupida e dovrebbe cadere dove la buttano, altrimenti se fa di propria iniziativa rischia di diventare Fuoco Amico, bellissimo ossimoro, se per fuoco si intende qualcosa messo in essere (altro bel vezzo linguistico, anche se non ossimorico) per danneggiare chi amico non è. Mi pare abbastanza ossimorica la Esportazione della Libertà, se la libertà è per definizione qualcosa che un popolo o un gruppo si guadagnano per decisione personale e non per imposizione altrui, ma a ben sottilizzare c'è un ossimoro implicito nel Conflitto di Interessi, perché si può tradurre come Interesse Privato Perseguito per il Pubblico Bene - o Interesse Collettivo Perseguito per il Proprio Utile Particolare.
Vorrei fare notare come siano ossimorici la Mobilitazione Globale dei No-global, la Pace Armata e l'Intervento Umanitario (se per intervento s'intende, come s'intende, una serie di azioni belliche in casa altrui). Mi vedo sempre più d'intorno, a sentire i programmi elettorali dei nuovi alleati di Berlusconi, una Sinistra Fascista, e ritengo abbastanza ossimorici gli Atei Clericali come Pera o Ferrara. Non trascurerei, anche se ci siamo abituati, l'Intelligenza Artificiale e persino il Cervello Elettronico (se il cervello è quella cosa molle che abbiamo nella scatola cranica), per non dire degli Embrioni con Anima e persino della Variante di Valico - visto che per definizione un valico è l'unico punto ('incontournable') per cui si può passare tra due montagne. Per essere 'bipartisan' (e ditemi se non è ossimoro questo Prendere Coraggiosamente Parte Tenendo i Piedi in Due Scarpe), altrettanto ossimorica mi pare una prospettiva ventilata dall'Ulivo, di un Volontariato per il Servizio Civile Obbligatorio.
Insomma, non sapendo più come far quadrare scelte che non possono stare insieme, si ricorre a Ossimori Concilianti (ecco un altro bell'ossimoro) per dare l'impressione che ciò che non può convivere conviva, la missione di pace in Iraq, le leggi contro i magistrati (che le leggi dovrebbero applicarle), la politica in televisione e le farse in parlamento, la censura della satira non autorizzata, le profezie a ritroso come il terzo segreto di Fatima, i kamikaze arabi che sarebbero un poco come dei saraceni scintoisti, i sessantottini che sono andati a lavorare con Berlusconi, il populismo liberal. Per finire coi Pacs virtuosamente avversati da concubini divorziati.
espresso.it
3.2.09
Spiegate ai figli la gravità di certi gesti
di GIOVANNI BOLLEA
L’agghiacciante episodio dell’indiano bruciato a Nettuno, e che ancora lotta per sopravvivere mi ha riempito di terrore e ha rafforzato in me l’idea della quale poco prima avevo già scritto. Cioè la necessità di un rapporto stretto tra padri e figli, per conoscere ed evitare qualsiasi azione balorda o addirittura criminale, rafforzata dall’uso di alcol e droga. Problema grave, gravissimo. Che impone ai padri un’attenzione spasmodica sulla vita scolastica e sul tempo libero dei ragazzi.
Mi chiedo qual è la responsabilità morale per esempio di un padre dinanzi a questa notte di ferocia e di efferatezza. Le mie riflessioni su questo argomento si sono ripetute nel corso degli anni, quasi come una nota accademica, per risvegliare responsabilità paterna sulla vita fuori casa, sull’età, sulla famiglia, sulle abitudini, sugli abusi e sulle dipendenze di amici e compagni. Perché è inequivocabile che il padre e la madre debbano continuamente insegnare ai figli che cos’è la gravità e la responsabilità morale di un’azione. Al prezzo di spaventosi e tragici risvegli dopo lo sballo che purtroppo non è più soltanto quello del sabato sera.
Occorre intuire, immaginare, capire in tempo le azioni dei propri figli. Soprattutto al termine di quelle serate concluse in compagnia di personaggi che spessissimo il genitore non si sogna neppure di conoscere. Quanti sono gli adolescenti che hanno commesso delle efferatezze denunciandole poi come forme infantili di un’azione criminale? Come può essere quantificata la responsabilità morale di questi genitori rispetto ad una realtà così devastante? Il gravissimo episodio di Nettuno ripropone con prepotenza l’urgenza della lotta su cui io insisto da decenni in forma mai abbastanza esagerata. I genitori, e il padre in particolare, devono adottare un sistema di indagini veramente approfondite e non fidarsi mai sul piano concreto, anche se a priori non deve essere tolta la fiducia morale ed affettiva che coinvolge la parola d’onore. Una cosa non deve escludere l’altra. Se il figlio dice “ti do la mia parola d’onore che non bevo e non mi drogo”, questa oggi non può più bastare.
Io so per esperienza, e lo sanno tutti i neuropsichiatri infantili, che durante la tarda adolescenza c’è sempre un momento di sbandamento, di debolezza morale e di compiacenza nei confronti degli amici più adulti. Ma non solo. Esiste addirittura l’emulazione incondizionata, che sfocia quasi in una gara di forza e di violenza. Rispetto a quello che è accaduto l’altro ieri, sono convinto che la lettura che se ne farà sarà molto superficiale. Pochissimi si renderanno conto di quanto la scuola sia assolutamente responsabile, insieme alla famiglia, di ciò che è avvenuto. Ho seguito e incontrato più volte insegnanti disperati per l’irresponsabile reazione di offesa e di suscettibilità da parte dei genitori che si rifiutano di riconoscere nel proprio figlio il bullo, il drogato, l’alcolista. Affermando che i propri figli non danno nessun motivo di sospetto. Infatti, abbiamo scoperto già da tempo che ricevono istruzioni ben precise addirittura dai blog da loro frequentatissimi, per ingannare i genitori e gli insegnanti sulle loro dipendenze. E cioè, come presentarsi puliti dalla droga, come presentarsi apparentemente lucidi quando invece sono in preda all’alcol, come controllare e orientare le proprie reazioni neurolettiche e comportamentali affinché non ci sia possibilità di interpretazione attraverso tremiti, tic, addirittura arrossamenti degli occhi, che con qualche goccia di collirio riescono a dominare. Non solo noi tecnici sappiamo bene quanto in Internet siano distribuiti consigli ad anoressici e bulimici affinché riescano a nascondere ai genitori ed ai terapeuti i sintomi della loro patologia.
Quante volte è capitato a qualcuno di voi, specie durante le vacanze, di non aver seguito uno o due o più momenti di evasione dei vostri figli? Può quindi un padre non sentirsi moralmente partecipe di un atto criminoso che venga commesso dai propri figli? Le mie parole, che sembreranno esagerate, ripropongono l’impellenza di un rapporto intimo e umano fra padri e figli. Questa vicinanza e controllo devono essere costanti. Perché il figlio deve essere accompagnato, visto, studiato e approfondito rispetto alla superficialità del contesto in cui si muove giorno dopo giorno, lottando contro l’emulazione e l’imitazione del gruppo. Ricordatevi che l’adolescente deve sempre agire confrontando l’atto che sta per compiere con il giudizio del padre che lui stima. Non dimenticando mai che il pensiero della madre dovrebbe fermarlo. Il dramma è proprio questo: la separazione fra la preparazione culturale e pedagogica del padre e della madre e la realtà che i figli ogni giorno devono affrontare. E pensiamo alle persone dal più povero al meno povero cresciute in un contesto che va solo dalla partita di calcio al bar del quartiere, le quali come massima prospettiva hanno le vacanze alle Maldive e l’automobile nuova. Genitori che vivono queste mitologie così riduttive, largamente omologate, e prive di ideali e di valori, che cosa possono trasmettere ai figli?
Perché il mio pensiero ossessivo è sempre stato quello di riuscire a concretizzare un vero incontro tra figlio e padre consapevole e preparato al suo compito di educatore. Che è particolarmente importante nel momento più vivo dello sviluppo affettivo, emozionale e intellettivo del figlio. Una delle genesi più forte del dolore che ho avuto riflettendo sull’accaduto è stato proprio il pensiero dei genitori che sono venuti a conoscenza di tanta ferocia assurda. Un fatto ancora più grave rispetto all’abissale crudeltà di bruciare i corpi dei bambini e degli adulti nei forni crematori dei campi di concentramento. Perché questo episodio è stato ancora più forte, essendo dettato da un lucido e responsabile divertimento.
messaggero.it
L’agghiacciante episodio dell’indiano bruciato a Nettuno, e che ancora lotta per sopravvivere mi ha riempito di terrore e ha rafforzato in me l’idea della quale poco prima avevo già scritto. Cioè la necessità di un rapporto stretto tra padri e figli, per conoscere ed evitare qualsiasi azione balorda o addirittura criminale, rafforzata dall’uso di alcol e droga. Problema grave, gravissimo. Che impone ai padri un’attenzione spasmodica sulla vita scolastica e sul tempo libero dei ragazzi.
Mi chiedo qual è la responsabilità morale per esempio di un padre dinanzi a questa notte di ferocia e di efferatezza. Le mie riflessioni su questo argomento si sono ripetute nel corso degli anni, quasi come una nota accademica, per risvegliare responsabilità paterna sulla vita fuori casa, sull’età, sulla famiglia, sulle abitudini, sugli abusi e sulle dipendenze di amici e compagni. Perché è inequivocabile che il padre e la madre debbano continuamente insegnare ai figli che cos’è la gravità e la responsabilità morale di un’azione. Al prezzo di spaventosi e tragici risvegli dopo lo sballo che purtroppo non è più soltanto quello del sabato sera.
Occorre intuire, immaginare, capire in tempo le azioni dei propri figli. Soprattutto al termine di quelle serate concluse in compagnia di personaggi che spessissimo il genitore non si sogna neppure di conoscere. Quanti sono gli adolescenti che hanno commesso delle efferatezze denunciandole poi come forme infantili di un’azione criminale? Come può essere quantificata la responsabilità morale di questi genitori rispetto ad una realtà così devastante? Il gravissimo episodio di Nettuno ripropone con prepotenza l’urgenza della lotta su cui io insisto da decenni in forma mai abbastanza esagerata. I genitori, e il padre in particolare, devono adottare un sistema di indagini veramente approfondite e non fidarsi mai sul piano concreto, anche se a priori non deve essere tolta la fiducia morale ed affettiva che coinvolge la parola d’onore. Una cosa non deve escludere l’altra. Se il figlio dice “ti do la mia parola d’onore che non bevo e non mi drogo”, questa oggi non può più bastare.
Io so per esperienza, e lo sanno tutti i neuropsichiatri infantili, che durante la tarda adolescenza c’è sempre un momento di sbandamento, di debolezza morale e di compiacenza nei confronti degli amici più adulti. Ma non solo. Esiste addirittura l’emulazione incondizionata, che sfocia quasi in una gara di forza e di violenza. Rispetto a quello che è accaduto l’altro ieri, sono convinto che la lettura che se ne farà sarà molto superficiale. Pochissimi si renderanno conto di quanto la scuola sia assolutamente responsabile, insieme alla famiglia, di ciò che è avvenuto. Ho seguito e incontrato più volte insegnanti disperati per l’irresponsabile reazione di offesa e di suscettibilità da parte dei genitori che si rifiutano di riconoscere nel proprio figlio il bullo, il drogato, l’alcolista. Affermando che i propri figli non danno nessun motivo di sospetto. Infatti, abbiamo scoperto già da tempo che ricevono istruzioni ben precise addirittura dai blog da loro frequentatissimi, per ingannare i genitori e gli insegnanti sulle loro dipendenze. E cioè, come presentarsi puliti dalla droga, come presentarsi apparentemente lucidi quando invece sono in preda all’alcol, come controllare e orientare le proprie reazioni neurolettiche e comportamentali affinché non ci sia possibilità di interpretazione attraverso tremiti, tic, addirittura arrossamenti degli occhi, che con qualche goccia di collirio riescono a dominare. Non solo noi tecnici sappiamo bene quanto in Internet siano distribuiti consigli ad anoressici e bulimici affinché riescano a nascondere ai genitori ed ai terapeuti i sintomi della loro patologia.
Quante volte è capitato a qualcuno di voi, specie durante le vacanze, di non aver seguito uno o due o più momenti di evasione dei vostri figli? Può quindi un padre non sentirsi moralmente partecipe di un atto criminoso che venga commesso dai propri figli? Le mie parole, che sembreranno esagerate, ripropongono l’impellenza di un rapporto intimo e umano fra padri e figli. Questa vicinanza e controllo devono essere costanti. Perché il figlio deve essere accompagnato, visto, studiato e approfondito rispetto alla superficialità del contesto in cui si muove giorno dopo giorno, lottando contro l’emulazione e l’imitazione del gruppo. Ricordatevi che l’adolescente deve sempre agire confrontando l’atto che sta per compiere con il giudizio del padre che lui stima. Non dimenticando mai che il pensiero della madre dovrebbe fermarlo. Il dramma è proprio questo: la separazione fra la preparazione culturale e pedagogica del padre e della madre e la realtà che i figli ogni giorno devono affrontare. E pensiamo alle persone dal più povero al meno povero cresciute in un contesto che va solo dalla partita di calcio al bar del quartiere, le quali come massima prospettiva hanno le vacanze alle Maldive e l’automobile nuova. Genitori che vivono queste mitologie così riduttive, largamente omologate, e prive di ideali e di valori, che cosa possono trasmettere ai figli?
Perché il mio pensiero ossessivo è sempre stato quello di riuscire a concretizzare un vero incontro tra figlio e padre consapevole e preparato al suo compito di educatore. Che è particolarmente importante nel momento più vivo dello sviluppo affettivo, emozionale e intellettivo del figlio. Una delle genesi più forte del dolore che ho avuto riflettendo sull’accaduto è stato proprio il pensiero dei genitori che sono venuti a conoscenza di tanta ferocia assurda. Un fatto ancora più grave rispetto all’abissale crudeltà di bruciare i corpi dei bambini e degli adulti nei forni crematori dei campi di concentramento. Perché questo episodio è stato ancora più forte, essendo dettato da un lucido e responsabile divertimento.
messaggero.it
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2.2.09
Anatomia di un crimine
Ho inteso, dalla sua stessa voce, il Presidente del Consiglio associare ipoteticamente stupro a «bella ragazza», e faccio questa nota per inquadrare con meno imprecisione il fenomeno in questione, psicologicamente e criminologicamente tra i più complessi e inafferrabili.
Quando leggiamo, nella storia delle origini di Roma, del ratto delle Sabine, sarà bene toglierci la benda del pulito ricordo scolastico e degli svolazzi neoclassici. Fu un fattaccio turpe. Bande di bruti raccogliticci, chiamati da un Caino del Latium, sfuggiti ai castighi o scacciati dalle più antiche e civili città meridionali, tutti maschi esasperati dal bisogno di femmina (tentigine rupti), decidono di compiere spedizioni notturne nelle campagne abitate dai Sabini, a Sud delle loro tane da lupe (dove cuocevano all’aperto, per sé soli, polente di farro e pezzi di pecora), e seminano il terrore nei villaggi, stuprando bestialmente, prima che i loro uomini si radunassero, povere donne mal nutrite e mal lavate, una parte delle quali, per la vergogna e per sottomissione alla forza, li seguirono. Ne venne fuori un popolo che aveva nel sangue la violenza e la guerra, e la madre dei Gracchi, e il divino Cesare...
La storia dello stupro è infinita, e solo modernamente è entrato nelle legislazioni, che lo puniscono recalcitrando, quando non sia seguito da assassinio. In Italia è «reato contro la persona» solo da pochissimo tempo. Ma in nessun caso la bellezza della vittima ne è il movente, vorrebbe dire che lo stupratore, solitario o in branco, ci vede e fa una scelta. Lo stupratore è accecato dal sesso, non dal volto, di cui gli interessa esclusivamente quanto esprima terrore, ribrezzo, impotenza, sgomento, umiliazione. Fortissima sempre in questi inconsci di guazzabuglio è la volontà di umiliare, di insozzare un santuario, di sfogare odio etnico, di far nascere figli di quest’odio (molto chiaro nelle guerre balcaniche di fine XX). La donna del nemico militare è sempre, nonostante i divieti (ma spesso con comandi complici) da umiliare sessualmente. Nelle giungle urbane d’oggi la legge primitiva della giungla coabita con le nostre regole etiche e politiche frantumate, e di notte negli spazi incustoditi, periferici, ferroviari, sotterranei, strappa un infame diritto di sopravvento. Là, qualsiasi donna diventa, per ogni anonimo passante, foemina simplex, una bambola fessurata, la connotazione individuale scompare nell’indistinzione della tenebra.
E una gran parte ha, posso dire sempre più avrà, la componente sadistica. L’aroma che più risveglia l’istinto di violenza è la debolezza, l’inermità, l’avere a tiro, da sbattere sull’asfalto o in un cesso, una creatura del tutto digiuna di karatè, anoressica, bruttina, con braccia esili, perduta. E tutto questo è al cento per cento sadismo - da manuale o, alla lettera, da Malheurs de la Vertu. Una ventina di anni fa seguivo a Parigi un corso della scuola teatrale di Grotowsky, che si teneva in un posto orripilante sul Quai de la Gare, al Tredicesimo, immenso ex deposito dei macelli del grande Ventre. Al piano di sotto della nostra sala, tutta ben rifatta, c’era una batteria di decenza con decine di porte che stridevano sinistre e il vento sbatacchiava. Per scendere là sotto negli intervalli, tutte le ragazze chiedevano di essere accompagnate da qualcuno degli stagisti maschi. Non c’era ombra di maniaco sadico dietro quelle porte, ma il timore ancestrale dell’uomo in agguato in un luogo propizio, lugubre come un Dachau, spingeva le donne (non mi pare ce ne fosse qualcuna di distinta bellezza) a farsi proteggere da un altro uomo, fosse pure di muscolatura schiappona e di natura da straccio bianco. Era bello e ci inorgogliva quel ruolo... La virilità è forza in sé, anche se non ci sono forze. Ancestrale anche quel ruolo di custodes. Contro l’uomo che offende, che non vede il volto ma è eccitato dal corpo indifeso, l’uomo che difende: due sicuri archetipi, due forme simboliche del pensiero - preistoria nel cuore sfinito della civiltà.
I marocchini hanno una risoluta fama di stupratori (pericolosissimi in guerra, nel ricordo storico le truppe coloniali al seguito di Franco, i marocchini della campagna d’Italia dei francesi di De Gaulle-Leclerc), ma nelle cronache recenti e nelle statistiche sono stati abbondantemente superati dai romeni, spesso in branco, talvolta omicidi. Il loro numero è misurabile dalla quantità esorbitante di presenze fuori controllo, dall’oziosità abbrutente, tra bevute di birra senza cibo negli ondeggiamenti senza confini delle grandi periferie. Va ricordato che si tratta di figli dei ventri forzati a partorire da Ceausescu sotto stretta sorveglianza antiabortista della Securitate, cresciuti in condizioni prossime al randagismo canino. Il dono all’Italia di questi campioni di umanità degradata è stato fatto dai frenetici allargamenti a Est dell’Unione e dalla follia di Schengen.
lastampa.it
Quando leggiamo, nella storia delle origini di Roma, del ratto delle Sabine, sarà bene toglierci la benda del pulito ricordo scolastico e degli svolazzi neoclassici. Fu un fattaccio turpe. Bande di bruti raccogliticci, chiamati da un Caino del Latium, sfuggiti ai castighi o scacciati dalle più antiche e civili città meridionali, tutti maschi esasperati dal bisogno di femmina (tentigine rupti), decidono di compiere spedizioni notturne nelle campagne abitate dai Sabini, a Sud delle loro tane da lupe (dove cuocevano all’aperto, per sé soli, polente di farro e pezzi di pecora), e seminano il terrore nei villaggi, stuprando bestialmente, prima che i loro uomini si radunassero, povere donne mal nutrite e mal lavate, una parte delle quali, per la vergogna e per sottomissione alla forza, li seguirono. Ne venne fuori un popolo che aveva nel sangue la violenza e la guerra, e la madre dei Gracchi, e il divino Cesare...
La storia dello stupro è infinita, e solo modernamente è entrato nelle legislazioni, che lo puniscono recalcitrando, quando non sia seguito da assassinio. In Italia è «reato contro la persona» solo da pochissimo tempo. Ma in nessun caso la bellezza della vittima ne è il movente, vorrebbe dire che lo stupratore, solitario o in branco, ci vede e fa una scelta. Lo stupratore è accecato dal sesso, non dal volto, di cui gli interessa esclusivamente quanto esprima terrore, ribrezzo, impotenza, sgomento, umiliazione. Fortissima sempre in questi inconsci di guazzabuglio è la volontà di umiliare, di insozzare un santuario, di sfogare odio etnico, di far nascere figli di quest’odio (molto chiaro nelle guerre balcaniche di fine XX). La donna del nemico militare è sempre, nonostante i divieti (ma spesso con comandi complici) da umiliare sessualmente. Nelle giungle urbane d’oggi la legge primitiva della giungla coabita con le nostre regole etiche e politiche frantumate, e di notte negli spazi incustoditi, periferici, ferroviari, sotterranei, strappa un infame diritto di sopravvento. Là, qualsiasi donna diventa, per ogni anonimo passante, foemina simplex, una bambola fessurata, la connotazione individuale scompare nell’indistinzione della tenebra.
E una gran parte ha, posso dire sempre più avrà, la componente sadistica. L’aroma che più risveglia l’istinto di violenza è la debolezza, l’inermità, l’avere a tiro, da sbattere sull’asfalto o in un cesso, una creatura del tutto digiuna di karatè, anoressica, bruttina, con braccia esili, perduta. E tutto questo è al cento per cento sadismo - da manuale o, alla lettera, da Malheurs de la Vertu. Una ventina di anni fa seguivo a Parigi un corso della scuola teatrale di Grotowsky, che si teneva in un posto orripilante sul Quai de la Gare, al Tredicesimo, immenso ex deposito dei macelli del grande Ventre. Al piano di sotto della nostra sala, tutta ben rifatta, c’era una batteria di decenza con decine di porte che stridevano sinistre e il vento sbatacchiava. Per scendere là sotto negli intervalli, tutte le ragazze chiedevano di essere accompagnate da qualcuno degli stagisti maschi. Non c’era ombra di maniaco sadico dietro quelle porte, ma il timore ancestrale dell’uomo in agguato in un luogo propizio, lugubre come un Dachau, spingeva le donne (non mi pare ce ne fosse qualcuna di distinta bellezza) a farsi proteggere da un altro uomo, fosse pure di muscolatura schiappona e di natura da straccio bianco. Era bello e ci inorgogliva quel ruolo... La virilità è forza in sé, anche se non ci sono forze. Ancestrale anche quel ruolo di custodes. Contro l’uomo che offende, che non vede il volto ma è eccitato dal corpo indifeso, l’uomo che difende: due sicuri archetipi, due forme simboliche del pensiero - preistoria nel cuore sfinito della civiltà.
I marocchini hanno una risoluta fama di stupratori (pericolosissimi in guerra, nel ricordo storico le truppe coloniali al seguito di Franco, i marocchini della campagna d’Italia dei francesi di De Gaulle-Leclerc), ma nelle cronache recenti e nelle statistiche sono stati abbondantemente superati dai romeni, spesso in branco, talvolta omicidi. Il loro numero è misurabile dalla quantità esorbitante di presenze fuori controllo, dall’oziosità abbrutente, tra bevute di birra senza cibo negli ondeggiamenti senza confini delle grandi periferie. Va ricordato che si tratta di figli dei ventri forzati a partorire da Ceausescu sotto stretta sorveglianza antiabortista della Securitate, cresciuti in condizioni prossime al randagismo canino. Il dono all’Italia di questi campioni di umanità degradata è stato fatto dai frenetici allargamenti a Est dell’Unione e dalla follia di Schengen.
lastampa.it
1.2.09
Gli eroi non vivono in branco
Chi ha guardato il telegiornale di Rai Uno, il 29 gennaio, avrà visto lo strano filmato, girato a notte fonda in una strada di Fiumicino: alcuni ragazzi affiggono ai muri due striscioni azzurri, su cui è professata, a enormi caratteri, la loro inalterabile amicizia per Davide. Sono incolleriti, ostentatamente militanti e al tempo stesso chiusi, impermeabili alla parola che viene da fuori. Davide Franceschini è il ragazzo che a Capodanno stuprò una ragazza alla Fiera di Roma, che confessò, e presto fu assegnato agli arresti domiciliari. I suoi compagni fanno quadrato intorno a lui in maniera singolare: proclamano la sua completa innocenza, difendono un’impunità sconnessa non solo dai fatti ma da quel che l’amico stesso ha confessato. La giornalista del tg - Laura Mambelli - è sgomenta, più volte chiede perché, con insistente candore. I giornalisti di cronaca sono grandi, in questo: la verità la cercano con un accanimento ignoto a chi, mai sgomentandosi, ci dà senza esser pregato i nostri panini politici quotidiani.
I ragazzi chiedono alla giornalista di allontanarsi e di non scocciare, con la sua curiosità invadente. Quel che le dicono è chiaro: noi siamo il branco, tu sei l’intrusa. Sugli striscioni è scritto: «Più verità meno bugie, Davide ti vogliamo bene» - «Chi parla male di te è perché non ti conosce» - «Davide: non importa ciò che dice la gente. Sei innocente. Gli amici e le amiche».
La cronista osserva che la loro ira è illogica: chi affigge simili striscioni vuol comunicare al mondo una contraddizione (il reo confesso o il condannato sono innocenti) e la contraddizione deve saperla spiegare. Ma per definizione il branco manifesta passioni, non spiega: la tribù è una camera senza finestre. La muta non riconosce che una realtà: la propria. Il suo circuito è sempre corto; il resto è soffio che passa. La festa alla Fiera di Roma s’intitolava: «Amore».
Forse ci vorrebbero giornalisti di questo tipo, candidi e logici, per dire l’Italia che viviamo: un paese che somiglia in maniera impressionante al filmato notturno di Fiumicino. Non una società, ma un accrocco di branchi: ognuno con proprie leggi non condivisibili, ognuno ostile all’insieme che è la nazione. Non è la guerra di tutti contro tutti, ma di sparse tribù contro la realtà comune. Il branco agisce secondo norme che non valgono per tutti: norme esoteriche, di affiliati e complici più che di amici. Nessuna legge le è più estranea che quella kantiana secondo cui bisogna «agire in modo che la massima della tua azione (soggettiva) possa diventare legge universale», oggettiva.
Quel che unisce gli affiliati del clan alla nazione e alla società è il nulla, è la realtà negata e abolita. Quando si parla loro di bene comune, di vincoli e legge, di senso dello Stato, rivendicano l’impunità dovuta o all’amicizia del gruppo o all’efficienza tecnica. La fedeltà di gruppo sovrasta la verità, e infrangere i vincoli ha qualcosa di eroico. Commentando sul Tg1 gli striscioni di Fiumicino un poeta - Davide Rondoni - afferma commosso che lo «spettacolo dell’amicizia ci deve fare pensare»: un’amicizia così grande «fa tenerezza, ci fa venire un po’ il magone, perché è cosa giusta essere amici anche quando si sbaglia». Il poeta fa qualche riserva («l’amicizia deve servire anche prima, per correggere») ma pare stregato da questa passione che tanto ci somiglia, e che tutela il crimine ignorando la vittima. Quest’ultima ha detto che avendo Franceschini ottenuto gli arresti domiciliari, la giustizia se la farà da sola. Suo padre ha aggiunto, accennando allo stupratore: «Lui tutte le sere quando va a dormire deve pensare domani che cosa mi può succedere, tutte le sere per tutta la vita, si può sposare, avere dei figli, tanto io lo aspetto non c’è problema». Vivere nel branco, con il nulla fuori di esso, produce questo: altri branchi.
Il branco è un fenomeno antico ma ci sono epoche in cui s’accentua perché nelle classi dirigenti manca l’essenziale: la custodia esemplare del bene comune, la dimostrazione che un’altra via è praticata, proposta a modello. Anche per esse vale invece la legge dell’impunità, l’esaltazione di amicizie che assolvono crimini o irresponsabilità in nome della propria corporazione. Il criminale, quando difende il gruppo col silenzio, è addirittura celebrato come eroe. Il Pdl di Fiumicino ha denunciato giustamente gli striscioni e la «celebrazione ignobile del branco», ma l’idea che in quel partito ci si fa dell’eroe resta quantomeno torbida. Un eroe è ad esempio il mafioso Vittorio Mangano, stalliere di Arcore che secondo Dell’Utri e Berlusconi «ha taciuto nonostante le pressioni dei pm». E di che parlano politici come Bocchino e Lusetti se non di branco amicistico, quando concordano favoritismi con il costruttore Romeo? Le intercettazione indispongono perché rivelano queste parentele, tra branchi minuscoli e maiuscoli: «Quindi ormai siamo una cosa, una cosa consolidata, un sodalizio, una fusione di due gruppi», si compiace Bocchino al telefono con Romeo. L’amicizia non è meno corrotta quando ai più alti livelli vien chiamata stabile comunanza, contiguità, cosa.
Chi ha assistito alla manifestazione dei familiari delle vittime di mafia, il 28 gennaio a Piazza Farnese, avrà ascoltato - magari su Internet - il discorso di Salvatore Borsellino: è stato probabilmente il culmine della dimostrazione, da tanti trascurato. Cruciale è quello che ha detto su circostanze e responsabilità dell’uccisione del fratello, nel ‘92 a Palermo. Cruciale è l’elenco che ha fatto dei veri eroi italiani: Falcone, Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta tra cui Emanuela Loi che dalla bomba venne ridotta a pezzetti: raccolti in una bara, i genitori li ricevettero a Cagliari insieme alla domanda, fatta dallo Stato, di pagare il trasporto dei resti.
Vivere nel branco è come vivere in una bolla, che falsifica il valore delle cose. La bolla può esser finanziaria, perché anche chi specula o chi è preso da panico è in un gregge. E può esser politica e civile, quando per proteggere i «tuoi» fai male agli altri. Anche l’evasione fiscale è agire dentro una muta, indifferente alla società e alle sue norme. Chi se ne importa se a coprire i costi saranno tutti coloro che rispettano la legge pagando due volte: le proprie tasse e la sovrattassa versata per l’evasore. Anche qui sono i dirigenti politici che puniscono i probi e premiano i trasgressori, giustificandoli perfino moralmente. In un importante libro, Dino Pesole e Francesco Piu scrivono che premiato pubblicamente dovrebbe invece essere «il contribuente totale: persona fisica o impresa, professionista, artigiano o commerciante, dipendente o pensionato che con assoluta certezza adempie a tutti i suoi doveri fiscali e contributivi, e che per questo può vantare un assoluto livello di trasparenza nei suoi comportamenti e obblighi nei confronti del fisco». Questo è il vero «azionista del risanamento» italiano. Questa la «nuova figura, cui attribuire un visibile riconoscimento civico e sociale» (Il patto. Cittadini e Stato: dal conflitto a una nuova civiltà fiscale, Il Sole24Ore, 2009).
Le nuove figure ci sono. Sono i contribuenti totali che approvano la solidarietà sociale e dunque i suoi costi. È Peppino Englaro, che invece di rifugiarsi in una clinica straniera per rispettare il volere della figlia decide di battersi molto più faticosamente in Italia, attraverso la sua giustizia. Sono i magistrati che lottano contro mafie, clan. Sono i cronisti giudiziari e di nera che fanno domande accanite, candide e logiche. Eroi simili non sono protetti da tribù. Sono soli, come li descrive Roberto Bolaño nel romanzo 2666: «Perché ogni virtù, salvo nella brevità del riconoscimento, è priva di splendore e vive in una caverna buia circondata da altri abitanti, alcuni dei quali molto pericolosi».
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I ragazzi chiedono alla giornalista di allontanarsi e di non scocciare, con la sua curiosità invadente. Quel che le dicono è chiaro: noi siamo il branco, tu sei l’intrusa. Sugli striscioni è scritto: «Più verità meno bugie, Davide ti vogliamo bene» - «Chi parla male di te è perché non ti conosce» - «Davide: non importa ciò che dice la gente. Sei innocente. Gli amici e le amiche».
La cronista osserva che la loro ira è illogica: chi affigge simili striscioni vuol comunicare al mondo una contraddizione (il reo confesso o il condannato sono innocenti) e la contraddizione deve saperla spiegare. Ma per definizione il branco manifesta passioni, non spiega: la tribù è una camera senza finestre. La muta non riconosce che una realtà: la propria. Il suo circuito è sempre corto; il resto è soffio che passa. La festa alla Fiera di Roma s’intitolava: «Amore».
Forse ci vorrebbero giornalisti di questo tipo, candidi e logici, per dire l’Italia che viviamo: un paese che somiglia in maniera impressionante al filmato notturno di Fiumicino. Non una società, ma un accrocco di branchi: ognuno con proprie leggi non condivisibili, ognuno ostile all’insieme che è la nazione. Non è la guerra di tutti contro tutti, ma di sparse tribù contro la realtà comune. Il branco agisce secondo norme che non valgono per tutti: norme esoteriche, di affiliati e complici più che di amici. Nessuna legge le è più estranea che quella kantiana secondo cui bisogna «agire in modo che la massima della tua azione (soggettiva) possa diventare legge universale», oggettiva.
Quel che unisce gli affiliati del clan alla nazione e alla società è il nulla, è la realtà negata e abolita. Quando si parla loro di bene comune, di vincoli e legge, di senso dello Stato, rivendicano l’impunità dovuta o all’amicizia del gruppo o all’efficienza tecnica. La fedeltà di gruppo sovrasta la verità, e infrangere i vincoli ha qualcosa di eroico. Commentando sul Tg1 gli striscioni di Fiumicino un poeta - Davide Rondoni - afferma commosso che lo «spettacolo dell’amicizia ci deve fare pensare»: un’amicizia così grande «fa tenerezza, ci fa venire un po’ il magone, perché è cosa giusta essere amici anche quando si sbaglia». Il poeta fa qualche riserva («l’amicizia deve servire anche prima, per correggere») ma pare stregato da questa passione che tanto ci somiglia, e che tutela il crimine ignorando la vittima. Quest’ultima ha detto che avendo Franceschini ottenuto gli arresti domiciliari, la giustizia se la farà da sola. Suo padre ha aggiunto, accennando allo stupratore: «Lui tutte le sere quando va a dormire deve pensare domani che cosa mi può succedere, tutte le sere per tutta la vita, si può sposare, avere dei figli, tanto io lo aspetto non c’è problema». Vivere nel branco, con il nulla fuori di esso, produce questo: altri branchi.
Il branco è un fenomeno antico ma ci sono epoche in cui s’accentua perché nelle classi dirigenti manca l’essenziale: la custodia esemplare del bene comune, la dimostrazione che un’altra via è praticata, proposta a modello. Anche per esse vale invece la legge dell’impunità, l’esaltazione di amicizie che assolvono crimini o irresponsabilità in nome della propria corporazione. Il criminale, quando difende il gruppo col silenzio, è addirittura celebrato come eroe. Il Pdl di Fiumicino ha denunciato giustamente gli striscioni e la «celebrazione ignobile del branco», ma l’idea che in quel partito ci si fa dell’eroe resta quantomeno torbida. Un eroe è ad esempio il mafioso Vittorio Mangano, stalliere di Arcore che secondo Dell’Utri e Berlusconi «ha taciuto nonostante le pressioni dei pm». E di che parlano politici come Bocchino e Lusetti se non di branco amicistico, quando concordano favoritismi con il costruttore Romeo? Le intercettazione indispongono perché rivelano queste parentele, tra branchi minuscoli e maiuscoli: «Quindi ormai siamo una cosa, una cosa consolidata, un sodalizio, una fusione di due gruppi», si compiace Bocchino al telefono con Romeo. L’amicizia non è meno corrotta quando ai più alti livelli vien chiamata stabile comunanza, contiguità, cosa.
Chi ha assistito alla manifestazione dei familiari delle vittime di mafia, il 28 gennaio a Piazza Farnese, avrà ascoltato - magari su Internet - il discorso di Salvatore Borsellino: è stato probabilmente il culmine della dimostrazione, da tanti trascurato. Cruciale è quello che ha detto su circostanze e responsabilità dell’uccisione del fratello, nel ‘92 a Palermo. Cruciale è l’elenco che ha fatto dei veri eroi italiani: Falcone, Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta tra cui Emanuela Loi che dalla bomba venne ridotta a pezzetti: raccolti in una bara, i genitori li ricevettero a Cagliari insieme alla domanda, fatta dallo Stato, di pagare il trasporto dei resti.
Vivere nel branco è come vivere in una bolla, che falsifica il valore delle cose. La bolla può esser finanziaria, perché anche chi specula o chi è preso da panico è in un gregge. E può esser politica e civile, quando per proteggere i «tuoi» fai male agli altri. Anche l’evasione fiscale è agire dentro una muta, indifferente alla società e alle sue norme. Chi se ne importa se a coprire i costi saranno tutti coloro che rispettano la legge pagando due volte: le proprie tasse e la sovrattassa versata per l’evasore. Anche qui sono i dirigenti politici che puniscono i probi e premiano i trasgressori, giustificandoli perfino moralmente. In un importante libro, Dino Pesole e Francesco Piu scrivono che premiato pubblicamente dovrebbe invece essere «il contribuente totale: persona fisica o impresa, professionista, artigiano o commerciante, dipendente o pensionato che con assoluta certezza adempie a tutti i suoi doveri fiscali e contributivi, e che per questo può vantare un assoluto livello di trasparenza nei suoi comportamenti e obblighi nei confronti del fisco». Questo è il vero «azionista del risanamento» italiano. Questa la «nuova figura, cui attribuire un visibile riconoscimento civico e sociale» (Il patto. Cittadini e Stato: dal conflitto a una nuova civiltà fiscale, Il Sole24Ore, 2009).
Le nuove figure ci sono. Sono i contribuenti totali che approvano la solidarietà sociale e dunque i suoi costi. È Peppino Englaro, che invece di rifugiarsi in una clinica straniera per rispettare il volere della figlia decide di battersi molto più faticosamente in Italia, attraverso la sua giustizia. Sono i magistrati che lottano contro mafie, clan. Sono i cronisti giudiziari e di nera che fanno domande accanite, candide e logiche. Eroi simili non sono protetti da tribù. Sono soli, come li descrive Roberto Bolaño nel romanzo 2666: «Perché ogni virtù, salvo nella brevità del riconoscimento, è priva di splendore e vive in una caverna buia circondata da altri abitanti, alcuni dei quali molto pericolosi».
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