LA LETTERA. Il direttore generale della Luiss
avremmo voluto che l'Italia fosse diversa e abbiamo fallito
di PIER LUIGI CELLI
Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.
Puoi solo immaginare la sofferenza con cui ti dico queste cose e la preoccupazione per un futuro che finirà con lo spezzare le dolci consuetudini del nostro vivere uniti, come è avvenuto per tutti questi lunghi anni. Ma non posso, onestamente, nascondere quello che ho lungamente meditato. Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme, buoni e meno buoni che siano. E, ancora, l'idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai.
Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l'affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.
Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai. E' anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l'Alitalia non si metta in testa di fare l'azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell'orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà. E d'altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l'unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio.
Credimi, se ti guardi intorno e se giri un po', non troverai molte ragioni per rincuorarti. Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility. Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni, in grado di spingerti a incarichi delicati, magari critici per i destini industriali del Paese. Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico. Potrei continuare all'infinito, annoiandoti e deprimendomi.
Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell'estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni.
Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché.
"Figlio mio, lascia questo Paese"
Adesso che ti ho detto quanto avrei voluto evitare con tutte le mie forze, io lo so, lo prevedo, quello che vorresti rispondermi. Ti conosco e ti voglio bene anche per questo. Mi dirai che è tutto vero, che le cose stanno proprio così, che anche a te fanno schifo, ma che tu, proprio per questo, non gliela darai vinta. Tutto qui. E non so, credimi, se preoccuparmi di più per questa tua ostinazione, o rallegrarmi per aver trovato il modo di non deludermi, assecondando le mie amarezze.
Preparati comunque a soffrire.
Con affetto,
tuo padre
L'autore è stato direttore generale della Rai. Attualmente è direttore generale della Libera Università internazionale degli studi sociali, Luiss Guido Carli.
(30 novembre 2009)
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
30.11.09
"Figlio mio, lascia questo Paese"
Etichette:
Celli,
giovani,
Italia,
La Repubblica,
lavoro,
università
Missili e campanili
FRANCO CARDINI
Non c’è bisogno di aver letto Landscape and Memory (1995) di Simon Schama sulla storia del paesaggio per sapere che ambienti e landscapes si modificano col tempo.
Anche e soprattutto grazie all’opera dell’uomo: e che poco c’è in essi di puramente «naturale», niente di definitivamente «bello». Agli antichi elvezi, probabilmente, le torri e i templi dei romani sulle prime non piacevano affatto; e, agli elvezi romanizzati, non dovevan garbare granché i campanili. Che quindi qualche minareto avrebbe davvero compromesso l’armonioso paesaggio svizzero, con i suoi laghi e i suoi pascoli, è lecito dubitare. Le ragioni del «sì» degli abitanti della felice Confederazione Elvetica al referendum sul bando alla costruzione delle torri da cui si chiamano i musulmani alla preghiera debbono essere anche altre.
«Simboli del potere islamico», è stato detto. Ma quale potere? Un campanile cattolico in Svezia significa forse che quel Paese è passato al papismo? I templi buddhisti di New York simboleggiano il passaggio degli States alla fede in Gautama Siddharta? E la monumentale sinagoga di Roma significa forse che la Città Eterna è in mano agli ebrei? «Niente minareti se non c’è reciprocità», ha cristianamente sentenziato qualcuno. Ma di quale reciprocità si tratta? Di campanili cristiani molti Paesi musulmani abbondano: dalla Turchia alla Siria alla Giordania all’Egitto all’Algeria; e il fatto che il re dell’Arabia Saudita ne vieti la costruzione autorizza forse moralmente gli svizzeri a negare un minareto a una comunità musulmana fatta di turchi o di maghrebini, che col monarca wahhabita non hanno proprio nulla a che fare?
Ma le moschee sono fonte d’inquinamento fondamentalista, proclama qualcun altro. Dal che s’inferisce che l’unico modo per controllare e contrastare il fondamentalismo sia quello di umiliare molte decine di migliaia di credenti rifiutando loro un simbolo di libertà religiosa. E’ arrivata a questo, la nostra regressione verso l’intolleranza?
Giratela come volete: ma il risultato del referendum svizzero è un altro tassello nell’allarmante puzzle della perdita delle virtù di tolleranza e di ragionevolezza di cui l’Europa e il mondo occidentale stanno dando di questi tempi prove sempre più chiare. E che questa febbre sia grave è prova il contestuale rifiuto, opposto dal medesimo popolo svizzero, all’altro referendum, che gli chiedeva il divieto dell’esportazione di armi e materiale bellico al fine di sostenere lo sforzo internazionale per il disarmo. Qui, di fronte a ovvi motivi di ben concreto interesse economico, il popolo per definizione più pacifico d’Europa - ma anche quello militarmente parlando meglio esercitato - ha rifiutato di arrestare il «commercio di morte». E’ vero, le armi fanno male alla gente. Ma in fondo anche il tabacco e gli alcolici: e allora perché non continuarne produzione e vendita, magari con l’apposizione di qualche scritta d’avvertimento (tipo: «Sparare al prossimo fa male anche a te»)?
C’è del metodo, in questa follia. Curioso che il minareto somigli dannatamente a un missile, o anche a un bel proiettile lucente di fucile. I Mani di Charlton Heston, ex Mosè, ex Ben Hur, che tra 1998 e 2003 fu presidente dell’americana National Rifle Association, ne saranno estasiati. Lo ricordate, senescente eppur fiero della sua armeria simbolo di libertà, nel Bowling for Columbine di Michael Moore? Chi oggi esulta per l’esito del doppio referendum svizzero può prendere il vecchio Charlton a emblema del suo trionfo. A questo punto, per il momento, è arrivata la nostra notte.
Non c’è bisogno di aver letto Landscape and Memory (1995) di Simon Schama sulla storia del paesaggio per sapere che ambienti e landscapes si modificano col tempo.
Anche e soprattutto grazie all’opera dell’uomo: e che poco c’è in essi di puramente «naturale», niente di definitivamente «bello». Agli antichi elvezi, probabilmente, le torri e i templi dei romani sulle prime non piacevano affatto; e, agli elvezi romanizzati, non dovevan garbare granché i campanili. Che quindi qualche minareto avrebbe davvero compromesso l’armonioso paesaggio svizzero, con i suoi laghi e i suoi pascoli, è lecito dubitare. Le ragioni del «sì» degli abitanti della felice Confederazione Elvetica al referendum sul bando alla costruzione delle torri da cui si chiamano i musulmani alla preghiera debbono essere anche altre.
«Simboli del potere islamico», è stato detto. Ma quale potere? Un campanile cattolico in Svezia significa forse che quel Paese è passato al papismo? I templi buddhisti di New York simboleggiano il passaggio degli States alla fede in Gautama Siddharta? E la monumentale sinagoga di Roma significa forse che la Città Eterna è in mano agli ebrei? «Niente minareti se non c’è reciprocità», ha cristianamente sentenziato qualcuno. Ma di quale reciprocità si tratta? Di campanili cristiani molti Paesi musulmani abbondano: dalla Turchia alla Siria alla Giordania all’Egitto all’Algeria; e il fatto che il re dell’Arabia Saudita ne vieti la costruzione autorizza forse moralmente gli svizzeri a negare un minareto a una comunità musulmana fatta di turchi o di maghrebini, che col monarca wahhabita non hanno proprio nulla a che fare?
Ma le moschee sono fonte d’inquinamento fondamentalista, proclama qualcun altro. Dal che s’inferisce che l’unico modo per controllare e contrastare il fondamentalismo sia quello di umiliare molte decine di migliaia di credenti rifiutando loro un simbolo di libertà religiosa. E’ arrivata a questo, la nostra regressione verso l’intolleranza?
Giratela come volete: ma il risultato del referendum svizzero è un altro tassello nell’allarmante puzzle della perdita delle virtù di tolleranza e di ragionevolezza di cui l’Europa e il mondo occidentale stanno dando di questi tempi prove sempre più chiare. E che questa febbre sia grave è prova il contestuale rifiuto, opposto dal medesimo popolo svizzero, all’altro referendum, che gli chiedeva il divieto dell’esportazione di armi e materiale bellico al fine di sostenere lo sforzo internazionale per il disarmo. Qui, di fronte a ovvi motivi di ben concreto interesse economico, il popolo per definizione più pacifico d’Europa - ma anche quello militarmente parlando meglio esercitato - ha rifiutato di arrestare il «commercio di morte». E’ vero, le armi fanno male alla gente. Ma in fondo anche il tabacco e gli alcolici: e allora perché non continuarne produzione e vendita, magari con l’apposizione di qualche scritta d’avvertimento (tipo: «Sparare al prossimo fa male anche a te»)?
C’è del metodo, in questa follia. Curioso che il minareto somigli dannatamente a un missile, o anche a un bel proiettile lucente di fucile. I Mani di Charlton Heston, ex Mosè, ex Ben Hur, che tra 1998 e 2003 fu presidente dell’americana National Rifle Association, ne saranno estasiati. Lo ricordate, senescente eppur fiero della sua armeria simbolo di libertà, nel Bowling for Columbine di Michael Moore? Chi oggi esulta per l’esito del doppio referendum svizzero può prendere il vecchio Charlton a emblema del suo trionfo. A questo punto, per il momento, è arrivata la nostra notte.
29.11.09
L'ipocrisia infinita
BARBARA SPINELLI
Da qualche tempo son molti i politici italiani che pretendono d’aver abbandonato ogni falsità, d’aver infine compiuto l’intrepido gesto che sfata le ipocrisie, d’aver imboccato la via stretta della verità. Dopo parecchio vagare ammettono che in questione non è più l’agire del governo ma il privato destino d’un presidente del Consiglio che non è protetto da processi pendenti, e che potrebbe essere indagato per concorso in stragi mafiose.
Sentono che la terra trema sotto Palazzo Chigi e dicono, come Casini, che è inane sfasciare la giustizia pur di sbrigare un caso singolo: meglio «eliminare le ipocrisie» e riconoscere che serve una legge, la decisiva, per «salvaguardare Berlusconi». La Corte Costituzionale gli ha negato l’immunità, ma egli ha pur sempre vinto le elezioni e deve poter governare: diamogli dunque lo scudo che cerca, visto che alternative non ci sono.
Nella sostanza è il discorso di Berlusconi che vince: la magistratura impedisce alla democrazia di funzionare, quindi è eversiva. È in atto una guerra civile, insinua: uno spettro che in Italia tacita in special modo gli ex comunisti.
Le cose potrebbero tuttavia non stare così, e ci si può chiedere se uscendo da un’ipocrisia non si entri in un nuovo gioco mascherato, che vela anziché svelare. Chi ha detto che l’unica via sia lo scudo immunitario?
L’altra via stretta è la possibilità che Berlusconi si difenda non dai processi ma nei processi, come Andreotti. O la possibilità che il ceto politico tragga le conseguenze, allontanando un leader non condannato ma debilitato da troppi processi e congetture. È accaduto per molti dirigenti in molte democrazie occidentali. Quel che sorprende in Italia è che quest’alternativa, se si esclude Di Pietro, nessuno la propone: subito è detta sovversiva. Essa non presuppone il governo dei giudici, o addirittura dei pentiti. La decisione spetta alla politica, e se questa tace o s’accuccia, c’è solo la voce dei magistrati, per quanto sommessa, a esser udita. L’altra cosa sorprendente è che la tesi sul contrasto tra voto popolare e legalità intimidisca più l’opposizione che la destra.
Su questo giornale, il 23 novembre, c’è stata una presa di posizione forte, di Fabio Granata che è vicepresidente della Commissione antimafia e fedele di Fini, contro chi scredita i processi di mafia. Intervistato da Guido Ruotolo, Granata denuncia il «berlusconismo che rischia di cancellare la nostra identità: quella di chi crede nei valori della legalità, dell’antimafia, della giustizia, del senso dello Stato». Nel Pdl, egli è «guardato come un appestato», «accusato di essere giustizialista».
Ciononostante resiste: «Ho visto la gente impazzita di rabbia e dolore ai funerali di Paolo Borsellino, che (...) faceva parte della famiglia missina. Quella enorme e disperata domanda di giustizia l’ho tenuta nel cuore e per questo non potrei non sostenere chi dal ’92 cerca irriducibilmente di affermarla. Meglio un giorno da Borsellino che cento anni da Vito Ciancimino. Liberare l’Italia dalle mafie dovrebbe rappresentare il primo punto all’ordine del giorno dell’azione di qualsiasi governo». Granata non ritiene colpevoli Berlusconi e Dell’Utri ma approva le inchieste di Palermo, Caltanissetta, Firenze (le procure che investigano sulle stragi del ’92-’93). Loda il «lavoro tenace» del giudice Antonio Ingroia (il procuratore aggiunto di Palermo che indaga sul patto Stato-mafia): «Lo ricordo perfettamente accanto a Paolo Borsellino, quel giorno alla sala mortuaria per riconoscere il corpo maciullato di Falcone».
La cosa strana non è che queste parole vengano da destra. Borsellino era vicino alla destra, e quest’ultima ha una lunga tradizione di lotta alla mafia, a causa del senso dello Stato acuto (a volte sfrenato) che la anima.
Ci fu l’attività di Cesare Mori in Sicilia, fra il 1924 e il ’29: attività peraltro ostacolata da dignitari fascisti che temettero il suo assedio.
Apparteneva alla destra storica il senatore Leopoldo Franchetti, il primo che perlustrò il fenomeno mafioso, scrivendo nel 1876 un rapporto sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia: un classico sulla malavita. Apparteneva alla destra storica Emanuele Notarbartolo, il direttore del Banco di Sicilia che volle far pulizia e fu ucciso dalla mafia il 1° febbraio 1893. Il mandante era un senatore mafioso, processato e poi assolto.
Strano è il cedimento-fatalismo dell’opposizione, al centro e nel Pd.
Ambedue vedono la legislatura divorata dai guai giudiziari d’un singolo, ma nell’essenza si dichiarano imbelli. È come se ritenessero del tutto impensabile una contromossa della politica che non sia l’accomodamento, o come diceva Gaetano Mosca nel 1900: il «lasciar andare, la fiaccona». Come se dicessero: il leader non può governare e il dilemma si risolve non ricongiungendo democrazia e legalità, ma disgiungendole. Fondando il primato della politica non su atti trasformativi, ma tutelativi.
Forse senza rendersene conto, il Pd interiorizza l’alternativa democrazia-legalità. Martedì a Ballarò Luciano Violante ne è parso prigioniero: da una parte la democrazia, dall’altra la legalità. Ha mancato di ricordare che le due cose o sono sinonimi, oppure non si ha né democrazia né legalità. Voleva probabilmente dire che non sono i giudici a far cadere un governo, tanto meno i pentiti. Ha finito col dire che non è neppure la politica (partiti, parlamento) a poterlo fare. Torna a galla l’idea leninista secondo cui la democrazia sostanziale può confliggere con quella legale. È una fortuna che Napolitano abbia detto in modo chiaro, venerdì, che spetta invece a politica e parlamento sanare i presenti squilibri.
Tutto questo avviene forse perché le indagini su politica-mafia sono a una svolta. Si accumulano verbali sempre più sinistri, che legano Berlusconi e Dell’Utri alle stragi. Ce n’è uno in particolare, quello del pentito Romeo, secondo cui nei primi ’90 «c’era un politico di Milano (il nome fattogli dal pentito Spatuzza è Berlusconi) che aveva detto a Giuseppe Graviano (un capomafia) di continuare a mettere le bombe», indicando perfino «i siti artistici dove metterle». I verbali non inducono ancora la magistratura a aprire un’indagine, ma la loro portata è oltremodo conturbante. Un sospetto malefico pesa sul presidente del Consiglio: che oltre al conflitto di interessi economici, ne esista un altro che lo espone a minacce di pentiti e carcerati mafiosi.
Il governo in realtà sostiene ben altro: la sua lotta alla mafia sarebbe dura; secondo alcuni, è sotto pressione proprio per questo. Nell’agosto scorso Berlusconi ha affermato di voler «passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia». Né mancano dati promettenti: la legge del carcere duro inasprita (legge 41 bis), i beni mafiosi sequestrati, un gran numero di capi malavitosi arrestati.
Al contempo tuttavia son favoriti i colletti bianchi che fanno affari con la mafia. C’è lo scudo fiscale, che chiede all’evasore una restituzione minima di quel che dovrebbe (il 5 per cento), e in cambio gli consente, restando anonimo, di cancellare reati come il riciclaggio di denaro sporco (lo spiega il giudice Scarpinato sul Fatto del 15-11-09). C’è la legge sulle intercettazioni, che ostacola le inchieste sulla mafia. C’è il Comune di Fondi, in mano alle destre: tuttora non sciolto, malgrado la collusione con la mafia sia certificata da oltre un anno. Contestata da don Ciotti, c’è una legge che mette in vendita parte dei beni confiscati alla mafia, col pericolo che prestanome incensurati li riacquistino. C’è infine il processo breve: un processo morto, per i colletti bianchi collusi.
La svolta secerne sospetti a raggiera. Quelli che Franchetti chiamava i facinorosi della classe media (amministratori, politici) potrebbero aver l’impressione che il cuore dello Stato sia nelle loro mani. È sospettato il presidente del Senato Schifani, per rapporti con i fratelli Graviano e assistenza giuridica al costruttore Lo Sicco, oggi in galera per mafia. È indagato Nicola Cosentino, sottosegretario al Tesoro, per concorso esterno in associazione camorristica. Ambedue restano al loro posto, sotto gli occhi non tanto dei magistrati quanto della mafia, esperta in ricatti. Che sia l’ora della politica è evidente. Le democrazie vivono e muoiono nel funzionare o non funzionare del comportamento politico, non di quello giudiziario.
Da qualche tempo son molti i politici italiani che pretendono d’aver abbandonato ogni falsità, d’aver infine compiuto l’intrepido gesto che sfata le ipocrisie, d’aver imboccato la via stretta della verità. Dopo parecchio vagare ammettono che in questione non è più l’agire del governo ma il privato destino d’un presidente del Consiglio che non è protetto da processi pendenti, e che potrebbe essere indagato per concorso in stragi mafiose.
Sentono che la terra trema sotto Palazzo Chigi e dicono, come Casini, che è inane sfasciare la giustizia pur di sbrigare un caso singolo: meglio «eliminare le ipocrisie» e riconoscere che serve una legge, la decisiva, per «salvaguardare Berlusconi». La Corte Costituzionale gli ha negato l’immunità, ma egli ha pur sempre vinto le elezioni e deve poter governare: diamogli dunque lo scudo che cerca, visto che alternative non ci sono.
Nella sostanza è il discorso di Berlusconi che vince: la magistratura impedisce alla democrazia di funzionare, quindi è eversiva. È in atto una guerra civile, insinua: uno spettro che in Italia tacita in special modo gli ex comunisti.
Le cose potrebbero tuttavia non stare così, e ci si può chiedere se uscendo da un’ipocrisia non si entri in un nuovo gioco mascherato, che vela anziché svelare. Chi ha detto che l’unica via sia lo scudo immunitario?
L’altra via stretta è la possibilità che Berlusconi si difenda non dai processi ma nei processi, come Andreotti. O la possibilità che il ceto politico tragga le conseguenze, allontanando un leader non condannato ma debilitato da troppi processi e congetture. È accaduto per molti dirigenti in molte democrazie occidentali. Quel che sorprende in Italia è che quest’alternativa, se si esclude Di Pietro, nessuno la propone: subito è detta sovversiva. Essa non presuppone il governo dei giudici, o addirittura dei pentiti. La decisione spetta alla politica, e se questa tace o s’accuccia, c’è solo la voce dei magistrati, per quanto sommessa, a esser udita. L’altra cosa sorprendente è che la tesi sul contrasto tra voto popolare e legalità intimidisca più l’opposizione che la destra.
Su questo giornale, il 23 novembre, c’è stata una presa di posizione forte, di Fabio Granata che è vicepresidente della Commissione antimafia e fedele di Fini, contro chi scredita i processi di mafia. Intervistato da Guido Ruotolo, Granata denuncia il «berlusconismo che rischia di cancellare la nostra identità: quella di chi crede nei valori della legalità, dell’antimafia, della giustizia, del senso dello Stato». Nel Pdl, egli è «guardato come un appestato», «accusato di essere giustizialista».
Ciononostante resiste: «Ho visto la gente impazzita di rabbia e dolore ai funerali di Paolo Borsellino, che (...) faceva parte della famiglia missina. Quella enorme e disperata domanda di giustizia l’ho tenuta nel cuore e per questo non potrei non sostenere chi dal ’92 cerca irriducibilmente di affermarla. Meglio un giorno da Borsellino che cento anni da Vito Ciancimino. Liberare l’Italia dalle mafie dovrebbe rappresentare il primo punto all’ordine del giorno dell’azione di qualsiasi governo». Granata non ritiene colpevoli Berlusconi e Dell’Utri ma approva le inchieste di Palermo, Caltanissetta, Firenze (le procure che investigano sulle stragi del ’92-’93). Loda il «lavoro tenace» del giudice Antonio Ingroia (il procuratore aggiunto di Palermo che indaga sul patto Stato-mafia): «Lo ricordo perfettamente accanto a Paolo Borsellino, quel giorno alla sala mortuaria per riconoscere il corpo maciullato di Falcone».
La cosa strana non è che queste parole vengano da destra. Borsellino era vicino alla destra, e quest’ultima ha una lunga tradizione di lotta alla mafia, a causa del senso dello Stato acuto (a volte sfrenato) che la anima.
Ci fu l’attività di Cesare Mori in Sicilia, fra il 1924 e il ’29: attività peraltro ostacolata da dignitari fascisti che temettero il suo assedio.
Apparteneva alla destra storica il senatore Leopoldo Franchetti, il primo che perlustrò il fenomeno mafioso, scrivendo nel 1876 un rapporto sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia: un classico sulla malavita. Apparteneva alla destra storica Emanuele Notarbartolo, il direttore del Banco di Sicilia che volle far pulizia e fu ucciso dalla mafia il 1° febbraio 1893. Il mandante era un senatore mafioso, processato e poi assolto.
Strano è il cedimento-fatalismo dell’opposizione, al centro e nel Pd.
Ambedue vedono la legislatura divorata dai guai giudiziari d’un singolo, ma nell’essenza si dichiarano imbelli. È come se ritenessero del tutto impensabile una contromossa della politica che non sia l’accomodamento, o come diceva Gaetano Mosca nel 1900: il «lasciar andare, la fiaccona». Come se dicessero: il leader non può governare e il dilemma si risolve non ricongiungendo democrazia e legalità, ma disgiungendole. Fondando il primato della politica non su atti trasformativi, ma tutelativi.
Forse senza rendersene conto, il Pd interiorizza l’alternativa democrazia-legalità. Martedì a Ballarò Luciano Violante ne è parso prigioniero: da una parte la democrazia, dall’altra la legalità. Ha mancato di ricordare che le due cose o sono sinonimi, oppure non si ha né democrazia né legalità. Voleva probabilmente dire che non sono i giudici a far cadere un governo, tanto meno i pentiti. Ha finito col dire che non è neppure la politica (partiti, parlamento) a poterlo fare. Torna a galla l’idea leninista secondo cui la democrazia sostanziale può confliggere con quella legale. È una fortuna che Napolitano abbia detto in modo chiaro, venerdì, che spetta invece a politica e parlamento sanare i presenti squilibri.
Tutto questo avviene forse perché le indagini su politica-mafia sono a una svolta. Si accumulano verbali sempre più sinistri, che legano Berlusconi e Dell’Utri alle stragi. Ce n’è uno in particolare, quello del pentito Romeo, secondo cui nei primi ’90 «c’era un politico di Milano (il nome fattogli dal pentito Spatuzza è Berlusconi) che aveva detto a Giuseppe Graviano (un capomafia) di continuare a mettere le bombe», indicando perfino «i siti artistici dove metterle». I verbali non inducono ancora la magistratura a aprire un’indagine, ma la loro portata è oltremodo conturbante. Un sospetto malefico pesa sul presidente del Consiglio: che oltre al conflitto di interessi economici, ne esista un altro che lo espone a minacce di pentiti e carcerati mafiosi.
Il governo in realtà sostiene ben altro: la sua lotta alla mafia sarebbe dura; secondo alcuni, è sotto pressione proprio per questo. Nell’agosto scorso Berlusconi ha affermato di voler «passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia». Né mancano dati promettenti: la legge del carcere duro inasprita (legge 41 bis), i beni mafiosi sequestrati, un gran numero di capi malavitosi arrestati.
Al contempo tuttavia son favoriti i colletti bianchi che fanno affari con la mafia. C’è lo scudo fiscale, che chiede all’evasore una restituzione minima di quel che dovrebbe (il 5 per cento), e in cambio gli consente, restando anonimo, di cancellare reati come il riciclaggio di denaro sporco (lo spiega il giudice Scarpinato sul Fatto del 15-11-09). C’è la legge sulle intercettazioni, che ostacola le inchieste sulla mafia. C’è il Comune di Fondi, in mano alle destre: tuttora non sciolto, malgrado la collusione con la mafia sia certificata da oltre un anno. Contestata da don Ciotti, c’è una legge che mette in vendita parte dei beni confiscati alla mafia, col pericolo che prestanome incensurati li riacquistino. C’è infine il processo breve: un processo morto, per i colletti bianchi collusi.
La svolta secerne sospetti a raggiera. Quelli che Franchetti chiamava i facinorosi della classe media (amministratori, politici) potrebbero aver l’impressione che il cuore dello Stato sia nelle loro mani. È sospettato il presidente del Senato Schifani, per rapporti con i fratelli Graviano e assistenza giuridica al costruttore Lo Sicco, oggi in galera per mafia. È indagato Nicola Cosentino, sottosegretario al Tesoro, per concorso esterno in associazione camorristica. Ambedue restano al loro posto, sotto gli occhi non tanto dei magistrati quanto della mafia, esperta in ricatti. Che sia l’ora della politica è evidente. Le democrazie vivono e muoiono nel funzionare o non funzionare del comportamento politico, non di quello giudiziario.
Etichette:
La Stampa,
mafia-politica,
Spinelli
Bolla di silenzio
ANDREA CAMILLERI
Capisco benissimo che quando Berlusconi afferma di voler «strozzare» gli autori di libri, di film e di sceneggiati televisivi che parlano di mafia adopera il verbo in senso metaforico.
Eppure si tratta, venendo dal premier, di un pericoloso lapsus freudiano. Che io sappia, l’eliminazione fisica degli autori sgraditi al potere è stata pratica di tempi orrendi e bui, dell’Inquisizione, del nazismo, di quel comunismo staliniano che, a parole, Berlusconi considera con orrore. Non è certamente mai stata contemplata nei Paesi veramente democratici.
Ma il verbo malscelto dal premier offre il fianco ad un’altra considerazione. Coll’ipotizzare l’uccisione, sia pure, torno a ripetere, metaforica, di un autore non si porta incautamente una pezza d’appoggio a chi un autore medita d’uccidere per davvero? Tanto per non fare nomi, non porta acqua al mulino dei casalesi contro Saviano, reo d’avere scritto «Gomorra»? Oltretutto, il motivo dell’eventuale sterminio, perché a scrivere di mafia in Italia e fuori sono in tanti, sarebbe per Berlusconi quello di consegnare una cattiva immagine del nostro Paese all’estero. Argomento ipocrita, di cui già si servirono ampiamente da noi i democristiani al tempo di «La terra trema» di Visconti. Sono persuaso che la cattiva immagine dell’Italia la si dia con ben altri e più solidi argomenti, che vanno dal comportamento morale dei suoi rappresentanti politici alla corruzione, dalla crescita del debito pubblico all’aumento disastroso della disoccupazione.
Il romanzo, il film, la fiction televisiva corrono il rischio, a mio parere, di mutare in eroi simpatici dei criminali assassini, non certo quello di denigrare il Paese. La mafia c’è, esiste, ed è necessario parlarne. Non parlarne non significa risolvere il problema, ma al contrario coprire la mafia con una bolla di silenzio perché meglio possa agire in sordina. E’ la tesi di Bernardo Provenzano. Ricordate quanti film abbiamo visto e quanti romanzi abbiamo letto tutti incentrati sulla corruzione della politica, della polizia, del giornalismo, della giustizia statunitensi? Eppure a nessun Presidente degli Usa è mai passato per l’anticamera del cervello di volerne strozzare gli autori ritenendo le loro opere lesive per il buon nome della nazione.
Capisco benissimo che quando Berlusconi afferma di voler «strozzare» gli autori di libri, di film e di sceneggiati televisivi che parlano di mafia adopera il verbo in senso metaforico.
Eppure si tratta, venendo dal premier, di un pericoloso lapsus freudiano. Che io sappia, l’eliminazione fisica degli autori sgraditi al potere è stata pratica di tempi orrendi e bui, dell’Inquisizione, del nazismo, di quel comunismo staliniano che, a parole, Berlusconi considera con orrore. Non è certamente mai stata contemplata nei Paesi veramente democratici.
Ma il verbo malscelto dal premier offre il fianco ad un’altra considerazione. Coll’ipotizzare l’uccisione, sia pure, torno a ripetere, metaforica, di un autore non si porta incautamente una pezza d’appoggio a chi un autore medita d’uccidere per davvero? Tanto per non fare nomi, non porta acqua al mulino dei casalesi contro Saviano, reo d’avere scritto «Gomorra»? Oltretutto, il motivo dell’eventuale sterminio, perché a scrivere di mafia in Italia e fuori sono in tanti, sarebbe per Berlusconi quello di consegnare una cattiva immagine del nostro Paese all’estero. Argomento ipocrita, di cui già si servirono ampiamente da noi i democristiani al tempo di «La terra trema» di Visconti. Sono persuaso che la cattiva immagine dell’Italia la si dia con ben altri e più solidi argomenti, che vanno dal comportamento morale dei suoi rappresentanti politici alla corruzione, dalla crescita del debito pubblico all’aumento disastroso della disoccupazione.
Il romanzo, il film, la fiction televisiva corrono il rischio, a mio parere, di mutare in eroi simpatici dei criminali assassini, non certo quello di denigrare il Paese. La mafia c’è, esiste, ed è necessario parlarne. Non parlarne non significa risolvere il problema, ma al contrario coprire la mafia con una bolla di silenzio perché meglio possa agire in sordina. E’ la tesi di Bernardo Provenzano. Ricordate quanti film abbiamo visto e quanti romanzi abbiamo letto tutti incentrati sulla corruzione della politica, della polizia, del giornalismo, della giustizia statunitensi? Eppure a nessun Presidente degli Usa è mai passato per l’anticamera del cervello di volerne strozzare gli autori ritenendo le loro opere lesive per il buon nome della nazione.
Etichette:
Berlusconi,
Camilleri,
La Stampa,
mafia
27.11.09
I soci di Schifani? Arrestati, condannati e confiscati
di Peter Gomez e Marco Lillo
La storia di Renato Schifani è spesso ridotta all'elenco dei suoi clienti. Si fa presto a dire: Schifani era l’avvocato dei mafiosi per poi sottolineare che Schifani non lo sapeva e che comunque era tutto legale. Il fatto è che il presidente del senato prima di approdare a Palazzo Madama nel 1996 non è stato solo un avvocato ma anche tante altre cose. Per esempio è stato titolare di quote in tre società. La prima è la Desio Immobiliare, una cooperativa nata nel 1976 che ha assegnato nel 1986 l’appartamento nel quale il politico ha risieduto fino a luglio scorso. La seconda è la Sicula Brokers, una compagnia assicurativa nata nel 1979 e la terza è la Gms, creata nel 1992 insieme a due amici per svolgere attività legale a Roma e rimasta inattiva. Nei prossimi giorni ci dedicheremo a Desio e Gms oggi vi raccontiano la storia della Sicula Brokers.
Scavando negli archivi si scopre che una decina di soci di queste vecchie società sono stati poi arrestati per le accuse più varie, dalla mafia alla bancarotta, dalla corruzione alla truffa. Ma non è questo il punto. Dietro ogni arresto (avvenuto sempre dopo l’ingresso dell’avvocato nella compagine) si apre uno spaccato rivelatore. Per chi coltiva il vizio della memoria è un esercizio prezioso. Se si può comprendere l’Italia di oggi solo guardando alle sue radici, così per scoprire chi è il nostro presidente del senato sarà interessante guardare da dove viene Renato Schifani.
Nato a Palermo, figlio di un dipendente dell’ufficio urbanistica, Antonino, 88 anni, Renato è uno studente brillante che si diploma nel 1968 al liceo scientifico Cannizzaro con la “pagella d'oro”. Mentre infuria la contestazione Schifani studia. Si laurea in giurisprudenza con 110 e lode sposa Francesca, dalla quale avrà due figli, Andrea e Roberto (al quale passerà lo studio) e dopo una breve esperienza in banca, entra giovanissimo a studio di Giuseppe La Loggia, il padre di Enrico, l’ex ministro degli affari regionali.
La Loggia padre nel 1956 è stato presidente della Regione Siciliana. Nel 1968 si candida ed entra in Parlamento insieme al genero Attilio Ruffini, ministro della difesa e prima ancora avvocato dei cugini Salvo, legati alla mafia e ricchissimi, che lo faranno eleggere con i loro voti. Quando Schifani entra a studio, La Loggia è presidente della Commissione Bilancio e la sua famiglia è potentissima. grazie anche all’appoggio elettorale di galoppini come Nino Mandalà, poi arrestato come capomafia di Villabate e intercettato negli anni novanta mentre racconta di avere minacciato Enrico La Loggia di raccontare i trascorsi elettorali con il padre. La Sicula Brokers nasce il 19 febbraio 1979 su impulso di papà La Loggia che fa entrare il figlio Enrico, il collaboratore Renato Schifani e i suoi galoppini e amici. Ma il vero socio forte è il più grande operatore italiano, il gruppo Taverna di Genova che ne detiene il 51 per cento e ha scelto i La Loggia per sbarcare in Sicilia, in un settore nel quale contano gli appoggi politici. Tra i soci siciliani ben quattro finiranno in seguito dietro le sbarre: Benni D’Agostino, Francesco Maniglia, Antonino Mandalà e Luciano De Lorenzo. Mentre un quinto, Giuseppe Lombardo, amministratore delle società dei cugini mafiosi Ignazio e Nino Salvo, sarà solo indagato con loro. La Sailem di Benni D’Agostino, la Ifis di Maniglia e Giuseppe Lombardo hanno il 10 ciascuno. La Loggia e Schifani, come gli altri piccoli soci hanno quote intorno al 4 per cento. Il consiglio è composto di nove membri: il presidente è Enrico La Loggia, il vicepresidente è Giuseppe Giudice, allora 26enne, figlio del comandante generale della Guardia di Finanza, Raffaele Giudice. Ovviamente sarà arrestato anche lui. Tre volte.
Ma andiamo per ordine. Il primo mandato di arresto (sempre per fatti che nulla hanno a che fare con la Sicula Brokers) è per Francesco Maniglia. Nell’autunno del 1979 è indagato per ricorso abusivo al credito poi la sua azienda fa crack e Maniglia si dà alla latitanza nel 1980. Maniglia era ricchissimo e frequentava il jet set, ma nel processo contro Vito Ciancimino si scoprirà che era socio del sindaco mafioso di Palermo già dagli anni sessanta. Il pentito Antonino Calderone racconterà che a Roma nei suoi uffici si incontravano i Calderone e il loro referente politico: Salvo Lima. Dopo Maniglia tocca al vicepresidente della Sicula Brokers: Giuseppe Giudice, arrestato il 18 dicembre del 1980. Giudice è il figlio del generale delle Fiamme Gialle Raffaele, che era stato già arrestato per lo scandalo petroli. Negli atti di quel processo si scoprono alcuni dettagli utili per capire il contesto: il figlio era socio di un petroliere arrestato, mentre il padre (condannato definitivamente a 4 anni e morto nel 1994) era stato nominato comandante grazie alla sponsorizzazione di Giulio Andreotti (finanziato dai petrolieri) e di Salvo Lima, siciliano come lui.
Quando il colonnello Giovanni Visicchio arrestò il boss Luciano Liggio nel 1976, il comandante Giudice lo apostrofò: “lei è un finanziere, la smetta di fare il carabiniere”. Giuseppe Giudice uscirà indenne dalle accuse ma sarà arrestato altre due volte, a Roma (estorsione tentata) e a Palermo, per bancarotta. Anche un altro ex socio di Schifani, l’avvocato Luciano De Lorenzo, aveva legami con il peggio della Dc. Anche lui scambiava assegni con Vito Ciancimino e anche lui figura nelle carte dell’inchiesta del giudice Falcone, che lo interrogò, senza indagarlo. Si rifarà nel 2007 quando sarà arrestato a Palermo per la bancarotta Finasi. Quisquilie rispetto al curriculum dei due soci davvero “pesanti”: Benni D’Agostino e Antonino Mandalà, legati a doppio filo ai “capi dei capi”. D’Agostino a Totò Riina, Mandalà a Provenzano.
Benni D’Agostino, dopo essere stato uno degli uomini più ricchi della Sicilia, grazie ai suoi legami con la mafia, si è pentito e ha raccontato: “mio padre mi presentò Michele Greco, (il papa della mafia) nel 1977. E mi disse che era una persona ‘intisa’ (cioé mafiosa ndr). Lo riincontrai nel 1979 o 1980 sul traghetto da Palermo a Napoli e mi trattò come un figlio raccontandomi dei suoi incontri con Andreotti”. Nel periodo in cui D’Agostino fonda la Sicula Brokers è così vicino al Papa che questi gli confida i suoi rapporti più segreti. Non basta. Negli anni novanta, Totò Riina è il socio occulto della società Reale, intestata all’ex socio di Schifani. Lo racconta il pentito Giovanni Brusca: “la Reale Costruzioni era all’epoca, controllata da Riina. Totò mi raccomanda questa impresa, intestata a DAgostino, e ho capito successivamente il perché, quando mi disse: ‘l’impresa Reale, fai finta che è mia’”. D’Agostino ha raccontato: “con Salvo Lima facevamo una serie di lavori e poi quando c’era l’elezione e lui mi chiedeva per esempio cento milioni io li tiravo fuori”.
Non bisogna stupirsi se in questo ambientino troviamo Nino Mandalà. Fondatore del primo club di Forza Italia a Villabate e padre di Nicola, l’uomo che ha curato la latitanza di Bernardo Provenzano. Nino Mandalà, storico capomafia di Villabate, è stato condannato in primo grado a 8 anni molto tempo dopo la sua partecipazione con Schifani. Tutti i soci degli inizi dell’assicurazione (che esiste ancora e ha cambiato nome) sono usciti presto. Il loro è stato solo un fugace incrocio di destini.
Renato Schifani sulla Sicula Brokers ha spiegato la sua posizione ai magistrati di Firenze, quando ha querelato il pentito Francesco Campanella per le sue accuse. “Mandalà era incensurato fino al 1998 ed era un cliente ed elettore di Giuseppe La Loggia quando nel 1979 nasce la Sicula Brokers. Io ero solo un giovane avvocato dello studio e ho accettato di addivenire alla richiesta del presidente La Loggia di entrare nella società per una piccola quota del 4 per cento. Poi ho versato solo i tre decimi come risulta dai libri sociali. La Loggia padre chiamò a farne parte persone che allora erano di spicco, al di sopra di ogni sospetto. Come Benni D’Agostino e Giuseppe Lombardo. Io sono rimasto solo un anno e qualche mese. Ad aprile del 1980 ho detto a Giuseppe La Loggia che non volevo versare gli altri sette decimi e sono uscito. Anche Mandalà fino al 1997 non è stato attenzionato nemmeno dai Carabinieri, era talmente insospettabile che fu eletto al congresso provinciale di Forza Italia presideduto da Alfredo Biondi”. Il giudice per le indagini preliminari ha archiviato la sua querela ma sostanzialmente gli ha dato ragione: “Vero è che la qualifica di uomo d’onore prescinde dal formale riconoscimento che se ne ottiene con il suffragio giudiziario. Ma è altrettanto vero però che una mera frequentazione professionale discendente da affari di natura civilistica quelli di cui si occupava in via esclusiva l’avvocato Schifani, non impone certo l’onere per il professionista dì recidere i predetti rapporti per via del sospetto (ammesso che tale fosse) di illecite condotte dal proprìo assistito in tutt’altri contesti consumate e sfociate peraltro solo anni dopo, in procedimenti penali”.
Una conclusione opinabile. E che comunque non vale per un politico. Anche perché dopo avere scoperto in quale ginepraio lo avevano cacciato i La Loggia, Schifani non ha certo preso le distanze da loro. Anzi. Grazie a Enrico La Loggia l’avvocato Schifani (certamente bravo ma raccomandato) ha ottenuto nel 1994 una consulenza da 60 milioni di vecchie lire dal comune di Villabate, retto da una giunta vicina al solito Nino Mandalà (che se ne prendeva il merito mentre era intercettato). E, sempre grazie a La Loggia, Renato Schifani è entrato nel partito che gli ha cambiato la vita. Sarà vero, come dice il gip che agli avvocati può capitare di difendere clienti che poi si rivelano mafiosi. Sarà vero che può capitare di farci affari insieme. Ma viene un giorno in cui si deve scegliere. Si può tagliare i ponti con chi ti ha messo in queste situazioni imbarazzanti. Oppure si può continuare a far finta di niente. Schifani ha scelto la seconda strada. E oggi è presidente del senato.
La storia di Renato Schifani è spesso ridotta all'elenco dei suoi clienti. Si fa presto a dire: Schifani era l’avvocato dei mafiosi per poi sottolineare che Schifani non lo sapeva e che comunque era tutto legale. Il fatto è che il presidente del senato prima di approdare a Palazzo Madama nel 1996 non è stato solo un avvocato ma anche tante altre cose. Per esempio è stato titolare di quote in tre società. La prima è la Desio Immobiliare, una cooperativa nata nel 1976 che ha assegnato nel 1986 l’appartamento nel quale il politico ha risieduto fino a luglio scorso. La seconda è la Sicula Brokers, una compagnia assicurativa nata nel 1979 e la terza è la Gms, creata nel 1992 insieme a due amici per svolgere attività legale a Roma e rimasta inattiva. Nei prossimi giorni ci dedicheremo a Desio e Gms oggi vi raccontiano la storia della Sicula Brokers.
Scavando negli archivi si scopre che una decina di soci di queste vecchie società sono stati poi arrestati per le accuse più varie, dalla mafia alla bancarotta, dalla corruzione alla truffa. Ma non è questo il punto. Dietro ogni arresto (avvenuto sempre dopo l’ingresso dell’avvocato nella compagine) si apre uno spaccato rivelatore. Per chi coltiva il vizio della memoria è un esercizio prezioso. Se si può comprendere l’Italia di oggi solo guardando alle sue radici, così per scoprire chi è il nostro presidente del senato sarà interessante guardare da dove viene Renato Schifani.
Nato a Palermo, figlio di un dipendente dell’ufficio urbanistica, Antonino, 88 anni, Renato è uno studente brillante che si diploma nel 1968 al liceo scientifico Cannizzaro con la “pagella d'oro”. Mentre infuria la contestazione Schifani studia. Si laurea in giurisprudenza con 110 e lode sposa Francesca, dalla quale avrà due figli, Andrea e Roberto (al quale passerà lo studio) e dopo una breve esperienza in banca, entra giovanissimo a studio di Giuseppe La Loggia, il padre di Enrico, l’ex ministro degli affari regionali.
La Loggia padre nel 1956 è stato presidente della Regione Siciliana. Nel 1968 si candida ed entra in Parlamento insieme al genero Attilio Ruffini, ministro della difesa e prima ancora avvocato dei cugini Salvo, legati alla mafia e ricchissimi, che lo faranno eleggere con i loro voti. Quando Schifani entra a studio, La Loggia è presidente della Commissione Bilancio e la sua famiglia è potentissima. grazie anche all’appoggio elettorale di galoppini come Nino Mandalà, poi arrestato come capomafia di Villabate e intercettato negli anni novanta mentre racconta di avere minacciato Enrico La Loggia di raccontare i trascorsi elettorali con il padre. La Sicula Brokers nasce il 19 febbraio 1979 su impulso di papà La Loggia che fa entrare il figlio Enrico, il collaboratore Renato Schifani e i suoi galoppini e amici. Ma il vero socio forte è il più grande operatore italiano, il gruppo Taverna di Genova che ne detiene il 51 per cento e ha scelto i La Loggia per sbarcare in Sicilia, in un settore nel quale contano gli appoggi politici. Tra i soci siciliani ben quattro finiranno in seguito dietro le sbarre: Benni D’Agostino, Francesco Maniglia, Antonino Mandalà e Luciano De Lorenzo. Mentre un quinto, Giuseppe Lombardo, amministratore delle società dei cugini mafiosi Ignazio e Nino Salvo, sarà solo indagato con loro. La Sailem di Benni D’Agostino, la Ifis di Maniglia e Giuseppe Lombardo hanno il 10 ciascuno. La Loggia e Schifani, come gli altri piccoli soci hanno quote intorno al 4 per cento. Il consiglio è composto di nove membri: il presidente è Enrico La Loggia, il vicepresidente è Giuseppe Giudice, allora 26enne, figlio del comandante generale della Guardia di Finanza, Raffaele Giudice. Ovviamente sarà arrestato anche lui. Tre volte.
Ma andiamo per ordine. Il primo mandato di arresto (sempre per fatti che nulla hanno a che fare con la Sicula Brokers) è per Francesco Maniglia. Nell’autunno del 1979 è indagato per ricorso abusivo al credito poi la sua azienda fa crack e Maniglia si dà alla latitanza nel 1980. Maniglia era ricchissimo e frequentava il jet set, ma nel processo contro Vito Ciancimino si scoprirà che era socio del sindaco mafioso di Palermo già dagli anni sessanta. Il pentito Antonino Calderone racconterà che a Roma nei suoi uffici si incontravano i Calderone e il loro referente politico: Salvo Lima. Dopo Maniglia tocca al vicepresidente della Sicula Brokers: Giuseppe Giudice, arrestato il 18 dicembre del 1980. Giudice è il figlio del generale delle Fiamme Gialle Raffaele, che era stato già arrestato per lo scandalo petroli. Negli atti di quel processo si scoprono alcuni dettagli utili per capire il contesto: il figlio era socio di un petroliere arrestato, mentre il padre (condannato definitivamente a 4 anni e morto nel 1994) era stato nominato comandante grazie alla sponsorizzazione di Giulio Andreotti (finanziato dai petrolieri) e di Salvo Lima, siciliano come lui.
Quando il colonnello Giovanni Visicchio arrestò il boss Luciano Liggio nel 1976, il comandante Giudice lo apostrofò: “lei è un finanziere, la smetta di fare il carabiniere”. Giuseppe Giudice uscirà indenne dalle accuse ma sarà arrestato altre due volte, a Roma (estorsione tentata) e a Palermo, per bancarotta. Anche un altro ex socio di Schifani, l’avvocato Luciano De Lorenzo, aveva legami con il peggio della Dc. Anche lui scambiava assegni con Vito Ciancimino e anche lui figura nelle carte dell’inchiesta del giudice Falcone, che lo interrogò, senza indagarlo. Si rifarà nel 2007 quando sarà arrestato a Palermo per la bancarotta Finasi. Quisquilie rispetto al curriculum dei due soci davvero “pesanti”: Benni D’Agostino e Antonino Mandalà, legati a doppio filo ai “capi dei capi”. D’Agostino a Totò Riina, Mandalà a Provenzano.
Benni D’Agostino, dopo essere stato uno degli uomini più ricchi della Sicilia, grazie ai suoi legami con la mafia, si è pentito e ha raccontato: “mio padre mi presentò Michele Greco, (il papa della mafia) nel 1977. E mi disse che era una persona ‘intisa’ (cioé mafiosa ndr). Lo riincontrai nel 1979 o 1980 sul traghetto da Palermo a Napoli e mi trattò come un figlio raccontandomi dei suoi incontri con Andreotti”. Nel periodo in cui D’Agostino fonda la Sicula Brokers è così vicino al Papa che questi gli confida i suoi rapporti più segreti. Non basta. Negli anni novanta, Totò Riina è il socio occulto della società Reale, intestata all’ex socio di Schifani. Lo racconta il pentito Giovanni Brusca: “la Reale Costruzioni era all’epoca, controllata da Riina. Totò mi raccomanda questa impresa, intestata a DAgostino, e ho capito successivamente il perché, quando mi disse: ‘l’impresa Reale, fai finta che è mia’”. D’Agostino ha raccontato: “con Salvo Lima facevamo una serie di lavori e poi quando c’era l’elezione e lui mi chiedeva per esempio cento milioni io li tiravo fuori”.
Non bisogna stupirsi se in questo ambientino troviamo Nino Mandalà. Fondatore del primo club di Forza Italia a Villabate e padre di Nicola, l’uomo che ha curato la latitanza di Bernardo Provenzano. Nino Mandalà, storico capomafia di Villabate, è stato condannato in primo grado a 8 anni molto tempo dopo la sua partecipazione con Schifani. Tutti i soci degli inizi dell’assicurazione (che esiste ancora e ha cambiato nome) sono usciti presto. Il loro è stato solo un fugace incrocio di destini.
Renato Schifani sulla Sicula Brokers ha spiegato la sua posizione ai magistrati di Firenze, quando ha querelato il pentito Francesco Campanella per le sue accuse. “Mandalà era incensurato fino al 1998 ed era un cliente ed elettore di Giuseppe La Loggia quando nel 1979 nasce la Sicula Brokers. Io ero solo un giovane avvocato dello studio e ho accettato di addivenire alla richiesta del presidente La Loggia di entrare nella società per una piccola quota del 4 per cento. Poi ho versato solo i tre decimi come risulta dai libri sociali. La Loggia padre chiamò a farne parte persone che allora erano di spicco, al di sopra di ogni sospetto. Come Benni D’Agostino e Giuseppe Lombardo. Io sono rimasto solo un anno e qualche mese. Ad aprile del 1980 ho detto a Giuseppe La Loggia che non volevo versare gli altri sette decimi e sono uscito. Anche Mandalà fino al 1997 non è stato attenzionato nemmeno dai Carabinieri, era talmente insospettabile che fu eletto al congresso provinciale di Forza Italia presideduto da Alfredo Biondi”. Il giudice per le indagini preliminari ha archiviato la sua querela ma sostanzialmente gli ha dato ragione: “Vero è che la qualifica di uomo d’onore prescinde dal formale riconoscimento che se ne ottiene con il suffragio giudiziario. Ma è altrettanto vero però che una mera frequentazione professionale discendente da affari di natura civilistica quelli di cui si occupava in via esclusiva l’avvocato Schifani, non impone certo l’onere per il professionista dì recidere i predetti rapporti per via del sospetto (ammesso che tale fosse) di illecite condotte dal proprìo assistito in tutt’altri contesti consumate e sfociate peraltro solo anni dopo, in procedimenti penali”.
Una conclusione opinabile. E che comunque non vale per un politico. Anche perché dopo avere scoperto in quale ginepraio lo avevano cacciato i La Loggia, Schifani non ha certo preso le distanze da loro. Anzi. Grazie a Enrico La Loggia l’avvocato Schifani (certamente bravo ma raccomandato) ha ottenuto nel 1994 una consulenza da 60 milioni di vecchie lire dal comune di Villabate, retto da una giunta vicina al solito Nino Mandalà (che se ne prendeva il merito mentre era intercettato). E, sempre grazie a La Loggia, Renato Schifani è entrato nel partito che gli ha cambiato la vita. Sarà vero, come dice il gip che agli avvocati può capitare di difendere clienti che poi si rivelano mafiosi. Sarà vero che può capitare di farci affari insieme. Ma viene un giorno in cui si deve scegliere. Si può tagliare i ponti con chi ti ha messo in queste situazioni imbarazzanti. Oppure si può continuare a far finta di niente. Schifani ha scelto la seconda strada. E oggi è presidente del senato.
Etichette:
Gomez,
Il fatto quotidiano,
mafia,
Shifani
16.11.09
Dalle promesse alla realtà
di VITTORIO ZUCCONI
"Avrebbe potuto prendere il toro dell'inquinamento globale per le corna a Copenaghen e invece lo ha scansato" fremono contro Obama gli ambientalisti del Wwf, aggiunti da ieri alla sempre più lunga lista internazionale dei delusi dal carismatico "profeta del cambiamento" che in 10 mesi di presidenza sembra avere cambiato poco.
La sua rinuncia a fare del vertice Onu in Danimarca sull'ambiente, in dicembre, la affermazione definitiva del nuovo corso americano sul clima, e la notizia che il presidente oggi occupato a parlare di vile moneta e di mercati con i cinesi, neppure si scomoderà a parteciparvi visto che nessun trattato concreto ne uscirà oltre i soliti "impegni politici" sta seminando lo sconforto tra coloro che avevano visto in lui l'attore di quella svolta ambientalista che George Bush aveva scaricato. Se non è proprio lo sprezzante rifiuto del primo accordo di Kyoto che George "W" aveva pronunciato morto nel 2001 per rassicurare subito i poteri economici e industriali americani che lo avevano appoggiato, l'ammissione che anche questo nuovo tentativo di affrontare appunto "per le corna" il toro del degrado ambientale planetario è stato accantonato, sembra la "piccola Kyoto" di Barack Hussein Obama.
Ma una differenza fondamentale, anche se ancora non tradotta in azione politica e diplomatica internazionale, fra la ritirata di Kyoto ordinata da Bush e il "time out" di Copenhagen voluto da Obama esiste e può consolare i delusi del Wwf e gli ambientalisti che si attendevano dalla Danimarca molto più di un "accordo politico vincolante" come lo ha chiamato il premier danese Rasmussen, dove il sostantivo, "politico", svuota l'aggettivo "vincolante". Il Bush dei primi quattro anni era ideologicamente scettico, se non proprio indifferente, all'ambientalismo, alla globalizzazione della risposta, alla cultura dell'"effetto serra" e del surriscaldamento della Terra provocato dall'attività umana che lui, e i suoi suggeritori politici, consideravano, appunto, come un'ideologia, non a caso incarnata dal rivale che aveva (forse) sconfitto alle elezioni del 2000, Al Gore.
Il problema, e l'atteggiamento di Obama, è tutt'altro. Ha la stessa radice di tutte le "delusioni" che la sua politica su Guantanamo, le guerre in Iraq e in Afghanistan, la sfida del terrorismo transnazionale, la riforma della sanità, le grandi questioni etiche e pratiche come l'aborto, le unioni fra persone dello stesso sesso, i "gay" nelle forze armate, stanno sollevando nel "movimento" che lo proiettò alla Casa Bianca. Obama vorrebbe, ma non riesce.
Bush non voleva e riuscì a non fare, che è sempre cosa assai più facile.
Il presidente in carica sta, giorno dopo giorno, scoprendo, o ammettendo dopo la scintillante retorica della sua campagna elettorale, quello che tutti i suoi predecessori avevano scoperto, che cioè tra il promettere e il mantenere esiste, anche per la persona che si definisce come "la più potente" del mondo, un abisso. E che questo abisso pratico appare tanto più largo e profondo quanto più grandi erano le speranze suscitate e le promesse fatte. Si può essere, come non abbiamo ragione di dubitare che lui sia, convinti ambientalisti, ma questa convinzione non si traduce necessariamente in un trattato che imponga - come Copenhagen, molto più del vago accordo di Kyoto avrebbero fatto - alle nazioni sviluppate, alle nuove potenze emergenti come India, Cina o Brasile, all'Africa che insegue arrancando, alla parte dell'Asia ancora arretrata, di rispettare meccanismi severi e minuziosi di comportamento.
Si può, e sicuramente lui lo vorrebbe, cercare di ripulire le stalle di Guantanamo, di chiudere l'insensatezza irakena, di trovare la chiave del rompicapo afghano, di dare una copertura sanitaria agli esclusi per censo o per cattiva salute. Ma il "toro" delle opposizioni, degli interessi contrari, degli opportunismi politici, diciamo pure della realtà, non si lascia infilzare facilmente.
Dalla radicalità delle parole alla vischiosità delle cose sta il passaggio che Obama non riesce ancora a compiere, non essendo comunque lui mai stato quel rivoluzionario che soltanto la propaganda avversaria, e le farneticazione tele e radiofoniche di chi lo detesta anche per il colore della pelle senza naturalmente mai ammetterlo, dipingevano. Per questo, come nel caso della "rivoluzione ambientale" interrotta con la rinuncia, per ora, al trattato di Copenhagen che non sarà abbandonato ma ripreso e spinto da lui, Obama tergiversa, negozia, media, attende, scansa il toro, nella speranza di fiaccarlo. Purtroppo per lui, il tempo passa, le amarezze aumentano, nuove elezioni incombono e il torero rischia di restare solo nell'arena delle delusioni.
"Avrebbe potuto prendere il toro dell'inquinamento globale per le corna a Copenaghen e invece lo ha scansato" fremono contro Obama gli ambientalisti del Wwf, aggiunti da ieri alla sempre più lunga lista internazionale dei delusi dal carismatico "profeta del cambiamento" che in 10 mesi di presidenza sembra avere cambiato poco.
La sua rinuncia a fare del vertice Onu in Danimarca sull'ambiente, in dicembre, la affermazione definitiva del nuovo corso americano sul clima, e la notizia che il presidente oggi occupato a parlare di vile moneta e di mercati con i cinesi, neppure si scomoderà a parteciparvi visto che nessun trattato concreto ne uscirà oltre i soliti "impegni politici" sta seminando lo sconforto tra coloro che avevano visto in lui l'attore di quella svolta ambientalista che George Bush aveva scaricato. Se non è proprio lo sprezzante rifiuto del primo accordo di Kyoto che George "W" aveva pronunciato morto nel 2001 per rassicurare subito i poteri economici e industriali americani che lo avevano appoggiato, l'ammissione che anche questo nuovo tentativo di affrontare appunto "per le corna" il toro del degrado ambientale planetario è stato accantonato, sembra la "piccola Kyoto" di Barack Hussein Obama.
Ma una differenza fondamentale, anche se ancora non tradotta in azione politica e diplomatica internazionale, fra la ritirata di Kyoto ordinata da Bush e il "time out" di Copenhagen voluto da Obama esiste e può consolare i delusi del Wwf e gli ambientalisti che si attendevano dalla Danimarca molto più di un "accordo politico vincolante" come lo ha chiamato il premier danese Rasmussen, dove il sostantivo, "politico", svuota l'aggettivo "vincolante". Il Bush dei primi quattro anni era ideologicamente scettico, se non proprio indifferente, all'ambientalismo, alla globalizzazione della risposta, alla cultura dell'"effetto serra" e del surriscaldamento della Terra provocato dall'attività umana che lui, e i suoi suggeritori politici, consideravano, appunto, come un'ideologia, non a caso incarnata dal rivale che aveva (forse) sconfitto alle elezioni del 2000, Al Gore.
Il problema, e l'atteggiamento di Obama, è tutt'altro. Ha la stessa radice di tutte le "delusioni" che la sua politica su Guantanamo, le guerre in Iraq e in Afghanistan, la sfida del terrorismo transnazionale, la riforma della sanità, le grandi questioni etiche e pratiche come l'aborto, le unioni fra persone dello stesso sesso, i "gay" nelle forze armate, stanno sollevando nel "movimento" che lo proiettò alla Casa Bianca. Obama vorrebbe, ma non riesce.
Bush non voleva e riuscì a non fare, che è sempre cosa assai più facile.
Il presidente in carica sta, giorno dopo giorno, scoprendo, o ammettendo dopo la scintillante retorica della sua campagna elettorale, quello che tutti i suoi predecessori avevano scoperto, che cioè tra il promettere e il mantenere esiste, anche per la persona che si definisce come "la più potente" del mondo, un abisso. E che questo abisso pratico appare tanto più largo e profondo quanto più grandi erano le speranze suscitate e le promesse fatte. Si può essere, come non abbiamo ragione di dubitare che lui sia, convinti ambientalisti, ma questa convinzione non si traduce necessariamente in un trattato che imponga - come Copenhagen, molto più del vago accordo di Kyoto avrebbero fatto - alle nazioni sviluppate, alle nuove potenze emergenti come India, Cina o Brasile, all'Africa che insegue arrancando, alla parte dell'Asia ancora arretrata, di rispettare meccanismi severi e minuziosi di comportamento.
Si può, e sicuramente lui lo vorrebbe, cercare di ripulire le stalle di Guantanamo, di chiudere l'insensatezza irakena, di trovare la chiave del rompicapo afghano, di dare una copertura sanitaria agli esclusi per censo o per cattiva salute. Ma il "toro" delle opposizioni, degli interessi contrari, degli opportunismi politici, diciamo pure della realtà, non si lascia infilzare facilmente.
Dalla radicalità delle parole alla vischiosità delle cose sta il passaggio che Obama non riesce ancora a compiere, non essendo comunque lui mai stato quel rivoluzionario che soltanto la propaganda avversaria, e le farneticazione tele e radiofoniche di chi lo detesta anche per il colore della pelle senza naturalmente mai ammetterlo, dipingevano. Per questo, come nel caso della "rivoluzione ambientale" interrotta con la rinuncia, per ora, al trattato di Copenhagen che non sarà abbandonato ma ripreso e spinto da lui, Obama tergiversa, negozia, media, attende, scansa il toro, nella speranza di fiaccarlo. Purtroppo per lui, il tempo passa, le amarezze aumentano, nuove elezioni incombono e il torero rischia di restare solo nell'arena delle delusioni.
Etichette:
ambientalismo,
La Repubblica,
Obama,
Zucconi
15.11.09
Fini e il male minore
BARBARA SPINELLI
Da quando ricopre la terza carica dello Stato, Gianfranco Fini ha un’aspirazione che lo domina, costante: quella a esser statista oltre che uomo politico, e a scorgere nelle trasgressioni istituzionali di Berlusconi pericoli che lui, anche se solitario, vuol diminuire o combattere. Il suo magistero, come quello di Napolitano, è delicato: egli rappresenta la nazione, non può esser presidente di parte. Ma Fini ha osato molto, ultimamente, fino a praticare quella che Albert Hirschman chiama l’autosovversione: esprimendosi su temi essenziali come l’immigrazione, i diritti civili, il testamento biologico, la laicità. Il libro che ha appena pubblicato (Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989, Rizzoli) conferma una volontà precisa, e il desiderio di pensare la democrazia italiana nel tempo lungo, prendendo congedo dai dizionari delle «parole neoideologiche» e dei luoghi comuni («Il caso di Eluana Englaro ci ha dimostrato in modo eclatante che la politica italiana tende ancora a presentarsi, nei momenti di più aspro confronto, non secondo le linee contemporanee del “fare”, ma secondo le linee novecentesche dell’ “essere”, vale a dire le linee in definitiva rassicuranti, ma immobili, dell’ “identità”»).
Proprio perché ha deciso di scandagliare nuovi mari, vorrei porre al presidente una domanda di fondo, attorno a un assioma apparentemente importante che lo guida: se sia giusto, nonché utile, perseguire sistematicamente il Male Minore, nella resistenza al degrado delle istituzioni democratiche. Se davvero la situazione sia così degradata e povera di alternative, da imporre questa classifica dei mali, basata sulle categorie economiche del più e del meno. Nelle dittature la ricerca del male minore è spesso la sola via, anche se non necessariamente la più feconda.
Spesso è un camuffamento per iniziare i recalcitranti; solo di rado ingenera i casi Schindler, che accettò il nazismo salvando 1100 ebrei. Ma nella democrazia? L’economia dei mali è usanza antica, ma ha senso farne un assioma?
L’interrogativo si pone perché tutta la politica italiana, da anni, ruota attorno a questo concetto. L’hanno interiorizzato le opposizioni, svariati giornali, anche la Chiesa. Lo difendono i centristi (nuovi o vecchi): spesso moderati per non-scelta, per calcolo breve, per conformistica aderenza all’opinione dominante. L’ultimo esempio di politica del male minore è quello di Fini nell’incontro col presidente del Consiglio del 10 novembre: per evitare il peggio la prescrizione rapida, cui Berlusconi assillato dai processi Mills e Mediaset teneva molto il presidente della Camera gli ha concesso il processo breve, che è una prescrizione camuffata e accorcia i procedimenti con l’eccezione di alcuni reati (non i più gravi d’altronde, essendo escluso anche il reato di clandestinità: «una semplice contravvenzione punibile con banale ammenda», commenta Giulia Bongiorno, deputato, vicina a Fini).
La giustizia lenta affligge gli italiani, ma il rimedio non consiste nel dichiarare che il processo si estingue automaticamente dopo tre gradi di giudizio per la durata complessiva di 6 anni, bensì nell’introdurre preliminarmente le riforme che consentono di abbattere i tempi. Riforme da applicare a monte, senza toccare i processi pendenti. Non si tratta di troncare i processi, ma di accelerarne il corso. Dichiarare estinto un processo perché dopo due anni non c’è sentenza di primo grado è di una gravità estrema. In certi casi, soprattutto per reati delicati con rogatorie internazionali, due anni davvero non bastano. Scansare il male maggiore è buona cosa, ma quello minore ambiguo, sdrucciolevole non è detto dia frutti.
Classificare i mali e le colpe è attività millenaria, in teologia e filosofia. Cominciò il cristianesimo nel IV secolo a graduarli, con Agostino, introducendo nella valutazione il calcolo economico (il filosofo Foucault parla di teologia economica). C’erano colpe più o meno nefaste, e alcune erano talmente nefaste che in assenza di alternative la Chiesa tollerava mali minori. Nell’«economia del male», sosteneva Agostino, meglio le prostitute che l’adulterio; meglio uccidere l’aggressore prima che egli uccida l’innocente. La guerra, se proporzionata e volta al bene, divenne giusta. Il fine comunque rimaneva determinante, e il fine era il perfezionamento e l’imprescindibile trasformazione dell’uomo cui esso conduce.
Secolarizzandosi, tuttavia il male minore non punta più alla perfezione-trasformazione, ma all’ottimizzazione dell’esistente e del male.
Cessa d’essere tappa d’un cammino accorto, si fa consustanziale alla democrazia, addirittura suo sinonimo. Lo descrive con maestria Hannah Arendt, negli Anni 50 e 60, con ragionamenti che sono ripresi oggi da Eyal Weizman, l’architetto israeliano direttore del Centre for Research Architecture a Londra, in un eccellente libricino intitolato Male Minore (Nottetempo 09). Marco Belpoliti l’ha recensito su La Stampa il 28-8-09.
Accade a ciascuno di cercare il male minore, nella vita individuale e pubblica. È il momento in cui urge, tatticamente, scongiurare il precipizio nel peggio. In politica spingono in questo senso la prudenza, l’astuzia. Ma il male minore rischia di installarsi, di divenire concetto stanziale anziché nomade: non ambivalente paradosso ma via aurea, con esiti e danni collaterali che possono esser devastanti, non subito ma nel lungo periodo. A forza di mitigare l’iniquità agendo dal suo interno, in effetti, sorgono insidie che la Arendt spiega bene: «Lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori in politica ci hanno invariabilmente condotti ai primi».
«Ossessionati dai mali assoluti» (Shoah, Gulag) ci abituiamo a non vedere il nesso, stretto, tra male maggiore e minore.
La mente stessa muta, quando il male minore si cristallizza in norma.
Chi l’adotta tende a scordarsi, dopo, che in fin dei conti ha optato per un male. Nella memoria, l’opzione si trasfigura e si naturalizza, in politica, trasformando l’eccezione in regola: «Una misura meno brutale scrive Weizman è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabile. Quando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente». E applicandole con crescente frequenza, «qualsiasi senso dell’orrore verso il male si perde», non solo nei politici ma nell’insieme della nazione.
Quando Fini sceglie un piccolo male per evitare al peggio, è pur sempre nel male che resta, anche se forse a disagio: con effetti infausti sul futuro cui tiene tanto. Una successione di piccoli mali finisce infatti col produrre un male grande raggiunto cumulativamente, non fosse altro perché è impossibile calcolare l’estensione dei loro guasti.
Fini e Napolitano vengono da esperienze non dissimili. Ambedue hanno accostato i mali assoluti, avendone condivise le ideologie, e con coraggio ne sono usciti. Ambedue hanno scoperto le virtù del moderatismo pragmatico, del male minore. Ma il male minore è una trappola, se il suo essere anfibio e la miopia del pragmatismo son taciuti. Il male assoluto, paradossalmente, attenua la vigilanza: «Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente d’aver scelto a favore del male», dice la Arendt. Dimentica che l’eroe delle tragedie greche è sempre alle prese con un dilemma: con due mali più o meno terribili, con le due corna del toro infuriato. La via di Robert Pirsig, evocata da Weizman, è non privilegiare un corno piuttosto che l’altro, ma prendere il toro per le corna (Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi 1981). Il che significa: disobbedire, rifiutare il miserando gioco della torre. Oppure: «Si può gettar sabbia negli occhi del toro; si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna; e infine ci si può rifiutare di scendere nell’arena».
Da quando ricopre la terza carica dello Stato, Gianfranco Fini ha un’aspirazione che lo domina, costante: quella a esser statista oltre che uomo politico, e a scorgere nelle trasgressioni istituzionali di Berlusconi pericoli che lui, anche se solitario, vuol diminuire o combattere. Il suo magistero, come quello di Napolitano, è delicato: egli rappresenta la nazione, non può esser presidente di parte. Ma Fini ha osato molto, ultimamente, fino a praticare quella che Albert Hirschman chiama l’autosovversione: esprimendosi su temi essenziali come l’immigrazione, i diritti civili, il testamento biologico, la laicità. Il libro che ha appena pubblicato (Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989, Rizzoli) conferma una volontà precisa, e il desiderio di pensare la democrazia italiana nel tempo lungo, prendendo congedo dai dizionari delle «parole neoideologiche» e dei luoghi comuni («Il caso di Eluana Englaro ci ha dimostrato in modo eclatante che la politica italiana tende ancora a presentarsi, nei momenti di più aspro confronto, non secondo le linee contemporanee del “fare”, ma secondo le linee novecentesche dell’ “essere”, vale a dire le linee in definitiva rassicuranti, ma immobili, dell’ “identità”»).
Proprio perché ha deciso di scandagliare nuovi mari, vorrei porre al presidente una domanda di fondo, attorno a un assioma apparentemente importante che lo guida: se sia giusto, nonché utile, perseguire sistematicamente il Male Minore, nella resistenza al degrado delle istituzioni democratiche. Se davvero la situazione sia così degradata e povera di alternative, da imporre questa classifica dei mali, basata sulle categorie economiche del più e del meno. Nelle dittature la ricerca del male minore è spesso la sola via, anche se non necessariamente la più feconda.
Spesso è un camuffamento per iniziare i recalcitranti; solo di rado ingenera i casi Schindler, che accettò il nazismo salvando 1100 ebrei. Ma nella democrazia? L’economia dei mali è usanza antica, ma ha senso farne un assioma?
L’interrogativo si pone perché tutta la politica italiana, da anni, ruota attorno a questo concetto. L’hanno interiorizzato le opposizioni, svariati giornali, anche la Chiesa. Lo difendono i centristi (nuovi o vecchi): spesso moderati per non-scelta, per calcolo breve, per conformistica aderenza all’opinione dominante. L’ultimo esempio di politica del male minore è quello di Fini nell’incontro col presidente del Consiglio del 10 novembre: per evitare il peggio la prescrizione rapida, cui Berlusconi assillato dai processi Mills e Mediaset teneva molto il presidente della Camera gli ha concesso il processo breve, che è una prescrizione camuffata e accorcia i procedimenti con l’eccezione di alcuni reati (non i più gravi d’altronde, essendo escluso anche il reato di clandestinità: «una semplice contravvenzione punibile con banale ammenda», commenta Giulia Bongiorno, deputato, vicina a Fini).
La giustizia lenta affligge gli italiani, ma il rimedio non consiste nel dichiarare che il processo si estingue automaticamente dopo tre gradi di giudizio per la durata complessiva di 6 anni, bensì nell’introdurre preliminarmente le riforme che consentono di abbattere i tempi. Riforme da applicare a monte, senza toccare i processi pendenti. Non si tratta di troncare i processi, ma di accelerarne il corso. Dichiarare estinto un processo perché dopo due anni non c’è sentenza di primo grado è di una gravità estrema. In certi casi, soprattutto per reati delicati con rogatorie internazionali, due anni davvero non bastano. Scansare il male maggiore è buona cosa, ma quello minore ambiguo, sdrucciolevole non è detto dia frutti.
Classificare i mali e le colpe è attività millenaria, in teologia e filosofia. Cominciò il cristianesimo nel IV secolo a graduarli, con Agostino, introducendo nella valutazione il calcolo economico (il filosofo Foucault parla di teologia economica). C’erano colpe più o meno nefaste, e alcune erano talmente nefaste che in assenza di alternative la Chiesa tollerava mali minori. Nell’«economia del male», sosteneva Agostino, meglio le prostitute che l’adulterio; meglio uccidere l’aggressore prima che egli uccida l’innocente. La guerra, se proporzionata e volta al bene, divenne giusta. Il fine comunque rimaneva determinante, e il fine era il perfezionamento e l’imprescindibile trasformazione dell’uomo cui esso conduce.
Secolarizzandosi, tuttavia il male minore non punta più alla perfezione-trasformazione, ma all’ottimizzazione dell’esistente e del male.
Cessa d’essere tappa d’un cammino accorto, si fa consustanziale alla democrazia, addirittura suo sinonimo. Lo descrive con maestria Hannah Arendt, negli Anni 50 e 60, con ragionamenti che sono ripresi oggi da Eyal Weizman, l’architetto israeliano direttore del Centre for Research Architecture a Londra, in un eccellente libricino intitolato Male Minore (Nottetempo 09). Marco Belpoliti l’ha recensito su La Stampa il 28-8-09.
Accade a ciascuno di cercare il male minore, nella vita individuale e pubblica. È il momento in cui urge, tatticamente, scongiurare il precipizio nel peggio. In politica spingono in questo senso la prudenza, l’astuzia. Ma il male minore rischia di installarsi, di divenire concetto stanziale anziché nomade: non ambivalente paradosso ma via aurea, con esiti e danni collaterali che possono esser devastanti, non subito ma nel lungo periodo. A forza di mitigare l’iniquità agendo dal suo interno, in effetti, sorgono insidie che la Arendt spiega bene: «Lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori in politica ci hanno invariabilmente condotti ai primi».
«Ossessionati dai mali assoluti» (Shoah, Gulag) ci abituiamo a non vedere il nesso, stretto, tra male maggiore e minore.
La mente stessa muta, quando il male minore si cristallizza in norma.
Chi l’adotta tende a scordarsi, dopo, che in fin dei conti ha optato per un male. Nella memoria, l’opzione si trasfigura e si naturalizza, in politica, trasformando l’eccezione in regola: «Una misura meno brutale scrive Weizman è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabile. Quando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente». E applicandole con crescente frequenza, «qualsiasi senso dell’orrore verso il male si perde», non solo nei politici ma nell’insieme della nazione.
Quando Fini sceglie un piccolo male per evitare al peggio, è pur sempre nel male che resta, anche se forse a disagio: con effetti infausti sul futuro cui tiene tanto. Una successione di piccoli mali finisce infatti col produrre un male grande raggiunto cumulativamente, non fosse altro perché è impossibile calcolare l’estensione dei loro guasti.
Fini e Napolitano vengono da esperienze non dissimili. Ambedue hanno accostato i mali assoluti, avendone condivise le ideologie, e con coraggio ne sono usciti. Ambedue hanno scoperto le virtù del moderatismo pragmatico, del male minore. Ma il male minore è una trappola, se il suo essere anfibio e la miopia del pragmatismo son taciuti. Il male assoluto, paradossalmente, attenua la vigilanza: «Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente d’aver scelto a favore del male», dice la Arendt. Dimentica che l’eroe delle tragedie greche è sempre alle prese con un dilemma: con due mali più o meno terribili, con le due corna del toro infuriato. La via di Robert Pirsig, evocata da Weizman, è non privilegiare un corno piuttosto che l’altro, ma prendere il toro per le corna (Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi 1981). Il che significa: disobbedire, rifiutare il miserando gioco della torre. Oppure: «Si può gettar sabbia negli occhi del toro; si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna; e infine ci si può rifiutare di scendere nell’arena».
Etichette:
Fini,
La Stampa,
male minore,
Spinelli
13.11.09
Generazione social network "Macché isolati, più curiosi"
L'istituto di ricerca Pew smonta un pregiudizio: chi utilizza le community sul web ha maggiori possibilità di intrecciare relazioni sociali di altri. E continua a preferire il faccia a faccia
di BENEDETTA PERILLI
Hanno più amici, sono più tolleranti e aperti alle diversità, continuano a preferire i rapporti faccia a faccia con familiari e persone care ma scrivono pochissime lettere. Ecco il quadro della generazione che utilizza telefoni cellulari e social network.
Pensavate che dietro allo schermo del computer si nascondessero persone asociali e timorate dal mondo? Vi stavate sbagliando. A dirlo è una ricerca americana condotta dalla Pew Internet & American Life Project, una società non profit e apartitica che fornisce informazioni sulle attitudini e i trend negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Questa volta ad essere analizzato è il rapporto tra isolamento e tecnologia, con particolare interesse a quei mezzi che negli ultimi venti anni hanno sostituito le vecchie modalità di interazione. E il risultato è sorprendente. Tra gli oltre 3mila cittadini americani adulti intervistati telefonicamente, chi frequenta social network, blog o usa il cellulare ha più opportunità di stringere relazioni. Il volume dei rapporti sociali è in media più alto del 12 % tra chi usa il cellulare e del 9 tra chi frequenta siti di condivisione o invia email. Rispetto all'ultimo rapporto sull'argomento, risalente al 1985, il numero di persone alle quali confidare i propri segreti però è sceso da tre a due. Ma l'uso della tecnologia non è legato a questa decrescita.
Anzi, per chi usa le nuove reti sociali i contatti risultano più numerosi e diversificati rispetto agli altri: solo il 45% degli intervistati afferma di parlare di questioni importanti con persone fuori dalla propria famiglia mentre lo fa il 55% degli utenti internet. Quelli che scambiano foto online hanno il 61% di chance in più rispetto alla media d'avere discussioni con interlocutori con interessi politici differenti. I blogger hanno il 95 % di opportunità d'avere relazioni con gente di etnia diversa dalla propria. In altre parole, le tecnologie di comunicazione sono un fattore d'integrazione sociale.
Secondo la ricerca Pew i nuovi network aiutano ad ampliare i propri orizzonti e ad abbattere barriere geografiche e razziali. Si scopre per esempio che chi usa il telefono cellulare ha un bacino di contatti più vasto del 25%, chi è un internauta base del 15% e la percentuale sale ancora di più per chi è un navigatore abituale o un utilizzatore di servizi di chat o di condivisione di immagini. Inoltre le persone con le quali discutere di argomenti importanti sono per chi usa il cellulare numericamente maggiori del 12%, per chi condivide immagini o usa chat del 9%. Gli internauti sono più inclini del 45% a frequentare bar, del 69% a mangiare in un ristorante e del 42% a fare una passeggiata in un parco pubblico. Chi usa le nuove tecnologie è anche chi pratica maggiormente il volontariato su base locale, così come i gruppi giovanili e le organizzazioni benefiche.
Un dato che consolerà i tanti detrattori della nuove forme di socialità è sicuramente quello relativo all'isolamento. Oggi, come nel 1985, la percentuale di cittadini americani che possono considerarsi socialmente isolati continua ad essere pari al 6%. Non aumentano dunque le persone sole, ovvero che non hanno conoscenti con i quali discutere o che considerano persone significative nella loro vita, ma si diversifica, a favore di chi utilizza tecnologie digitali, la qualità delle relazioni. Un dato rimane inalterato: quello relativo al rapporto con le persone care. Gli intervistati continuano a preferire la comunicazione faccia a faccia per quanto riguarda familiari e amici, persone che amano frequentare con una media di 210 giorni all'anno, contattare con telefoni cellulari circa 195 giorni all'anno, con telefoni fissi 125 giorni, tramite e-mail quasi 72 giorni, in chat 55 giorni e via social network 39 giorni. E la lettera? Se vogliamo la vera sconfitta dalle nuove tecnologie è proprio lei che gli intervistati dichiarano di utilizzare con una media di solo 8 giorni all'anno.
Altro dato inatteso è quello relativo ai rapporti con le realtà locali: secondo la ricerca Pew infatti chi si serve di internet lo fa indifferentemente sia per incoraggiare relazioni con persone che vivono a grande distanza che per mantenere i contatti locali. Fanno eccezione però gli iscritti a Facebook: sono loro quelli ad essere meno interessati a conoscere i propri vicini. Quando hanno bisogno di supporto, compagnia o aiuto per vicende familiari preferiscono parlarne con i loro contatti Facebook piuttosto che con le persone vicine, ma quando sono i vicini ad avere bisogno d'aiuto non esitano ad intervenire.
"Il dato fa parte di un tendenza tipica nella storia dell'umanità %u2013 spiega Keith Hampton, principale autore del rapporto e docente della Annenberg School for Communication dell'università della Pennsylvania %u2013 accadde lo stesso quando fu introdotto il telefono fisso e si percepì per la prima volta che era possibile ottenere un sostegno sociale anche fuori dalla cerchia del vicinato. I social network sono solo l'ennesimo esempio di come l'uomo utilizzi le tecnologie di comunicazione per ottenere vari tipi di interazioni da persone a distanze che prima non avremmo mai raggiunto".
di BENEDETTA PERILLI
Hanno più amici, sono più tolleranti e aperti alle diversità, continuano a preferire i rapporti faccia a faccia con familiari e persone care ma scrivono pochissime lettere. Ecco il quadro della generazione che utilizza telefoni cellulari e social network.
Pensavate che dietro allo schermo del computer si nascondessero persone asociali e timorate dal mondo? Vi stavate sbagliando. A dirlo è una ricerca americana condotta dalla Pew Internet & American Life Project, una società non profit e apartitica che fornisce informazioni sulle attitudini e i trend negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Questa volta ad essere analizzato è il rapporto tra isolamento e tecnologia, con particolare interesse a quei mezzi che negli ultimi venti anni hanno sostituito le vecchie modalità di interazione. E il risultato è sorprendente. Tra gli oltre 3mila cittadini americani adulti intervistati telefonicamente, chi frequenta social network, blog o usa il cellulare ha più opportunità di stringere relazioni. Il volume dei rapporti sociali è in media più alto del 12 % tra chi usa il cellulare e del 9 tra chi frequenta siti di condivisione o invia email. Rispetto all'ultimo rapporto sull'argomento, risalente al 1985, il numero di persone alle quali confidare i propri segreti però è sceso da tre a due. Ma l'uso della tecnologia non è legato a questa decrescita.
Anzi, per chi usa le nuove reti sociali i contatti risultano più numerosi e diversificati rispetto agli altri: solo il 45% degli intervistati afferma di parlare di questioni importanti con persone fuori dalla propria famiglia mentre lo fa il 55% degli utenti internet. Quelli che scambiano foto online hanno il 61% di chance in più rispetto alla media d'avere discussioni con interlocutori con interessi politici differenti. I blogger hanno il 95 % di opportunità d'avere relazioni con gente di etnia diversa dalla propria. In altre parole, le tecnologie di comunicazione sono un fattore d'integrazione sociale.
Secondo la ricerca Pew i nuovi network aiutano ad ampliare i propri orizzonti e ad abbattere barriere geografiche e razziali. Si scopre per esempio che chi usa il telefono cellulare ha un bacino di contatti più vasto del 25%, chi è un internauta base del 15% e la percentuale sale ancora di più per chi è un navigatore abituale o un utilizzatore di servizi di chat o di condivisione di immagini. Inoltre le persone con le quali discutere di argomenti importanti sono per chi usa il cellulare numericamente maggiori del 12%, per chi condivide immagini o usa chat del 9%. Gli internauti sono più inclini del 45% a frequentare bar, del 69% a mangiare in un ristorante e del 42% a fare una passeggiata in un parco pubblico. Chi usa le nuove tecnologie è anche chi pratica maggiormente il volontariato su base locale, così come i gruppi giovanili e le organizzazioni benefiche.
Un dato che consolerà i tanti detrattori della nuove forme di socialità è sicuramente quello relativo all'isolamento. Oggi, come nel 1985, la percentuale di cittadini americani che possono considerarsi socialmente isolati continua ad essere pari al 6%. Non aumentano dunque le persone sole, ovvero che non hanno conoscenti con i quali discutere o che considerano persone significative nella loro vita, ma si diversifica, a favore di chi utilizza tecnologie digitali, la qualità delle relazioni. Un dato rimane inalterato: quello relativo al rapporto con le persone care. Gli intervistati continuano a preferire la comunicazione faccia a faccia per quanto riguarda familiari e amici, persone che amano frequentare con una media di 210 giorni all'anno, contattare con telefoni cellulari circa 195 giorni all'anno, con telefoni fissi 125 giorni, tramite e-mail quasi 72 giorni, in chat 55 giorni e via social network 39 giorni. E la lettera? Se vogliamo la vera sconfitta dalle nuove tecnologie è proprio lei che gli intervistati dichiarano di utilizzare con una media di solo 8 giorni all'anno.
Altro dato inatteso è quello relativo ai rapporti con le realtà locali: secondo la ricerca Pew infatti chi si serve di internet lo fa indifferentemente sia per incoraggiare relazioni con persone che vivono a grande distanza che per mantenere i contatti locali. Fanno eccezione però gli iscritti a Facebook: sono loro quelli ad essere meno interessati a conoscere i propri vicini. Quando hanno bisogno di supporto, compagnia o aiuto per vicende familiari preferiscono parlarne con i loro contatti Facebook piuttosto che con le persone vicine, ma quando sono i vicini ad avere bisogno d'aiuto non esitano ad intervenire.
"Il dato fa parte di un tendenza tipica nella storia dell'umanità %u2013 spiega Keith Hampton, principale autore del rapporto e docente della Annenberg School for Communication dell'università della Pennsylvania %u2013 accadde lo stesso quando fu introdotto il telefono fisso e si percepì per la prima volta che era possibile ottenere un sostegno sociale anche fuori dalla cerchia del vicinato. I social network sono solo l'ennesimo esempio di come l'uomo utilizzi le tecnologie di comunicazione per ottenere vari tipi di interazioni da persone a distanze che prima non avremmo mai raggiunto".
Oltre ogni limite
Antonio Padellaro
Noi speriamo che qualcuno lassù – Montecitorio, il Quirinale – sia stato avvertito della protesta che sale nel paese. Una tempesta di messaggi che intasano Internet e i pochi giornali di opposizione. Tutti dicono la stessa cosa: basta, è stato superato il limite. Basta con l’ennesimo provvedimento ad personam, il diciannovesimo in quindici anni. Basta con i trucchi e con il ricorso a tutti i possibili imbrogli legislativi per consentire l’impunità di un premier che se ne frega di tutto e di tutti. Basta con le leggi che per salvare uno soltanto cancellano centinaia di migliaia di processi. Assicurano la prescrizione a fior di corrotti e corruttori. E, forse, lasceranno senza giustizia le vittime di grandi tragedie del lavoro e i loro familiari. Basta con l’ingiustizia che risparmia i reati dei potenti e si accanisce sempre contro i poveri cristi. Basta con il Parlamento svilito, svuotato, usato solo per soddisfare le necessità del padrone. Basta con le istituzioni costrette a dare retta ai continui espedienti degli avvocati e legulei dell’impunito. Basta con i domestici e i ruffiani adeguatamente ricompensati con incarichi parlamentari e ministeriali; e con gli inquisiti per camorra candidati alla guida della regione più inquinata dalle cosche e dai veleni. Basta con il disprezzo per la Costituzione e con gli incessanti tentativi di abbatterla a spallate. Possibile che una intera nazione debba essere tenuta in ostaggio da gente simile? Quali altre mascalzonate dovremo sopportare ancora? Quante umiliazioni dovrà subire la nostra povera democrazia prima che il basta di tanti e tanti arrivi lassù in alto?
Noi speriamo che qualcuno lassù – Montecitorio, il Quirinale – sia stato avvertito della protesta che sale nel paese. Una tempesta di messaggi che intasano Internet e i pochi giornali di opposizione. Tutti dicono la stessa cosa: basta, è stato superato il limite. Basta con l’ennesimo provvedimento ad personam, il diciannovesimo in quindici anni. Basta con i trucchi e con il ricorso a tutti i possibili imbrogli legislativi per consentire l’impunità di un premier che se ne frega di tutto e di tutti. Basta con le leggi che per salvare uno soltanto cancellano centinaia di migliaia di processi. Assicurano la prescrizione a fior di corrotti e corruttori. E, forse, lasceranno senza giustizia le vittime di grandi tragedie del lavoro e i loro familiari. Basta con l’ingiustizia che risparmia i reati dei potenti e si accanisce sempre contro i poveri cristi. Basta con il Parlamento svilito, svuotato, usato solo per soddisfare le necessità del padrone. Basta con le istituzioni costrette a dare retta ai continui espedienti degli avvocati e legulei dell’impunito. Basta con i domestici e i ruffiani adeguatamente ricompensati con incarichi parlamentari e ministeriali; e con gli inquisiti per camorra candidati alla guida della regione più inquinata dalle cosche e dai veleni. Basta con il disprezzo per la Costituzione e con gli incessanti tentativi di abbatterla a spallate. Possibile che una intera nazione debba essere tenuta in ostaggio da gente simile? Quali altre mascalzonate dovremo sopportare ancora? Quante umiliazioni dovrà subire la nostra povera democrazia prima che il basta di tanti e tanti arrivi lassù in alto?
Etichette:
Berlusconi,
Il fatto quotidiano,
Padellaro,
processo breve
11.11.09
«Estinti» Mediaset e Mills
Al Csm sono già pronti per misurare l'impatto sui processi di quella che, tra le toghe, viene considerata «peggio di un'amnistia». «Per fare una stima corretta, bisognerà prima leggere i dettagli del disegno di legge», dicono a palazzo dei Marescialli dove, però, valutano nell'ordine di centinaia di migliaia i processi destinati all'«estinzione» con il Ddl battezzato da Governo e maggioranza «processo veloce» o «breve», che sarà presentato nei prossimi giorni al Senato. Silvio Berlusconi non ha spuntato da Gianfranco Fini l'ombrello più ampio della «prescrizione breve» (taglio di 1/4 dei tempi, per i reati puniti fino a 10 anni), ma si è assicurato «l'estinzione» dei due processi milanesi Mediaset diritti Tv e Mills, in cui è imputato, rispettivamente, di frode fiscale e di corruzione giudiziaria. E ciò grazie alla norma transitoria che Niccolò Ghedini, suo consigliere giuridico nonché avvocato difensore, ha inserito nel testo.
I due processi al premier sono ancora in primo grado e quindi, in base alla norma transitoria, sottoposti alla nuova regola dei 2 anni di tempo massimo per arrivare alla sentenza, se l'imputato è incensurato e il reato per cui si procede è punito fino a 10 anni (ad eccezione dei reati di mafia, terrorismo o grave allarme sociale come rapina, omicidio, estorsione e con l'esclusione di chi è recidivo o delinquente abituale; la corruzione non è stata esclusa). In questi casi, dunque, se dal decreto di rinvio a giudizio sono trascorsi già 2 anni, il giudice sarà costretto a prosciogliere l'imputato perché «il reato è estinto». Ed è quel che dovrà fare il Tribunale di Milano nel processo Mediaset diritti Tv: il decreto che dispone il giudizio è del 7 luglio 2006 e quindi - pur recuperando l'anno di sospensione dovuto al ricorso alla Consulta sul Lodo Alfano - il processo è morto a luglio del 2009. Sarebbe già cadavere anche il processo Mills: il decreto che dispone il giudizio è del 30 ottobre 2006 e quindi si è «estinto» a ottobre 2009 (tenuto sempre conto della sospensione dovuta al Lodo Alfano). Peraltro, anche se l'inizio della «fase» dibattimentale venisse spostata in avanti, e cioè alla prima udienza di apertura del dibattimento (come stabiliva il Ddl Fassone, a cui si ispira il Ddl Ghedini), il risultato non cambierebbe di molto, perché soltanto il processo Mills avrebbe ancora qualche mese di vita, fino a marzo 2010.
Il «processo veloce» o «breve» non toccherà invece l'inchiesta Mediatrade-Rti perché è in fase di indagine e il Ddl si applica solo ai processi di primo grado (anche pendenti), appello e Cassazione (per una durata complessiva di 6 anni). Nonostante questa limitazione, e sebbene Fini abbia preteso dal premier che la nuova normativa sia accompagnata da risorse umane e finanziarie a supporto dei tribunali, il provvedimento sta già suscitando allarme per le ricadute che produrrà sul dissestato sistema giudiziario. Oggi si riunisce l'esecutivo dell'Anm per una prima valutazione della situazione; nel pomeriggio, i vertici del sindacato delle toghe incontreranno la Consulta Pdl sulla giustizia e solo dopo diranno ufficialmente che ne pensano del Ddl. Ma tra i magistrati c'è grande preoccupazione per un intervento che viene, di fatto, assimilato a una «drastica riduzione della prescrizione» e che, in mancanza di riforma strutturali e processuali, «comporterà il rischio di una diffusa impunità». «Molto peggio di un'amnistia», dicono, perché le nuove norme «andranno a regime», mentre l'amnistia è una tantum. E se oggi si contano circa 200mila prescrizioni», con il Ddl saranno «molte, ma molte di più». Fortissimi, poi, tra i magistrati, i dubbi di costituzionalità sul provvedimento «che crea addirittura un triplo binario»: tre processi di diversa velocità (e con esiti diversi) per gli incensurati imputati di reati fino a 10 anni, esclusi quelli di mafia e terrorismo nonché quelli di grave allarme sociale come omicidi e rapine; per i recidivi o i delinquenti abituali; per chi ha oggi un processo in corso in primo grado rispetto a chi è in appello o Cassazione. Il Presidente della Repubblica lo firmerà?
I due processi al premier sono ancora in primo grado e quindi, in base alla norma transitoria, sottoposti alla nuova regola dei 2 anni di tempo massimo per arrivare alla sentenza, se l'imputato è incensurato e il reato per cui si procede è punito fino a 10 anni (ad eccezione dei reati di mafia, terrorismo o grave allarme sociale come rapina, omicidio, estorsione e con l'esclusione di chi è recidivo o delinquente abituale; la corruzione non è stata esclusa). In questi casi, dunque, se dal decreto di rinvio a giudizio sono trascorsi già 2 anni, il giudice sarà costretto a prosciogliere l'imputato perché «il reato è estinto». Ed è quel che dovrà fare il Tribunale di Milano nel processo Mediaset diritti Tv: il decreto che dispone il giudizio è del 7 luglio 2006 e quindi - pur recuperando l'anno di sospensione dovuto al ricorso alla Consulta sul Lodo Alfano - il processo è morto a luglio del 2009. Sarebbe già cadavere anche il processo Mills: il decreto che dispone il giudizio è del 30 ottobre 2006 e quindi si è «estinto» a ottobre 2009 (tenuto sempre conto della sospensione dovuta al Lodo Alfano). Peraltro, anche se l'inizio della «fase» dibattimentale venisse spostata in avanti, e cioè alla prima udienza di apertura del dibattimento (come stabiliva il Ddl Fassone, a cui si ispira il Ddl Ghedini), il risultato non cambierebbe di molto, perché soltanto il processo Mills avrebbe ancora qualche mese di vita, fino a marzo 2010.
Il «processo veloce» o «breve» non toccherà invece l'inchiesta Mediatrade-Rti perché è in fase di indagine e il Ddl si applica solo ai processi di primo grado (anche pendenti), appello e Cassazione (per una durata complessiva di 6 anni). Nonostante questa limitazione, e sebbene Fini abbia preteso dal premier che la nuova normativa sia accompagnata da risorse umane e finanziarie a supporto dei tribunali, il provvedimento sta già suscitando allarme per le ricadute che produrrà sul dissestato sistema giudiziario. Oggi si riunisce l'esecutivo dell'Anm per una prima valutazione della situazione; nel pomeriggio, i vertici del sindacato delle toghe incontreranno la Consulta Pdl sulla giustizia e solo dopo diranno ufficialmente che ne pensano del Ddl. Ma tra i magistrati c'è grande preoccupazione per un intervento che viene, di fatto, assimilato a una «drastica riduzione della prescrizione» e che, in mancanza di riforma strutturali e processuali, «comporterà il rischio di una diffusa impunità». «Molto peggio di un'amnistia», dicono, perché le nuove norme «andranno a regime», mentre l'amnistia è una tantum. E se oggi si contano circa 200mila prescrizioni», con il Ddl saranno «molte, ma molte di più». Fortissimi, poi, tra i magistrati, i dubbi di costituzionalità sul provvedimento «che crea addirittura un triplo binario»: tre processi di diversa velocità (e con esiti diversi) per gli incensurati imputati di reati fino a 10 anni, esclusi quelli di mafia e terrorismo nonché quelli di grave allarme sociale come omicidi e rapine; per i recidivi o i delinquenti abituali; per chi ha oggi un processo in corso in primo grado rispetto a chi è in appello o Cassazione. Il Presidente della Repubblica lo firmerà?
9.11.09
C'era una volta il comunismo reale
di Rina Gagliardi
"Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta". Così Walter Benjamin in uno dei suoi libri più celebri, Infanzia berlinese, scritto nel 1932, quando il grande scrittore era tornato a vivere nella città dov'era nato e cresciuto. Si era alla vigilia dell'avvento del nazismo, e le paure del piccolo ebreo che, nella Germania guglielmina di fine ottocento, si aggira inquieto e malinconico nella sua prima esplorazione esistenziale ci appaiono, a tutt'oggi, singolarmente presaghe del futuro tragico che attendeva la capitale tedesca.
Sì, perché Berlino è una città tragica - tragica e allegrissima come il '900 di cui è stata l'autentica capitale morale. Un'isola. Un microcosmo del tutto singolare. Un luogo, perciò, destinato ad esercitare sul mondo un impatto simbolico del tutto speciale. Per questo, quando Walter Ulbricht ed Erich Honecker cominciarono ad erigere, il 3 agosto 1961, il famigerato "muro antifascista" (secondo la sua dizione ufficiale), il mondo intero ebbe un sussulto. Quella gigantistica costruzione militare, alta tre metri e sessanta, larga cinquanta, lunga quarantacinque chilometri che spaccava la città e le sottraeva la Porta di Brandemburgo, suo cuore centro, andava ben oltre un atto di guerra tipico dell'epoca della guerra fredda. Chiudeva con la forza ogni speranza. Sanciva una volontà distruttiva (autodistruttiva, sadomasochista) nei confronti del popolo tedesco - e in fondo europeo.
Il muro, in realtà, non incontrò vere opposizioni nei governi occidentali: l'idea di Giulio Andreotti («E' meglio che la Germania resti divisa») era in fondo largamente condivisa. E, ad onta delle declamazioni, andava bene anche il Muro, che era la garanzia pesante che la riunificazione tedesca non si sarebbe mai fatta. Il Muro era il messaggio più chiaro che la Germania, infettata dalla lue nazista e macchiatasi della colpa epocale della shoah, doveva essere punita per sempre. E l'epicentro di questa punizione non poteva essere che Berlino.
***
Se non si tiene il debito conto di queste (o altre consimili o diverse) premesse, non si capisce lo choc prodotto dagli eventi di quella notte - la notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, quando a migliaia e migliaia i berlinesi dell'est si riversarono ad ovest a folleggiare e mangiare banane, frutto per tanti anni per loro introvabile. La fine del Muro non fu improvvisa: l'avevano preannunciata, a partire dall'estate, tanto la politica quanto la piazza. In settembre, il governo di Budapest aveva (unilateralmente) deciso di aprire le sue frontiere con l'Austria ai tedeschi dell'Est.
E la rivolta era cominciata - dapprima con epicentro a Lipsia, dove era fortissima la Chiesa evangelica, e poi via via in decine di altre città. All'inizio, Honecker reagisce con l'unico strumento che conosce, repressione e Stasi, chiusura delle frontiere.
Ma il 6 ottobre, giornata in cui si celebra il quarantesimo anniversario della Ddr, la visita di Gorbaciov a Berlino segna la svolta forse decisiva - "la storia non fa sconti ai ritardati" dirà il leader sovietico, una frase che è stata oggetto, più o meno, di un giallo (non è detto che l'abbia detta, l'ha corretta, l'ha scritta il suo portavoce…). Da quel momento in poi, tutto si sussegue a ritmo vertiginoso: la sostituzione del triste Erich Honecker col riformatore Egon Krenz (un "riformatore" giunto, però, davvero fuori tempo massimo), la crescita del movimento di protesta, la nascita di "Neues Forum", fino al 4 novembre, quando sull'Alexanderplatx si radunano oltre mezzo milione di persone. Le frontiere della Ddr con la Cecoslovacchia erano state a fortiori aperte, la libertà di circolazione è quasi conquistata - eppure, il Muro era ancora lì a significare che non era ancora stato compiuto il passo fondamentale.
Così si arriva al giorno più importante, il 9 novembre 1989. E' mattino, quando il Politburo della Sed approva una legge che abolisce, in sostanza, tutte le restrizioni fin lì in vigore sulla libertà di movimento, circolazione ed espatrio. Ed è il pomeriggio avanzato quando viene convocata una conferenza stampa - in diretta televisiva internazionale - nella quale si illustra la svolta. Quando un giornalista italiano, Riccardo Ehrman, fa una domanda logica - «quando entreranno in vigore queste nuove disposizioni?» - il portavoce della Sed, l'imbarazzato Gunther Schabowski, risponde d'impulso: «da subito!». Gli scappa, quel von jetzt, dai precordi, dall'inconscio, proprio come se l'uomo non avesse minimamente calcolato le conseguenze di quello che tutti considerarono un annuncio storico. Si sa, la storia passa talora dalle banalità della cronaca.
E fu così che Berlino visse la sua nottata storica. E così il "socialismo reale" (non il comunismo) finiva. Senza sangue, senza violenza, senza rimpianti, cadevano ad uno ad uno i regimi di Bulgaria, Cecoslovacchia, Romania - Polonia e Ungheria avevano fatto un percorso a sé. Due anni dopo, sarebbe toccato alla Madrepatria: scompariva l'Unione sovietica, la bandiera rossa veniva ammainata dal Cremlino.
"Non abita più lì", fu il titolo (malinconico ma non rassegnato) che Luigi Pintor propose al manifesto. Non c'è dubbio: la storia, lungi dall'essere finita (come avrebbe poi detto l'incauto Fujihama), si era rimessa in moto. Ma quel che era mutato era proprio l'ordine del mondo: quello che per quasi cinquant'anni si era retto sulla spartizione di Yalta e la competizione tra est e ovest. E l'Ovest, l'occidente, il "mondo atlantico" aveva vinto la guerra. Anche su questo non c'erano dubbi.
***
Sul perché le cose siano andate così, si discute - e si continuerà a discutere - da molti anni. Ma forse un altro anniversario ci aiuta a collocare gli eventi di vent'anni fa nella loro giusta prospettiva storica: quello in cui, quarant'anni fa (più uno), era stata repressa dai carri armati sovietici la "primavera di Praga". L'ultima possibilità di autoriforma, e di riforma democratica, del socialismo orientale veniva così umiliata - finiva un sogno, chissà, e iniziava un'agonia lunga vent'anni. Quei regimi avevano smarrito ogni "forza propulsiva", ogni vero consenso, ogni possibilità di sviluppo economico - la lunga, nefanda stagione brezneviana fece allora aggio sulla guerra (gli SS-20 schierati alle frontiere) e sul deliberato saccheggio di quello che restava della ricchezza dell'Urss. Non c'erano più gli orrori dello stalinismo di Stalin, da Berlino a Mosca, solo uno stalinismo burocratico, asfittico, oppressivo, che alimentava società stagnanti, infelici, passivizzate. Non c'era più neppure la "competizione pacifica" con l'Occidente, che nel frattempo aveva scoperto le due armi davvero vincenti, la rivoluzione conservatrice del neoliberismo e la rivoluzione tecnologica.
Quando Mikhail Gorbaciov arrivò al potere, si rese conto - presumibilmente si era reso conto da tempo - che la situazione era disperata: scelse, come estremo tentativo, non la riforma economica mercatistica che molta parte dell'intelligentsja gli prescriveva, ma una riforma profonda della politica - la celebre perestrojka, la partecipazione, le elezioni libere, insomma la nascita di quella società civile che nell'Urss socialista non c'era mai stata.
Fu sconfitto, Gorbaciov - diventato nel frattempo molto più popolare all'estero che in patria - e fece sicuramente molti errori. Ma, a suo merito indiscusso, resta il carattere pacifico, nonviolento, del sommovimento che pose fine al "campo socialista". Forse il leader sovietico si illuse che, lasciando gli ex-satelliti europei al loro libero destino, avrebbe potuto salvarsi l'Unione sovietica. Forse, non potè fare altrimenti.
Ma fu lui a impedire a Honecker e alla Stasi di trasformare la rivolta dei tedeschi dell'Est in una carneficina, o in un bagno di sangue analogo a quello del '53. Fu lui a tentare di ridare credito a parole come "disarmo", "dialogo", "cooperazione pacifica" tra mondi diversi. In fondo, Gorbaciov, ultime erede della storia del '900, non avrebbe potuto essere, in nessun caso, il costruttore di un nuovo secolo, o di una nuova storia.
***
Resta, tutta addosso a noi, la storia dei vent'anni che ci stanno alle spalle. Una sequenza di sconfitte, drammaticamente concatenate l'una all'altra, che hanno finito col coinvolgere non tanto il "comunismo", ma l'esistenza stessa della sinistra. Un paradosso dal quale non riusciamo ad uscire: il crollo di quel Muro è stato un momento di liberazione, per i tedeschi e per tutti noi, ma la libertà e la liberazione, dopo, non sono arrivate.
Si è scoperto che quei sistemi in via di decomposizione, quei regimi divenuti così fragili da cadere con la velocità di un castello di carte, quel falso socialismo di burocrati profittatori e inetti, in realtà "trattenevano" l'Occidente (il capitalismo) dal dispiegare le loro peggiori tendenze. Si è ri-scoperto che il capitalismo, come sistema economico unico, non tiene in alcuna considerazione né la libertà né la vita né, tanto meno, l'eguaglianza tra le persone vice, all'opposto, di guerra permanente, patrioct act, restrizione dei diritti, abnorme diseguaglianza.
Appunto, come scrisse Franco Fortini in una bella canzone, «ricomincia qui\ quel che è stato vero un anno, un giorno\ altri nel mondo si vorranno bene \ altri lavoreranno senza pene \ altri vivranno in libertà».
"Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta". Così Walter Benjamin in uno dei suoi libri più celebri, Infanzia berlinese, scritto nel 1932, quando il grande scrittore era tornato a vivere nella città dov'era nato e cresciuto. Si era alla vigilia dell'avvento del nazismo, e le paure del piccolo ebreo che, nella Germania guglielmina di fine ottocento, si aggira inquieto e malinconico nella sua prima esplorazione esistenziale ci appaiono, a tutt'oggi, singolarmente presaghe del futuro tragico che attendeva la capitale tedesca.
Sì, perché Berlino è una città tragica - tragica e allegrissima come il '900 di cui è stata l'autentica capitale morale. Un'isola. Un microcosmo del tutto singolare. Un luogo, perciò, destinato ad esercitare sul mondo un impatto simbolico del tutto speciale. Per questo, quando Walter Ulbricht ed Erich Honecker cominciarono ad erigere, il 3 agosto 1961, il famigerato "muro antifascista" (secondo la sua dizione ufficiale), il mondo intero ebbe un sussulto. Quella gigantistica costruzione militare, alta tre metri e sessanta, larga cinquanta, lunga quarantacinque chilometri che spaccava la città e le sottraeva la Porta di Brandemburgo, suo cuore centro, andava ben oltre un atto di guerra tipico dell'epoca della guerra fredda. Chiudeva con la forza ogni speranza. Sanciva una volontà distruttiva (autodistruttiva, sadomasochista) nei confronti del popolo tedesco - e in fondo europeo.
Il muro, in realtà, non incontrò vere opposizioni nei governi occidentali: l'idea di Giulio Andreotti («E' meglio che la Germania resti divisa») era in fondo largamente condivisa. E, ad onta delle declamazioni, andava bene anche il Muro, che era la garanzia pesante che la riunificazione tedesca non si sarebbe mai fatta. Il Muro era il messaggio più chiaro che la Germania, infettata dalla lue nazista e macchiatasi della colpa epocale della shoah, doveva essere punita per sempre. E l'epicentro di questa punizione non poteva essere che Berlino.
***
Se non si tiene il debito conto di queste (o altre consimili o diverse) premesse, non si capisce lo choc prodotto dagli eventi di quella notte - la notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, quando a migliaia e migliaia i berlinesi dell'est si riversarono ad ovest a folleggiare e mangiare banane, frutto per tanti anni per loro introvabile. La fine del Muro non fu improvvisa: l'avevano preannunciata, a partire dall'estate, tanto la politica quanto la piazza. In settembre, il governo di Budapest aveva (unilateralmente) deciso di aprire le sue frontiere con l'Austria ai tedeschi dell'Est.
E la rivolta era cominciata - dapprima con epicentro a Lipsia, dove era fortissima la Chiesa evangelica, e poi via via in decine di altre città. All'inizio, Honecker reagisce con l'unico strumento che conosce, repressione e Stasi, chiusura delle frontiere.
Ma il 6 ottobre, giornata in cui si celebra il quarantesimo anniversario della Ddr, la visita di Gorbaciov a Berlino segna la svolta forse decisiva - "la storia non fa sconti ai ritardati" dirà il leader sovietico, una frase che è stata oggetto, più o meno, di un giallo (non è detto che l'abbia detta, l'ha corretta, l'ha scritta il suo portavoce…). Da quel momento in poi, tutto si sussegue a ritmo vertiginoso: la sostituzione del triste Erich Honecker col riformatore Egon Krenz (un "riformatore" giunto, però, davvero fuori tempo massimo), la crescita del movimento di protesta, la nascita di "Neues Forum", fino al 4 novembre, quando sull'Alexanderplatx si radunano oltre mezzo milione di persone. Le frontiere della Ddr con la Cecoslovacchia erano state a fortiori aperte, la libertà di circolazione è quasi conquistata - eppure, il Muro era ancora lì a significare che non era ancora stato compiuto il passo fondamentale.
Così si arriva al giorno più importante, il 9 novembre 1989. E' mattino, quando il Politburo della Sed approva una legge che abolisce, in sostanza, tutte le restrizioni fin lì in vigore sulla libertà di movimento, circolazione ed espatrio. Ed è il pomeriggio avanzato quando viene convocata una conferenza stampa - in diretta televisiva internazionale - nella quale si illustra la svolta. Quando un giornalista italiano, Riccardo Ehrman, fa una domanda logica - «quando entreranno in vigore queste nuove disposizioni?» - il portavoce della Sed, l'imbarazzato Gunther Schabowski, risponde d'impulso: «da subito!». Gli scappa, quel von jetzt, dai precordi, dall'inconscio, proprio come se l'uomo non avesse minimamente calcolato le conseguenze di quello che tutti considerarono un annuncio storico. Si sa, la storia passa talora dalle banalità della cronaca.
E fu così che Berlino visse la sua nottata storica. E così il "socialismo reale" (non il comunismo) finiva. Senza sangue, senza violenza, senza rimpianti, cadevano ad uno ad uno i regimi di Bulgaria, Cecoslovacchia, Romania - Polonia e Ungheria avevano fatto un percorso a sé. Due anni dopo, sarebbe toccato alla Madrepatria: scompariva l'Unione sovietica, la bandiera rossa veniva ammainata dal Cremlino.
"Non abita più lì", fu il titolo (malinconico ma non rassegnato) che Luigi Pintor propose al manifesto. Non c'è dubbio: la storia, lungi dall'essere finita (come avrebbe poi detto l'incauto Fujihama), si era rimessa in moto. Ma quel che era mutato era proprio l'ordine del mondo: quello che per quasi cinquant'anni si era retto sulla spartizione di Yalta e la competizione tra est e ovest. E l'Ovest, l'occidente, il "mondo atlantico" aveva vinto la guerra. Anche su questo non c'erano dubbi.
***
Sul perché le cose siano andate così, si discute - e si continuerà a discutere - da molti anni. Ma forse un altro anniversario ci aiuta a collocare gli eventi di vent'anni fa nella loro giusta prospettiva storica: quello in cui, quarant'anni fa (più uno), era stata repressa dai carri armati sovietici la "primavera di Praga". L'ultima possibilità di autoriforma, e di riforma democratica, del socialismo orientale veniva così umiliata - finiva un sogno, chissà, e iniziava un'agonia lunga vent'anni. Quei regimi avevano smarrito ogni "forza propulsiva", ogni vero consenso, ogni possibilità di sviluppo economico - la lunga, nefanda stagione brezneviana fece allora aggio sulla guerra (gli SS-20 schierati alle frontiere) e sul deliberato saccheggio di quello che restava della ricchezza dell'Urss. Non c'erano più gli orrori dello stalinismo di Stalin, da Berlino a Mosca, solo uno stalinismo burocratico, asfittico, oppressivo, che alimentava società stagnanti, infelici, passivizzate. Non c'era più neppure la "competizione pacifica" con l'Occidente, che nel frattempo aveva scoperto le due armi davvero vincenti, la rivoluzione conservatrice del neoliberismo e la rivoluzione tecnologica.
Quando Mikhail Gorbaciov arrivò al potere, si rese conto - presumibilmente si era reso conto da tempo - che la situazione era disperata: scelse, come estremo tentativo, non la riforma economica mercatistica che molta parte dell'intelligentsja gli prescriveva, ma una riforma profonda della politica - la celebre perestrojka, la partecipazione, le elezioni libere, insomma la nascita di quella società civile che nell'Urss socialista non c'era mai stata.
Fu sconfitto, Gorbaciov - diventato nel frattempo molto più popolare all'estero che in patria - e fece sicuramente molti errori. Ma, a suo merito indiscusso, resta il carattere pacifico, nonviolento, del sommovimento che pose fine al "campo socialista". Forse il leader sovietico si illuse che, lasciando gli ex-satelliti europei al loro libero destino, avrebbe potuto salvarsi l'Unione sovietica. Forse, non potè fare altrimenti.
Ma fu lui a impedire a Honecker e alla Stasi di trasformare la rivolta dei tedeschi dell'Est in una carneficina, o in un bagno di sangue analogo a quello del '53. Fu lui a tentare di ridare credito a parole come "disarmo", "dialogo", "cooperazione pacifica" tra mondi diversi. In fondo, Gorbaciov, ultime erede della storia del '900, non avrebbe potuto essere, in nessun caso, il costruttore di un nuovo secolo, o di una nuova storia.
***
Resta, tutta addosso a noi, la storia dei vent'anni che ci stanno alle spalle. Una sequenza di sconfitte, drammaticamente concatenate l'una all'altra, che hanno finito col coinvolgere non tanto il "comunismo", ma l'esistenza stessa della sinistra. Un paradosso dal quale non riusciamo ad uscire: il crollo di quel Muro è stato un momento di liberazione, per i tedeschi e per tutti noi, ma la libertà e la liberazione, dopo, non sono arrivate.
Si è scoperto che quei sistemi in via di decomposizione, quei regimi divenuti così fragili da cadere con la velocità di un castello di carte, quel falso socialismo di burocrati profittatori e inetti, in realtà "trattenevano" l'Occidente (il capitalismo) dal dispiegare le loro peggiori tendenze. Si è ri-scoperto che il capitalismo, come sistema economico unico, non tiene in alcuna considerazione né la libertà né la vita né, tanto meno, l'eguaglianza tra le persone vice, all'opposto, di guerra permanente, patrioct act, restrizione dei diritti, abnorme diseguaglianza.
Appunto, come scrisse Franco Fortini in una bella canzone, «ricomincia qui\ quel che è stato vero un anno, un giorno\ altri nel mondo si vorranno bene \ altri lavoreranno senza pene \ altri vivranno in libertà».
7.11.09
Ocse. Ripresa effimera
di Galapagos
Prudenti previsioni d’un possibile miglioramento della congiuntura. Ma la crisi è solo congiunturale?
Da Parigi l'Ocse ci ha informati che il superindice dell'economia (una sorta di termometro) rileva «forti segnali di crescita in Italia, Francia, Gran Bretagna e Cina». A palazzo Chigi, Berlusconi come una molla ha rilanciato il dato Ocse e i suoi fedeli hanno calcato la mano, sostenendo che la sinistra dovrebbe vergognarsi di spargere allarmismo e riconoscere la bontà dell'azione di governo che sta portando l'Italia fuori delle secche della crisi.
Nessun dubbio che i dati Ocse siano positivi. Ma l'organizzazione parigina dice anche: stiamo attenti. E chiede di leggere i dati con cautela perché - è la sintesi - potrebbero nascondere non tanto una forte crescita, ma una crescita modesta rispetto al potenziale di lungo termine. Come dire: non c'è solo «un miglioramento dell'attività economica», ma più verosimilmente un attenuarsi del sentiero di crescita. Insomma, l'economia torna a salire, ma a livelli infimi. E non a caso, l'Italia tornerà - se tutto va bene - agli stessi livelli del Pil del 2007 soltanto nel 2013.
Sostiene l'Ocse che «una ripresa è chiaramente visibile negli Stati uniti». Vero: lo conferma il dato positivo del Pil nel terzo trimestre. Ma non tutto fila liscio e la conferma è arrivata ieri: in ottobre sono stati distrutti altri 190 mila posti di lavoro e le persone in cerca di occupazione sono ulteriormente aumentate, toccando quota 15,7 milioni, 558 mila in più in un solo mese. Il comunicato diffuso dal dipartimento al lavoro ci dice che dall'inizio della recessione (dicembre 2007) sono stati distrutti 8,2 milioni di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è salito al 10,2%.
Alcuni giorni fa, dagli Usa avevamo anche saputo che la produttività sta salendo a ritmi pazzeschi, mentre i salari stanno diminuendo. Bene per i profitti, malissimo per l'economia. Non solo per gli effetti sociali, ma anche per quelli più economici: la crescente disoccupazione e la riduzione dei salari, stanno portando a una contrazione della domanda, esaltata solo da quella dei consumi di «lusso». Anche gli investimenti ristagnano: perché quando la domanda di consumi è bassa, la produttività in crescita e la capacità produttiva inutilizzata a livelli storicamente molto alti, le imprese non sentono il bisogno di investire.
Noriel Roubini, l'unico economista ad aver previsto la crisi, nei giorni scorsi con un saggio (pubblicato in Italia da Sole 24 ore) ha messo in guardia da questo tipo di ripresa e dalle follie finanziarie che stanno gonfiando nuove bolle speculative. Il messaggio è chiaro: senza una ripresa dell'economia reale, questa (ripresa) sarà effimera, di breve durata. Ma come fare per consolidarla, senza ripercorrere il vecchio modello di sviluppo che inevitabilmente condurrà a nuove crisi? Per Keynes certe decisioni di investimento non possono essere lasciate in mano al capitale privato. Senza essere così «estremisti» e pretendere la socializzazione dei mezzi di produzione, di spazio per la mano pubblica ce n'è in abbondanza. Per favorire la ripresa dell'accumulazione privata, sostituirla, se assente (anziché tagliare risorse come per la banda larga) e stimolare i consumi pubblici.
Prudenti previsioni d’un possibile miglioramento della congiuntura. Ma la crisi è solo congiunturale?
Da Parigi l'Ocse ci ha informati che il superindice dell'economia (una sorta di termometro) rileva «forti segnali di crescita in Italia, Francia, Gran Bretagna e Cina». A palazzo Chigi, Berlusconi come una molla ha rilanciato il dato Ocse e i suoi fedeli hanno calcato la mano, sostenendo che la sinistra dovrebbe vergognarsi di spargere allarmismo e riconoscere la bontà dell'azione di governo che sta portando l'Italia fuori delle secche della crisi.
Nessun dubbio che i dati Ocse siano positivi. Ma l'organizzazione parigina dice anche: stiamo attenti. E chiede di leggere i dati con cautela perché - è la sintesi - potrebbero nascondere non tanto una forte crescita, ma una crescita modesta rispetto al potenziale di lungo termine. Come dire: non c'è solo «un miglioramento dell'attività economica», ma più verosimilmente un attenuarsi del sentiero di crescita. Insomma, l'economia torna a salire, ma a livelli infimi. E non a caso, l'Italia tornerà - se tutto va bene - agli stessi livelli del Pil del 2007 soltanto nel 2013.
Sostiene l'Ocse che «una ripresa è chiaramente visibile negli Stati uniti». Vero: lo conferma il dato positivo del Pil nel terzo trimestre. Ma non tutto fila liscio e la conferma è arrivata ieri: in ottobre sono stati distrutti altri 190 mila posti di lavoro e le persone in cerca di occupazione sono ulteriormente aumentate, toccando quota 15,7 milioni, 558 mila in più in un solo mese. Il comunicato diffuso dal dipartimento al lavoro ci dice che dall'inizio della recessione (dicembre 2007) sono stati distrutti 8,2 milioni di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è salito al 10,2%.
Alcuni giorni fa, dagli Usa avevamo anche saputo che la produttività sta salendo a ritmi pazzeschi, mentre i salari stanno diminuendo. Bene per i profitti, malissimo per l'economia. Non solo per gli effetti sociali, ma anche per quelli più economici: la crescente disoccupazione e la riduzione dei salari, stanno portando a una contrazione della domanda, esaltata solo da quella dei consumi di «lusso». Anche gli investimenti ristagnano: perché quando la domanda di consumi è bassa, la produttività in crescita e la capacità produttiva inutilizzata a livelli storicamente molto alti, le imprese non sentono il bisogno di investire.
Noriel Roubini, l'unico economista ad aver previsto la crisi, nei giorni scorsi con un saggio (pubblicato in Italia da Sole 24 ore) ha messo in guardia da questo tipo di ripresa e dalle follie finanziarie che stanno gonfiando nuove bolle speculative. Il messaggio è chiaro: senza una ripresa dell'economia reale, questa (ripresa) sarà effimera, di breve durata. Ma come fare per consolidarla, senza ripercorrere il vecchio modello di sviluppo che inevitabilmente condurrà a nuove crisi? Per Keynes certe decisioni di investimento non possono essere lasciate in mano al capitale privato. Senza essere così «estremisti» e pretendere la socializzazione dei mezzi di produzione, di spazio per la mano pubblica ce n'è in abbondanza. Per favorire la ripresa dell'accumulazione privata, sostituirla, se assente (anziché tagliare risorse come per la banda larga) e stimolare i consumi pubblici.
Etichette:
Galapagos,
il manifesto,
Ocse,
ripresa Italia
Il paese dei nonostante
di Roberto Cotroneo
Non si può che apprezzare quanto dice l'Ocse sull'Italia. Ovvero che l'Italia è il Paese che mostra l'incremento economico maggiore su base annua (+10,8 punti), con un'economia giudicata "in espansione", mentre su base mensile si registra un +1,3. Va bene che abbiamo superato il Pil della Gran Bretagna e bisogna dare atto a Giulio Tremonti che il tempo gli ha dato ragione. Solo che questo è un inizio che ha bisogno di interventi radicali e molto forti. Ce la stiamo facendo, e secondo l'Istat le famiglie italiane tornano ad avere fiducia, ma con una serie di nonostante che vanno analizzati e vagliati. Nonostante un'economia sommersa al sud che si appoggia in buona parte alla malavita organizzata e strozza e toglie aria e possibilità a una parte del paese. Nonostante una evasione fiscale impressionante, che non ha paragoni con nessun paese civile del mondo, e che non può essere più tollerabile. Nonostante una volontà di progettare il futuro pari a zero sulle cose che contano: sulla ricerca, soprattutto, e sull'innovazione tecnologica. Nonostante il voler trasferire il peso, il centro dell'ossatura economica del paese, in quella piccola e media (ma più piccola che media) industria che è certamente una risorsa per il paese, ma non contribuisce a farlo crescere. E questo per mentalità, per cultura e per assenza di know how. Ma soprattutto nonostante una scuola e una università per buona parte inadeguata dagli anni Settanta in poi a formare talenti e classi dirigenti nel nostro paese.I nonostante che sto elencando hanno colpe antiche, e non certo colpe recenti. Ora bisogna responsabilmente mettersi tutti a lavorare per il futuro, nei settori della creatività e della new economy. Basta andarsi a leggere con attenzione un documento del "Departement for culture, media and sport" del Governo Britannico che si intitola: "New Talents for the New Economy". Ottanta pagine fitte e interessantissime, introdotte da Gordon Brown, per capire come indirizzare i talenti del paese, e come dare slancio e rilancio all'economia. Basti rileggersi i saggi di Richard Florida sulle tre "T": talent, technology and tolerance, per capire dove si dovrebbe andare. Ma intanto, come dicevamo ieri, l'espansione della banda larga viene completamente tagliata dal Governo. E la modernità culturale di questo paese può aspettare.
Non si può che apprezzare quanto dice l'Ocse sull'Italia. Ovvero che l'Italia è il Paese che mostra l'incremento economico maggiore su base annua (+10,8 punti), con un'economia giudicata "in espansione", mentre su base mensile si registra un +1,3. Va bene che abbiamo superato il Pil della Gran Bretagna e bisogna dare atto a Giulio Tremonti che il tempo gli ha dato ragione. Solo che questo è un inizio che ha bisogno di interventi radicali e molto forti. Ce la stiamo facendo, e secondo l'Istat le famiglie italiane tornano ad avere fiducia, ma con una serie di nonostante che vanno analizzati e vagliati. Nonostante un'economia sommersa al sud che si appoggia in buona parte alla malavita organizzata e strozza e toglie aria e possibilità a una parte del paese. Nonostante una evasione fiscale impressionante, che non ha paragoni con nessun paese civile del mondo, e che non può essere più tollerabile. Nonostante una volontà di progettare il futuro pari a zero sulle cose che contano: sulla ricerca, soprattutto, e sull'innovazione tecnologica. Nonostante il voler trasferire il peso, il centro dell'ossatura economica del paese, in quella piccola e media (ma più piccola che media) industria che è certamente una risorsa per il paese, ma non contribuisce a farlo crescere. E questo per mentalità, per cultura e per assenza di know how. Ma soprattutto nonostante una scuola e una università per buona parte inadeguata dagli anni Settanta in poi a formare talenti e classi dirigenti nel nostro paese.I nonostante che sto elencando hanno colpe antiche, e non certo colpe recenti. Ora bisogna responsabilmente mettersi tutti a lavorare per il futuro, nei settori della creatività e della new economy. Basta andarsi a leggere con attenzione un documento del "Departement for culture, media and sport" del Governo Britannico che si intitola: "New Talents for the New Economy". Ottanta pagine fitte e interessantissime, introdotte da Gordon Brown, per capire come indirizzare i talenti del paese, e come dare slancio e rilancio all'economia. Basti rileggersi i saggi di Richard Florida sulle tre "T": talent, technology and tolerance, per capire dove si dovrebbe andare. Ma intanto, come dicevamo ieri, l'espansione della banda larga viene completamente tagliata dal Governo. E la modernità culturale di questo paese può aspettare.
1.11.09
Lotta continua, la lotta è sfinita
Oreste Pivetta
«Fuori tempo. Le iscrizioni sono chiuse», mi risponde Erri De Luca che vigilava sulla salute fisica di Lotta Continua. Il biblista napoletano era capo del servizio d’ordine. Con il giornale di Sofri, Viale, Langer, Deaglio, fondato il primo novembre del 1969, è successo come per il Mondo di Pannunzio. Quando si celebrò il cinquantennale del primo numero fu una corsa a iscriversi: non v’era giornalista in Italia che non vi avesse collaborato. Un po’ così è accaduto per Lc, militanti e giornalisti, militanti o giornalisti, qualche decennio dopo, a funerali avvenuti, a bandiere della nostalgia dispiegate. Wikipedia ha compilato l’elenco, sbagliato. Ovviamente ignorando la «base», che doveva essere tutto. «Dall’alto o dal basso? Dal basso, dal basso!», recitava un titolo del quotidiano. Ovviamente è rimasto l’alto, qualcuno in posizioni che si definirebbero sommamente incoerenti rispetto al passato: che ci fa Ninì Briglia dalle parti di Mediaset? Del basso vi è debole traccia nelle, prime, ricostruzione storiche (vedi il libro di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio appena pubblicato da Feltrinelli). Ma non sappiamo ancora nulla del compagno operaio che parlò ai cancelli della Fiat il giorno del rapimento di Aldo Moro. Lotta Continua fu strenuamente trattativista.
Sarebbe stato utile almeno conoscere uno per uno i quattrocento che un paio di domeniche fa - come mi racconta Guido Viale - si ritrovarono a Pescara per festeggiare con Enrico Deaglio il quarantennale. Quattrocento: un buon numero per ricominciare. Adriano Sofri, che non vuol ricordare, mi dice almeno: «Ricomincerei da capo». Guido Viale, il primo «saggista» del Movimento studentesco (sulle pagine però dei Quaderni Piacentini), non ricomincerebbe: «Non lo rifarei. C’è altro da fare adesso, anche se non mi sento di certo un pentito. Sono stato anche il primo condannato, come primo proprietario della testata, per un volantino allegato al giornale. Si parlava male della Fiat. Venni assolto in appello. Il merito di Lotta continua fu quello di interpretare meglio di altri lo spirito dei tempi. Anche quel motto maoista: ribellarsi è giusto. Significava raccogliere la spinta antiautoritaria, contro le gerarchie e le accademie, dar corpo a quella che veniva definita la lunga marcia attraverso le istituzioni: l’università, gli ospedali, le carceri, i manicomi, l’esercito, persino la polizia...».
E fu un gran risultato ad esempio la nascita del sindacato di polizia. «Eravamo meno dottrinari di altri gruppi, che avevano aderito alla vulgata marxista alcuni banalmente altri per snobismo teorico, come il Manifesto e Potere operaio... È vero quello che diceva Silverio Corvisieri e che ripresi in un libro: Lotta continua è soprattutto uno stato d’animo. Lotta continua era anche l’espressione di una forma d’amicizia tra chi condivideva una medesima condizione e medesimi bisogni, secondo una sensibilità che valorizzava la dimensione umana della politica. Se c’è stato un Sessantotto bello, abbiamo dato voce a quel Sessantotto». Guido Viale mi racconta una parte di verità. La lettura postuma del giornale ce ne presenta altre. Metti ad esempio un titolo come il seguente: «Il compagno Mao Tse Tung è morto. I proletari di tutto il mondo gli rendono omaggio con la più grande commozione, ma anche con orgoglio e gioia, perché nella sua vita trovano conferme delle possibilità di contare su se stessi e liberarsi della fame, dalla guerra, dallo sfruttamento, dalle idee false. La vita di un grande rivoluzionario, una inesauribile fonte di insegnamento».
Tutto d’un fiato. Per giustizia si dovrà ricordare che una decina di giorni dopo veniva pubblicata una intervista a Gianni Sofri, il professore esperto di questioni internazionali, che più di una perplessità elencava a proposito dei misteri del dopo Mao. Ne dovrà passare dell’acqua sotto i ponti prima di veder scritto in prima pagina il titolo più bello di Lotta Continua: «È rimorto il Papa». Era il 1978 e a Paolo VI era succeduto Albino Luciani. Testimonia Enrico Deaglio: «Sentimmo: è rimorto il Papa. Era il nostro amministratore, Claudio Brunaccioli, viareggino di tempra assai dissacrante». Deaglio vanta anche le prime rivelazioni sull’esistenza della P2 e del suo capo, Licio Gelli (quattro puntate di una inchiesta di Marco Ventura) e il primo inviato a Teheran ai tempi della rivoluzione khomeinista (Carlo Panella). Pare che all’epoca Lotta continua vendesse più di Repubblica. Questione politica, di tensione politica di quegli anni, di contenuti, di linguaggio, in un’alternanza un po’ schizofrenica tra comunicati del partito e resoconti degli interventi dei leader e cronache di vita quotidiana. «Mi presentai a Lotta continua - ricorda Giovanni De Luna - con un articolo dedicato ad Agostino o’pazzo, il motociclista napoletano che terrorizzava la città. Viale lo lesse e me lo restituì: riscrivilo. Mi spiegò che dovevamo sforzarci ad una scrittura semplice, via il politichese, via i termini colti».
Gad Lerner, tra i più giovani, fu protagonista della stagione più vivace di Lotta Continua: «Chiuso il partito ci si poteva muovere con ben altra autonomia. Si poteva tornare creativi, anche scoprendo tematiche lontane dalla nostra tradizione politica e forme più spregiudicate. Ad esempio l’uso del titolo ironico. Il Male nacque come inserto di Lotta continua. Per cui diventammo oggetto di racconto anche da parte degli altri giornalisti, che spesso venivano a trovarci in redazione. Eravamo un campione. Il nodo fu la violenza, lo scontro tra le diverse anime del movimento. Noi fummo definiti “umanitari”». Lerner a quel punto se ne andò. Il tema della violenza torna nella voce critica di Guido Crainz, lo storico dell’Italia del dopoguerra, perché i movimenti collettivi della sinistra non seppero porre un argine: «I gruppi extraparlamentari nascono con un deficit di cultura democratica, nel disprezzo delle regole, in una affermazione di individualismo a scapito del rispetto della collettività e delle sue norme». Il professore ex di Lotta continua, che nel ’76 ci spiegava: «Il marxismo insegna a contare sulle nostre forze anche in campo teorico», adesso ci ammonisce: «Se concentriamo lo sguardo su Lotta Continua non capiremo nulla di quegli anni». «La via è tortuosa, ma l’orizzonte è rosa». Purtroppo non fu così. Ultimo numero nel 1982: dedicato alla vittoria italiana ai mondiali di calcio.
«Fuori tempo. Le iscrizioni sono chiuse», mi risponde Erri De Luca che vigilava sulla salute fisica di Lotta Continua. Il biblista napoletano era capo del servizio d’ordine. Con il giornale di Sofri, Viale, Langer, Deaglio, fondato il primo novembre del 1969, è successo come per il Mondo di Pannunzio. Quando si celebrò il cinquantennale del primo numero fu una corsa a iscriversi: non v’era giornalista in Italia che non vi avesse collaborato. Un po’ così è accaduto per Lc, militanti e giornalisti, militanti o giornalisti, qualche decennio dopo, a funerali avvenuti, a bandiere della nostalgia dispiegate. Wikipedia ha compilato l’elenco, sbagliato. Ovviamente ignorando la «base», che doveva essere tutto. «Dall’alto o dal basso? Dal basso, dal basso!», recitava un titolo del quotidiano. Ovviamente è rimasto l’alto, qualcuno in posizioni che si definirebbero sommamente incoerenti rispetto al passato: che ci fa Ninì Briglia dalle parti di Mediaset? Del basso vi è debole traccia nelle, prime, ricostruzione storiche (vedi il libro di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio appena pubblicato da Feltrinelli). Ma non sappiamo ancora nulla del compagno operaio che parlò ai cancelli della Fiat il giorno del rapimento di Aldo Moro. Lotta Continua fu strenuamente trattativista.
Sarebbe stato utile almeno conoscere uno per uno i quattrocento che un paio di domeniche fa - come mi racconta Guido Viale - si ritrovarono a Pescara per festeggiare con Enrico Deaglio il quarantennale. Quattrocento: un buon numero per ricominciare. Adriano Sofri, che non vuol ricordare, mi dice almeno: «Ricomincerei da capo». Guido Viale, il primo «saggista» del Movimento studentesco (sulle pagine però dei Quaderni Piacentini), non ricomincerebbe: «Non lo rifarei. C’è altro da fare adesso, anche se non mi sento di certo un pentito. Sono stato anche il primo condannato, come primo proprietario della testata, per un volantino allegato al giornale. Si parlava male della Fiat. Venni assolto in appello. Il merito di Lotta continua fu quello di interpretare meglio di altri lo spirito dei tempi. Anche quel motto maoista: ribellarsi è giusto. Significava raccogliere la spinta antiautoritaria, contro le gerarchie e le accademie, dar corpo a quella che veniva definita la lunga marcia attraverso le istituzioni: l’università, gli ospedali, le carceri, i manicomi, l’esercito, persino la polizia...».
E fu un gran risultato ad esempio la nascita del sindacato di polizia. «Eravamo meno dottrinari di altri gruppi, che avevano aderito alla vulgata marxista alcuni banalmente altri per snobismo teorico, come il Manifesto e Potere operaio... È vero quello che diceva Silverio Corvisieri e che ripresi in un libro: Lotta continua è soprattutto uno stato d’animo. Lotta continua era anche l’espressione di una forma d’amicizia tra chi condivideva una medesima condizione e medesimi bisogni, secondo una sensibilità che valorizzava la dimensione umana della politica. Se c’è stato un Sessantotto bello, abbiamo dato voce a quel Sessantotto». Guido Viale mi racconta una parte di verità. La lettura postuma del giornale ce ne presenta altre. Metti ad esempio un titolo come il seguente: «Il compagno Mao Tse Tung è morto. I proletari di tutto il mondo gli rendono omaggio con la più grande commozione, ma anche con orgoglio e gioia, perché nella sua vita trovano conferme delle possibilità di contare su se stessi e liberarsi della fame, dalla guerra, dallo sfruttamento, dalle idee false. La vita di un grande rivoluzionario, una inesauribile fonte di insegnamento».
Tutto d’un fiato. Per giustizia si dovrà ricordare che una decina di giorni dopo veniva pubblicata una intervista a Gianni Sofri, il professore esperto di questioni internazionali, che più di una perplessità elencava a proposito dei misteri del dopo Mao. Ne dovrà passare dell’acqua sotto i ponti prima di veder scritto in prima pagina il titolo più bello di Lotta Continua: «È rimorto il Papa». Era il 1978 e a Paolo VI era succeduto Albino Luciani. Testimonia Enrico Deaglio: «Sentimmo: è rimorto il Papa. Era il nostro amministratore, Claudio Brunaccioli, viareggino di tempra assai dissacrante». Deaglio vanta anche le prime rivelazioni sull’esistenza della P2 e del suo capo, Licio Gelli (quattro puntate di una inchiesta di Marco Ventura) e il primo inviato a Teheran ai tempi della rivoluzione khomeinista (Carlo Panella). Pare che all’epoca Lotta continua vendesse più di Repubblica. Questione politica, di tensione politica di quegli anni, di contenuti, di linguaggio, in un’alternanza un po’ schizofrenica tra comunicati del partito e resoconti degli interventi dei leader e cronache di vita quotidiana. «Mi presentai a Lotta continua - ricorda Giovanni De Luna - con un articolo dedicato ad Agostino o’pazzo, il motociclista napoletano che terrorizzava la città. Viale lo lesse e me lo restituì: riscrivilo. Mi spiegò che dovevamo sforzarci ad una scrittura semplice, via il politichese, via i termini colti».
Gad Lerner, tra i più giovani, fu protagonista della stagione più vivace di Lotta Continua: «Chiuso il partito ci si poteva muovere con ben altra autonomia. Si poteva tornare creativi, anche scoprendo tematiche lontane dalla nostra tradizione politica e forme più spregiudicate. Ad esempio l’uso del titolo ironico. Il Male nacque come inserto di Lotta continua. Per cui diventammo oggetto di racconto anche da parte degli altri giornalisti, che spesso venivano a trovarci in redazione. Eravamo un campione. Il nodo fu la violenza, lo scontro tra le diverse anime del movimento. Noi fummo definiti “umanitari”». Lerner a quel punto se ne andò. Il tema della violenza torna nella voce critica di Guido Crainz, lo storico dell’Italia del dopoguerra, perché i movimenti collettivi della sinistra non seppero porre un argine: «I gruppi extraparlamentari nascono con un deficit di cultura democratica, nel disprezzo delle regole, in una affermazione di individualismo a scapito del rispetto della collettività e delle sue norme». Il professore ex di Lotta continua, che nel ’76 ci spiegava: «Il marxismo insegna a contare sulle nostre forze anche in campo teorico», adesso ci ammonisce: «Se concentriamo lo sguardo su Lotta Continua non capiremo nulla di quegli anni». «La via è tortuosa, ma l’orizzonte è rosa». Purtroppo non fu così. Ultimo numero nel 1982: dedicato alla vittoria italiana ai mondiali di calcio.
Iscriviti a:
Post (Atom)