30.6.10

L'anello di congiunzione tra i boss e il Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO

Una sentenza ripete per la seconda volta, in appello, una verità tragica: Marcello Dell'Utri, l'uomo che ha accompagnato passo dopo passo, curva dopo curva, tutt'intera l'avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi è stato un amico dei mafiosi, l'anello di un sistema criminale, il facilitatore a Milano degli affari e delle pretese delle "famiglie" di Palermo, prima del 1980. Dei Corleonesi, almeno fino al 1992 quando cadono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.


Se sarà confermata dal giudizio della Cassazione, è una "verità" tragica perché ricorda quanto le fortune del Cavaliere abbiano incrociato e si siano sovrapposte agli interessi mafiosi e rammenta come - ancora oggi - possa essere vigoroso il potere di ricatto di Cosa Nostra su chi governa, sui soci di Berlusconi, forse sullo stesso capo del governo. È stupefacente, alla luce di queste osservazioni, il vivamaria che minimizza, ridimensiona, sdrammatizza l'esito della sentenza di Palermo. Come naufraghi al legno, ci si aggrappa - uno per tutti, lo spudorato Minzolini retribuito con pubblico denaro - alla riduzione della pena di due anni. Dai nove del primo grado ai sette anni di oggi, contro gli undici chiesti dall'accusa in appello. La decisione della corte conclude infatti che "dal 1992 ad oggi, il fatto (il soccorso offerto da Dell'Utri a Cosa Nostra) non sussiste". Prima di affrontare ciò che la sentenza esclude, è un obbligo esaminare ciò che i giudici confermano.

Per farlo, è utile riproporre, liberato dal groviglio di gerundi, il capo di imputazione che la sentenza approva e punisce. Sono parole così chiare e aspre che saranno accantonate per prime dal dibattito pubblico e dai ministri del culto di Arcore.

Dunque, si legge nel capo di imputazione: Marcello dell'Utri ha "concorso nelle attività dell'associazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa. Mette a disposizione dell'associazione l'influenza e il potere della sua posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale, nonché le relazioni intessute nel corso della sua attività. Partecipa in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all'espansione dell'associazione. Così ad esempio, partecipa personalmente a incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali vengono discusse condotte funzionali agli interessi dell'organizzazione. Intrattiene rapporti continuativi con l'associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo del sodalizio criminale, tra i quali Stefano Bontate, Girolamo Teresi, Ignazio Pullarà, Giovanbattista Pullarà, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà, Giuseppe Di Napoli, Pietro Di Napoli, Raffaele Ganci, Salvatore Riina. Provvede a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione. Pone a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Rafforza la potenzialità criminale dell'organizzazione in quanto, tra l'altro, determina nei capi di Cosa Nostra la consapevolezza della responsabilità di Dell'Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte a influenzare - a vantaggio dell'associazione - individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo di Cosa Nostra), Milano e altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982".

Di questo parliamo. Di un uomo che, a disposizione della mafia, è stato l'"intermediario" fra Cosa Nostra e il gruppo di Silvio Berlusconi. La ricostruzione che la corte approva e condivide è precisa. Marcello Dell'Utri media e risolve, di volta in volta, i conflitti nati tra le ambizioni di Cosa Nostra e la disponibilità di Berlusconi. Anzi, proprio il suo compito di "artefice delle soluzioni" gli permette di occupare un ruolo decisivo alla destra del Capo. Il ruolo di Dell'Utri va scorto e compreso nella relazione tra le pressioni scaricate dai mafiosi su Berlusconi e le mediazioni e gli incontri organizzati da Dell'Utri. Il patron di Fininvest, negli anni Settanta, è minacciato di sequestro (si tenta di rapire a mo' di dimostrazione un suo ospite). Gli piazzano una bomba in via Rovani nel 1975 e ancora nel 1986. Negli anni Novanta tocca alla Standa subire in Sicilia, a Catania, un rosario di attentati. Ora alla sequela di pressioni, minacce, intimidazioni, che la mafia scatena per condizionare il Cavaliere, entrare in contatto con lui, "spremerlo", bisogna sovrapporre il lavorio d'ambasciatore di Dell'Utri se si vuole valutarne il ruolo. Organizza l'incontro tra Berlusconi e i "mammasantissima" Stefano Bontate e Mimmo Teresi per "rassicurarlo" dal pericolo dei sequestri. Fa assumere Vittorio Mangano ad Arcore, come fattore, per cementare "un accordo di convivenza con Cosa Nostra". Cerca di capire che cosa accade e che cosa si nasconde dietro l'attentato a via Rovani. Incontra, nel 1990, i capimafia catanesi e, soprattutto, Nitto Santapola, della combriccola il più pericoloso, per risolvere i problemi degli attentati alla Standa (dopo quell'incontro, non ci saranno più bombe). Sono fatti che oggi, dopo la sentenza di Palermo, devono dirsi documentati (il giudizio della Cassazione è soltanto di legittimità). Il quadro probatorio avrebbe potuto essere più dettagliato e significativo se Silvio Berlusconi ("vittima di quelle minacce, di quelle intimidazioni, di quelle pressioni") non si fosse avvalso della facoltà di non rispondere rifiutando il suo contributo di verità per chiarire - per dire - l'assunzione e l'allontanamento di Vittorio Mangano da Arcore; i suoi rapporti con Dell'Utri; gli anomali movimenti di denaro nelle casse della holding del gruppo Fininvest in coincidenza con la volontà delle famiglie di Palermo di investire a Milano.

Questa narrazione ha superato ora il vaglio del giudizio di appello (definitivo per il merito dei fatti) e legittima una prima conclusione: la sentenza di Palermo non dice soltanto di Dell'Utri, racconta anche di Berlusconi perché conferma quella sorta di "assicurazione" con la mafia che il Cavaliere sottoscrive ingaggiando e promuovendo il suo ex-segretario personale e compagno di studi. Non c'è dubbio che, con questo risultato, Berlusconi paga in Italia e nel mondo un prezzo molto imbarazzante al suo passato. Un onere non giudiziario, ma un costo decisivo, politico e d'immagine. Perché se si assemblano le tessere raccolte in questi anni emerge con sempre maggiore nitidezza, e nonostante l'ostinatissima distruzione della macchina giudiziaria, quali sono il fondo, le leve, le pratiche e i comprimari del successo di Silvio Berlusconi, dove Dell'Utri è soltanto un tassello, una delle concatenazioni oscure della sua fortuna, la più disonorevole forse, ma non la sola. Il puzzle è questo. Il Cesare di Arcore ha corrotto un testimone (Mills) che lo salva da una condanna, anzi da due (prescritto). Ha comprato un giudice (Metta) e la sentenza che gli hanno portato in dote la Mondadori (prescritto). Ha finanziato illecitamente il Psi di Bettino Craxi che gli ha scritto i televisivi decreti leggi ad personam (prescritto). Ha falsificato per 1500 miliardi i bilanci della Fininvest (prescritto). Ha manipolato i bilanci sui diritti-tv tra il 1988 e il 1992 (prescritto). Già potrebbe bastare e invece, alla sua sinistra, agisce (ancora oggi) un avvocato (Previti) condannato per la corruzione dei giudici e, alla sua destra, (ancora oggi) c'è un uomo (Dell'Utri) a disposizione degli interessi mafiosi. Questo è il triste tableau che accompagna Silvio Berlusconi e il malcostume e gli illegalismi che lo circondano - da Scajola a Lunardi, da Bertolaso a Brancher - non ne sono che un ragionato riflesso.

I corifei possono anche strepitare e manipolare i fatti. La scena - tragica per il Paese - non può essere temperata o adulterata dalla riduzione della condanna di Dell'Utri di due anni né dalla conclusione della corte di Palermo di considerare l'insussistenza del concorso in associazione mafiosa "dal 1992 in poi". Bisognerà attendere le motivazioni per valutare questa decisione che colora di nero la silhouette del "Berlusconi imprenditore" liberando da ogni dubbio e responsabilità (sembra) il "Berlusconi politico". La contraddizione non può far felice il capo del governo. L'imprenditore passerà alla storia come il boss di una banda di criminali. Il politico dovrà guardarsi da un'incoerenza giudiziaria che stimolerà - più che deprimere - le inchieste sulla trattativa tra Stato e Mafia, avviata con le stragi del 1992 e accompagnata dalle bombe del 1993.

Ciò che si dice e ciò che si fa

Intervista di Lanfranco Palazzolo a Elio Veltri ("Voce Repubblicana")

Elio Veltri, ex vicepresidente dell'Idv, dice di non nutrire alcun rancore nei confronti di Di Pietro dopo le note vicende

Onorevole Veltri, cosa può dire delle polemiche scoppiate dopo l'avviso di garanzia ricevuto dal leader dell'Ido Antonio Di Pietro per truffa, che riguardano l'Associazione Italia dei valori? Da quanto tempo aveva denunciato quei fatti?

"Ci sono stati due fatti avvenuti in tempi diversi. Sono state dette delle inesattezze. Il primo problema con Di Pietro è sorto con le elezioni politiche del 2004, quando un raggruppamento politico con me, Achille Occhetto, Giulietto Chiesa e Diego Novelli, ha farlo un accordo per le Europee con la lista Di Pietro-Occhetto. Le elezioni sono andate male: abbiamo avuto solo il 2,1%. A quel punto abbiamo pensato che il finanziamento pubblico andasse a tutti e due i raggruppamenti. Invece il finanziamento pubblico lo ha preso l'Italia dei valori perché avevamo date una delega a riscuoterlo all'Idv. Ma la delega non era perché dovevano prenderselo tutto. Io non avrei dovuto presentarmi a quelle elezioni perché ero uscito dall'Idv nel 2001. Per questa vicenda, io, Giulietto Chiesa e Achille Occhetto abbiamo promosso due cause civili non concluse. E questo è un fatto".

La sua denuncia in cosa consiste?

"Io ho fatto una denuncia penale per la gestione dei finanziamenti dell'Italia dei valori. La gestione viene svolta da un'associazione privata, costituita da tre persone. Nella trasmissione '8 e mezzo' Antonio Di Pietro ha negato che ci sia questa associazione. Basta andare a vedere –non capisco perché i giornalisti non lo facciano – lo statuto di questa associazione, dove c'è scritto tutto chiaramente. L'associazione è stata fondata nel 2000 - nel 2000 io ero vicepresidente dell'Idv - con una delega davanti al notaio. Di quell'associazione a tre non sapevo niente. In quell'associazione si può entrare solo con il placet dei presidente, che è anche presidente del partito. Nello Statuto c'è scritto che i soldi del finanziamento pubblico vanno a questa associazione. A mio parere, e a parere di altri legali, e forse anche dei giudici, questo comporta una sostituzione di soggetto giuridico, anche se il nome è lo stesso, per quanto riguarda l'attribuzione dei fondi. La legge specifica che il finanziamento pubblico è destinato solo ai partiti destinatari. I magistrati giudicheranno".

Di Pietro dice che lei ha dei rancori verso di lui.

—Io non ho nessun rancore. Non prendo mai posizione per ragioni personali. Nel 1981 ho lasciato il Psi di Craxi. Me ne andai per ragioni politiche. Non ho aspettato 'Mani pulite' nel 1992. E allora nessuno era indagato nel Psi. Con l'Ido ho fatto la stessa cosa che feci con Craxi perché ho visto che in quel partito si allargava la forbice tra ciò che si diceva e ciò che si faceva".

27.6.10

La sinistra, il profitto e l’operaio

Gad Lerner (La Repubblica)

Il primo ministro del governo italiano ha percepito nel 2009 un reddito pari a 11490 (undicimilaquattrocentonovanta) volte il reddito di un operaio Fiat di Pomigliano d’Arco. Le cedole della sua quota personale di Fininvest (Silvio Berlusconi detiene il 63,3% dell’azienda, escluse le azioni possedute dai figli) gli hanno fruttato l’anno scorso un dividendo di 126,4 milioni di euro. Cifra che corrisponde per l’appunto a 11490 volte il reddito di un lavoratore metalmeccanico di Pomigliano che nello stesso periodo ha risentito della cassa integrazione, portando a casa circa 11000 (undicimila) euro lordi. In altri termini, la persona fisica del nostro primo ministro ha guadagnato nel 2009 due volte (e più) il monte salari dell’intero stabilimento al centro della drammatica vertenza che sta rimettendo in gioco le relazioni sindacali del paese.
Nello stesso periodo, l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha percepito un compenso di 4 milioni e 782 mila euro, pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di Pomigliano. Tale cifra comprende il bonus che la Fiat ha deciso di attribuirgli per il 2009, mentre l’attività svolta dal manager italo-canadese negli Stati Uniti per Chrysler è stata fornita a titolo gratuito.
Credo non sia più possibile discutere di giustizia sociale e di redistribuzione del reddito, ma anche di economia e finanza, prescindendo da queste nude cifre. Da una ventina d’anni la parola egualitarismo è proibita nel dibattito pubblico, demonizzata alla stregua di un’ideologia totalitaria. Ma nel frattempo imponenti quote della ricchezza nazionale sono state dirottate dal lavoro dipendente a vantaggio dei profitti, esasperando una disuguaglianza di reddito senza precedenti storici.
Questo imponente spostamento di punti del Prodotto interno lordo dai salari al capitale non ha certo reso più competitiva l’economia italiana come invece prometteva. Semmai fotografa, con sintesi brutale, la sconfitta di una sinistra la cui ragione sociale, per oltre un secolo, si identificò con il miglioramento delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti, primi fra tutti gli operai. Pervenuta, sia pure per brevi periodi, al governo del paese, la classe dirigente della sinistra si è legittimata attraverso l’accettazione della cultura di mercato ma ha finito per confondersi in larga misura nell’establishment italiano da cui voleva essere accettata, tollerandone in cambio i vizi, sposandone talvolta i comportamenti.
Se il coefficiente di Gini, cioè l’indicatore statistico con cui gli economisti cercano di misurare il tasso di disuguaglianza sociale di un paese, colloca ormai l’Italia ai gradini più bassi dell’Ocse, con un’accelerazione costante a partire dai primi anni Novanta, è doveroso ricordare che il lavoro dipendente non ha subito solo decurtazioni proporzionali di reddito. Chi prometteva “qualità totale” nel ciclo produttivo ha perso quote di mercato anche a seguito di eccessiva difettosità. La fabbrica automatica che doveva liberare il lavoro manuale dalla fatica fisica e dal pericolo di infortuni, in cambio di normative più flessibili, si è rivelata una trovata propagandistica.
Spetterà agli storici di domani capire come mai l’incremento delle disuguaglianze sia parso così a lungo giustificabile, o comunque accettabile, a chi le subiva. Il fallimento del comunismo ha reso improponibile la visione messianica della classe operaia come nucleo di un’emancipazione scaturita dall’interno del ciclo produttivo, rivoluzionandone le relazioni gerarchiche e i parametri di retribuzione. Ma nel frattempo sospingeva i ceti meno abbienti ad affidare il proprio destino nelle mani di leadership territoriali populiste, non importa se guidate da imprenditori che perseguivano l’arricchimento personale, ché anzi era proprio il loro successo a figurare come l’unico modello di comportamento imitabile. A sua volta un sindacalismo disarmato riusciva a proporsi solo come tutela locale, se necessario in contrapposizione con altri stabilimenti italiani o più spesso con i lavoratori dei paesi emergenti.
La speranza fallace che l’arricchimento di pochi generasse maggior benessere per tutti ha consentito che la presa di potere dei manager divaricasse la forbice delle retribuzioni, elevando in breve tempo gli stipendi dirigenziali: da venti o trenta volte la media di un salario operaio, a centinaia di volte. I profitti realizzati tramite la speculazione finanziaria globale, hanno completato l’opera, sconvolgendo ogni criterio retributivo preesistente e rendendo desuete, beffarde, altre parole-chiave della giustizia sociale: meritocrazia, pari opportunità.
Il paradosso che viviamo oggi è che la rabbia sociale rischia di finire appannaggio della demagogia di destra, mentre la sinistra ammutolisce vittima delle sue inadempienze. Chi ha teorizzato la difesa localistica del proprio territorio dalle insidie della globalizzazione, naturalmente, propone alle masse una visione strabica delle disuguaglianze. Denuncia come eccessivi i redditi di categorie molto visibili ma sparute come i calciatori e i personaggi dello spettacolo. Oppure addita al pubblico ludibrio di volta in volta i suoi avversari simbolici,i come gli alti magistrati e i dirigenti ministeriali. Ma si guarda bene dal prendersela con i redditi da capitale, con le rendite finanziarie, con i compensi dei manager che appartengono al suo sistema di potere. La piramide sociale, nella visione della destra, può venire scossa dal terremoto della crisi, ma per uscirne ancora più verticale.
E’ prevedibile che nei prossimi anni questo malessere genererà un pensiero radicale e una reazione estremista anche nell’ambito della sinistra, impreparata a confrontarsi con le regole della finanza, con la riforma dei rapporti di lavoro, con la crisi del welfare. La morte del comunismo non elimina in eterno la spinta antagonista, con i suoi aneliti di giustizia e il suo inevitabile contorno di ambiguità.
Per il momento sarebbe bene che i dirigenti del Pd affascinati dallo stile Marchionne, colti alla sprovvista dalla minoritaria ma elevata quota di opposizione espressa dai lavoratori di Pomigliano a un accordo stravolgente le condizioni di lavoro, cominciassero a riflettere. Assumendo il tema della disuguaglianza sociale come prioritario nell’agenda di una sinistra moderna degna delle sue origini.

25.6.10

Il predone

Giuseppe D’Avanzo (La Repubblica)

Pensiamo ogni volta di aver conosciuto di Berlusconi il volto peggiore, l’intenzione più maligna, la mossa più fraudolenta. Bisogna convincersene, quell’uomo sarà sempre in grado di mostrare un’intenzione ancora più maligna, una mossa ancora più fraudolenta, un volto ancora peggiore. Sappiamo che cosa è e rappresenta la cosa pubblica per il signore di Arcore, non dobbiamo scoprirlo oggi. È l’opportunità di ignorare e distruggere le inchieste giudiziarie che hanno ricostruito con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero. Non scopriamo adesso che il signore di Arcore si è fatto Cesare per evitare la galera (lo ha detto in pubblico senza vergogna il suo amico Fedele Confalonieri). E tuttavia, pur consapevoli che il potere berlusconiano sia esercitato in modo esplicito a protezione dei suoi interessi privati, lascia di stucco l’affaire Brancher.

La storia la si conosce. C’è questo signore, Aldo Brancher. Non se ne apprezza un pregio. Si sa che è stato assistente di Confalonieri in Fininvest. Con questo ruolo, tiene i contatti con socialisti e liberali nella prima repubblica. Detto in altro modo, è l’addetto alla loro corruzione. Il pool di Milano documenta nel 1993 che Brancher elargisce 300 milioni di lire al Psi e 300 al segretario del ministro della Sanità liberale (Francesco De Lorenzo) per arraffare a vantaggio della Fininvest un piano pubblicitario dello Stato.

Lo arrestano. Resta tre mesi a san Vittore. Non scuce una frase. Condannato in primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito, vede la luce in Cassazione grazie alla prescrizione del secondo reato e alla depenalizzazione del primo corrette, l’una e l’altra, dalle leggi "privatistiche" del governo Berlusconi. Il salvataggio del Capo e della Ditta gli vale, a titolo di risarcimento, l’incarico di messo tra il partito del presidente e la Lega di Bossi, uno scranno in Parlamento, un seggio di sottosegretario di governo. E da qualche giorno anche di ministro. Ministro senza incarico, senza missione, senza alcuna utilità per il Paese. Un ministro talmente superfluo che gli cambiano anche la delega dopo la nomina.

Fin dall’annuncio del suo ingresso nel governo, è chiaro a tutti – se non agli ingenui – che Aldo Brancher diventa ministro per un’unica necessità: egli deve opporre nel giudizio che lo vede imputato di appropriazione indebita nel processo Antonveneta il legittimo impedimento che Berlusconi si è affatturato per liberarsi dalle sue rogne giudiziarie. Ora che Brancher chiede di salvarsi dal giudizio perché ministro, anche gli ingenui hanno capito.

C’è qualcosa di umiliante e di illuminante in quest’affaire perché ci mostra in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni. Ci manifesta quale arretramento di secoli la nostra democrazia deve affrontare. Ci dice che le istituzioni coincidono ormai con le persone che le incarnano, anzi con la persona, quel solo uomo – il Cesare di Arcore – che le "possiede" tutte come cosa sua, Ditta sua, nella sua piena disponibilità proprietaria al punto che può eleggere il suo "cavallo" senatore o ministro uno dei suoi complici, pretendendo oggi per il ministro (e domani per il senatore, chissà) la stessa impunità che ha assegnato a se stesso.

Voglio dire che quel che abbiamo sotto gli occhi con il caso Brancher è nitido: il cesarismo, il bonapartismo, il peronismo – chiamatelo come volete – di Silvio Berlusconi non riconosce alle istituzioni, alle funzioni pubbliche dello Stato alcuna oggettività, ma soltanto la soggettività che egli – nel suo potere e volontà – di volta in volta decide di assegnare loro. Il governo è suo, di Berlusconi, perché il popolo glielo ha dato e così del governo ci fa quello che gli pare. Se vuole, lo trasforma – come per Brancher – in una casa dell’impunità per corifei e turiferari. Quel che l’affaire illumina è il lavoro mortale di indebolimento delle istituzioni. Di quelle istituzioni nate per arginare l’abuso e l’istinto di sopraffazione, per garantire sicurezza e stabilità, diffondere fiducia e cooperazione e diventate, nella democrazia plebiscitaria del signore di Arcore, strumento inutile, ferro rugginoso e inservibile.

Se la nomina a ministro può mortificarsi a capriccio e complicità vuol dire che la politica può fare a meno delle istituzioni. Certo, non si possono accantonarle formalmente, ma svuotarle, sì. Di ogni significato, rilevanza, legittimità, come accade al governo con l’uomo diventato ministro per evitare il giudice. Osserviamo ora la scena che Berlusconi ha costruito in questi due anni di governo. Il Parlamento è soltanto l’esecutore muto degli ordini dell’esecutivo. La Corte costituzionale e la magistratura devono essere presto subordinate al comando politico. La presidenza della Repubblica, priva della legittimità popolare, è soltanto un impaccio improprio. Il governo, già consesso obbediente agli ordini del sovrano, diviene ora e addirittura il premio per chi, con il suo servizio al Capo, si è guadagnato il vantaggio di rendersi legibus solutus come il sovrano. Tocchiamo qui con mano il conflitto freddo che si sta consumando tra una concezione della democrazia incardinata nella Costituzione, nei principi di una democrazia liberale basata sull’oggettività delle funzioni pubbliche e la convinzione che il voto popolare renda onnipotenti e consenta ogni mossa anche l’annichilimento delle istituzioni.

Umiliante e illuminante, l’affaire Brancher è anche educativo perché liquida almeno un paio di luoghi comuni del dibattito pubblico, specialmente a sinistra. Chi di fronte alle minacce estorsive del sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di migliaia di processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova sempre conveniente scegliere la "riduzione del danno" e "il male minore" saprà oggi quel che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha inibizioni. È un predone. Lo guidano i riflessi. Quel che serve, lo trova d’istinto. Se gli si offre un arsenale, lo utilizza, statene certi, perché è ridicolo aspettarsi da Berlusconi self-restraint. Non esisteranno mai mali minori con lui, ma soltanto mali che annunceranno il peggio. Il secondo luogo comune dice che "l’antiberlusconismo non porta da nessuna parte". L’affaire Brancher conferma che non c’è altra strada che contrastare il berlusconismo se si vuole proteggere il Paese e le sue istituzioni da una prova di forza pre-politica, fuori delle regole che ci siamo dati. È anche questo il caso Brancher, una prova di forza. Che toccherà non solo all’opposizione contrastare. Fini, la Lega, i soliti neutrali potranno subirla senza mettere in gioco la rispettabilità di se stessi?

22.6.10

«Esseri umani estinti entro cento anni»

«È una situazione ormai irreversibile e penso sia tardi per porvi rimedio»

La catastrofica previsione del biologo Frank Fenner.
Cause: esplosione demografica e consumi fuori controllo


Simona Marchetti

La razza umana si estinguerà nel giro dei prossimi cento anni e così pure un sacco di specie animali. A dirlo è nientemeno che Frank Fenner, 95enne professore di microbiologia dell'Australian National University, ma soprattutto lo scienziato che ha contribuito a debellare il vaiolo. Stando all’eminente cattedratico, a far precipitare gli eventi saranno l’esplosione demografica e i consumi fuori controllo, due fattori ai quali gli uomini non riusciranno a sopravvivere, mentre a dare inizio alla caduta sarebbero stati i cambiamenti climatici.

IRREVERSIBILE - «L'homo sapiens sarà estinto probabilmente nei prossimi 100 anni - ha detto Fenner al giornale The Australian - e lo stesso accadrà per molti animali. È una situazione ormai irreversibile e penso sia davvero troppo tardi per porvi rimedio. Non lo manifesto perché la gente sta comunque tentando di fare qualcosa, anche se continua a rimandare. Di certo, da quando la razza umana è entrata nell’era nota come Antropocene (termine coniato nel 2000 dallo scienziato Paul Crutzen per definire l’era geologica attuale, in cui le attività dell’uomo sono le principali fautrici delle modifiche climatiche, ndr), l’effetto sul pianeta è stato tale da poter essere paragonato a una delle epoche glaciali o all’impatto di una cometa. Ecco perché sono convinto che faremo la stessa fine degli abitanti dell’isola di Pasqua. Attualmente, i cambiamenti climatici sono ancora in una fase molto iniziale, ma già si vedono dei considerevoli mutamenti nelle condizioni atmosferiche. Gli Aborigeni hanno dimostrato che potrebbero vivere per 40 o 50mila anni senza la scienza, la produzione di diossido di carbonio e il riscaldamento globale, ma il mondo non può e così la razza umana rischia di fare la stessa fine di molte altre specie che si sono estinte nel corso degli anni». La catastrofica e pessimistica visione di Fenner non sembra, però, trovare grande rispondenza fra i suoi stessi colleghi. «Frank può anche avere ragione - ha spiegato il professor Stephen Boyden, oggi in pensione, al Daily Mail - ma alcuni di noi hanno ancora la speranza che si arrivi a prendere consapevolezza della situazione e che, di conseguenza, si mettano in atto i cambiamenti necessari a raggiungere un vero sviluppo ecosostenibile».

CRISI GLOBALE - «La razza umana - gli fa eco Simon Ross, vice presidente dell'Optimum Population Trust - si trova ad affrontare delle autentiche sfide come i cambiamenti climatici, la perdita della biodiversità (ovvero, l’estinzione di alcune specie animali, ndr) e una crescita senza precedenti della popolazione». Ma c’è chi all’agghiacciante previsione di Fenner mostra in qualche modo di crederci e se la scorsa settimana il principe Carlo aveva messo in guardia dai pericoli legati alla crescita così impetuosa della popolazione mondiale, un altro scienziato, il professor Nicholas Boyle dell’università di Cambridge, si è spinto anche oltre, ipotizzando il 2014 come la data del "giudizio universale", spiegando (nel libro "2014: Come sopravvivere alla prossima crisi globale") che il mondo si sta infilando in una crisi globale senza precedenti, che avrà influenze estremamente più vaste dell’attuale crisi economica internazionale. Nel 2006 era, invece, toccato all’esimio professor James Lovelock lanciare l’allarme circa una diminuzione della popolazione mondiale nel prossimo secolo, quantificabile in 500 milioni di unità, a causa degli effetti del riscaldamento globale, sostenendo che nessun tentativo di cambiare il clima avrebbe davvero risolto il problema, ma avrebbe semplicemente permesso di guadagnare del tempo.

18.6.10

Il bluff europeo della tassa alle banche

di Galapagos (ilManifesto)
«L'Europa non ha anima», ha detto l'economista francese Jean Paul Fitoussi ieri al termine di una audizione in commissione Bilancio della Camera. E ha spiegato: «ll problema dell'Europa sta nel fatto che abbiamo creato una zona economica senz'anima, senza governo e senza democrazia vera: questo conduce a politiche sbagliate perché abbiamo solo un bene comune, la moneta, senza avere un governo. Anzi, al contrario, abbiamo competizione tra i Paesi dell'euro e questa si fa al ribasso ed è un dramma perché stiamo entrando in una situazione di deflazione». Quello che è accaduto ieri conferma la giustezza dell'analisi.

Vale la pena partire dal Consiglio d'Europa, massima espressione politica della Ue, che ieri doveva trovare una posizione comune sulla introduzione di una imposta sulle transazioni finanziarie e su una tassazione del sistema bancario. Provvedimenti da presentare al prossimo G20 di Toronto. È finita con un brutto compromesso. In particolare, la tassa sulle banche è un «optional», nel senso che gli stati dovrebbero in ordine sparso introdurre meccanismi di prelievo sulle istituzioni finanziarie per garantire una divisione degli oneri della crisi. Una crisi, vale la pena ricordarlo, generata dalle stesse istituzioni finanziarie, ma che finora è stata pagata a piè di lista dalle finanze pubbliche, ovvero da tutti i cittadini. Creare un fondo finanziato dalle stesse banche era una idea niente affatto estremista, ma solo di buon senso. Ma il provvedimento vincolante per tutti non è passato, sembra a causa dell'atteggiamento intransigente della Gran Bretagna, uno dei paesi i cui cittadini hanno più sofferto per la crisi finanziaria e che ora soffriranno ancora di più per i tagli allo stato sociale e agli investimenti pubblici. Fitoussi ha fatto un'altra giusta affermazione quando dice che «stiamo entrando in una fase di deflazione». La conferma è arrivata ieri dal «Bollettino mensile» della Bce, che parla di un fase di crescita con «incremento moderato» a causa dei processi di «aggiustamento dei bilanci» e dalle «prospettive di debolezza del mercato dei lavoro». Questo potrebbe portare nel prossimo anno a una crescita ancora più bassa di quella prevista per quest'anno e non per merito dei paesi europei, ma per il sostegno alla domanda che arriva dagli altri paesi. La Bce spiega anche che la crescita moderata nell'area dell'euro è causata da «perduranti tensioni in alcuni segmenti dei mercati finanziari» e da «un livello insolitamente elevato di incertezza». Normalmente, come sosteneva Lorenzo dei Medici, «del doman non v'è certezza», figuriamoci oggi che la percezione comune è di una profonda instabilità e di occupazione che non si trova.

Ci sono poi le «perduranti tensioni finanziarie». Questo dovrebbe obbligare la Ue e il G20 a varare manovre che mettano sotto controllo la speculazione, ma a parte il divieto di vendite allo scoperto varato dalla Merkel nulla è stato fatto non solo perché tra gli stati gli interessi confliggono. Nulla è stato fatto perché le banche sulla speculazione campano, come ci hanno spiegato i dati Usa apparsi alcuni giorni fa, ma ignorati dalla stampa italiana (con l'eccezione de il sole 24 ore e de il manifesto) indicano in oltre 210 mila miliardi di dollari le operazioni sui derivati nel 2009. Operazioni di carta che non danno plusvalore all'economia reale, ma sono in grado di destabilizzarla. Siamo in una situazione di caos. Gli stati, consapevoli di vivere una fase tremenda, non trovano strumenti comuni per affrontarla con strumenti di controllo più stringenti, tasse anti speculazione e rilanciare gli investimenti pubblici. Perché questo contrasta con l'ideologia dominante. Ne è la prova un'affermazione della Bce che parla dell'importanza delle riforme strutturali. Per poi spiegare che la prima vera riforma è rendere il salario una variabile dipendente del capitale e richiedere «aggiustamenti», cioè diminuzioni a seconda dell'andamento della congiuntura e dell'occupazione. Diminuire i salari e aumentare lo sfruttamento per rilanciare l'economia non serve, soprattutto quando il comportamento diventa generalizzato e amplia lo spazio tra chi è ricco e chi no. D'altronde l'economia è una «triste scienza» che non pone al centro le persone.

17.6.10

La buona democrazia e il pericolo delle oligarchie

GUSTAVO ZAGREBELSKY (Repubblica, 17 giugno 2010)

NEL nostro Paese chi distingue la cattiva democrazia dalla buona incappa solitamente in un interdetto: se critichi la democrazia è perché non sei democratico o non lo sei abbastanza, non accetti il responso delle urne, vuoi «delegittimare» chi ha vinto le elezioni. Vorresti che le cose andassero altrimenti da come le vedi tu; che la maggioranza seguisse le tue, non le sue, idee. Tu dici e pensi questo e quello, ma la maggioranza fa tutt' altro. Non te ne dai pace e, invece d'adeguarti in nome del popolo, ti ostini, in nome di non si sa quale altro principio o diritto, anzi in nome della tua presunzione, a non riconoscere d' avere torto.
Così, sei non lealmente d e m o c r a t i c o , m a subdolamente aristocratico, perché pensi tu d'avere, solo o con i tuoi (pochi) amici, la verità in tasca. Non capisci d' essere fuori della storia, uno sconfitto che avrebbe solo il dovere di tacere, mettersi da parte e lasciare il passo ai tempi che avanzano, alla storia che si realizza. In breve: cosciente o non cosciente, sei un «azionista», tra tutti i giudizi politici di condanna, il più infamante e «condiviso». Molto più di ladro, corrotto e corruttore, incapace e incompetente, voltagabbana e servo del potente (...). La democrazia come unica forma di regime legittimo, ha vinto la sua battaglia o, almeno, sembra averla vinta. Pare non avere più rivali (...). Oggi, con la sola eccezione dei regimi dichiaratamente teocratici, dove la secolarizzazione non è penetrata ed è anzi combattuta (come accade in talune repubbliche islamiche), si presenta come l' unica forma di convivenza accettabile, dunque legittima. Ciò non solo nel mondo occidentale, dove maggiormente si è sviluppata, ma nel mondo intero, ed è proposta come valore universale dell' umanità. Talora gli intenti sono eccellenti, ma qualche volta anche criminali (come quando la si usa come pretesto per l' uso delle armi, al fine di «esportarla») (...). Ci si può chiedere la ragione di tanta fortuna e la ragione, alquanto allarmante, è che democrazia è parola mimetica e promiscua. Con un manto di nobiltà avvolge i governanti, ma questo manto può nascondere le cose più diverse. Con l' ideologia democratica si possono nobilitare le più diverse realtà del potere. Nel tempo del potere secolarizzato, la democrazia è il solo regime che può presentarsi come l' organizzazione di un potere disinteressato. I governanti si concepiscono come mandatari o rappresentanti o benefattori del popolo. Il loro potere è in nome, per conto, nell' interesse altrui. Possono dire di «servire il popolo», cioè di fare ciò che fanno non per il piacer proprio, ma per il bene di tanti o di tutti. Nobile missione! Anche i governanti per diritto divino sostenevano di agire in nome e per conto d' altri, addirittura di Dio. Ma, una volta caduta questa premessa e posto il governo degli uomini sulla terra, solo le democrazie (non certo le autocrazie di qualsiasi genere) conferiscono ai governanti il diritto di proclamare ch' essi non governano nel proprio interesse, ma per il bene di chi è governato. Questa, l' ideologia. E la realtà? (...). Il nodo da sciogliere, a questo punto, nasce dalla constatazione di questo apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l' odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l' oggetto e, spesso, le vittime. Per secoli, democrazia è stata la parola d' ordine degli esclusi dal potere; ora sembra diventare l' ostentazione degli inclusi. Pressoi cittadini comuni, non c' è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C' è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C' è, in breve, una reazione anti-retorica alla retorica democratica. Non c' è bisogno di consultare la scienza politica per sentir risuonare sempre più frequentemente questa semplice domanda, che è come un segnale d' allarme: «democrazia, perché?». Quando si sente esclamare con fastidio: «tanto sono tutti uguali» (quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l' occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Una «teatrocrazia», è stato detto. L' esito potrà essere l' astensione o l' adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un' abdicazione. È questa la più immediata espressione di uno scetticismo ademocratico dal basso che fa da pendant alla retorica democratica dall' alto. Se si pensa che, storicamente, la democrazia è stata la rivendicazione della massa degli esclusi dal potere, contro la chiusura su di sé dei potenti, c' è evidentemente da registrare un capovolgimento paradossale. Il paradosso si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue forme, si può comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un' efficace maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel presente. La storia ci dice che la democrazia può dissimulare l' anti-democrazia (...). Realisticamente, dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza all' oligarchia, anzi con la «ferrea legge delle oligarchie»: una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili (...). Questa «ferrea legge» si basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l' uguaglianza, cioè il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, ha bisogno di piccoli numeri, di ristrette oligarchie. Non basta. Poiché questa è una patente contraddizione rispetto ai principi, occorre che queste oligarchie siano occulte e che queste,a loro volta, occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La democrazia allora si dimostra così essere il regime dell' illusione. Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il «principio maggioritario», che è l' essenza della democrazia, si rovescia infatti nel «principio minoritario», che è l' essenza dell' autocrazia: un' autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un' autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone che si appoggiano solo su se stesse (...). Le oligarchie, nelle odierne società, non si costruiscono su piani paralleli, l' uno sopra l' altro. L' immagine che mi pare più appropriata è quella del «giro» di potere. Intendo con questa espressione - il giro - esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia, dalle competenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi e dalle carriere improbabili, i quali vengono a occupare posti difficilmente concepibili per loro, ci domandiamo: a che giro appartengono? Una delle grandi divisioni della nostra società è forse proprio questa: tra chi «ha giro», e chi non ce l' ha. Divisione profonda, fatta di carriere, status personali, invidie e risentimenti che avvelenano i rapporti e corrompono i legami sociali, ma che, finché dura,è una verae propria struttura costituzionale materiale. Nei «giri» si scambiano protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di «materia». Occorre disporre di risorse da distribuire come favori, per esempio: danaro facile e impieghi (Cimone e Pericle insegnano), carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall' altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto «di scambio»), all' organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, di corruzione, di criminalità; dalla disponibilità a corrispondere al favore ricevuto con controprestazioni, personali o per interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto. L' asettico «giro» in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta (...). Quando poi nello scambio e nell' intreccio di favori, minacce e ricatti entrano anche organizzazioni criminali, nonè esclusa nemmeno la violenza. Non pochi delitti politici nel violento nostro Paese non si spiegano forse con l' essere venuti meno a un patto di scambio? Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella disuguaglianza e nell' illegalità. Essi tanto più si diffondono quanto maggiori sono le disuguaglianze sociali e quanto meno le stesse leggi valgono ugualmente per tutti (...). Come si proteggono i «giri»? Prima di tutto con la copertura e la segretezza. Questa struttura del potere mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva (...). Questo è il carattere nostrano odierno del sistema oligarchico: catene verticali, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell' economia e della finanza, dell' università, della cultura, dello spettacolo, dell' innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità. Se la cattiva democrazia è quella che si è involuta in oligarchie (...), allora per contrasto possiamo definire «buona» la democrazia dove vigono queste due virtù pubbliche: l' amore per l' uguaglianza sotto la legge comune, unito al disprezzo per arrivisti e faccendieri, e la sete di verità circa le cose comuni (...). Con questo passaggio, l' attenzione si è spostata dalla democrazia come forma o regola della politica alla democrazia come carattere degli esseri umani. In effetti, noi possiamo riferirci alla democrazia come tecnica del potere (che, come tutte le tecniche del potere, contiene comunque in sé qualcosa di minaccioso) e come concezione del vivere comune. Il limite della maggior parte dei discorsi attuali sulla democrazia sta nell' avere separato questi due aspetti e nell' avere oscurato il secondo che, invece, è il più importante, perché preliminare e condizionante. Se viene meno la democrazia come esigenza dello spirito pubblico, essa, in quanto regime politico, si può perfino suicidare «democraticamente» (...). Poiché nessuna tecnica d' organizzazione democratica del potere può funzionare se non si appoggia su società che sono esse stesse, e prima di tutto, democratiche, si comprende che è lì la garanzia ultima e nessuna istituzione, da sola, è capace di difendere la democrazia se i più non la vogliono o non ne sono interessati. Le istituzioni, pur tuttavia, sono importanti (...). Il significato profondo delle istituzioni democratiche è tutto in questo: il medesimo obbiettivo - la lotta contro le oligarchie - ma con mezzi ordinari. Quali esse siano queste istituzioni è chiaro: quelle della legalità e della trasparenza; la sovranità della legge e la libertà delle opinioni; le magistrature e l' informazione. Senza di queste, nemmeno il diritto di voto, il diritto primordiale di ogni forma di democrazia, sarebbe dotato di senso democratico, perché non sarebbe permessa l' onesta misurazione del consenso e del dissenso. La democrazia non è dunque possibile in società non democratiche, ancorché adottino le forme esteriori della democrazia. La società democratica è preliminare alla politica democratica. Si deve, allora, promuovere una pedagogia orientata a promuovere l' ethos della democrazia? Platone risponderebbe senza esitazione di sì: «Lo sai che inevitabilmente fra gli individui vi sono tanti tipi quante sono le forme di governo? Credi forse che esse spuntino da una quercia o da una pietra, anziché dal carattere ( ethos) dei cittadini, che le trascinano dalla parte verso cui essi stessi pendono?». In effetti, da molti decenni un' autentica pedagogia democratica è mancata (...). Nel momento della massima diffusione della democrazia - si potrebbe dire: nel momento della sua vittoria su ogni altro sistema di governo -, cioè nel momento dell' indifferenza per assenza di alternative, sembra essere venuta meno l' esigenza di insegnarne lo spirito. La democrazia si è sempre accompagnata alla diffusione dell' istruzione e della cultura, cioè alla liberazione dall' ignoranza e dall' analfabetismo. Ma una specifica educazione dalla democrazia? In effetti, una posizione negativa si giustifica in base alla doppia idea che la democrazia, per essere davvero tale, deve essere il «regime dell' uomo così com' è» e che ogni pedagogia o educazione imposta per cambiarlo «eticamente» - fosse anche per adeguarlo alla democrazia stessa, per creare «l' uomo nuovo» - si risolverebbe in una pratica contraria ai principi della democrazia stessa. Ma «l' uomo così com' è» non è affatto quello che è adatto alla democrazia (...). Sotto certi aspetti, la democrazia è un regime politico innaturale, cioè fortemente legato a premesse culturali che devono essere alimentate: chiede sacrifici, rinunce e dedizione personali, in vista di qualcosa di comune, al di là del raggio degli interessi personali. Non è affatto solo una tecnica certe volte migliore e altre peggiore di altre - per la protezione degli individui e dei loro interessi. È una forma di convivenza che ha a che vedere con l' etica repubblicana, con la res publica, cioè con una dimensione della vita che, per essere di tutti, non deve diventare patrimonio di nessuno. Per questo, essa è sempre a rischio e noi conosciamo bene che cosa siano state e che cosa possano sempre essere la «servitù volontaria» e la spontanea rinuncia alla libertà per il prevalere di interessi particolari. Allora? Come conciliare gli opposti: l' inaccettabilità e, al tempo stesso, la necessità di un' educazione democratica? In un solo modo: dicendo che questo compito è essenziale, ma non è dell' autorità. Esso è rimesso alla libertà. Non spetta allo Stato di svolgerlo, ma alla società. Rientra cioè nella responsabilità di ciascuno di noi, quando entra in relazione con gli altri, là dove la democrazia è atteggiamento etico che può essere diffusivo di se stesso, nel rispetto dell' autonomia degli altri (...). La democrazia, poiché non può invocare rassicurazioni metafisiche, può basarsi solo su se stessa, cioè sui suoi cittadini. Si regge o cade per virtù o vizi loro. Ma proprio per questo, quanti amano la democrazia sapendo che prima e dopo di essa c' è solo qualche forma di autocrazia, c' è cioè la perdita della libertà, devono raddoppiare gli sforzi per difenderla ed espanderla nella coscienza di quanti più è possibile.

15.6.10

La globalizzazione dell’operaio

di Luciano Gallino (La Repubblica)

È possibile che la Fiat non abbia davvero alcuna alternativa. O riesce ad avvicinare il costo di produzione dello stabilimento di Pomigliano a quello degli stabilimenti siti in Polonia, Serbia o Turchia, o non riuscirà più a vendere né in Italia né altrove le auto costruite in Campania. L’industria mondiale dell’auto è afflitta da un eccesso pauroso di capacità produttiva, ormai stimato intorno al 40 per cento. Di conseguenza i produttori si affrontano con furibonde battaglie sul fronte del prezzo delle vetture al cliente.
A farne le spese, prima ancora dei loro bilanci, sono i fornitori (che producono oltre due terzi del valore di un´auto), le comunità locali che vedono di colpo sparire uno stabilimento su cui vivevano, e i lavoratori che provvedono all´assemblaggio finale. I costruttori che non arrivano a spremere fino all´ultimo euro da tutti questi soggetti sono fuori mercato.
Va anche ammesso che davanti alla prospettiva di restare senza lavoro in una città e una regione in cui la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha già raggiunto livelli drammatici, la maggioranza dei lavoratori di Pomigliano – ben 15.000 se si conta l´indotto – è probabilmente orientata ad accettare le proposte Fiat in tema di organizzazione della produzione e del lavoro. La disperazione, o il suo approssimarsi, è di solito una cattiva consigliera; ma se tutto quello che l´azienda o il governo offrono è la scelta tra lavorare peggio, oppure non lavorare per niente, è quasi inevitabile che uno le dia retta.
Una volta riconosciuto che forse l´azienda non ha alternative, e non ce l´hanno nemmeno i lavoratori di Pomigliano, occorre pure trovare il modo e la forza di dire anzitutto che le condizioni di lavoro che Fiat propone loro sono durissime. E, in secondo luogo, che esse sono figlie di una globalizzazione ormai senza veli, alle quali molte altre aziende italiane non mancheranno di rifarsi per imporle pure loro ai dipendenti.
Allo scopo di utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno e 6 giorni alla settimana, sabato compreso, nello stabilimento di Pomigliano rinnovato per produrre la Panda in luogo delle attuali Alfa Romeo, tutti gli addetti alla produzione e collegati (quadri e impiegati, oltre agli operai), dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore. L´ultima mezz´ora sarà dedicata alla refezione (che vuol dire, salvo errore, non toccare cibo per almeno otto ore). Tutti avranno una settimana lavorativa di 6 giorni e una di 4. L´azienda potrà richiedere 80 ore di lavoro straordinario a testa (che fanno due settimane di lavoro in più all´anno) senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso limitato a due o tre giorni. Le pause durante l´orario saranno ridotte di un quarto, da 40 minuti a 30. Le eventuali perdite di produzione a seguito di interruzione delle forniture (caso abbastanza frequente nell´autoindustria, i cui componenti provengono in media da 800 aziende distanti magari centinaia di chilometri) potranno essere recuperate collettivamente sia nella mezz´ora a fine turno – giusto quella della refezione – o nei giorni di riposo individuale, in deroga dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Sarebbe interessante vedere quante settimane resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l´indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli a comportarsi responsabilmente, ossia ad accettare senza far storie le proposte Fiat.
Non è tutto. Ben 19 pagine sulle 36 del documento Fiat consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla “metrica del lavoro.” Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione, e dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo. Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l´analisi dei tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c´è l´uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma soprattutto l´adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World Class Manufacturing (Wcm, che sta per “produzione di qualità o livello mondiale”). Sono criteri che provengono dal Giappone, e sono indirizzati a due scopi principali: permettere di produrre sulla stessa linea singole vetture anche molto diverse tra loro per motorizzazione, accessori e simili, in luogo di tante auto tutte uguali, e sopprimere gli sprechi. In questo caso si tratta di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un´azienda deve quindi puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa di utile; dall´altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere il più elevato possibile. L´ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot.
È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell´ideologia neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinchÈ si allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s´intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello.
È nella globalizzazione ormai senza veli che va inquadrato il caso Fiat. Se in Polonia, o in qualunque altro paese in sviluppo, un operaio produce tot vetture l´anno, per forza debbono produrne altrettante Pomigliano, o Mirafiori, o Melfi. È esattamente lo stesso ragionamento che in modo del tutto esplicito fanno ormai Renault e Volkswagen, Toyota e General Motors. Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio paese. Non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero. Tuttavia la mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, per le persone non meno per le imprese.

13.6.10

Arrivano in Italia i "co-wo" uffici "in rete" per giovani creativi

Diffusi negli Usa, ora popolari dall'Europa alla Cina: spazi dove condividere strumenti di lavoro, costi ma soprattutto idee
di GIULIA CERINO

Qualche scrivania ancora libera, un proiettore, tre librerie di legno e la sala dei computer. Seduto alla sua postazione lavora Tago, programmatore, 24 anni, che non ha un ufficio privato. La sua attività si svolge in un garage-studio nel cuore di Madrid: uno spazio di lavoro condiviso da altri 10 free-lance che, come lui, utilizzano le postazioni comuni per un costo calcolato in funzione del numero di ore al mese che scelgono di passarvi. In altre parole, pagano solo il tempo che "affittano". Scrivanie, stampanti e cartoleria sono offerte dall'organizzazione. Mentre il "di più" si compra con i soldi del portafoglio comune. Perché, in tempo di crisi, dividere le spese conviene.

Fatti apposta per i lavoratori "eremiti", gli Hub o Loft o Studio, a seconda della lingua e del Paese, sono già 62 in Europa, 5 in Cina, 9 in Sudamerica e oltre 100 negli Stati Uniti. Da Amsterdam a Bombay, passando per Toronto, Madrid, Milano e Roma. Il fenomeno è ormai diffuso. Non come i tradizionali studi associati, o affittacamere. Nei co-working si può stare un anno, un giorno o un'ora. Si può entrare in contatto con competenze eterogenee e dare vita a progetti comuni.

Sorto sulla scia di un modello internettiano del lavoro lanciato da liberi professionisti, l'Hub offre la formula "coabitare per collaborare", come spiega El Pais. Sì, perché oltre alla mera opportunità di mercato, Hub Madrid e Loft to Work, due reti di cowo spagnole, hanno inaugurato
una nuova tendenza. "Si tratta di riunire dei lavoratori indipendenti in uno spazio di lavoro condiviso per favorire la collaborazione e lo scambio di talenti ed idee", spiegano dall'assemblea dei membri dell'Hub. Ogni cowo è comunque libero di scegliere come caratterizzarsi. Nel Loft to Work, per esempio, "i collaboratori si presentano spontaneamente", spiegano. "Noi non organizziamo progetti comuni ma siamo come un'agenzia. Mettiamo in contatto le persone". Nell'Hub madrileno si tiene conto anche delle pause ricreative con uno spazio attrezzato per la cucina e il bar, tenendo conto che spesso le idee migliori e le conversazioni più stimolanti nascono durante un pranzo informale. Al Cubes and Crayons di Menlo Park, California, zona in cui la popolazione è formata in buona parte da donne free lance, il pacchetto comprende un settore "nido" per le mamme in carriera. Altri Hub invece non possiedono neanche una sede fisica e non hanno orari. I lavoratori si riuniscono all'interno di internet café o case private.

La rete di coworking italiano, "Cowo", è nata il 20 febbraio del 2009 e conta 39 spazi affiliati in 21 città: da Bologna, a Corato (Bari), Treviso, Roma, Milano e Desio (Monza), città in cui è stato inaugurato proprio in questi giorni l'ultimo ufficio condiviso. Quello della capitale è un ecosistema unico, nuovo e nel centro della città. A pochi metri da piazza del Popolo, l'open space di 100 mq è ospitato negli uffici della cooperativa editoriale Moving Produzioni. All'interno c'è una sala di posa fotografica, una libreria comune, il fax, la stampante, e il flipper. Massimo Carraro - fondatore della rete italiana e ora a capo di un cowo a Milano, il MonkeyBusiness - racconta come nella sua agenzia pubblicitaria ci fosse "un surplus di spazio". "Navigando in rete abbiamo trovato diversi riferimenti al cowo ed abbiamo pensato: perché non proviamo anche noi?".Un modo per unire l'utile al dilettevole: "Avere persone interessanti in ufficio, ed anche qualcuno con cui condividere le spese".

I membri degli Hub hanno profili creativi differenti. Alcuni sono paesaggisti, fotografi, grafici. Altri architetti, consulenti d'impresa, attivisti politici, scrittori. Fino ai designer di barche da competizione o ai dipendenti di aziende estere. Profili diversi con qualosa in comune. Una nuova e moderna idea di lavoro.

Intervistato sul blog di co-working Milano, Davide Tagliapietra, free lance, ha raccontato di come fosse riuscito a trovare "una postazione di lavoro flessibile grazie alla quale adattare le mie esigenze di mese in mese. Una duttilità che è difficile da trovare all'esterno". E anche le tariffe sono variabili. Un'iscrizione mensile con accesso internet illimitato all'Hub di Londra costa 295 sterline (circa 355 euro), mentre al Rootspace di Beirut una postazione di euro ne costa 60. Al MonkeyBusiness di Milano invece l'affitto mensile per una scrivania è di 200 euro, ma sono previsti anche forfait settimanali o giornalieri.

A metà strada tra una casa, un internet café e l'ufficio vecchio stile, gli Hub rappresentano un modo economico di lavorare da liberi professionisti in tempo di crisi e fanno spazio a una concezione in "web" del lavoro che stimola la condivisione di talenti, idee e contatti professionali. Una caratteristica del lavoro del futuro indispensabile per tentare di sanare le lacune prodotte dalla precarietà e soddisfare le esigenze delle nuove generazioni, già abituate alle reti virtuali.

12.6.10

L'Abc del ddl intercettazioni in 27 voci

Articoli

Archivio riservato e utilizzo in procedimenti diversi (articolo 1, commi 12, 14 e 42)

Telefonate e verbali dovranno essere custoditi presso un archivio riservato presso la Procura. I verbali dovranno contenere l'indicazione degli estremi del decreto che ha disposto l'intercettazione, la descrizione delle modalità di registrazione, l'annotazione del giorno e dell'ora di inizio e di cessazione dell'intercettazione, la ...

Arresto in flagrante (articolo 1, comma 23)

Anche nei casi di delitti di promozione, direzione, costituzione e organizzazione della associazione per delinquere, se, però, l'associazione è diretta alla commissione di più delitti fra i quali, pure, quelli di furto. ...

Carcere per i giornalisti (articolo 1, comma 27)

Da 6 mesi fino a 3 anni per chi pubblica intercettazioni vietate dalla legge. Rischia lo stesso la galera, da 1 a 6 anni, chi, mediante modalità o attività illecita, prende diretta cognizione di atti del procedimento penale coperti da segreto, e, pure, se si rivelano indebitamente notizie inerenti ad atti o a documentazione del ...

Codice deontologico giornalisti (articolo 1, comma 37)

Previsto che il Garante della privacy possa vietare il trattamento o disporne il blocco di dati utilizzati nell'esercizio dell'attività giornalistica in caso di violazioni contenute nel codice deontologico. Il Garante può, anche, prescrivere, quale misura necessaria a tutela dell'interessato, la pubblicazione o diffusione (gratuita) in ...

Divieto di pubblicare le intercettazioni (articolo 1, commi 5, 7 e 8)

Introdotto, in primo luogo, il divieto di rendere noti, anche parzialmente e sia per sunto che per contenuto, documenti e atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o flussi di comunicazioni informatiche o telematiche o dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla ...

Divieto di utilizzare le intercettazioni (articolo 1, commi 15 e 16)

Chiarito che i risultati delle intercettazioni non possano essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge e, comunque, quando non siano state osservate alcune disposizioni previste del presente provvedimento. Analogo divieto è previsto qualora, nell'udienza preliminare o nel dibattimento, ...

Illeciti disciplinari magistrati (articolo 1, comma 38)

Tra cui rientra anche l'ipotesi di inserimento nella motivazione di un provvedimento giudiziario di circostanze relative a fatti personali di terzi estranei, che non rilevano a fini processuali. ...

Informazioni sull'azione penale (articolo 1, comma 25)

Quando esercita l'azione penale nei confronti di un impiegato dello Stato o di altro ente pubblico, il pubblico ministero informa l'autorità da cui l'impiegato dipende, dando notizia dell'imputazione, con espressa menzione degli articoli di legge che si assumono violati, nonché della data e del luogo del fatto. Quando, invece, l'azione ...

Intercettazioni illegali (articolo 1, comma 9)

La norma prevede che il pubblico ministero disponga l'immediata secretazione e la custodia in luogo protetto dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti. Allo stesso modo, provvede per i documenti ...

Intercettazioni di un parlamentare (articolo 1, commi 31 e 32)

Serve l'autorizzazione della Camera di appartenza. Si prevede, poi, anche, che i verbali e i supporti contenenti le registrazioni sono immediatamente trasmessi al procuratore della Repubblica, che ne dispone l'inserimento in un fascicolo separato, conservato in apposita sezione dell'archivio riservato e della loro sussistenza e` data ...

Misure cautelari personali (articolo 1, comma 18)

Stabilito che, in ogni caso, i difensori possono prendere visione integrale dell'intercettazione, richiamata per contenuto nell'ordinanza per l'applicazione delle misure cautelari personali. ...

Obbligo astensione per il giudice (articolo 1, comma 1)

Ampliato il novero delle ipotesi che fanno scattare la rinuncia da parte del magistrato all'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali. D'ora in avanti, è obbligato a presentare al proprio presidente la dichiarazione di astensione, anche, nel caso in cui abbia «pubblicamente rilasciato dichiarazioni concernenti il procedimento ...

Obbligo segreto (articolo 1, commi 20, 21 e 22)

Per gli atti e le attività d'indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, fino a quando, però, l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Previsto, tuttavia, che quando è necessario per la prosecuzione delle indagini, il pubblico ministero possa ...

Ordinanza giudice (articolo 1, comma 17)

Chiarito che nei provvedimenti del giudice, con assumono la veste di ordinanza, le intercettazioni di conversazioni, comunicazioni telefoniche o telematiche possono essere richiamate soltanto nel contenuto e sono inserite in un apposito fascicolo allegato agli atti. ...

Processi in televisione (articolo 1, comma 26)

Viene attribuito al presidente della Corte d'appello il compito di autorizzare le riprese audiovisive dei dibattimenti, anche senza il consenso delle parti, quando sussiste un interesse sociale rilevante alla conoscenza del dibattimento. ...

Sanzioni alle impresi editoriali (articolo 1, comma 28)

Sanzione pecuniaria fino a 500 quote a chi viola l'articolo 377-bis del codice penale (induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria). Sanzione di 300 quote per la pubblicazione arbitraria di intercettazioni di un procedimento penale, di 200 quote per la pubblicazione arbitraria di atti ...

Pubblicazioni "per riassunto" (articolo 1, comma 4)

Ammessa la possibilità di pubblicare per riassunto gli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare. ...

Reati intercettabili (articolo 1, comma 10)

Potranno essere intercettati tutti i reati con pene superiori ai 5 anni, compresi quelli conto la pubblica amministrazione. A cui si aggiungono, poi, i delitti di droga, contrabbando, armi e sostanze esplosive e, in genere, i reati di pornografia relativa a minori, ingiuria, minaccia, usura, manipolazione del mercato, molestia o disturbo ...

Relazione e "tetto" su spese intercettazioni (articolo 1, commi 30 e 33 e 34 e 35)

Entro il 31 marzo, ciascun procuratore della Repubblica trasmette a via Arenula una relazione sulle spese di gestione e di amministrazione riferite alle intercettazioni telefoniche e ambientali effettuate nell'anno precedente. Da Via Arenula, la relazione arriverà, poi, alla Corte dei conti. Un decreto del ministero della Giustiza, ...

Rettifiche (articolo 1, comma 29)

Che dovranno essere pubblicate per intero e senza commenti. Per i siti informatici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro 48 ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono. Per la stampa non periodica l'autore ...

Richiesta e durata intercettazioni (articolo 1, commi 11 e 36)

Spetta al Pm, con l'assenso scritto del procuratore della Repubblica (a pena d'inammissibilità), chiedere l'autorizzazione a disporre le ntercettazioni. Dovrà inviare, pure, tutto il fascicolo con gli atti fino a quel momento compiuti. La decisione è assunta con decreto collegiale, quando ricorrono congiuntamente i seguenti presupposti. ...

Sostituzione pubblico ministero (articolo 1, commi 2 e 2-bis)

Pure nel caso in cui abbia pubblicamente rilasciato dichiarazioni concernenti il procedimento affidatogli e, anche, se risulta iscritto nel registro degli indagati per rilevazione di segreti inerenti un procedimento assegnatogli. In quest'ultimo caso, però, va sentito il capo dell'ufficio competente, al fine di valutare l'effettiva ...

Stop alla pubblicazione di nomi e immagini dei magistrati (articolo 1, comma 6)

Introdotta una sorta di anonimato per il giudice. E' fatto divieto diffondere nomi o immagini di magistrati impegnati in procedimenti e processi penali loro affidati. Ci sono però delle eccezioni, come quella, per esempio, che prevede che, ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca, la rappresentazione dell'avvenimento non possa ...

Supporti contenenti le registrazioni (articolo 1, comma 24)

E i flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, racchiusi in apposite custodie numerate e sigillate, sono collocati in un involucro sul quale sono indicati il numero delle registrazioni contenute, il numero dell'apparecchio controllato, i nomi, se possibile, delle persone le cui conversazioni sono state sottoposte ad ascolto e il ...

Tempi di applicazione (articolo 1, commi da 39 a 41)

Stabilito, tra l'altro, che le disposizioni di modifica del Codice di procedura penale, a parte quanto indicato nei commi 40, 41 e 42, non si applicano ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge, alle intercettazioni di comunicazione per le quali è già stato emesso il provvedimento di autorizzazione o di proroga. ...

Verbale di vane ricerche (articolo 1, commi 19)

Si confermache al fine di agevolare le ricerche del latitante, il giudice o il pubblico ministero possano disporre l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione, che, tuttavia, viene chiarito, non sono soggette ai 75 giorni di limite massimo di durata. ...

Vietato intercettare l'avvocato difensore (articolo 1, comma 3)

Confermato il divieto di intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite. Specificato che il divieto opera, anche, nel caso di ...

LEGGE BAVAGLIO - Ecco perché bisogna fermarla

di ROBERTO SAVIANO

La Legge bavaglio non è una legge che difende la privacy del cittadino, al contrario, è una legge che difende la privacy del potere. Non intesa come privacy degli uomini di potere, ma dei loro affari, anzi malaffari. Quando si discute di intercettazioni bisogna sempre affidarsi ad una premessa naturale quanto necessaria. La privacy è sacra, è uno dei pilastri del diritto e della convivenza civile.
Ma qui non siamo di fronte a una legge che difende la riservatezza delle persone, i loro dialoghi, il loro intimo comunicare. Questa legge risponde al meccanismo mediatico che conosce come funziona l'informazione e soprattutto l'informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c'è il rinvio a giudizio genera un enorme vuoto che riguarda proprio quel segmento di informazioni che non può essere reso di dominio pubblico. Questo sembra essere il vero obiettivo: impedire alla stampa, nell'immediato, di usare quei dati che poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le informazioni veicolate rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili. L'obiettivo è impedire il racconto di ciò che accade, mascherando questo con l'interesse di tutelare la privacy dei cittadini.

Chiunque ha una esperienza anche minima nei meccanismi di intercettazione nel mondo della criminalità organizzata sa che vengono registrati centinaia di dettagli, storie di tradimenti, inutili al fine dell'inchiesta e nulle per la pubblicazione. Il terrore che ha il potere politico e imprenditoriale è quello di vedere pubblicati invece elementi che in poche battute permettono di dimostrare come si costruisce il meccanismo del potere. Non solo come si configura un reato. Per esempio l'inchiesta del dicembre 2007 che portò alla famosa intercettazione di Berlusconi con Saccà ha visto una quantità infinita di intercettazioni di dettagli privati, di cui in molti erano a conoscenza ma nessuna di queste è stata pubblicata oltre quelle necessarie per definire il contesto di uno scambio di favori tra politica e Rai.

La stessa maggioranza che approva un decreto che tronca la libertà di informazione in nome della difesa della privacy decide attraverso la Vigilanza Rai di pubblicare nei titoli di coda il compenso degli ospiti e dei conduttori. Sembra un gesto cristallino. E' il contrario. E non solo perché in una economia di mercato il compenso è determinato dal mercato e non da un calcolo etico. In questo modo i concorrenti della Rai sapranno quanto la Rai paga, quindi il meccanismo avvantaggerà le tv non di Stato. Mediaset potrà conoscere i compensi e regolarsi di conseguenza. Ma la straordinaria notizia che viene a controbilanciare quella assai tragica dell'approvazione della legge sulle intercettazioni è che il lettore, lo spettatore, quando comprende cosa sta accadendo diviene cittadino, ossia pretende di essere informato. Migliaia di persone sono indignate e impegnate a mostrare il loro dissenso, la volontà e la speranza di poter impedire che questa legge mutili per sempre il rapporto che c'è tra i giornali e i suoi lettori: la voglia di capire, conoscere, farsi un'opinione. Non vogliamo essere privati di ciò. Mandare messaggi ai giornali, mostrarsi imbavagliati, non sono gesti facili, scontati. Non sono gesti che permettono di sentirsi impegnati. Sono la premessa dell'impegno. L'intento d'azione è spesso l'azione stessa. Il dichiararsi non solo contrari in nome della possibilità di critica ma preoccupati che quello che sta accadendo distrugga uno strumento fondamentale per conoscere i fatti. La legge che imbavaglia, viene contrastata da migliaia di voci. Voci che dimostrano che non tutto è concluso, non tutto è determinabile dal palinsesto che viene dato agli italiani quotidianamente. Ogni persona che in questo momento prende parte a questa battaglia civile, sta permettendo di salvare il racconto del paese, di dare possibilità al giornalismo - e non agli sciacalli del ricatto - di resistere. In una parola sta difendendo la democrazia.

11.6.10

Rai, star a peso d'oro

di Emiliano Fittipaldi (l'Espresso)

Esclusivo: da 1,2 milioni di euro di Vespa ai 400 mila di Pupo, ai 600 mila di Cappon, stipendiato per non lavorare

L'alto dirigente della Rai fa l'occhietto furbo. "Emanuele Filiberto fa un'audience pazzesca, ma l'azienda oggi preferisce non stipulare contratti lunghi e onerosi. Il principe lo paghiamo ad apparizione: non buttiamo i soldi noialtri. Quanto gli diamo? Circa 20 mila euro a botta. Lordi, però".

Ventimila sono tanti o pochi per una serata su RaiUno? L'aristocratico di casa Savoia, piaccia o no, E' da un annetto un Re Mida degli ascolti, e anche se in una serata guadagna quanto un operaio della Fiat in un anno intero, qualcuno a viale Mazzini pensa che se li meriti tutti. "E' il mercato tv, bellezza", ti senti rispondere.

FOTO Cachet da divi, da Conti a Giletti

In effetti in Italia il duopolio e la grande generosità del concorrente costringono l'azienda di Stato a pompare da tempo gli stipendi di dirigenti, conduttori, show man e giornalisti. Nel mondo catodico non c'E' crisi che tenga, le buste paga sono sempre in rialzo. Come le polemiche, ormai all'ordine del giorno. Il caso del contratto di Santoro, con stipendio da 700 mila euro lordi l'anno e conseguente liquidazione milionaria, ha scatenato una tempesta culminata con gli strali del ministro Roberto Calderoli. Il leghista pretende che gli stipendi d'oro di viale Mazzini siano sforbiciati. Non dice, però, quali.

Lo scorso dicembre Renato Brunetta annunciò che i compensi di giornalisti e conduttori si sarebbero dovuti inserire "nei titoli di testa e di coda", e da allora tutti chiedono maggiore trasparenza. In attesa che il governo e l'azienda pubblicizzino i dati, "L'espresso" ha ottenuto dai piani alti di viale Mazzini parte degli stipendi dei divi Rai. Sono le cifre segretissime dei contratti 2009-2010, dati che a volte sommano un fisso alle cosiddette indennità di funzione, stipendioni che - va detto - vanno divisi per il numero delle puntate e che sono legati (si spera) al ritorno pubblicitario del nome.


Partiamo dai dirigenti. Il presidente Paolo Garimberti e il direttore generale Mauro Masi hanno dichiarato di guadagnare, rispettivamente, 448 mila e 715 mila euro l'anno. Sappiamo che i sette consiglieri del cda prendono 98 mila a testa. Tra i vicedirettori quello meglio piazzato E' Giancarlo Leone, che guadagna circa 470 mila euro l'anno, mentre l'astro nascente Lorenza Lei tocca solo i 350 mila, esattamente quanto il collega amato da Bossi Antonio Marano. Gianfranco Comanducci, amico storico di Cesare Previti e vicino al Pdl, prende circa 440 mila euro. Nel 2002 la sua retribuzione era di "soli" 235 mila euro. Tra incrementi retributivi, scatti di carriera, promozioni e gratifiche lo stipendio oggi E' quasi raddoppiato.

Un altro che non si può lamentare E' il direttore di Rai Fiction Fabrizio Del Noce, che viaggia sui 400 mila euro l'anno, mentre il direttore di RaiUno Mauro Mazza, designato da Gianfranco Fini, prende 300 mila euro. Pure il giovane Marco Simeon, neo capo delle relazioni istituzionali, a fine mese può sorridere: il suo contratto tocca i 190 mila euro lordi. Sorprende, invece, che Claudio Cappon, l'ex direttore generale voluto da Romano Prodi, continui a percepire circa 600 mila euro senza avere - in pratica - alcun incarico di peso. "Io ho un contratto a tempo indeterminato. La Rai avrebbe due possibilità", spiega Cappon, "potrebbe liquidarmi dandomi i soldi che mi spettano o assegnarmi la direzione di una controllata. Per ora non ha fatto nulla, e il rischio di un contenzioso E' alto". Come fa un'azienda pubblica a pagare 600 mila euro un manager a vuoto, E' un mistero.

Qualcuno, per un ruolo impegnativo, prende molto meno. "E' vero, guadagno 150 mila euro l'anno, a volte 180, dipende dal numero delle puntate. E mi sembrano più che sufficienti, sono soddisfatta così": Milena Gabanelli porta a casa con il suo "Report" ascolti a doppia cifra, ed E' la giornalista meno pagata della lista de "L'espresso". Meno ricca, per esempio, di Monica Setta, l'eroina di "Il fatto del giorno", in onda ogni pomeriggio su RaiDue, che prende 200 mila euro.

Tra gli uomini, Giovanni Minoli, ex direttore di RaiEducational e oggi capo della struttura che si occuperà della programmazione in occasione dei 150 anni dell'unità d'Italia, ha uno stipendio che arriva, tra fisso e indennità, a 550 mila euro. Il numero di puntate che conduce e di cui E' autore supera le 200 l'anno. Bruno Vespa, che E' esterno, prende invece più del doppio: 1,2 milioni, mentre "Ballarò" porta nelle tasche di Giovanni Floris 450 mila euro l'anno. Anche il conduttore in forza a RaiTre uscendo dall'azienda oggi guadagna più di prima, assumendosi come contropartita, dicono i suoi, "i rischi insiti in una collaborazione a tempo". Il contratto di Minzolini non E' nella lista, ma una fonte autorevole giura che E' simile a quello di Gianni Riotta, "forse qualcosa di più". Riotta nel 2007 prendeva un fisso da 560 mila euro, con bonus che potevano far lievitare la busta paga fino a 610 mila. Chissà cosa ne pensa Lamberto Sposini, ex vice di Enrico Mentana al Tg5, che oggi come conduttore di "La vita in diretta" ha un contratto da circa 250 mila euro l'anno.

Veniamo alle star dell'intrattenimento. Il monte stipendi Rai supera di poco il miliardo di euro, e un decimo finisce nei conti correnti dei contrattisti esterni: alcuni vip vengono pagati attraverso i cosiddetti accordi di volume tra la Rai e altre società come Magnolia ed Endemol. Una delle dive più pagate E' Antonella Clerici: il contratto in scadenza era di circa 1,5 milioni, cachet che comprendeva anche la conduzione del Festival di Sanremo. Il nuovo accordo, pare, sarà ritoccato al rialzo. Il suo successore all'Ariston dovrebbe essere Carlo Conti, che oggi guadagna 1,3 milioni l'anno. "Un affare", chiosano da viale Mazzini, "vista la mole di serate che dirige". Conti E' l'uomo-ovunque: fa "L'eredità" tutti i santi pomeriggi, "I migliori anni" il venerdì sera, da un po' "Voglia di aria fresca", per non contare le serate Rai in cui gioca a fare l'ospite.

La famiglia Angela ha invece un profilo diverso, come diverse sono le buste paga di padre e figlio: insieme costano poco più di un milione di euro, ma 750 mila sono per Piero, solo 300 mila appannaggio di Alberto. Se tutti sanno che Fabio Fazio sfiora i 2 milioni l'anno per il suo "Che tempo che fa", seguito dai 700 mila di Serena Dandini impegnata a difendere le serate (sempre si RaiTre) di "Parla con me", nessuno sa che Pupo ha strappato un contratto da 400 mila euro l'anno, di poco inferiore a quello firmato da Max Giusti: il comico che conduce dal 2008 "Affari tuoi" ed E' ora in onda con "Stasera E' la tua sera" prende circa mezzo milione.

Massimo Giletti, eroe settimanale dell'Arena di "Domenica In" e giurato in "Ciak...si canta", guadagna invece 350 mila euro l'anno, 50 mila in più dell'ex zarina dell'azienda Alda D'Eusanio, in onda sempre la domenica ma su RaiDue. Molto meno guadagna la show girl che ha sostituito con grandi polemiche la Clerici alla "Prova del cuoco": la giovane Elisa Isoardi da Cuneo, classe 1982, prende per spiegare ricette e ospitate varie 180 mila euro tondi tondi. Non male, visto che il più anziano Osvaldo Bevilacqua, dal 1977 al timone di "Sereno variabile", può contare su 250 mila euro l'anno. Guarda tutti dall'alto in basso l'immenso Pippo Baudo: il mito resiste anche nel cachet, visto che i 900 mila euro l'anno sono riservati davvero a pochi.

8.6.10

Eugenetica padana

Concita De Gregorio

L'incredibile storia che vi raccontiamo oggi ha il pregio, se è lecito usare la parola pregio in una vicenda che non ne contempla alcuno, di chiarire esattamente in cosa consista, nella pratica, quel mix di egoismo, brutalità, cinismo e disprezzo delle povertà in qualunque forma si manifestino che va sotto il nome di leghismo. Siamo nella Regione Veneto, si parla di trapianti di organi. L'assessore alla Sanità, fieramente padano, scrive le linee guida a cui i medici delle strutture regionali dovranno attenersi. Non si dovranno trapiantare organi, scrive nero su bianco, a quelle persone che abbiano un quoziente intellettivo al di sotto del punteggio 50. Nemmeno a chi abbia di recente tentato il suicidio. Anche in questo caso non ne vale la pena. Perché la comunità dovrebbe dare un fegato a uno che ha cercato di uccidersi? E se lo fa un'altra volta? È uno spreco. Perché bisognerebbe dare un rene a una persona down, a un ragazzino con un deficit dell'intelligenza? Perché lo chiede sua madre? Ma andiamo, su.

Basta con questi buonismi pietosi. Si trapianta qualcuno che valga la pena trapiantare: i malati potenzialmente sani. I malati cronici no. Un demente, un handicappato: che si trapiantano a fare, tanto sani non tornano. L'estensione del criterio a chi ha tentato il suicidio è se possibile persino più aberrante. È come stabilire per legge che non esista la sofferenza dell'anima, il dolore disperato e profondo - emendabile, tuttavia, chi non lo spera? È come stabilire nelle linee guida venete che la speranza non esiste. Chi tenta di uccidersi deve essere un malato di mente. Uno che lo farà certamente di nuovo. Col paradosso, lo spiega nella sua veste di medico Ignazio Marino, che chi tenta il suicidio ingerendo pasticche (da cui spesso discende la necrosi del fegato) non dovrebbe essere operato ma lasciato morire.

Le linee guida sono state scritte un anno fa, nel marzo del 2009. Per un anno, dunque, si suppone che i medici vi si siano attenuti. Solo in questi giorni, dopo che l'American Journal of Transplantation ha pubblicato un articolo incredulo parlando del Veneto alla comunità internazionale, il medesimo assessore ha ritenuto di «rispondere a questo polverone» con una circolare interpretativa che fa parziale marcia indietro. Se nessuno ne avesse scritto - e nessuno, per un tempo lunghissimo, lo ha fatto - tutto a posto, avanti così. Sorgono spontanee alcune domande, pur senza disporre di un quoziente intellettivo straordinario. Per quale ragione i paladini delle crociate antiabortiste non insorgono? Se decidere di non far nascere una creatura destinata è vivere con gravi handicap è omicidio (eugenetica, come sostengono, selezione della razza) non è ben più grave negare le cure ai vivi, nati e divenuti adulti? Bisognerebbe farli nascere e poi morire negando loro le cure? E perchè chi è destinato a morte certa, malato terminale, deve stare attaccato alle macchine contro il volere suo o dei suoi familiari? In che senso far intervenire la scienza per mantenere in vita una persona in coma irreversibile è più utile, giusto, etico che farlo per mantenere viva una persona viva? Dipende dal suo Q.I.? Se è questo il punto riprendiamo pure a parlare di selezione della razza: riprendiamo da qui.

Lo scrittore e la tragedia in quattro atti della sinistra

di Wu Ming

C'è chi in questi anni, ben prima che pullulassero presunti ribelli e nuovi eroi dell'antisavianismo militante, ha criticato con durezza il culto del Saviano-simbolo e la facile voglia di icone, senza però trascinare in una demolizione da (finti) bastiancontrari la persona e, soprattutto, il libro e il lavoro compiuto. La “critica”, come vuole anche l'etimo, deve sempre “tagliare”, separare, discernere, distinguere. In rete e dalle pagine de l'Unità, noi abbiamo analizzato un dispositivo mediale/autoriale che ”blocca” Saviano, lo feticizza e ne riproduce serialmente l'immagine, banalizzandola e inflazionandola. Esito per molti versi inevitabile: Saviano deve apparire di continuo per tutelarsi, l'ombra e l'oblio sono per lui un pericolo. Tuttavia, l'inevitabilità non deve impedire di cogliere limiti, aporie, contraddizioni.

Nel fare questo, non ci siamo mai sognati di attaccare Saviano come persona chiamandolo “burattino”, “eroe di carta”, “narcisista”, “manovrato”, ”furbetto”; non abbiamo mai detto che Gomorra (libro importantissimo) è una truffa, una merda, un diversivo o una favoletta; non abbiamo sollevato questioni di lana caprina su grammatica e sintassi; non abbiamo mai scherzato sulla pelle degli altri, lanciando frecciatine sulla scorta di Saviano o sull'effettivo pericolo che corre; non abbiamo mai fatto illazioni odiose su Saviano che “fa il gioco” di questo e di quello, è “funzionale” a questo o quel potere, è “manovrato” da questo o quel padrone etc. Tutte cose che, con diverse gradazioni, troviamo invece nelle sparate "accademiche" e musicali degli ultimi giorni.

Purtroppo in Italia una medaglietta da intellettuale controcorrente non si nega a nessuno. E' facilissimo e costa davvero poco mostrare un “conformismo dell'anticonformismo”. A sinistra, è una recita replicata fino al vomito e si svolge in quattro atti, senza finale:

Atto I, buttarla in vacca con prese di posizione presuntamente ”shock”, fintamente anticonformiste e in realtà subalterne alla banalità imperante ("Questo Saviano ha rotto il cazzo"). Atto II, seguono prese di posizione giustamente dure.

Atto III, il vittimismo eroico: “vogliono tapparmi la bocca”, “non c'è vero diritto di critica”, “bisogna avere il coraggio di prese di posizione scomode” etc.

Atto IV, giunge il plauso della destra e dei suoi giornali, che lodano chi si mostra "anticonformista" nel campo avverso. Passa un po' di tempo, e si ricomincia dall'Atto I. Va aggiunto che oggi, in Italia, il discorso rozzo passa per discorso verace, la reazione "de panza" per chiarezza mentale, il vaffanculo per rivoluzione. Qualche tempo fa, a un appuntamento letterar-mondano della capitale, un piccolo editore de super-sinistra è stato visto sfregarsi le mani soddisfatto e, con grande allegria, dire in giro: 'Vedrete, vedrete cosa abbiamo pronto! Adesso gliela facciamo vedere noi, a Saviano!” In Emilia diciamo: “Più che cumpagn, ien cumpagn a châietar” (Più che compagni, sono uguali agli altri).

°Collettivo di scrittori

3.6.10

Grossman: "Un atto criminale che riaccende odio e vendette"

(David Grossman, scrittore israeliano, nel 2006, ha perso un figlio arruolato nell'esercito di Israele)

Nessuna spiegazione può giustificare o mascherare il crimine commesso da Israele [ndr: assalto dell'esercito israeliano ad una nave di pacifisti che ha causato 9 vittime tra i civili impegnati a portar soccorso ai palestinesi] e nessun pretesto può motivare l'idiozia del suo governo e del suo esercito. Israele non ha inviato i suoi soldati a uccidere civili a sangue freddo, in pratica era l'ultima cosa che voleva che accadesse, eppure una piccola organizzazione turca, dall'ideologia fanatica e religiosa, ostile a Israele, ha arruolato alcune centinaia di pacifisti ed è riuscita a fare cadere lo Stato ebraico in una trappola proprio perché sapeva come avrebbe reagito e fino a che punto era condannato, come una marionetta, a fare ciò che ha fatto.

Quanto deve sentirsi insicura, confusa e spaventata una nazione per comportarsi come ha fatto Israele! Ricorrendo a un uso esagerato della forza (malgrado aspirasse a limitare la portata della reazione dei presenti sulla nave) ha ucciso e ferito civili al di fuori delle proprie acque territoriali comportandosi come una masnada di pirati. È chiaro che queste mie parole non esprimono assolutamente consenso alle motivazioni, nascoste o evidenti - e talvolta malvagie - di alcuni dei partecipanti al convoglio diretto a Gaza. Non tutti sono pacifisti animati da intenzioni umanitarie e le dichiarazioni di alcuni di loro riguardanti la distruzione dello stato di Israele sono infami. Ma tutto questo ora è irrilevante: queste opinioni non prevedono, per quanto si sappia, la pena di morte.

L'azione compiuta da Israele ieri sera non è che la continuazione del prolungato e ignobile blocco alla striscia di Gaza, il quale, a sua volta, non è che il prosieguo naturale dell'approccio aggressivo e arrogante del governo israeliano, pronto a rendere impossibile la vita di un milione e mezzo di innocenti nella striscia di Gaza pur di ottenere la liberazione di un unico soldato tenuto prigioniero, per quanto caro e amato. Il blocco è anche la continuazione naturale di una linea politica fossilizzata e goffa che a ogni bivio decisionale e ogni qualvolta servono cervello, sensibilità e creatività, ricorre a una forza enorme, esagerata, come se questa fosse l'unica scelta possibile.

E in qualche modo tutte queste stoltezze - compresa l'operazione assurda e letale di ieri notte - sembrano far parte di un processo di corruzione che si fa sempre più diffuso in Israele. Si ha la sensazione che le strutture governative siano unte, guaste. Che forse, a causa dell'ansia provocata dalle loro azioni, dai loro errori negli ultimi decenni, dalla disperazione di sciogliere un nodo sempre più intricato, queste strutture divengano sempre più fossilizzate, sempre più refrattarie alle sfide di una realtà complessa e delicata, che perdano la freschezza, l'originalità e la creatività che un tempo le caratterizzavano, che caratterizzavano tutto Israele. Il blocco della striscia di Gaza è fallito. È fallito già da quattro anni.

Non solo tale blocco è immorale, non è nemmeno efficace, non fa che peggiorare la situazione, come abbiamo potuto constatare in queste ore, e danneggia gravemente anche Israele. I crimini dei leader di Hamas che tengono in ostaggio Gilad Shalit da quattro anni a questa parte senza che abbia ricevuto nemmeno una visita dai rappresentanti della Croce Rossa, che hanno lanciato migliaia di razzi verso i centri abitati israeliani, vanno affrontati per vie legali, con ogni mezzo giuridico a disposizione di uno stato. Il prolungato isolamento di una popolazione civile non è uno di questi mezzi. Vorrei poter credere che il trauma per la sconsiderata azione di ieri ci porti a riesaminare tutta questa idea del blocco e a liberare finalmente i palestinesi dalla loro sofferenza e Israele da questa macchia. Ma la nostra esperienza in questa regione sciagurata ci insegna che accadrà invece il contrario: che i meccanismi della violenza, della rappresaglia e il cerchio della vendetta e dell'odio ieri hanno ricominciato a girare e ancora non possiamo immaginare con quale forza.
Ma più di ogni altra cosa questa folle operazione rivela fino a che punto è arrivato Israele. Non vale la pena di sprecare parole. Chi ha occhi per vedere capisce e sente. Non c'è dubbio che entro poche ore ci sarà chi si affretterà a trasformare il senso di colpa (naturale e giustificato) di molti israeliani, in vocianti accuse a tutto il mondo.

Con la vergogna, comunque, faremo un po' più fatica a venire a patti.

Traduzione dall'ebraico di A. Shomroni