29.11.19

Juventus, il triste addio di Eni Aluko: "Stanca di essere trattata come una ladra"

L'attaccante lascia e accusa: "Contro la Fiorentina la mia ultima gara in bianconero. Orgogliosa di aver vinto tanto, ma l'Italia è un paio di decenni indietro sul tema dell'integrazione"

(La Repubblica)

"Basta essere trattata come una ladra". E' un triste addio quello di Eniola Aluko, che lascia la Juventus. Lo annuncia lei stessa scrivendo una lettera al Guardian. Una sola stagione e mezzo in cui la calciatrice nigeriana naturalizzata britannica, ha conquistato il tricolore, la Coppa Italia e la Supercoppa nazionale.
"Italia anni indietro sul tema integrazione"
"Questo fine settimana voglio giocare la mia ultima partita per la Juventus, portando a termine un anno e mezzo di grandi successi e tanto apprendimento - ha detto la Aluko -. Quando sono arrivata nell'estate del 2018, sono stata conquistata da un grande club e da un grande progetto. Sul campo abbiamo vinto tanto: un titolo di campionato, la coppa nazionale e la Supercoppa". Diverso il discorso fuori dal campo: "A volte Torino sembra un paio di decenni indietro sul tema integrazione. Sono stanca di entrare nei negozi e avere la sensazione che il titolare si aspetti che io rubi qualcosa", ha accusato la Aluko. "Tante volte arrivi all'aeroporto - ha detto ancora - e i cani antidroga ti fiutano come se fossi Pablo Escobar..." L'attaccante nigeriana ha precisato però "di non avere avuto episodi di razzismo dai tifosi della Juventus né tanto meno nel campionato di calcio femminile, ma il tema in Italia e nel calcio italiano c'è ed è la risposta a questo che veramente mi preoccupa, dai presidenti ai tifosi del calcio maschile che lo vedono come parte della cultura del tifo".
"Sono orgogliosa"
"Ripensando ai miei successi con questa squadra, che includeva il completamento della scorsa stagione come capocannoniere, sono orgogliosa. Quando sono arrivata, non sapevo se potevo adattarmi allo stile di gioco, alla cultura, alla lingua e alla città di Torino. Sapevo che avrei giocato, ma non sapevo dove, o quanto bene. In una squadra costruita attorno a un nucleo di nove nazionali italiane, sono riuscita a integrarmi perfettamente. Non credo sia una cosa facile da fare per un attaccante internazionale. Quindi lasciare dopo soli 18 mesi non è stata una decisione facile. Mi rendo conto che la mia attenzione deve essere rivolta ai prossimi 3-5 anni della mia carriera piuttosto che ai prossimi mesi, ma riflette anche il fatto che ho trovato gli ultimi sei mesi molto difficili". "La mia ultima partita è contro la Fiorentina, seconda classificata della scorsa stagione. È un match importante nella corsa al titolo contro una diretta concorrente. Non vedo l'ora di salutare i tifosi della Juventus che mi hanno mostrato rispetto e sostegno. Domenica torno a casa", ha aggiunto l'attaccante.
"Entusiasta di cosa mi riserverà il futuro"
"Tra oggi e Natale lavorerò per Amazon seguendo le partite della Premier League, della WSL e facendo altre cose eccitanti come finire il mio libro. Molte persone vedono la fine dell'anno come un momento di riflessione e quindi per fare piani e fissare obiettivi per il futuro, e sicuramente lo farò anche io. Dopo 18 mesi il capitolo si sta chiudendo, in una lunga carriera. Tornerò a casa, dove tutto è iniziato, e ancora una volta sono entusiasta di ciò che il futuro ha in serbo", ha concluso la Aluko.

26.11.19

Arretratezza e pregiudizi, quanto ancora ci resta da fare

Fiorenza Sarzanini (Corriere)

Chi si è stupito che la statua dedicata a una donna uccisa dal marito sia stata distrutta (ed è la sesta volta), dovrebbe leggere i risultati del sondaggio Istat sulla violenza. E si renderebbe conto che su questo tema l’Italia è in uno stato di arretratezza che deve far paura. Scoprire che per oltre il 39% degli intervistati «una donna può sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole», più del 24% pensa che «il modo di vestire possa provocare i maschi» così giustificando di fatto l’aggressione, oltre il 7% «accetta lo schiaffo di chi si sente tradito», dimostra quanto ancora c’è da fare per proteggere le donne. Anche da se stesse. Perché nel «campione» ci sono persone di entrambi i sessi di un’età compresa tra i 18 e i 74 anni. E sembra difficile che simili risposte siano arrivate soltanto dagli uomini. Evidentemente ci sono madri, mogli, fidanzate, donne sole che ritengono di essere al sicuro e arrivano a condividere il pregiudizio di tanti uomini secondo i quali una donna emancipata che subisce violenza «se l’è andata a cercare». Molte altre subiscono in silenzio le angherie dei propri aguzzini, senza avere la forza di ribellarsi. Altre ancora scambiano la gelosia e la possessività del proprio compagno per amore. Tutte vittime di situazioni che non riescono a contrastare. Ed è soprattutto per loro che si deve agire, intensificando l’attività di prevenzione. Bisogna educare i ragazzi ma anche gli adulti, spiegare bene che si può vivere in un mondo dove le donne sono soggetti da rispettare, non oggetti da prendere e portare via. Le piazze piene di donne che si ribellano non devono farci illudere: siamo ancora troppo indietro.

16.11.19

Genova 2019. Autobus di linea. Quando il razzismo tocca i bambini

Genova 2019. Autobus di linea. Quando il razzismo tocca i bambini, il nostro Paese è perduto.

(sosdonne)

Succede che sali su un autobus con la tua classe per un’uscita didattica, succede che il viaggio è abbastanza lungo, succede che cerchi di sistemare i bambini in modo di averli tutti sotto controllo. Loro sono diciannove, noi insegnanti in tre. Succede che uno di loro finisca vicino ad una signora, lui non è bianco, non è italiano, ed è disabile, parla pochissimo, ma ha gli occhi buoni e intelligenti. Guarda fuori dal finestrino, è felice di essere con la sua classe, noi che lo conosciamo lo sappiamo. La mamma ci racconta che la domenica si sveglia spesso alle cinque e dice: “Io scuola, io scuola” e lei prova a spiegarle che non c’è scuola la domenica e non ci sono i suoi compagni, ma lui si dispera, si veste, vuole uscire.

La signora vicino a lui contorce la bocca e inizia a lamentarsi. “Poi non pagano nemmeno il biglietto!” esclama. Io e le mie colleghe la guardiamo incredule, non vogliamo credere che stia succedendo, lei continua, borbotta, è davvero infastidita. Così, per farla tacere, una di noi le risponde che il biglietto i bambini ce l’hanno e l’hanno pagato tutti.

La signora, se così si può chiamare, a un certo punto guarda il nostro piccolo con disprezzo, e ci chiede: “Me lo potete togliere?”. Non è infastidita dalla sua disabilità, perchè, a volte, succede anche questo, ma dal colore della sua pelle.

La mia collega le risponde pronta: “Lui non si alza, se vuole si sposti lei”.

I bambini ci guardano, è difficile essere insegnanti in quel momento, devi proteggerli, non esporli, ma come? Stando zitte, facendo finta di niente per non urtargli l’animo?

Poi pensi allo spazio che il silenzio può lasciare al razzismo, a quello che è successo nel passato dentro a questo spazio, e tu sei un’educatrice, pensi a Rosa Park e pensi che era il 1955 e queste cose accadevano tanto tempo fa, non oggi a Genova, nella tua città, con i tuoi bambini.

La signora si alza, si siede vicino ad un’altra nostra bambina e le sorride, lei va bene perchè è bianca, è bionda, parla italiano. Forse pensa che le assomigli, ma non è così. Noi tre ci guardiamo, siamo provate, avevamo appena finito di vedere uno spettacolo meraviglioso e profondo intitolato “LUCE ” di Aline Nari che parlava delle domande importanti che sanno farsi i bambini e dell’unicità di ognuno di loro, vaglielo a spiegare che tutta quella bellezza è svanita in un attimo dentro alla discriminazione di quella signora.

Lui, in nostro bambino guarda fuori, legge i cartelli con quella voce metallica a noi tanto cara, ora è contornato dai suoi compagni, sono in tre in due sedili, si strigono come fossero una cosa sola.

A me sale la rabbia, è giusto stare zitte? così, ritorno dalla signora, faccio spostare la nostra bambina ‘bianca’ in un altro posto e le dico: “Lei merita di stare da sola, qui i diritti sono di tutti, il mondo non è suo!” e mi sposto al centro dell’autobus. Lei continua a lamentarsi, inveisce contro di me, le mie colleghe le rispondono a tono, finchè non tace.

Prima di scendere mi passa davanti, mi picchietta il braccio tre volte con forza: “Non mi hai fatto paura” mi dice come se il problema fosse chi è più forte tra me e lei.

“Non ha capito niente, nessuno voleva farle paura, solo farla ragionare che il mondo è di tutti, soprattutto dei bambini e lei non ha più diritti degli altri”.

Ha alzato le spalle ed è scesa, sguardo dritto e sicuro. Legittimata anche dallo schifo di questi politicanti che non s’indignano abbastanza, questa è la verità.

Io e le mie colleghe ci siamo guardate, avevamo gli occhi lucidi. Siamo state in silenzio fino a scuola.

Ovviamente in classe abbiamo parlato con i nostri alunni, perché erano lì, ci hanno visto, uno di loro aveva le idee molto chiare su quello che era successo a un suo fratello, suo fratello, in questo caso, il fragile dei più fragili. “Quella signora era razzista” ha detto.

Ed è proprio così, perché è importante che, almeno loro, sappiano dare il nome alle cose e capiscano da che parte stare prima che sia troppo tardi.

Stasera una delle mie colleghe mi ha chiamato. “È stata una brutta giornata” ci siamo dette. Un mondo in cui degli adulti se la prendono con dei bambini è un mondo che fa paura.

Dobbiamo parlarne. Ancora e ancora, non lasciare spazio alle discriminazioni, non lasciare terreno fertile alle ingiustizie, è stato un attimo che i bambini ebrei non sono più andati a scuola e sono saliti su un treno dritti verso l’inferno.

Un attimo di silenzi e collusione. Questi atti gravi hanno trovato lo spazio di esistere non solo grazie alle politiche contro i migranti ma anche a quelle tiepide e non coraggiose di quei governi che si chiamano di “sinistra”.

Dobbiamo denunciare ogni atto razzista, dobbiamo proteggere i nostri piccoli e il loro futuro, ci siamo ribadite io e lei dentro a quella telefonata, forse per farci coraggio, forse per sentirci vicine e allontanare la rabbia.

La mia collega mi ha detto:”Dovevano fermare l’autobus!”.

“Gia”, le ho risposto io. Una cosa è certa, i nostri bambini hanno ben chiaro che sono fratelli. Siamo noi che, spesso, non siamo alla loro altezza e non impariamo nulla dalla storia, dai nostri morti, dall’odio.

E non sappiamo insegnare la Pace, perchè avere un nemico porta consensi, canalizza la rabbia, è utile per il potere.

Un nemico, appunto.

E vennero a prendere anche i bambini.

14.11.19

Così Venezia è stata tradita (di nuovo): Mose e progetti, oltre 50 anni di annunci caduti nel vuoto

L’acqua alta che ha colpito il capolavoro della Laguna non era impossibile da arrestare. Ma dall’«aqua granda» del 1966 in poi, la priorità di salvare Venezia è finita sempre in secondo piano. E il Mose inerte di fronte alla minaccia di ieri ne è il simbolo: tragico

di Gian Antonio Stella (Corriere)

«Vento e piova / Che el Signor la mandava / Dai Tre Porti / Da Lio, da Malamocco / L’acqua vegniva drento de galopo / La impeniva i canali, / La bateva in tei pali...». A vedere l’acqua alta di ieri sera a Venezia pareva davvero di rileggere i versi disperati del poeta ottocentesco Francesco Dall’Ongaro.

Le sirene del primo allarme sono arrivate alle sei del pomeriggio: 145 centimetri. Le seconde verso sera: 160. Le terze alle 22:50: «La laguna subisce gli effetti di non previste raffiche di vento da 100 KM orari. Il livello potrebbe raggiungere i 190 centimetri alle 23:30». Arriverà in realtà a 187. Solo sette centimetri in meno dell’«aqua granda» disastrosa del 1966.

Anche i più previdenti, come Giampietro Zucchetta che anni fa scrisse per Marsilio «Storia dell’Aqua Alta a Venezia», un libro che traboccava di cronache antiche e illustrazioni e rapporti scientifici, nulla hanno potuto davanti alla violenza delle acque. Al portone di casa aveva montato una robusta paratia che arriva a un metro e 75 centimetri. Più di così! Nella notte le acque se la sono portata via e la stanza d’ingresso è finita sotto.

Le foto pubblicate da Corriere.it dicono tutto. Gondole strappate all’ormeggio e lasciate dalla corrente in mezzo alle calli e ai campielli. Vaporetti sollevati da una forza possente e abbandonati di sbieco sulle rive del Canal Grande. Alberghi di lusso come gli Gritti completamente allagati coi divani e i tavolini del settecento galleggianti tra le stanze mentre il ritratto di un doge guarda severo appeso alla parete. Decine di vetrine sfondate. Negozi di moda e suppellettili e vestiti travolti dalla marea, con le borse che affogano in un’acqua sporca. Piazza San Marco totalmente sotto, con rari turisti che si muovono prudentemente con gli stivaloni sono così scossi da essere indecisi se fare o non fare la foto ricordo, un po’ offensiva per quelli che stanno cercando di contenere i danni. Negozianti con le mani nei capelli.

Solo la piena del ‘66 fu così devastante. Al punto di sollevare un’indignazione mondiale contro il continuo aumentare dei giorni di acqua alta. E di spingere Venezia, il Veneto, l’Italia, a cercare una soluzione. «Non c’è tempo da perdere!», dicevano tutti. «Non c’è tempo da perdere!». Poi le acque si ritirarono, il fango fu asciugato, le botteghe vennero riaperte, i tavolini dei bar tornarono al loro posto e coi tavolini tornò al suo posto anche il sole. I lavori «urgentissimi» si fecero «urgenti», poi «necessari in tempi brevi», poi diluiti nei dibattiti: «Bisogna pensarci bene».

Ci pensarono per vent’anni: vent’anni. Il quadruplo del tempo impiegato anni dopo dai cinesi per costruire il Ponte della Baia di Hangzhou. Poi decisero di aggiornare l’idea «molto grandiosa» che un certo Augustino Martinello aveva proposto al doge nel 1672 e cioè di fare un «muro a archi» alle bocche di porto con «delle porte da alzare e bassare per regolare le acque in caso di bisogno».

Due anni dopo, a cavallo fra ottobre e novembre del 1988, un pimpante Gianni De Michelis presentava il prototipo di una delle paratoie che sarebbero state immerse nel mare alle bocche di porto per sollevarsi ogni volta che fosse stato necessario nei casi di acqua alta. Gongolò l’allora doge socialista: «Per Venezia è un giorno storico. Per la prima volta si passa dai progetti, dalle intenzioni, dai dibattiti e dalle chiacchiere a qualcosa di concreto. Se tutto andrà bene, dopo questi mesi di sperimentazione, potremo finalmente cominciare il conto alla rovescia per la sistemazione di queste paratie che proteggeranno la laguna dall’acqua alta». Ciò detto, battezzò quella che considerava una «sua» creatura: «Chiamiamolo Mosè». Appena nato, si legge sul Corriere di quel giorno, segnava già un record: era «il prototipo forse più costoso mai costruito al mondo. Una “brutta copia” da venti miliardi di lire. È un colosso alto 20 metri, lungo 32, largo 25. Pesa 1100 tonnellate e vivrà circa otto mesi, il tempo di collaudare il funzionamento della “paratia”, quell’enorme cassone piatto e internamente vuoto, lungo 17 metri, largo 20 e spesso quasi 4, ancorata agli angoli da quattro gru».

Ma i tempi? De Michelis era ottimista: l’obiettivo «resta quella del 1995». Certo, precisava con qualche cautela: «Potrebbe esserci un piccolo slittamento, visto che siamo partiti con tanto ritardo. Ma ormai il processo è avviato». Da allora, mentre il Mosé perdeva l’accento afflosciandosi nel Mose, sono trascorsi trentuno anni. Quasi quanti quelli passati dal Mosé biblico e dal suo popolo nell’interminabile traversata del deserto. Dice il Deuteronomio: «La durata del nostro cammino, da Kades-Barnea al passaggio del torrente Zered, fu di trentotto anni, finché tutta quella generazione di uomini atti alla guerra scomparve dall’accampamento…».

E qual è la situazione? Prendiamo dall’Ansa l’ultima promessa, «elargita» il 12 settembre scorso: « È fissata al 31 dicembre 2021 la consegna definitiva del sistema Mose, a protezione della Laguna di Venezia dalle acque alte. La data è contenuta nel Bilancio 2018 del Consorzio Venezia Nuova, il concessionario per la costruzione del Mose. La produzione complessiva svolta nel 2018 dal Consorzio ammonta a 74 milioni di euro. Il completamento degli impianti definitivi del sistema è previsto per il 30 giugno 2020, con l’avvio dell’ultima fase di gestione sperimentale».

Rileggiamo: «fase sperimentale». Quarantadue anni di sperimentazioni. Di polemiche. Di sprechi. Di mazzette. Di inchieste giudiziarie. Di rinvii. Di manette. Di dimissioni. Di commissari. Di buonuscite astronomiche come quei 7 milioni di euro (duecentotrentatremila per ogni anno di lavoro: pari allo stipendio annuale del Presidente della Repubblica!) dati come liquidazione all’ingegner Giovanni Mazzacurati, il Deus ex machina del consorzio che se l’era filata a vivere in California, dove poi sarebbe morto, prima ancora di sapere come sarebbe finito il processo che avrebbe potuto condannarlo a risarcimenti milionari…

Otto miliardi di euro, contando anche i soldi per le opere di contorno, è costato finora il Mose: «Il triplo dei due miliardi e 933 milioni (euro d’oggi) dell’Autostrada del Sole. E come siamo messi? Notizia Ansa prima del disastro di questa notte, datata 31 ottobre: «Non c’è pace per il Mose di Venezia, la grande opera che dovrebbe salvaguardare la città e la laguna dalle alte maree. Dopo l’allungamento dei tempi per la costruzione, lo scandalo legato alle tangenti, ora un nuovo stop alla fase di test delle paratoie (…) Il Consorzio Venezia Nuova ha reso noto oggi che è stato rinviato a un’altra data il sollevamento completo della barriera posata alla bocca di porto di Malamocco. La ragione è dovuta al riscontro, avvenuto durante i sollevamenti parziali delle dighe mobili, il 21 e 24 ottobre scorso, di alcune vibrazioni in alcuni tratti di tubazioni delle linee di scarico. Un comportamento che ha indotto i tecnici del Consorzio allo stop, in attesa di verifiche dettagliate e di interventi di soluzione del problema». E intanto Venezia è andato di nuovo sotto. Col terrore che arrivino altri «effetti di non previste raffiche di vento»…

5.11.19

Lo sfruttamento non ha età: l’incubo dell’assicurazione previdenziale obbligatoria

di Coniare Rivolta * (Contropiano)

Dalle colonne del Corriere della Sera del 30 ottobre appare un titolo suggestivo, che colpisce immediatamente: “Gli anziani non sono un peso”, a firma di Ferruccio De Bortoli.

Uno dei maggiori esponenti del pensiero economico e politico dominante, megafono della propaganda liberista, sembra finalmente andare contro corrente. Anni ed anni di ideologia del conflitto intergenerazionale tra giovani e vecchi, di ripetuti anatemi contro gli anziani che peserebbero come un fardello sulle spalle dei giovani precari, di asserita insostenibilità del sistema pensionistico, sembrano finalmente espiati dal ragionevole pentimento di De Bortoli che ci spiega che i vecchi non sono un peso.

Titolo ed incipit sembrano proprio una garanzia: “Gli anziani in Italia non sono un peso. Si può (e si deve) dare più spazio ai giovani senza creare disagi e inutili sensi di colpa a genitori e nonni. Una questione di civiltà.” Limpido e chiaro. Ben detto Ferruccio, finalmente!

Purtroppo però, il vero senso dell’articolo si annida nel seguito, che fa piazza pulita delle nobili intenzioni iniziali. Una sequela impressionante di luoghi comuni e inquietanti ricette. Continua infatti l’ex direttore del Corriere:

“Investiamo poco, ci assicuriamo di meno, nascondiamo sotto il tappeto le dinamiche inesorabili della nostra società. Se teniamo al futuro delle prossime generazioni dovremmo parlarne di più. E aiutarle per tempo ad affrontare le emergenze dell’invecchiamento della popolazione. Un peso, forse insopportabile, che cadrà sulle loro spalle. Una mina nascosta nel Servizio sanitario nazionale (che deve curare più che assistere) e nei conti dell’Inps. Oggi abbiamo quasi 14 milioni di italiani con più di 65 anni. Secondo l’Istat, nel 2037, in un contesto di popolazione calante, ne avremo 4,5 milioni in più. La percentuale di coloro che non sarà autosufficiente è destinata a crescere esponenzialmente. Oggi a 75 anni è del 26 per cento; a 85 anni del 46 per cento”.

Ecco che torna in grande stile la tesi della “bomba demografica”, che metterebbe a repentaglio la sostenibilità del nostro stato sociale, delle pensioni e della sanità nel futuro prossimo. E’ in particolare il tema della non autosufficienza di una popolazione anziana crescente che sembra preoccupare De Bortoli:

“l’assistenza agli anziani non autosufficienti assorbe (quattro miliardi) ormai la metà della spesa sociale dei Comuni. E in futuro, di questo passo, finirà per drenarla tutta. A danno di altri servizi assistenziali di primaria importanza, come il sostegno all’infanzia, l’aiuto ai poveri”.

Nel mondo delle risorse scarse che ci racconta De Bortoli, il mondo dell’austerità e della disoccupazione come male necessario, più assistenza agli anziani non autosufficienti significa meno sostegno all’infanzia e ai poveri. I soldi non ci sono, occorre scegliere, stabilire priorità, perché un bisogno esclude l’altro, non se ne esce. Ed allora che fare? Due sono le soluzioni prospettate da De Bortoli. La prima è legata al ruolo dei lavoratori stranieri:

“In Italia lavora più di un milione di badanti (quasi tutte o tutti stranieri, oltre la metà irregolare, spesso non preparati). Un numero superiore a quello di tutti i dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale (poco più di 600 mila). Se, per ipotesi, scioperassero tutte o tutti insieme sarebbe la paralisi. Vera. Ecco uno sguardo poco consueto sulla fragilità della nostra società. La ricerca di badanti conviventi è stata poi resa problematica dal diminuito afflusso di immigrati. Ed ecco un altro angolo di lettura, poco diffuso, del tema dell’immigrazione. Chiudersi significa anche questo”.

Dunque, dobbiamo accogliere gli immigrati, ma non per solidarietà verso chi fugge da miseria e morte, bensì perché ci servono schiavi, ci serve quell’esercito industriale di riserva di cui parlava Marx. Se il badante di tuo nonno sciopera, sta dicendo De Bortoli, con le frontiere chiuse sei fritto, mentre con le frontiere aperte ci sarà sicuramente un altro disperato disposto ad accollarsi il lavoro umile ad un prezzo stracciato.

È il razzismo dei buoni: gli immigrati vengono presentati nella loro funzione di riequilibrio demografico di società decadenti e insostenibili, con una naturale vocazione per quei lavori umili che “gli italiani non vogliono più fare”. E soprattutto, perfetti sostituti tramite spesa privata di uno stato sociale che non riusciremo più a finanziare in futuro.

Ma non è tutto, e qui De Bortoli getta la maschera, facendosi riconoscere per quel che è, una penna al soldo della classe dominante, disposto a piegare il lavoro del giornalismo alla marchetta verso gli interessi dei grandi gruppi finanziari:

“In Italia non esiste, come invece c’è in Germania, un’assicurazione obbligatoria sulla non autosufficienza. Un rischio certo, non una eventualità. Toccherà tutti, direttamente o indirettamente, in famiglia e nei nostri rapporti personali. Manca una consapevolezza generale. Sei grandi casse previdenziali si sono messe insieme per trattare le migliori condizioni con un costo annuo di soli 13 euro a iscritto. Il più grande fondo previdenziale negoziale (Cometa, metalmeccanici) offre tra le opportunità agli assicurati, una volta arrivati alla pensione, una copertura long term care che raddoppia la rendita in caso di non autosufficienza. I dirigenti del settore del commercio, altro esempio, hanno una polizza Ltc con un premio annuale di 206,60 euro che assicura, con una rendita di 2.582,28 euro, rivalutabile al 3 per cento annuo, il rischio di non autosufficienza fino a 70 anni, ed è una copertura prorogabile a vita intera a condizioni prefissate. Esistono ovviamente (e si vedranno sempre di più le pubblicità) proposte individuali delle compagnie assicurative.“

Uno spot, un misero spot alle assicurazioni private, sulla pelle della popolazione più anziana, questo è ciò che il Corriere della Sera è in grado di produrre. Eccolo il vero mondo di De Bortoli: se lo stato sociale inevitabilmente collassa, venendo a mancare le risorse per sostenerlo, devono pensarci i privati cittadini a costruire – con acuta capacità di guardare al futuro – il pilastro salvifico della previdenza complementare, arricchito di coperture assicurative gestite da fondi negoziali o assicurazioni private a carico del singolo.

Con la proposta di rendere addirittura obbligatoria l’assicurazione previdenziale e sanitaria il cerchio finalmente si è chiuso: con buona pace del libero mercato tanto caro ai liberisti, la legge che obbliga ad acquistare protezione da un sistema privato, che macina profitti sui problemi di salute degli anziani.

C’è un aspetto tra i molti, nel modo di ragionare di De Bortoli, che colpisce in maniera particolare. Volendo anche per ipotesi immergerci nell’ottica delle risorse scarse, perfetto riflesso del pensiero economico dominante, perché mai la spesa privata dovrebbe essere migliore di quella pubblica in assistenza e sanità? Se esistono, nella società, le risorse potenziali per sostenere un sistema di assicurazione privata per il rischio di malattia e non autosufficienza, perché mai non dovrebbero esistere le corrispondenti risorse pubbliche per ottemperare ai medesimi bisogni, garantendo al contempo maggiore equità di trattamento?

A questa domanda il pensiero economico mainstream in genere non risponde e si nasconde dietro la presunta naturalità delle scelte private, al cospetto della coercitività di quelle pubbliche, considerate sempre inefficienti per definizione, mentre il boato del ponte Morandi – infrastruttura concessa in gestione ai privati e crollata nell’estate del 2018 – ancora risuona.

Quello delle risorse scarse emerge con chiarezza come un puro mito, funzionale alla mera opera di privatizzazione e mercificazione del sistema di soddisfacimento dei bisogni umani. Un mito che agisce come un martello pneumatico nell’opera mastodontica di rimozione di quelle istituzioni a carattere sociale e collettivo costruite nei decenni passati a fondamento dello Stato sociale solidaristico e universalistico che ha costituito l’ossatura di una civiltà che si vuole demolire, perché ostacolo all’accumulazione di profitti.

Per De Bortoli, insomma, gli anziani non dovrebbero più essere considerati come un peso, bensì dovrebbero essere costretti a comprare una bella (e salata) assicurazione privata, in un mondo in cui i grandi gruppi finanziari gestiscono il business previdenziale sfruttando il lavoro di masse di immigrati pagati con salari da fame.

Per combattere questo incubo, dobbiamo difendere con le unghie e con i denti quel che resta dello stato sociale, la civiltà contro la barbarie dei cantori del liberismo e dell’austerità.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

3.11.19

L’inciviltà diffusa (e nessuno se ne occupa)

Capita ormai ogni giorno di dovere sottostare ai comportamenti offensivi, aggressivi, illegali, talora violenti, di troppi nostri concittadini

di Ernesto Galli della Loggia (Corriere)

Non si tratta solo di Roma. Della Roma criminale che ha visto l’ennesimo omicidio per una storia di droga. È un clima generale quello che ormai in Italia rende sempre più difficile per tutti affrontare la fatica della vita quotidiana.

Sempre di più, infatti, capita ogni giorno di dover sottostare ai comportamenti offensivi, aggressivi, illegali, talora violenti, di troppi nostri concittadini. Specie nei centri urbani e nelle grandi città siamo circondati da persone che sui mezzi pubblici, sui treni, si abbandonano a comportamenti incivili e arroganti, si divertono a danneggiare sedili, panchine, cassonetti e cestini dei rifiuti, cartelli stradali e quant’altro, a scrivere sui muri qualunque cosa, a sporcare parchi e strade; che negli alloggi in specie dell’edilizia popolare se ne infischiano di qualsiasi regola; che la sera schiamazzano fino a tardi nei luoghi della movida, che addirittura non esitano a fare i loro bisogni in pubblico. Siamo alle prese in ogni momento con automobilisti e motociclisti che soprattutto la sera passano ai semafori con il rosso, rompono i timpani con le loro sgassate e accelerazioni repentine o con le loro autoradio a tutto volume: e anche loro come tutti gli altri, se qualcuno osa protestare non ci pensano un secondo ad aggredirlo minacciando di passare alle vie di fatto. Si aggiungono le molte periferie dove in pratica la sera scatta il coprifuoco, dove specie per le donne è un rischio avventurarsi a piedi.

Ancora: intere zone delle città sequestrate dallo spaccio a causa di quell’uso ormai di massa delle sostanze stupefacenti denunciato qualche giorno fa da Antonio Polito proprio sul Corriere(8 milioni di consumatori!), per finire gli atti più o meno gravi ma innumerevoli di bullismo spicciolo, i mille disgusti e irritazioni frutto della micro violenza diffusa dovunque. Insomma qui da noi la vita sociale moderna — che anche se accresce la solitudine reale degli individui tuttavia moltiplica i contatti interpersonali — rende sempre più evidente un dato: la maleducazione diffusa, l‘istinto di sopraffazione, il disprezzo delle regole, che sembrano ormai radicati e quasi congeniti in Italia. Non a caso molti studiosi parlano di un deficit storico nella Penisola di «disciplinamento sociale», cioè di quel processo storico che — grazie soprattutto all’azione delle Chiese e dello Stato assoluto — ha fatto sì che all’inizio dell’età moderna, tra ‘5 e ‘600, cominciasse a svilupparsi nelle masse una capacità di autoregolazione dei propri comportamenti in obbedienza a norme imposte dall’alto per esigenze di ordine e di convivenza, di un minimo di disciplinamento dei rapporti sociali e dei costumi. In Italia, però, tale processo, per ragioni che qui è inutile indagare, ha avuto una portata debole e limitata. Siamo rimasti una popolazione tra le più ineducate del continente, con una scarsa propensione alla civile convivenza, al rispetto verso gli altri. In generale con un’ancora più scarsa attitudine ad obbedire alle regole e ai comandi dell’autorità. È il noto anarchismo del carattere italiano, si dice, quasi a mo’ di giustificazione. Ma non è così: si tratta piuttosto di sciatto menefreghismo e d’indifferenza sprezzante, d’ incapacità di rinunciare al gesto violento e all’intimidazione non appena si capisca che ce lo si può permettere.

Non appena si capisca cioè che non si rischia nulla. Questo è il punto decisivo. Storicamente infatti il disciplinamento sociale di cui sto parlando è stato anche il prodotto di un sistema di sanzioni, spesso anche assai dure. Oggi quell’antico sistema è stato ovviamente cancellato, ma non è scomparso, anzi si è in un certo senso di molto accresciuto il bisogno di regole di convivenza e dei modi di farle rispettare. È vero, formalmente un sistema di sanzioni esiste anche oggi, ma esso scatta solo quando si arriva a fattispecie di reato particolarmente gravi. Di fatto, chi imbratta un muro o urina all’angolo di una strada, chi danneggia una panchina o tiene un’autoradio a un volume assordante, chi minaccia di aggredire lo sventurato che in una di queste occasioni osa protestare, è sicuro della più assoluta impunità. Non solo ma anche quando si arriva alla sanzione, questa o è di natura pecuniaria e finisce virtualmente in un niente, ovvero si risolve in una condanna penale che grazie ai tre gradi di giudizio, alla prescrizione, alla virtuale assenza di detenzione fino a quattro anni, fa in pratica la stessa fine. È giusto? È giusto, soprattutto, mi chiedo, che a subire le conseguenze di tutto questo siano soprattutto le fasce più deboli della popolazione, le donne e le persone anziane, chi vive nelle periferie o è più a contatto con situazioni di degrado?

Per tutta una serie di comportamenti diciamo così asociali, di violenza minuta ma di forte impatto anche emotivo sulla qualità della vita quotidiana, un legislatore intelligente avrebbe da tempo pensato a un sistema sanzionatorio specifico, diverso e più efficace rispetto a quello generale vigente per le violazioni della legge più gravi. E se del caso avrebbe anche pensato a proporre i necessari cambiamenti del dettato costituzionale (ricordo che ne sono stati introdotti a decine). Avrebbe insomma fatto qualcosa invece dell’inerzia che domina sovrana.

Un’inerzia e un’indifferenza che non riguardano solo i legislatori in senso stretto, vale a dire i politici. Infatti sollevare questi problemi — che, ripeto, sono i problemi che milioni d’italiani avvertono quotidianamente con maggiore angustia — produce abitualmente in tutta la classe dirigente del Paese, a cominciare dai soloni accreditati del discorso pubblico, dai padroni dei talk show che vanno per la maggiore e dagli intellettuali pensosi della sorte della democrazia, l’unico effetto di un’alzata di spalle o nel caso migliore di una sorta di benevolo cenno di consenso destinato a lasciare invariabilmente il tempo che trova. Non ci si rende conto che però così facendo si scherza davvero con il fuoco, che la richiesta di vivere in pace e al riparo dalla prepotenza, non è una richiesta «securitaria», non è l’anticamera di alcuna «onda nera». Che semmai proprio non facendo nulla si lascia tutta questa materia infiammabile a disposizione della demagogia e delle sue pericolose tentazioni. Non sarebbe in fin dei conti un ottimo antidoto al deprecato populismo decidere di occuparsi un po’di meno delle battute di Renzi e delle felpe di Salvini e un po’ di più del popolo?

28.10.19

Addio a operai e contadini, così è sparita l’Umbria rossa

Federica Geremicca  (La Stampa)


Dal Pci al Pd, la dispersione dei voti viene da lontano e poco o nulla è stato fatto per arginarla. Anziché sostenere chi è alle prese con la crisi si è preferito ammiccare alle eccellenze industriali

È come una slavina, un fiume che esonda, una diga che cede. Anche l’Umbria è conquistata dalla destra: e poco importa che il voto di ieri sia solo la certificazione di un processo già compiuto da tempo. Infatti, per le dimensioni che hanno assunto e per le ragioni che le hanno determinate, le elezioni umbre rappresentano un test che per il centrosinistra sarebbe suicida sottovalutare.

L’Umbria, del resto, non è stata persa ieri: Perugia è nelle mani del centrodestra già dal voto del 2014, Terni dall'anno scorso (eletto un sindaco leghista col 63% dei voti) e alle europee di cinque mesi fa Salvini aveva già staccato il partito di Zingaretti con un sensazionale 38 a 24. Significa qualcosa tutto questo? Testimonia, semplicemente, che la dissoluzione arriva da lontano: e che poco o nulla è stato fatto per provare a invertire la rotta.

Infatti, comunque la si veda, il voto umbro ha una sua specificità. E al di là del vento che tira, mette in primo piano errori che per i cittadini di quella regione hanno sfiorano l’incomprensibile. Gli ultimi possono essere riassunti in poche, anzi pochissime battute.

Gli errori
Il primo è senz’altro il lungo tira e molla sul che fare di fronte all’inchiesta giudiziaria sulla gestione della sanità che ha decapitato i vertici della Regione e del Pd: settimane di bracci di ferro e dietro-front sulle dimissioni di Catiuscia Marini, col doppio risultato di prolungare e amplificare lo scandalo, dando l’impressione - per di più - di non riuscire ad esercitare la necessaria severità di fronte a fatti di presunta corruzione.

Il secondo è sicuramente il mezzo patto elettorale siglato con i Cinquestelle, il Movimento che con le sue pesanti e continue denunce aveva di fatto dato il là all’inchiesta della magistratura. Come possono averla presa i cittadini umbri e gli elettori di Pd e M5S? Mettiamola giù semplice, e senza offesa per nessuno: le «guardie» si alleano coi «ladri», ma che roba è?

Il terzo errore è nella gestione della campagna elettorale. Già un’alleanza quasi inconfessabile (tanto da esser ridotta al rango di «civica»...) non è un gran punto di partenza. Ma se a questo poi si aggiunge che su tale alleanza arrivino a metter invece cappello i leader di Pd, M5S e Leu nell’ultimo giorno utile, la frittata è fatta (senza aggiungere il non senso dell'arrivo sul palco anche di Giuseppe Conte, dopo settimane passate a spiegare che il governo era fuori dalla contesa).

I giochi, probabilmente, erano già fatti, come testimoniato dalla sequela di sconfitte in molte città-simbolo della ex «Umbria rossa». Ma questo - piuttosto che rappresentare un alibi - non fa che appesantire la situazione, e render più complicato ogni proposito di rivincita. Infatti, progressivamente, anche in questa regione il Pd ha visto allentarsi - fino a diventare quasi inesistente - il suo rapporto con i ceti tradizionali di riferimento.

L’ultima roccaforte crollata
Non a caso, l’ultima a cedere è stata la Terni operaia, la città dell’acciaio, travolta dalla crisi nella quasi indifferenza della sinistra. Prima, progressivamente, altri ceti si erano allontanati. L’Umbria è terra di agricoltori, da sempre in guerra con l’Europa per una gestione lenta e incomprensibile dei fondi comunitari: e chi è che difende l’Europa e chi è che invece dice che bisognerebbe uscirne? L’Umbria, però, è anche terra di piccole e piccolissime aziende e di partite Iva: e le prime si sentono da sempre trascurate e le seconde trattate - da questo governo e dalla sua manovra - alla stregua di sicuri e irrecuperabili evasori fiscali.

Un episodio, se si vuole minore ma certo illuminante, è legato alla visita svolta da Conte venerdì in Umbria. Chi è andato a trovare, infatti, il presidente del Consiglio? Brunello Cucinelli, naturalmente. Figurarsi, un’eccellenza, niente da dire. Ma ha più bisogno di sostegno e vicinanza un’azienda che va a gonfie vele o operai e contadini - storicamente ceti di riferimento della sinistra - travolti da crisi e difficoltà? Già un altro premier di centrosinistra - Matteo Renzi - privilegiò le «eccellenze italiane» rispetto ai settori travolti dalla crisi: e l'avventura finì come finì. Può darsi che il vento che tira sia per ora inarrestabile. Ma ogni voto consegna una lezione. Quello umbro obbliga il Pd a riflettere sul serio: su cosa sia la sinistra oggi e su come è vissuta l’alleanza di governo giallorossa. Alle porte, infatti, c’è il voto in Emilia Romagna. E se la Lega può perdere le elezioni a Bergamo o a Milano, non è scritto da nessuna parte che il Pd debba vincerle per forza in «roccaforti rosse» che sono tali, ormai, solo nella memoria dei più anziani.

29.6.19

Intervista con Putin: “Il liberalismo è un’idea superata Il muro di Trump contro i migranti? Lui almeno ci prova”

I rapporti con gli Usa di Trump e con l’Europa, il Medio Oriente, l’intesa con Xi: parla il presidente russo alla vigilia della sua visita in Italia
intervista di Lionel Barber e Henry Foy (Repubblica)

Presidente Putin, come ha visto cambiare il mondo nei vent’anni in cui è stato al potere?
«La prima cosa che vorrei dire è che non sono stato al potere per tutti questi vent’anni. Per quattro anni sono stato primo ministro, e non è la carica più alta della Federazione Russa. Tuttavia, sono da parecchio tempo al Governo, perciò sono in grado di giudicare che cosa sta cambiando. Mi arrischierei a dire che la situazione non è cambiata in meglio, ma resto ottimista. Tuttavia, per dirla senza mezzi termini, la situazione è diventata più drammatica ed esplosiva».
Ritiene che il mondo sia più frammentato?
«Sicuramente, perché durante la Guerra Fredda, il problema era la Guerra Fredda, è vero. Ma almeno c’erano alcune regole che tutti i soggetti che prendevano parte alla comunicazione internazionale più o meno sottoscrivevano. Ora sembra che non ci sia più nessuna regola. In questo senso, il mondo è diventato più frammentato e meno prevedibile, che è la cosa più deplorevole».
Lei è uno studioso di storia. Ha intrattenuto ore di conversazioni con Henry Kissinger. Quasi sicuramente avrà letto il suo libro, “Ordine mondiale”. Con Trump assistiamo a un sistema molto più transazionale. Trump è molto critico delle alleanze. Va a vantaggio della Russia?
«Sarebbe meglio chiedere che cosa sarebbe a vantaggio dell’America.
Trump non è un politico di professione. Ha una visione diversa degli interessi nazionali degli Stati Uniti. Molti dei suoi metodi non li accetto. Ma penso che sia una persona di talento. Sa molto bene che cosa si aspettano da lui i suoi elettori. La Russia è stata accusata, e per strano che possa sembrare lo è ancora nonostante il rapporto Mueller, di una fantomatica interferenza nelle elezioni americane. Che cosa è successo in realtà? È successo che Trump ha visto i cambiamenti nella società americana, e ne ha approfittato.
Qualcuno ha mai ragionato su chi abbia beneficiato della globalizzazione? La Cina è quella che ha tratto vantaggio più di tutti. Negli Stati Uniti la classe media non ne ha beneficiato. La squadra di Trump lo ha usato in campagna elettorale. È qui che bisogna cercare le ragioni della vittoria di Trump, non in qualche presunta interferenza estera. Penso che questo possa spiegare le sue apparentemente irragionevoli decisioni economiche e i suoi rapporti con partner e alleati».
Lei difende la globalizzazione insieme al presidente della Cina, Xi Jinping, mentre Trump dice “Prima l’America”. Come spiega questo paradosso?
«Non penso che il suo desiderio di dare la precedenza all’America sia un paradosso. Io do la precedenza alla Russia, e nessuno lo percepisce come un paradosso».
Lei si è incontrato spesso con il presidente Xi, e Russia e Cina si sono indubbiamente avvicinate.
Non sta puntando troppe fiches su una carta sola? Perché la politica estera russa, anche sotto la sua guida, si è sempre fatta un vanto di parlare con tutti.
«Tanto per cominciare, le fiches da puntare non ci mancano, ma non ci sono molte carte su cui puntarle.
Questo è il primo punto. Il secondo è che valutiamo sempre i rischi. Il terzo è che le nostre relazioni con la Cina non sono motivate da opportunismo politico. Il trattato d’amicizia con la Cina fu firmato nel 2001, molto prima degli attuali disaccordi economici, per usare un eufemismo, fra Stati Uniti e Cina. Sì, la Russia e la Cina hanno molti interessi che coincidono. È la ragione dei frequenti contatti fra me e il presidente Xi Jinping. Naturalmente abbiamo anche stabilito un rapporto personale molto caloroso. Ci stiamo muovendo in linea con la nostra agenda bilaterale generale, che formulammo già nel lontano 2001, ma reagiamo rapidamente agli sviluppi mondiali. Non rivolgiamo mai le nostre relazioni bilaterali contro qualcuno. Non siamo contro nessuno, siamo per noi stessi».
Dopo 20 anni al vertice o vicino al vertice ha più fame di rischi?
«La mia fame di rischi non è aumentata né diminuita. Il rischio deve essere sempre ben giustificato. Non si può ricorrere al proverbio russo “Chi non rischia non berrà mai champagne”. Prima di rischiare bisogna procedere a una valutazione meticolosa di ogni aspetto. I rischi folli, che trascurano la situazione reale e non tengono conto delle conseguenze, sono inaccettabili perché possono mettere in pericolo gli interessi di un gran numero di persone».
La sua decisione di intervenire in Siria è stata un rischio grosso?
«Abbastanza elevato. Però ho riflettuto attentamente con largo anticipo. Ho deciso che a lungo termine gli effetti positivi per la Russia avrebbero superato di gran lunga la scelta di restare a guardare mentre una organizzazione terrorista internazionale si rafforza vicino ai nostri confini».
Che genere di risultato ha portato il rischio assunto in Siria?
«Innanzitutto molti militanti intenzionati a far ritorno in Russia sono stati eliminati. In secondo luogo, siamo riusciti a stabilizzare una regione contigua. Quindi abbiamo rafforzato direttamente la sicurezza interna della Russia.
Questo in terzo luogo. Quarto, abbiamo stabilito rapporti commerciali buoni con tutti i Paesi della regione e le nostre posizioni in Medio oriente si sono stabilizzate.
Quanto alla Siria, siamo riusciti a preservarne la sovranità, impedendo che il paese cadesse nel caos come la Libia».
Lei è impegnato a far sì che Al Assad resti al potere o può essere, ad un certo punto, che in Siria avvenga una transizione, con l’appoggio russo, che non sia come quella in Libia?
«Credo che i siriani debbano essere liberi di scegliere il proprio futuro. Al contempo, vorrei che le azioni degli attori esterni fossero, come nel caso dei rischi, prevedibili e comprensibili. Quando abbiamo discusso la questione con la precedente amministrazione Usa, abbiamo chiesto, “supponiamo che Assad si dimetta, cosa succederà domani?”. “Non lo sappiamo”, hanno detto. Ma se non sai cosa accadrà domani, perché parlare a vanvera oggi?».
Ritiene che vi sia la possibilità di un miglioramento delle relazioni anglo-russe e che si possano superare alcune questioni delicate, come la vicenda Skripal?
«Senta, tutta questa storia di spie e controspie non è degna di relazioni interstatali serie. Questa spy story non vale cinque copechi. E nemmeno cinque sterline. Le questioni riguardanti le relazioni interstatali si misurano in miliardi e riguardano il destino di milioni di persone. Come possiamo paragonare le due cose? Sappiamo che le imprese del Regno Unito, vogliono lavorare con noi. E noi sosteniamo questa intenzione. Creano posti di lavoro e valore aggiunto. E se aggiungiamo una situazione politica imprevedibile, non saranno in grado di lavorare. Penso che sia la Russia che il Regno Unito siano interessati a ripristinare pienamente le loro relazioni. Penso che sia più facile per May, perché se ne sta andando ed è libera di fare ciò che ritiene giusto e necessario senza preoccuparsi di alcune conseguenze di politica interna».
Qualcuno potrebbe dire che una vita umana vale più di cinque centesimi.
«È morto qualcuno?».
Oh, sì. Quel signore che aveva un problema di droga ed è morto dopo aver toccato il Novichok.
«E pensa che sia assolutamente colpa della Russia?».
Non ho detto questo. Ho detto
che qualcuno è morto.
«Sì, è morto un uomo, e questa è una tragedia. Ma cosa abbiamo a che fare con questo?».
Crede che quel che è successo a Salisbury mandi un messaggio a chiunque pensi di tradire Mosca?
«Il tradimento è il crimine più grave possibile e i traditori devono essere puniti. Non sto dicendo che l’incidente di Salisbury sia il modo di farlo. Questo signore, Skripal, era già stato punito. Era stato arrestato, condannato, aveva scontato la sua pena in prigione. Era fuori dal radar.
Perché interessarsi ancora a lui? Per quanto riguarda il tradimento, deve essere punibile. È il crimine più spregevole che si possa immaginare».
All’inizio della nostra conversazione ho parlato della frammentazione. Un altro fenomeno odierno è che c’è una reazione popolare contro le élite e contro l’establishment e lo si è visto con la Brexit in Gran Bretagna, in Germania con l’Afd, in Turchia e nel mondo arabo. Per quanto tempo pensa che la Russia possa rimanere immune da questo movimento globale?
«Bisogna considerare la realtà di ogni singolo caso. Certo, ci sono alcune tendenze, ma sono solo generali. Per quanto tempo la Russia rimarrà un paese stabile? Più a lungo è, meglio è. Perché molte cose e la sua posizione nel mondo dipendono dalla stabilità. La ragione interna del crollo dell’Unione Sovietica fu che la vita era difficile per la gente. I negozi erano vuoti e la gente aveva perso il desiderio di preservare lo Stato.
Pensavano che non potesse andare peggio. Invece la vita peggiorò, specie all’inizio degli Anni ’90, quando collassarono i sistemi di protezione sociale e di assistenza sanitaria e l’industria si sgretolò.
Poteva anche funzionare male, ma almeno la gente aveva un lavoro.
Dopo il crollo, lo perse. Quindi, ogni caso va esaminato separatamente.
Che cosa sta succedendo in Occidente? Le élite al potere si sono allontanate dal popolo. C’è anche la cosiddetta idea liberale che ha esaurito il suo scopo. Quando il problema dell’immigrazione ha raggiunto un punto critico, molti nostri partner occidentalihanno ammesso che il multiculturalismo non è efficace e che gli interessi della popolazione locale vanno presi in considerazione. Al tempo stesso, chi si trova in difficoltà a causa dei problemi politici nel proprio Paese d’origine ha bisogno della nostra assistenza. È giusto, ma cosa ne è degli interessi della popolazione locale quando il numero di migranti diretti verso l’Europa occidentale è nell’ordine di migliaia o centinaia di migliaia?».
Angela Merkel ha commesso un errore?
«Un errore capitale. Si può criticare Trump per la sua intenzione di costruire un muro tra il Messico e gli Stati Uniti. Forse esagera. Ma almeno sta cercando una soluzione. Per quanto riguarda l’idea liberale, i suoi sostenitori non stanno facendo nulla. Dicono che tutto va bene. Ma è così? Sono seduti nei loro accoglienti uffici, mentre coloro che affrontano il problema non sono contenti. Lo stesso accade in Europa. L’idea liberale presuppone che non ci sia bisogno di fare nulla. I migranti possono uccidere, saccheggiare e stuprare impunemente perché i loro diritti devono essere tutelati. Quindi, l’idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione. O prendiamo i valori tradizionali. Non voglio insultare nessuno, perché siamo già stati condannati per la nostra presunta omofobia. Non abbiamo problemi con le persone Lgbt. Ma alcune cose ci sembrano eccessive. Ora c’è chi sostiene che i bambini possono svolgere cinque o sei ruoli di genere.
Lasciamo che tutti siano felici, ma non dobbiamo permettere che ciò metta in secondo piano la cultura, le tradizioni e i valori familiari tradizionali di milioni di persone».
Ha conosciuto molti leader mondiali. Chi ammira di più?
«Pietro il Grande».
Ma è morto.
«Vivrà finché la sua causa sarà viva come la causa di ognuno di noi.
(Ride). Vivremo finché vivrà la nostra causa. Se si riferisce ai leader attuali di diversi Paesi e Stati, sono rimasto molto colpito dall’ex presidente francese Chirac. È un vero intellettuale, un vero professore, un uomo saggio e molto interessante. Quando era presidente, aveva la sua opinione su ogni questione, sapeva come difenderla e rispettava sempre le opinioni dei suoi partner».
I grandi leader preparano sempre la propria successione. Può dirci con quale processo sarà scelto il suo successore?
«Posso dirle che ci ho sempre pensato, fin dal 2000. La situazione cambia e cambiano anche alcune esigenze delle persone. Alla fine, e lo dico senza teatralità, la decisione dovrà prenderla il popolo russo. Non importa tanto quello che fa l’attuale leader e come lo fa, né chi rappresenta e come, perché è l’elettore che ha l’ultima parola».
Quindi la scelta sarà approvata dal popolo russo in una votazione?
«Nel vostro Paese, un leader se ne va e il leader che gli succede non è eletto dal voto diretto del popolo, ma dal partito al potere. In Russia è diverso, perché siamo un Paese democratico. Se i nostri alti funzionari se ne vanno, si tengono elezioni a scrutinio segreto diretto universale. Lo stesso accadrà in questo caso».
Non posso fare a meno di sottolineare che lei ha assunto la presidenza prima delle elezioni.
«Sì, è vero. E allora? Ero presidente in carica e, per essere eletto e diventare capo di Stato, ho dovuto partecipare a un’elezione, cosa che ho fatto. Sono grato al popolo russo per la fiducia accordatami all’epoca e, successivamente, nelle elezioni successive. È un grande onore essere il leader della Russia».
Traduzione di Emilia Benghi, Fabio Galimberti e Luis E. Moriones

8.6.19

Migranti. Chi è Bija, il guardacoste e trafficante libico pagato da Italia ed Europa

Dispone di una nave fornita da Roma che usa per le sue attività ai danni di chi cerca di arrivare nel nostro continente. L'Onu lo accusa, altri continuano a proteggerlo 



Bija a Tripoli (foto da Libianews)

Il comandante Bija deve molto all’Europa. A Zawyah la sua “guardia costiera” è operativa grazie a mezzi e fondi elargiti via Tripoli dai generosi donatori di Roma e Bruxelles. Ma Bija secondo l’Onu dovrebbe stare in galera, per i crimini commessi contro i migranti.

Invece è libero di proseguire nel suo poliedrico business: trafficante di uomini, contrabbandiere, sorvegliante di centri petroliferi. Sempre travestito da rispettabile guardacoste.

Le autorità del governo riconosciuto dalla comunità internazionale, assicuravano che Bija era stato reso “inoffensivo”. In realtà sarebbe più in sella che mai, soprattutto per avere messo a disposizione del premier Sarraj la sua milizia che starebbe combattendo contro i clan alleati del generale Haftar. Diverse foto circolate in Libia ritraggono Bija mentre festeggia le vittorie sul campo insieme ad altri miliziani. Difficile che, con i servigi resi in favore del governo voluto dall’Onu, qualcuno lo consegni mai a un tribunale sempre dell’Onu.

Riconoscibile per la mano destra menomata dall’esplosione di una granata, Bija ha imparato presto a cavarsela in ogni situazione. Che le partenze siano frequenti o che debba periodicamente rallentare i flussi per compiacere le suppliche dei governi europei, Bija vince sempre: lo pagano per attrezzare la cosiddetta Guardia costiera, e se anche deve bloccare i barconi, incassa comunque dalle estorsioni a danno dei migranti. Le malelingue della vicina Zuara, dove le alleanze e le inimicizie si alternano al ritmo delle fasi lunari, dicono che Bija quando cattura migranti in mare, di solito si tratta di disgraziati messi in acqua dai clan nemici.

Dal luglio 2018 è sottoposto a sanzioni stabilite dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: in particolare, divieto di viaggio e blocco delle attività proprio per i crimini su cui indaga la Corte penale internazionale dell’Aja. Le accuse contro di lui dovrebbero imbarazzare i suoi finanziatori.

«Le sue forze – si legge in uno dei documenti a disposizione dalla Procura presso la corte penale in Olanda – erano state destinatarie di una delle navi che l’Italia ha fornito alla Lybian Coast Guard». Alcuni uomini della sua milizia «avrebbero beneficiato del Programma Ue di addestramento» nell’ambito delle operazioni navali Eunavfor Med e Operazione Sophia.

Inoltre proprio Bija è sospettato di aver dato l’ordine ai suoi marinai di sparare contro navi umanitarie e motopescherecci.

Intervistato da Amedeo Ricucci nell’autunno del 2017, Abd al-Rahman al-Milad, noto come Bija, all’inviato del Tg1 fece chiaramente intendere che in cambio di un ricco appalto per gestire la sicurezza dei siti petroliferi concessi ad aziende italiane, avrebbe smesso di doversi arrangiare con certi affari. Traffici che secondo gli esperti Onu si possono riassumere «nell’affondamento delle imbarcazioni dei migranti utilizzando armi da fuoco», la cooperazione «con altri trafficanti di migranti come Mohammed Kachlaf che, secondo fonti, gli fornisce protezione per svolgere operazioni illecite».

Diversi testimoni in indagini penali «hanno dichiarato – si legge nei report dell’Onu e dell’Aja – di essere stati prelevati in mare da uomini armati su una nave della Guardia Costiera chiamata Tallil (usata da Bija, ndr) e portata al centro di detenzione di al-Nasr, dove secondo quanto riferito sarebbero stati detenuti in condizioni brutali e sottoposti a torture».

Nonostante un curriculum che non lo fa certo somigliare a uno statista, Bija e i suoi uomini guadagnano spazio e potere. A quanto pare, senza imbarazzo per i suoi finanziatori. Tutto questo mentre le Nazioni Unite sono tornate a denunciare le «spaventose» e «disumane» condizioni dei campi di detenzione per migranti e profughi. «Siamo molto colpiti dalle spaventose condizioni di detenzione», ha detto a Ginevra il portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, Rupert Colville che parla di stragi nel silenzio, «con decine di morti per tubercolosi» nelle prigioni a causa della loro sistematica denutrizione. Strutture per le quali la Libia riceve centinaia di milioni di euro dall’Europa e specialmente dall’Italia.

Stando alle cifre delle Nazioni Unite, sono circa 3.400 i migranti e profughi bloccati in vari campi di Tripoli. E la situazione è peggiorata dall’inizio dell’offensiva sulla capitale lanciata dal maresciallo Khalifa Haftar. Colville ne parla apertamente come di un «luogo d’inferno».

21.5.19

Cosa succede con l’astensionismo in Europa

Alle ultime elezioni europee, nel 2014, ha votato solamente il 42,5 per cento degli aventi diritto. Dall’economia alle migrazioni, passando per la sicurezza e i cambiamenti climatici, le questioni europee sono ormai entrate nel dibattito quotidiano, ma questo probabilmente non basterà a risvegliare la partecipazione dei cittadini, anche se potrebbe portare a una prima inversione di tendenza.
Il fenomeno dell’astensionismo crescente è in corso da molti decenni e riguarda un po’ tutti i tipi di elezione. Fino al 1979, in Italia l’affluenza alle urne superava il 90 per cento. Da allora ha cominciato a scendere sempre di più, e non ha smesso di diminuire: alle ultime politiche ha raggiunto il 73 per cento, mentre alle europee del 2014 è stata del 57 per cento. Elezioni locali a parte, uno dei valori più bassi è stato registrato alle scorse regionali in Emilia-Romagna, quando l’affluenza si è fermata addirittura al 38 per cento.
La scelta di non andare a votare non riguarda solo la persona che la compie, ma ha delle conseguenze politiche dirette. Se diventa una scelta diffusa finisce per colpire la legittimazione delle istituzioni democratiche e dei partiti politici e favorire una loro evoluzione in direzione non sempre liberale. Gli astenuti inoltre non si distribuiscono in modo uniforme lungo tutto lo spettro politico: spesso le elezioni le vince chi riesce a mobilitare il maggior numero dei propri elettori potenziali, non tanto chi riesce a strappare più elettori agli avversari.


L’astensionismo è un fenomeno complesso. Ogni elezione ha le sue specificità, dettate da una molteplicità di fattori: per esempio, la composizione demografica del bacino elettorale, il contesto socioeconomico e la cultura democratica della popolazione chiamata al voto. Per questo molta letteratura scientifica si sforza di comprendere a fondo le cause dell’astensionismo, ma non esiste una teoria generale che ne spieghi le cause.

Apatia, protesta, sfiducia
Secondo Maurizio Cerruto, autore dello studio La partecipazione elettorale in Italia (Quaderni di Sociologia, 2012), le ragioni alla base dell’astensionismo sono sfaccettate. “Da un lato, si parla di astensionismo da apatia, cioè da distanza tra l’elettore e l’offerta politica”, spiega il professore di sociologia dell’università di Cagliari. “Questo tipo di astensionismo ha le sue radici nella posizione di marginalità che la politica occupa nell’orizzonte psicologico di molti elettori delle moderne democrazie di massa”. Dall’altro lato si parla invece di “astensionismo di protesta, come espressione attiva di una insoddisfazione dell’elettore, che esprime una dimostrazione di sfiducia e in molti casi di aperta ostilità nei confronti della classe politica”. Secondo Cerruto, le ricerche empiriche mostrano che nell’elettorato astensionista italiano l’apatia prevale sulla protesta.

Di certo gli italiani hanno sempre meno fiducia nelle istituzioni politiche. Ogni anno l’Istat rileva dati su questo aspetto, all’interno del rapporto Il benessere equo e sostenibile. Come confermano anche le ultime stime, la fiducia degli italiani verso il parlamento, i partiti e il sistema giudiziario continua a calare dal 2010 e questo si traduce in un senso di disaffezione diffuso, che ha un impatto sull’affluenza alle urne. Tuttavia il problema italiano si inserisce in un quadro europeo più generale. Secondo l’Eurobarometro, il servizio della Commissione europea che misura e analizza le tendenze dell’opinione pubblica, la fiducia dei cittadini verso le istituzioni è bassa un po’ in tutta Europa: da circa dieci anni meno della metà della popolazione europea si fida delle istituzioni politiche del proprio stato.

Alla base dell’astensionismo ci sono insomma molte ragioni, e ha quindi poco senso parlare di un “partito del non voto”. Il quadro si fa ancora più sfaccettato se si va a guardare quali sono le fasce della popolazione che più tendono ad astenersi. Secondo un rilevamento del 2016 dell’istituto di sondaggi Swg intitolato Il popolo dell’astensione, in Italia l’astensionismo è particolarmente diffuso tra gli elettori tra i 18 e i 44 anni, spesso indecisi o senza una precisa collocazione politica. Molti hanno un titolo di studio superiore al diploma. Guardando alle ultime elezioni europee, come osservato dai ricercatori André Blais e Filip Kostelka, in molti stati emerge invece una correlazione tra bassi livelli di istruzione e alti livelli di astensionismo.

L’astensionismo e le elezioni europee
In quasi ogni paese, le elezioni europee hanno sempre registrato una minore affluenza rispetto alle elezioni politiche, probabilmente a causa di una scarsa consapevolezza del peso del parlamento europeo e di una generica percezione di distanza tra la vita di tutti i giorni e le istituzioni europee. L’Eurobarometro rileva che solo il 48 per cento dei cittadini europei crede che la propria voce conti nell’Ue (ma esistono enormi differenze tra un paese e l’altro, per esempio in Svezia il 90 per cento dei cittadini crede che la propria voce conti, a fronte del 24 per cento degli italiani e del 16 per cento dei greci).



Eppure qui non si tratta tanto di un problema di sfiducia. L’Eurobarometro rileva infatti che i cittadini europei tendono a fidarsi di più dell’Unione europea che del proprio parlamento o governo nazionali. Allora perché è una minoranza quella che vota alle elezioni europee? “Questo paradosso è riconducibile a due fattori”, spiega Alberto Alemanno, tra i principali analisti della politica europea e fondatore del movimento The good lobby. “In primo luogo, le elezioni europee sono ancora la somma di elezioni nazionali, e non un evento politico transnazionale animato da veri e propri partiti europei. In secondo luogo, manca una sfera pubblica comune in grado di raccontare il sistema politico europeo”.

Per denunciare la presunta sfiducia delle persone nei confronti dell’Unione europea, i movimenti euroscettici spesso mettono in risalto il progressivo calo dell’affluenza alle elezioni europee. È un fenomeno reale, ma è parte di un processo più ampio che sta investendo la democrazia rappresentativa in Europa nel suo complesso. Inoltre, come nota Jules Beley dell’università SciencesPo di Parigi, è complicato confrontare l’affluenza alle elezioni europee nel tempo. “Come si può confrontare l’affluenza nel 1979, quando la Comunità europea era composta da nove paesi dell’Europa occidentale, con l’affluenza nel 2014, quando l’Unione contava 28 paesi con culture politiche e tradizioni democratiche diverse?”, si chiede Beley.

L'affluenza alle elezioni europee e politiche nei paesi europei


Le ricerche mostrano che c’è chi non vota per apatia e chi non vota per protesta. Ma se osserviamo l’affluenza alle elezioni europee dobbiamo anche tenere presente che sempre più cittadini europei hanno difficoltà a votare perché si sono trasferiti in un altro paese. Per esempio, più del 10 per cento dei cittadini romeni, bulgari, croati, lettoni, lituani e portoghesi vive in uno stato membro diverso dal proprio. Avrebbero il diritto di votare alle europee nelle città in cui vivono, ma nel 2014 il 95 per cento circa non è andato ai seggi a causa di una serie di ostacoli linguistici, burocratici e politici: difficile identificarsi in partiti e politici che si rivolgono solo agli elettori della propria nazionalità.

Quali rimedi all’astensionismo?
Per risollevare l’affluenza elettorale, una misura apparentemente semplice sarebbe rendere obbligatorio votare. Questo obbligo esiste in paesi come il Lussemburgo e il Belgio, dove in effetti i livelli di astensionismo sono bassi. Anche in Italia il voto era considerato obbligatorio fino al 1993 e rimane un dovere civico secondo la costituzione. Il problema è che l’obbligo di voto è difficile da far rispettare in maniera stringente, a meno di non introdurre sanzioni pesanti.

Se gli elettori non hanno più fiducia nella differenza che può fare il loro voto, secondo alcuni conviene offrire loro la possibilità di effettuare direttamente delle scelte su questioni in campo, invece di limitarsi a delegare dei rappresentanti. È per questo che negli ultimi anni in molti paesi è aumentato l’interesse nei confronti degli strumenti della democrazia diretta, come per esempio i referendum. Casi come quello della Brexit hanno però fatto apparire con chiarezza i limiti di questi strumenti, che raramente aiutano a legiferare su questioni complesse.

Per tutelare la legittimazione delle istituzioni europee e risollevare l’affluenza al voto, negli scorsi mesi il parlamento europeo ha compiuto uno sforzo di comunicazione inedito. La campagna Stavolta voto, realizzata in tutti e 28 gli stati membri dell’Unione europea, ha cercato di spiegare l’importanza della partecipazione elettorale ricorrendo a una molteplicità di strumenti. Trecentomila persone si sono registrate sul sito della campagna, mentre il video promozionale Choose your future ha ottenuto 120 milioni di visualizzazioni sulle diverse piattaforme. I sondaggi suggeriscono che il progressivo aumento dell’astensionismo alle elezioni europee stavolta potrebbe arrestarsi, e in paesi come l’Italia potrebbe verificarsi un’inversione di tendenza.

I paesi dell’Europa centrale e orientale hanno tassi di astensionismo più alti della media dell’Unione europea. Per questo la campagna istituzionale è stata particolarmente intensa in paesi come la Slovacchia, dove nel 2014 solo il 13 per cento degli elettori era andato a votare alle europee. “Abbiamo lavorato su tanti fronti diversi”, racconta Soňa Mellak, addetta stampa dell’ufficio del parlamento europeo in Slovacchia. “Abbiamo collaborato con una serie di personaggi famosi, e in particolare con youtuber e influencer per riuscire a spiegare ai giovani perché le elezioni europee sono importanti. Abbiamo organizzato un tour in 17 città del paese, realizzando eventi e dibattiti, e in 200 scuole superiori si è tenuta una simulazione delle elezioni europee. Le televisioni si sono dimostrate attente, molti presentatori hanno spiegato che sarebbero andati a votare”.

Per far aumentare davvero l’affluenza alle elezioni europee servirebbero però delle modifiche legislative. Per esempio, si potrebbe rendere più semplice il voto ai cittadini che risiedono all’estero. Alcuni politici e osservatori pensano che bisognerebbe far eleggere direttamente ai cittadini un presidente dell’Unione europea, che sia a capo al contempo della Commissione europea e del Consiglio europeo. Altri – come i militanti del partito europeo Volt – puntano innanzitutto su una mobilitazione transnazionale dal basso, che sposti la campagna elettorale su temi europei.

Anche secondo Alberto Alemanno è questa la strada da seguire: “Bisognerebbe creare un collegio elettorale unico europeo, che permetta di presentare liste e partiti transnazionali. In questo modo il dibattito politico trascenderebbe immediatamente gli stati nazionali e permetterebbe a qualsiasi cittadino di comprendere la dimensione europea dello scrutinio”. In uno scenario del genere, “i partiti sarebbero indotti a formulare e difendere visioni di società europea e temi di interesse paneuropeo, invece di concentrarsi come ora su questioni nazionali”, e a quel punto il dibattito riuscirebbe finalmente a coinvolgere più profondamente gli elettori.

[Questo articolo è pubblicato in collaborazione con l’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e con lo European Data Journalism Network.]

16.5.19

ELSA MORANTE SU MUSSOLINI

cultura Il secolo XIX 17 marzo 2010

Roma 1° maggio 1945
Mussolini e la sua amante Clara Petacci sono stati fucilati insieme, dai partigiani del Nord Italia. Non si hanno sulla loro morte e sulle circostanze antecedenti dei particolari di cui si possa essere sicuri. Così pure non si conoscono con precisione le colpe, violenze e delitti di cui Mussolini può essere ritenuto responsabile diretto o indiretto nell’alta Italia come capo della sua Repubblica Sociale.
Per queste ragioni è difficile dare un giudizio imparziale su quest’ultimo evento con cui la vita del Duce ha fine.
Alcuni punti però sono sicuri e cioè: durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbe meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). Fra tali delitti ricordiamo, per esempio: la soppressione della libertà, della giustizia e dei diritti costituzionali del popolo (1925), la uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni, società cui l’Italia era legata da patti (1935),la privazione dei diritti civili degli Ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno (1938).
Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi. Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti. Se poi li favorisce e applaude, peggio che complice, si fa mandante di questi delitti.
Perché il popolo tollerò favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo. Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel miglior dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani).
Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosìffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto. Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine.
In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano.
Debole in fondo, ma ammiratore della forza, e deciso ad apparire forte contro la sua natura. Venale, corruttibile. Adulatore. Cattolico senza credere in Dio. Corruttore. Presuntuoso: Vanitoso. Bonario. Sensualità facile, e regolare. Buon padre di famiglia, ma con amanti. Scettico e sentimentale. Violento a parole, rifugge dalla ferocia e dalla violenza, alla quale preferisce il compromesso, la corruzione e il ricatto. Facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità, se fa della beneficenza è per questo motivo, oltre che per vanità e per misurare il proprio potere. Si proclama popolano, per adulare la maggioranza, ma è snob e rispetta il denaro. Disprezza sufficientemente gli uomini, ma la loro ammirazione lo sollecita. Come la cocotte che si vende al vecchio e ne parla male con l’amante più valido, così Mussolini predica contro i borghesi; accarezzando impudicamente le masse. Come la cocotte crede di essere amata dal bel giovane, ma è soltanto sfruttata da lui che la abbandonerà quando non potrà più servirsene, così Mussolini con le masse. Lo abbaglia il prestigio di certe parole: Storia, Chiesa, Famiglia, Popolo, Patria, ecc., ma ignora la sostanza delle cose; pur ignorandole le disprezza o non cura, in fondo, per egoismo e grossolanità. Superficiale. Dà più valore alla mimica dei sentimenti , anche se falsa, che ai sentimenti stessi. Mimo abile, e tale da far effetto su un pubblico volgare. Gli si confà la letteratura amena (tipo ungherese), e la musica patetica (tipo Puccini). Della poesia non gli importa nulla, ma si commuove a quella mediocre (Ada Negri) e bramerebbe forte che un poeta lo adulasse. Al tempo delle aristocrazie sarebbe stato forse un Mecenate, per vanità; ma in tempi di masse, preferisce essere un demagogo.
Non capisce nulla di arte, ma, alla guisa di certa gente del popolo, e incolta, ne subisce un poco il mito, e cerca di corrompere gli artisti. Si serve anche di coloro che disprezza. Disprezzando (e talvolta temendo) gli onesti , i sinceri, gli intelligenti poiché costoro non gli servono a nulla, li deride, li mette al bando. Si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, e quando essi lo portano alla rovina o lo tradiscono (com’è nella loro natura), si proclama tradito, e innocente, e nel dir ciò è in buona fede, almeno in parte; giacché, come ogni abile mimo, non ha un carattere ben definito, e s’immagina di essere il personaggio che vuole rappresentare.

Pagina di diario, pubblicata su Paragone Letteratura, n. 456, n.s., n.7, febbraio 1988, poi in Opere (Meridiani), Milano 1988, vol. I, pp. L-LI.

9.5.19

I Paesi sovranisti prendono i soldi dall’Unione europea violandone i principi

Dataroom

di Milena Gabanelli e Maria Serena Natale (Corriere)


I trattati parlano chiaro: chi fa parte dell’Unione europea si identifica con i suoi imprescindibili valori democratici. Eppure all’interno dell’Ue ci sono Paesi che hanno agganciato la locomotiva europea recuperando i ritardi economici, ma violano sistematicamente lo Stato di diritto e le libertà fondamentali. È tollerabile?
I numeri
La quota di bilancio Ue più pesante del quadro finanziario 2014-2020 è destinata, attraverso i Fondi strutturali, a crescita, occupazione, riduzione delle disparità economiche tra le regioni. Con l’allargamento dell’Unione, questo circuito virtuoso ha sorretto le economie disastrate dei Paesi del Centro-Est. La Polonia è nella Ue dal 2004. Nel 2017 il suo contributo complessivo al bilancio comunitario è stato di 3,048 miliardi di euro, mentre la spesa totale della Ue in Polonia è stata di 11,9 miliardi. L’anno scorso il Pil polacco è cresciuto del 5,1%, il più veloce dei Paesi Ue dopo Malta e Irlanda. Anche l’Ungheria entra nel 2004. Nel 2017 ha contribuito al bilancio Ue con 821 milioni di euro e ha incassato fondi per 4,049 miliardi di euro. La Romania è nella Ue dal 2007. Nel 2017 ha versato al bilancio Ue 1,229 miliardi di euro e ne ha incassati 4,742. Fondi che hanno contribuito nel 2018 alla crescita del suo Pil del 4,1%.
Stato di diritto. Qui Varsavia
In Polonia, con il ritorno al potere dei nazional-conservatori di Jaroslaw Kaczynski nel 2015, il governo rafforza il controllo su compagnie pubbliche, informazione, esercito, sistema giudiziario. Una legge in vigore dall’aprile 2018 abbassa da 70 a 65 anni l’età pensionabile dei giudici della Corte suprema, e ne manda a casa 27 su 72. La misura viene congelata quando la Commissione Ue deferisce la Polonia alla Corte di giustizia europea. Per Bruxelles la norma non rispetta il principio dell’indipendenza e inamovibilità dei giudici, in violazione dell’articolo 19 del Trattato sull’Unione europea e dell’articolo 47 della Carta Ue dei diritti fondamentali. Nuove regole anche per la nomina del Consiglio superiore della magistratura, dove 15 giudici su 25 potranno essere scelti dal Parlamento. Contro la Polonia nel dicembre 2017 la Commissione attiva, per la prima volta, l’articolo 7 del Trattato Ue per violazione dello Stato di diritto.
Ungheria. Qui Budapest
Dal 2010 è premier Viktor Orbán, rieletto nel 2018 per il terzo mandato consecutivo. In otto anni sono stati mandati in pensione 400 giudici. Una riforma del 2011 riduce le funzioni della Corte Costituzionale e la nuova procedura per la nomina dei suoi componenti rafforza l’influenza dell’esecutivo. Il controllo sull’informazione è pressoché totale. Nel 2017, 18 testate regionali sono rilevate da figure legate a Orbán. Nel 2018 quasi tutti i media privati filogovernativi confluiscono nella Fondazione Stampa e Media dell’Europa centrale. A dicembre sfilano in migliaia nelle strade di Budapest contro la tv pubblica utilizzata per propaganda politica, dove non si tengono dibattiti elettorali.
I tribunali paralleli
L’Ungheria è seconda per indagini aperte dall’autorità Ue di lotta antifrode. Opacità sui fondi europei, destinati a progetti nei quali sono spesso coinvolti oligarchi vicini al premier. Revocata la licenza agli istituti universitari stranieri che non prevedano corsi nei Paesi dove sono registrati: colpo alla Ceu, l’Università dell’Europa centrale di George Soros. Vietata la libertà di ricerca all’Accademia delle Scienze. Introdotto il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per gli avvocati che assistono i richiedenti asilo. Mentre la riforma del codice del lavoro aumenta le ore di straordinario da 250 a 400 l’anno con pagamento anche dopo 3 anni. È stato istituito un sistema parallelo di tribunali amministrativi alle dirette dipendenze del ministro della Giustizia. Nel settembre 2018 il Parlamento europeo avvia la procedura di infrazione sullo Stato di diritto e nel marzo 2019 il Ppe sospende il partito di Orbán, Fidesz.
Romania. Qui Bucarest
La piaga della corruzione è endemica, ma il progetto di riforma del codice penale promosso dalla coalizione a guida socialdemocratica prevede che i condannati per tangenti dal 2014 possano ricorrere contro le sentenze della Corte Suprema. A beneficiarne proprio il leader socialdemocratico Liviu Dragnea. La procuratrice 45enne Laura Codruta Kovesi, dopo aver mandato in carcere decine di politici corrotti, lo scorso anno è stata rimossa dall’incarico e incriminata per corruzione. È stata candidata dall’Europarlamento come capo della nuova Procura europea che indagherà sulle frodi ai danni del bilancio Ue ma la Romania, che dal primo gennaio 2019 ha la presidenza di turno al Consiglio europeo, si oppone. La Commissione recentemente ha ammonito Bucarest. Di fatto però questi tre Paesi incassano i vantaggi dell’appartenenza alla Ue, non rispettano i principi fondanti e votano leggi che valgono per tutti.
Chi decide le sanzioni e come
Quando un Paese viola i «pilastri» portanti, la Ue può attivare l’articolo 7 del Trattato, la cosiddetta «opzione nucleare».
La procedura prevede due fasi. La prima, che segnala la presenza di «rischio motivato», può essere attivata da un terzo degli Stati membri, dall’Europarlamento o dalla Commissione: lo Stato è invitato a presentare chiarimenti e può ottenere tempo per rimettersi in carreggiata. La seconda è quella sanzionatoria e può arrivare fino alla sospensione del diritto di voto dello Stato «imputato» in seno al Consiglio. Oggi, per la prima volta, contro Polonia e Ungheria è stata attivata la procedura d’infrazione. Ma per la sanzione estrema occorre l’unanimità dei capi di Stato e di governo. Un percorso complicato, poiché gli Stati accusati delle violazioni possono sempre trovare l’appoggio di alleati che pongono il veto. La Polonia può contare sull’Ungheria, sul governo ceco, ma anche su quello italiano. Dall’ultima fase del processo sono esclusi sia il Parlamento che il controllo giudiziario da parte della Corte di giustizia del Lussemburgo. La decisione è solo politica e quindi priva dell’indipendenza necessaria. Per superare lo stallo, lo scorso gennaio, su proposta della Commissione, il Parlamento ha approvato una norma (con il voto contrario della Lega e l’astensione del M5S) che prevede, a partire dal 2021, tagli ai fondi Ue per i Paesi che violano lo Stato di diritto. La decisione spetterà sempre a Consiglio (ovvero ai governi degli Stati membri) e Parlamento, ma basterà la maggioranza.
A rischio democrazie e identità dell’Europa
L’Europa non è solo mercato, ma una comunità di valori, libertà e diritti conquistati con il sangue e non negoziabili. Il pericolo, dopo 70 anni di pace e prosperità, è di una lenta deriva. Se una parte della Ue controlla giudici e media, violando impunemente e in maniera sistematica le libertà fondamentali e la separazione dei poteri, si creano precedenti che prima o poi legittimeranno anche altrove abusi sempre più evidenti. E infatti già vediamo il governo italiano rincorrere alleanze con forze politiche che non si riconoscono nel modello della democrazia liberale. Vogliamo diventare come loro? Indebolendo l’inderogabilità delle norme condivise, si creano i presupposti che avvelenano la vita sociale. A rischio non è solo la democrazia nei singoli Stati ma la stessa identità dell’Europa unita. Anche perché l’Unione si allarga. Ad Est.
I Paesi candidati all’ingresso nella Ue
Candidata la Serbia, che da mesi vede manifestazioni contro il presidente Aleksandar Vucic accusato di esercitare metodi autoritari e imbavagliare l’informazione. Candidata la Turchia del presidente Recep Tayyp Erdogan, dove in carcere con accuse sommarie ci sono politici, insegnanti, magistrati, impiegati pubblici, poliziotti, militari e il più alto numero di giornalisti al mondo. Effetto dello stato d’emergenza imposto dopo il tentato golpe militare del luglio 2016, 250 morti. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, nel giugno 2018 quasi un quinto sul totale della popolazione carceraria (48.924 persone su 246.426) è stato accusato o condannato per reati connessi al terrorismo: presunti legami con ambienti gülenisti (34.241), con il Pkk (10.286), con l’Isis (1.270). Per l’Annual Prison Census del 2018, in tutto il mondo su 251 giornalisti in carcere con accuse legate al loro lavoro, 68 sono in Turchia, seguita da Cina (47) ed Egitto (25).
Azerbaigian: gli affari non hanno prezzo
Dalla Turchia passa il gas del Caspio che ci avvicina a un altro osservato speciale, l’Azerbaigian. Baku ha in corso negoziati per un nuovo accordo bilaterale con la Ue nell’ambito del Partenariato orientale e della Politica europea di vicinato. Il presidente Ilham Aliyev guida il Paese dal 2003. Human Rights Watch denuncia torture sistematiche, interferenze nel lavoro degli avvocati, controllo governativo sull’informazione. Secondo le associazioni, false accuse sono regolarmente fabbricate per tenere in carcere attivisti, dissidenti e giornalisti. A Milano è in corso un processo per corruzione: per evitare il richiamo del Consiglio d’Europa, esponenti del governo azero avrebbero pagato l’allora presidente del gruppo Ppe al Consiglio, Luca Volontè. Per l’Azerbaigian l’Unione europea è il maggior mercato di export e import, e primo cliente nel settore petrolifero. Baku oggi copre il 5% della richiesta Ue di gas, che arriva attraverso il Corridoio meridionale, una rotta di approvvigionamento alternativa a quella russa. Di questo corridoio farà parte anche il contestato Tap (Trans Adriatic Pipeline): 878 chilometri, con approdo in Puglia, sulla spiaggia di San Foca, a Melendugno.
Nel marzo 2018 la Banca europea degli investimenti (Bei) ha approvato un prestito da 932 milioni di euro per la costruzione del Tap. La compagnia di Stato azera Socar è partner del gasdotto per il 58%. La Bei non ha condizionato il prestito a progressi sui diritti umani.

11.4.19

Papa Ratzinger: la Chiesa e lo scandalo degli abusi sessuali

Questo è il lungo articolo che il Papa emerito, Benedetto XVI, ha scritto sotto forma di appunti sugli abusi sessuali nella Chiesa cattolica. È un’analisi approfondita e impietosa su come è nato e si è diffuso questo crimine anche nel mondo ecclesiastico. Un crimine figlio di un «collasso morale» così difficile da combattere. La riflessione di Joseph Ratzinger copre mezzo secolo di storia, e verrà pubblicata dal mensile tedesco Klerusblatt. Il Corriere della Sera ha avuto il testo in esclusiva per l’Italia, che proponiamo ai lettori.

di Benedetto XVI

Dal 21 al 24 febbraio 2019, su invito di Papa Francesco, si sono riuniti in Vaticano i presidenti di tutte le conferenze episcopali del mondo per riflettere insieme sulla crisi della fede e della Chiesa avvertita in tutto il mondo a seguito della diffusione delle sconvolgenti notizie di abusi commessi da chierici su minori. La mole e la gravità delle informazioni su tali episodi hanno profondamente scosso sacerdoti e laici e non pochi di loro hanno determinato la messa in discussione della fede della Chiesa come tale. Si doveva dare un segnale forte e si doveva provare a ripartire per rendere di nuovo credibile la Chiesa come luce delle genti e come forza che aiuta nella lotta contro le potenze distruttrici.

Avendo io stesso operato, al momento del deflagrare pubblico della crisi e durante il suo progressivo sviluppo, in posizione di responsabilità come pastore nella Chiesa, non potevo non chiedermi - pur non avendo più da Emerito alcuna diretta responsabilità - come a partire da uno sguardo retrospettivo, potessi contribuire a questa ripresa. E così, nel lasso di tempo che va dall’annuncio dell’incontro dei presidenti delle conferenze episcopali al suo vero e proprio inizio, ho messo insieme degli appunti con i quali fornire qualche indicazione che potesse essere di aiuto in questo mo­mento difficile. A seguito di contatti con il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, e con lo stesso Santo Padre, ritengo giusto pubblicare su “Klerusblatt” il testo così concepito.

Il mio lavoro è suddiviso in tre parti. In un primo punto tento molto breve­ mente di delineare in generale il contesto sociale della questione, in mancanza del quale il problema risulta incomprensibile. Cerco di mostrare come negli anni ’60 si sia verificato un processo inaudito, di un ordine di grandezza che nella storia è quasi senza precedenti. Si può affermare che nel ventennio 1960-1980 i criteri validi sino a quel momento in tema di sessualità sono venuti meno completamente e ne è risultata un’assenza di norme alla quale nel frattempo ci si è sforzati di rimediare.

In un secondo punto provo ad accennare alle conseguenze di questa situazione nella formazione e nella vita dei sacerdoti.

Infine, in una terza parte, svilupperò alcune prospettive per una giusta ri­ sposta da parte della Chiesa.

I
Il processo iniziato negli anni ’60 e la teologia morale

1. La situazione ebbe inizio con l’introduzione, decretata e sostenuta dallo Stato, dei bambini e della gioventù alla natura della sessualità. In Ger­mania Käte Strobel, la Ministra della salute di allora, fece produrre un film a scopo informativo nel quale veniva rappresentato tutto quello che sino a quel momento non poteva essere mostrato pubblicamente, rap­porti sessuali inclusi. Quello che in un primo tempo era pensato solo per informare i giovani, in seguito, come fosse ovvio, è stato accettato come possibilità generale.

Sortì effetti simili anche la «Sexkoffer» (valigia del sesso) curata dal governo austriaco. Film a sfondo sessuale e pornografici divennero una realtà, sino al punto da essere proiettati anche nei cinema delle stazioni. Ricordo ancora come un giorno, andando per Ratisbona, vidi che attendeva te va di fronte a un grande cinema una massa di persone come sino ad allora si era vista solo in tempo di guerra quando si sperava in qual­ che distribuzione straordinaria. Mi è rimasto anche impresso nella memoria quando il Venerdì Santo del 1970 arrivai in città e vidi tutte le colonnine della pubblicità tappezzate di manifesti pubblicitari che presentavano in grande formato due persone completamente nude abbracciate strettamente.

Tra le libertà che la Rivoluzione del 1968 voleva conquistare c’era anche la completa libertà sessuale, che non tollerava più alcuna norma. La propensione alla violenza che caratterizzò quegli anni è strettamente legata a questo collasso spirituale. In effetti negli aerei non fu più consentita la proiezione di film a sfondo sessuale, giacché nella piccola comu­nità di passeggeri scoppiava la violenza. Poiché anche gli eccessi nel ve­stire provocavano aggressività, i presidi cercarono di introdurre un ab­bigliamento scolastico che potesse consentire un clima di studio.

Della fisionomia della Rivoluzione del 1968 fa parte anche il fatto che la pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente. Quantomeno per i giovani nella Chiesa, ma non solo per loro, questo fu per molti versi un tempo molto difficile. Mi sono sempre chiesto come in questa situazione i giovani potessero andare verso il sacerdozio e accet­tarlo con tutte le sue conseguenze. Il diffuso collasso delle vocazioni sa­cerdotali in quegli anni e l’enorme numero di dimissioni dallo stato cle­ricale furono una conseguenza di tutti questi processi.

2. Indipendentemente da questo sviluppo, nello stesso periodo si è verifica­to un collasso della teologia morale cattolica che reso inerme la Chiesa di fronte a quei processi nella società. Cerco di delineare molto brevemente lo svolgimento di questa dinamica. Sino al Vaticano II la teologia morale cattolica veniva largamente fondata giusnaturalistica­ mente, mentre la Sacra Scrittura veniva addotta solo come sfondo o a supporto. Nella lotta ingaggiata dal Concilio per una nuova compren­sione della Rivelazione, l’opzione giusnaturalistica venne quasi comple­tamente abbandonata e si esigette una teologia morale completamente fondata sulla Bibbia. Ricordo ancora come la Facoltà dei gesuiti di Francoforte preparò un giovane padre molto dotato (Bruno Schüller) per l’elaborazione di una morale completamente fondata sulla Scrittura. La bella dissertazione di padre Schüller mostra il primo passo dell’elaborazione di una morale fondata sulla Scrittura. Padre Schüller venne poi mandato negli Stati Uniti d’America per proseguire gli studi e tornò con la consapevolezza che non era possibile elaborare sistemati­camente una morale solo a partire dalla Bibbia. Egli tentò successiva­ mente di elaborare una teologia morale che procedesse in modo più pragmatico, senza però con ciò riuscire a fornire una risposta alla crisi della morale.

Infine si affermò ampiamente la tesi per cui la morale dovesse essere de­ finita solo in base agli scopi dell’agire umano. Il vecchio adagio «il fine giustifica i mezzi» non veniva ribadito in questa forma così rozza, e tut­tavia la concezione che esso esprimeva era divenuta decisiva. Perciò non poteva esserci nemmeno qualcosa dì assolutamente buono né tantome­no qualcosa dì sempre malvagio, ma solo valutazioni relative. Non c’era più il bene, ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio.

Sul finire degli anni ’80 e negli anni ’90 la crisi dei fondamenti e della presentazione della morale cattolica raggiunse forme drammatiche. Il 5 gennaio 1989 fu pubblicata la «Dichiarazione di Colonia» firmata da 15 professori di teologia cattolici che si concentrava su diversi punti critici del rapporto fra magistero episcopale e compito della teologia. Questo testo, che inizialmente non andava oltre il livello consueto delle rimo­stranze, crebbe tuttavia molto velocemente sino a trasformarsi in grido di protesta contro il magistero della Chiesa, raccogliendo in modo ben visibile e udibile il potenziale dì opposizione che in tutto il mondo anda­ va montando contro gli attesi testi magisteriali di Giovanni Paolo II (cfr. D. Mieth, Kölner Erklärung, LThK, VI3,196).

Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la situazione della teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose che s’iniziasse a la­vorare a un’enciclica che potesse rimettere a posto queste cose. Fu pubblicata con il titolo Veritatis splendor il 6 agosto 1993 suscitando violente reazioni contrarie da parte dei teologi morali. In precedenza già c’era stato il Catechismo della Chiesa cattolica che aveva sistematica­ mente esposto in maniera convincente la morale insegnata dalla Chiesa.

Non posso dimenticare che Franz Böckle - allora fra i principali teologi morali di lingua tedesca, che dopo essere stato nominato professore emerito si era ritirato nella sua patria svizzera -, in vista delle possibili decisioni di Veritatis splendor, dichiarò che se l’Enciclica avesse deciso che ci sono azioni che sempre e in ogni circostanza vanno considerate malvagie, contro questo egli avrebbe alzato la sua voce con tutta la forza che aveva. Il buon Dio gli risparmiò la realizzazione del suo proposito; Böckle morì l’8 luglio 1991. L’Enciclica fu pubblicata il 6 agosto 1993 e in effetti conteneva l’affermazione che ci sono azioni che non possono mai diventare buone. Il Papa era pienamente consapevole de peso di quella decisione in quel momento e, proprio per questa parte del suo scritto, aveva consultato ancora una volta esperti di assoluto livello che di per sé non avevano partecipato alla redazione dell’Enciclica. Non ci poteva e non ci doveva essere alcun dubbio che la morale fondata sul principio del bilanciamento di beni deve rispettare un ultimo limite. Ci sono beni che sono indisponibili. Ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita fisica. Dio è di più anche della sopravvivenza fisica. Una vita che fosse acquistata a prezzo del rinnegamento di Dio, una vita basata su un’ultima menzogna, è una non-vita. Il martirio è una categoria fondamentale dell’esistenza cristiana. Che esso in fondo, nella teoria sostenuta da Böckle e da molti altri, non sia più moralmente necessario, mostra che qui ne va dell’essenza stessa del cristianesimo.

Nella teologia morale, nel frattempo, era peraltro divenuta pressante un’altra questione: si era ampiamente affermata la tesi che al magistero della Chiesa spetti la competenza ultima e definitiva («infallibilità») solo sulle questioni di fede, mentre le questioni della morale non potrebbero divenire oggetto di decisioni infallibili del magistero ecclesiale. In questa tesi c’è senz’altro qualcosa di giusto che merita di essere ulteriormente discusso e approfondito. E tuttavia c’è un minimum morale che è inscindibilmente connesso con la decisione fondamentale di fede e che deve essere difeso, se non si vuole ridurre la fede a una teoria e si riconosce, al contrario, la pretesa che essa avanza rispetto alla vita concreta. Da tutto ciò emerge come sia messa radicalmente in discussione l’autorità della Chiesa in campo morale. Chi in quest’ambito nega alla Chiesa un’ultima competenza dottrinale, la costringe al silenzio proprio dove è in gioco il confine fra verità e menzogna.

Indipendentemente da tale questione, in ampi settori della teologia mo­rale si sviluppò la tesi che la Chiesa non abbia né possa avere una propria morale. Nell’affermare questo si sottolinea come tutte le affermazioni morali avrebbero degli equivalenti anche nelle altre religioni e che dunque non potrebbe esistere un proprium cristiano. Ma alla questione del proprium di una morale biblica, non si risponde affermando che, per ogni singola frase, si può trovare da qualche parte un’equivalente in al­ tre religioni. È invece l’insieme della morale biblica che come tale è nuo­vo e diverso rispetto alle singole parti. La peculiarità dell’insegnamento morale della Sacra Scrittura risiede ultimamente nel suo ancoraggio all’immagine di Dio, nella fede nell’unico Dio che si è mostrato in Gesù Cristo e che ha vissuto come uomo. Il Decalogo è un’applicazione alla vi­ta umana della fede biblica in Dio. Immagine di Dio e morale vanno in­sieme e producono così quello che è specificamente nuovo dell’atteggiamento cristiano verso il mondo e la vita umana. Del resto, sin dall’inizio il cristianesimo è stato descritto con la parola hodòs. La fede è un cammino, un modo di vivere. Nella Chiesa antica, rispetto a una cultura sempre più depravata, fu istituito il catecumenato come spazio di esistenza nel quale quel che era specifico e nuovo del modo di vivere cristiano veniva insegnato e anche salvaguardato rispetto al modo di vivere comune. Penso che anche oggi sia necessario qualcosa di simi­ le a comunità catecumenali affinché la vita cristiana possa affermarsi nella sua peculiarità.

II
Prime reazioni ecclesiali

1. Il processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale, da lungo tempo preparato e che è in corso, negli anni ‘60, come ho cercato di mostrare, ha conosciuto una radicalità come mai c’era stata prima di allora. Questa dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale doveva necessariamente ripercuotersi anche nei diversi spazi di vita della Chiesa. Nell’ambito dell’incontro dei presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo, interessa soprattutto la questione della vita sacerdotale e inoltre quella dei seminari. Riguardo al problema della preparazione al ministero sacerdotale nei seminari, si constata in effetti un ampio collasso della forma vigente sino a quel momento di questa preparazione.

In diversi seminari si formarono club omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari. In un seminario nella Germania meridionale i candidati al sacerdozio e i candidati all’ufficio laicale di referente pastorale vivevano in­sieme. Durante i pasti comuni, i seminaristi stavano insieme ai referenti pastorali coniugati in parte accompagnati da moglie e figlio e in qualche caso dalle loro fidanzate. Il clima nel seminario non poteva aiutare la formazione sacerdotale. La Santa Sede sapeva di questi problemi, senza esserne in formata nel dettaglio. Come primo passo fu disposta una Visita apostolica nei seminari degli Stati Uniti.

Poiché dopo il Concilio Vaticano II erano stati cambiati pure i criteri per la scelta e la nomina dei vescovi, anche il rapporto dei vescovi con i loro seminari era differente. Come criterio per la nomina di nuovi vescovi va­ leva ora soprattutto la loro «conciliarità», potendo intendersi natural­ mente con questo termine le cose più diverse. In molte parti della Chie­sa, il sentire conciliare venne di fatto inteso come un atteggiamento cri­tico o negativo nei confronti della tradizione vigente fino a quel momen­to, che ora doveva essere sostituita da un nuovo rapporto, radicalmente aperto, con il mondo. Un vescovo, che in precedenza era stato rettore, aveva mostrato ai seminaristi film pornografici, presumibilmente con l’intento di renderli in tal modo capaci di resistere contro un comportamento contrario alla fede. Vi furono singoli vescovi - e non solo negli Stati Uniti d’America - che rifiutarono la tradizione cattolica nel suo complesso mirando nelle loro diocesi a sviluppare una specie di nuova, moderna «cattolicità». Forse vale la pena accennare al fatto che, in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano nascosti come letteratura dannosa e venivano per così dire letti sottobanco.

La Visita che seguì non portò nuove informazioni, perché evidentemente diverse forze si erano coalizzate al fine di occultare la situazione reale. Venne disposta una seconda Visita che portò assai più informazioni, ma nel complesso non ebbe conseguenze. Ciononostante, a partire dagli anni ‘70, la situazione nei seminari in generale si è consolidata. E tutta­via solo sporadicamente si è verificato un rafforzamento delle vocazioni, perché nel complesso la situazione si era sviluppata diversamente.

2. La questione della pedofilia è, per quanto ricordi, divenuta scottante solo nella seconda metà degli anni ’80. Negli Stati Uniti nel frattempo era già cresciuta, divenendo un problema pubblico. Così i vescovi chiesero aiuto a Roma perché il diritto canonico, così come fissato nel Nuovo Co­dice, non appariva sufficiente per adottare le misure necessarie. In un primo momento Roma e i canonisti romani ebbero delle difficoltà con questa richiesta; a loro avviso, per ottenere purificazione e chiarimento sarebbe dovuta bastare la sospensione temporanea dal ministero sacerdotale. Questo non poteva essere accettato dai vescovi americani perché in questo modo i sacerdoti restavano al servizio del vescovo venendo così ritenuti come figure direttamente a lui legate. Un rinnovamento e un approfondimento del diritto penale, intenzionalmente costruito m modo blando nel Nuovo Codice, poté farsi strada solo lentamente.

A questo si aggiunse un problema di fondo che riguardava la concezione del diritto penale. Ormai era considerato «conciliare» solo il così detto «garantismo». Significa che dovevano essere garantiti soprattutto i diritti degli accusati e questo fino al punto da escludere di fatto una condanna. Come contrappeso alla possibilità spesso insufficiente di difendersi da parte di teologi accusati, il loro diritto alla difesa venne talmente esteso nel senso del garantismo che le condanne divennero quasi impossibili.

Mi sia consentito a questo punto un breve excursus. Di fronte all’estensione delle colpe di pedofilia, viene in mente una parola di Gesù che dice: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare» (Mc 9,42). Nel suo significato originario questa parola non parla dell’adescamento di bambini a scopo sessuale. Il termine «i piccoli» nel linguaggio di Gesù designa i credenti semplici, che potrebbero essere scossi nella loro fede dalla superbia intellettuale di quelli che si credono intelligenti. Gesù qui allora protegge il bene della fede con una perentoria minaccia di pena per coloro che le recano offesa. Il moderno utilizzo di quelle parole in sé non è sbagliato, ma non deve occultare il loro sen­ so originario. In esso, contro ogni garantismo, viene chiaramente in luce che è importante e abbisogna di garanzia non solo il diritto dell’accusato. Sono altrettanto importanti beni preziosi come la fede. Un diritto canonico equilibrato, che corrisponda al messaggio di Gesù nella sua interezza, non deve dunque essere garantista solo a favore dell’accusato, il cui rispetto è un bene protetto dalla legge. Deve proteg­gere anche la fede, che del pari è un bene importante protetto dalla legge.Un diritto canonico costruito nel modo giusto deve dunque contenere una duplice garanzia: protezione giuridica dell’accusato e protezione giuridica del bene che è in gioco. Quando oggi si espone questa concezione in sé chiara, in genere ci si scontra con sordità e indifferenza sulla questione della protezione giuridica della fede. Nella coscienza giuridica comune la fede non sembra più avere il rango di un bene da proteggere. È una situazione preoccupante, sulla quale i pastori della Chiesa devo­no riflettere e considerare seriamente.

Ai brevi accenni sulla situazione della formazione sacerdotale al mo­mento del deflagrare pubblico della crisi, vorrei ora aggiungere alcune indicazioni sull’evoluzione del diritto canonico in questa questione. In sé, per i delitti commessi dai sacerdoti è responsabile la Congregazione per il clero. Poiché tuttavia in essa il garantismo allora dominava am­ piamente la situazione, concordammo con papa Giovanni Paolo II sull’ opportunità di attribuire la competenza su questi delitti alla Con­gregazione per la Dottrina della Fede, con la titolatura «Delicta maiora contra fidem». Con questa attribuzione diveniva possibile anche la pena massima, vale a dire la riduzione allo stato laicale, che invece non sa­rebbe stata comminabile con altre titolature giuridiche. Non si trattava di un escamotage per poter comminare la pena massima, ma una con­ seguenza del peso della fede per la Chiesa. In effetti è importante tener presente che, in simili colpe di chierici, ultimamente viene danneggiata la fede: solo dove la fede non determina più l’agire degli uomini sono possibili tali delitti. La gravità della pena presuppone tuttavia anche una chiara prova del delitto commesso: è il contenuto del garantismo che rimane in vigore. In altri termini: per poter legittimamente comminare la pena massima è necessario un vero processo penale. E tuttavia, in questo modo si chiedeva troppo sia alle diocesi che alla Santa Sede. E così stabilimmo una forma minima di processo penale e lasciammo aperta la possibilità che la stessa Santa Sede avocasse a sé il processo nel caso che la diocesi o la metropolia non fossero in grado di svolgerlo. In ogni caso il processo doveva essere verificato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede per garantire i diritti dell’accusato. Alla fine, però, nella Feria IV (vale a dire la riunione di tutti i membri della Congrega­zione), creammo un’istanza d’appello, per avere anche la possibilità di un ricorso contro il processo. Poiché tutto questo in realtà andava al di là delle forze della Congregazione per la Dottrina della Fede e si verifica­ vano dei ritardi che invece, a motivo della materia, dovevano essere evi­tati, papa Francesco ha intrapreso ulteriori riforme.

III
Alcune prospettive

1. Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo creare un’altra Chiesa affinché le cose possano aggiustarsi? Questo esperimento già è stato fatto ed è già falli­ to. Solo l’amore e l’obbedienza a nostro Signore Gesù Cristo possono in­dicarci la via giusta. Proviamo perciò innanzitutto a comprendere in modo nuovo e in profondità cosa il Signore abbia voluto e voglia da noi.

In primo luogo direi che, se volessimo veramente sintetizzare al massi­mo il contenuto della fede fondata nella Bibbia, potremmo dire: il Signo­re ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male. La forza del male nasce dal nostro rifiuto dell’amore a Dio. È redento chi si affida all’amore di Dio. Il nostro non essere redenti poggia sull’incapacità di amare Dio. Imparare ad amare Dio è dunque la strada per la redenzione degli uo­mini.

Se ora proviamo a svolgere un po’ più ampiamente questo contenuto es­ senziale della Rivelazione di Dio, potremmo dire: il primo fondamentale dono che la fede ci offre consiste nella certezza che Dio esiste. Un mon­ do senza Dio non può essere altro che un mondo senza senso. Infatti, da dove proviene tutto quello che è? In ogni caso sarebbe privo di un fondamento spirituale. In qualche modo ci sarebbe e basta, e sarebbe privo di qualsiasi fine e di qualsiasi senso. Non vi sarebbero più criteri del bene e del male. Dunque avrebbe valore unicamente ciò che è più forte. Il potere diviene allora l’unico principio. La verità non conta, anzi in realtà non esiste. Solo se le cose hanno un fondamento spirituale, so­ lo se sono volute e pensate - solo se c’è un Dio creatore che è buono e vuole il bene- anche la vita dell’uomo può avere un senso.

Che Dio ci sia come creatore e misura di tutte le cose, è innanzitutto un’esigenza originaria. Ma un Dio che non si manifestasse affatto, che non si facesse riconoscere, resterebbe un’ipotesi e perciò non potrebbe determinare la forma della nostra vita. Affinché Dio sia realmente Dio nella creazione consapevole, dobbiamo attenderci che egli si manifesti in una qualche forma. Egli lo ha fatto in molti modi, e in modo decisivo nella chiamata che fu rivolta ad Abramo e diede all’uomo quell’orientamento, nella ricerca di Dio, che supera ogni attesa: Dio di­ viene creatura egli stesso, parla a noi uomini come uomo.

Così finalmente la frase «Dio è» diviene davvero una lieta novella, pro­prio perché è più che conoscenza, perché genera amore ed è amore. Rendere gli uomini nuovamente consapevoli di questo, rappresenta il primo e fondamentale compito che il Signore ci assegna.

Una società nella quale Dio è assente - una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse - è una società che perde il suo cri­terio. Nel nostro tempo è stato coniato il motto della «morte di Dio». Quando in una società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento. E perché vie­ne meno il criterio che ci indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. La società occidentale è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire. E per questo è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano. In alcuni punti, allora, a volte diviene improvvisa­mente percepibile che è divenuto addirittura ovvio quel che è male e che distrugge l’uomo. È il caso della pedofilia. Teorizzata ancora non tempo fa come del tutto giusta, essa si è diffusa sempre più. E ora, scossi e scandalizzati, riconosciamo che sui nostri bambini e giovani si commet­tono cose che rischiano di distruggerli. Che questo potesse diffondersi anche nella Chiesa e tra i sacerdoti deve scuoterci e scandalizzarci in misura particolare.

Come ha potuto la pedofilia raggiungere una dimensione del genere? In ultima analisi il motivo sta nell’assenza di Dio. Anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché è un discorso che non sembra avere utilità pratica. Dopo gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale, in Germania avevamo adottato la nostra Costituzione dichiarandoci esplicitamente responsabili davanti a Dio come criterio guida. Mezzo secolo dopo non era più possibile, nella Costituzione euro­ pea, assumere la responsabilità di fronte a Dio come criterio di misura. Dio viene visto come affare di partito di un piccolo gruppo e non può più essere assunto come criterio di misura della comunità nel suo complesso. In quest a decisione si rispecchia la situazione dell’Occidente, nel quale Dio è divenuto fatto privato di una minoranza.

Il primo compito che deve scaturire dagli sconvolgimenti morali del no­stro tempo consiste nell’iniziare di nuovo noi stessi a vivere di Dio, rivol­ti a lui e in obbedienza a lui. Soprattutto dobbiamo noi stessi di nuovo imparare a riconoscere Dio come fondamento della nostra vita e non ac­cantonarlo come fosse una parola vuota qualsiasi. Mi resta impresso il monito che il grande teologo Hans Urs von Balthasar vergò una volta su uno dei suoi biglietti: dl Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo: non presupporlo ma anteporlo!». In effetti, anche nella teologia, spesso Dio viene presupposto come fosse un’ovvietà, ma concretamente di lui non ci si occupa. Il tema “Dio” appare così irreale, così lontano dalle cose che ci occupano. E tuttavia cambia tutto se Dio non lo si presuppone, ma lo si antepone. Se non lo si lascia in qualche modo sullo sfondo ma lo si riconosce come centro del nostro pensare, parlare e agire.

2. Dio è divenuto uomo per noi. La creatura uomo gli sta talmente a cuore che egli si è unito a essa entrando concretamente nella storia. Parla con noi, vive con noi, soffre con noi e per noi ha preso su di sé la morte. Di questo certo parliamo diffusamente nella teologia con un linguaggio e con concetti dotti. Ma proprio così nasce il pericolo che ci facciamo si­gnori della fede, invece di lasciarci rinnovare e dominare dalla fede.

Consideriamo questo riflettendo su un punto centrale, la celebrazione della Santa Eucaristia. Il nostro rapporto con l’Eucaristia non può che destare preoccupazione. A ragione il Vaticano II intese mettere di nuovo al centro della vita cristiana e dell’esistenza della Chiesa questo sacra­ mento della presenza del corpo e del sangue di Cristo, della presenza della sua persona, della sua passione, morte e risurrezione. In parte questa cosa è realmente avvenuta e per questo vogliamo di cuore rin­ graziare il Signore.

Ma largamente dominante è un altro atteggiamento: non domina un nuovo profondo rispetto di fronte alla presenza della morte e risurrezio­ne di Cristo, ma un modo di trattare con lui che distrugge la grandezza del mistero. La calante partecipazione alla celebrazione domenicale dell’Eucaristia mostra quanto poco noi cristiani di oggi siamo in grado di valutare la grandezza del dono che consiste nella Sua presenza reale. L’Eucaristia è declassata a gesto cerimoniale quando si considera ovvio che le buone maniere esigano che sia distribuita a tutti gli invitati a ra­ gione della loro appartenenza al parentado, in occasione di feste familia­ri o eventi come matrimoni e funerali. L’ovvietà con la quale in alcuni luoghi i presenti, semplicemente perché tali, ricevono il Santissimo Sa­cramento mostra come nella Comunione si veda ormai solo un gesto cerimoniale. Se riflettiamo sul da farsi, è chiaro che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa inventata da noi. Quel che è necessario è invece il rinnovamento della fede nella realtà di Gesù Cristo donata a noi nel Sacramento.

Nei colloqui con le vittime della pedofilia sono divenuto consapevole con sempre maggiore forza di questa necessità. Una giovane ragazza che serviva all’altare come chierichetta mi ha raccontato che il vicario parrocchiale, che era suo superiore visto che lei era chierichetta, introduceva l’abuso sessuale che compiva su di lei con queste parole: «Questo è il mio corpo che è dato per te». È evidente che quella ragazza non può più ascoltare le parole della consacrazione senza provare terribilmente su di sé tutta la sofferenza dell’abuso subìto. Sì, dobbiamo urgentemen­te implorare il perdono del Signore e soprattutto supplicarlo e pregarlo di insegnare a noi tutti a comprendere nuovamente la grandezza della sua passione, del suo sacrificio. E dobbiamo fare di tutto per proteggere dall’abuso il dono della Santa Eucaristia.

3. Ed ecco infine il mistero della Chiesa. Restano impresse nella memoria le parole con cui ormai quasi cento anni fa Romano Guardini esprimeva la gioiosa speranza che allora si affermava in lui e in molti altri: «Un evento di incalcolabile portata è iniziato: La Chiesa si risveglia nelle anime». Con questo intendeva dire che la Chiesa non era più, come prima, semplicemente un apparato che ci si presenta dal di fuori, vissu­ta e percepita come una specie di ufficio, ma che iniziava ad essere sen­tita viva nei cuori stessi: non come qualcosa di esteriore ma che ci toc­cava dal di dentro. Circa mezzo secolo dopo, riflettendo di nuovo su quel processo e guardando a cosa era appena accaduto, fui tentato di capo­ volgere la frase: «La Chiesa muore nelle anime». In effetti oggi la Chiesa viene in gran parte vista solo come una specie di apparato politico. Di fatto, di essa si parla solo utilizzando categorie politiche e questo vale persino per dei vescovi che formulano la loro idea sulla Chiesa di domani in larga misura quasi esclusivamente in termini politici. La crisi cau­sata da molti casi di abuso ad opera di sacerdoti spinge a considerare la Chiesa addirittura come qualcosa di malriuscito che dobbiamo decisa­ mente prendere in mano noi stessi e formare in modo nuovo. Ma una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza.

Gesù stesso ha paragonato la Chiesa a una rete da pesca nella quale stanno pesci buoni e cattivi, essendo Dio stesso colui che alla fine dovrà separare gli uni dagli altri. Accanto c’è la parabola della Chiesa come un campo sul quale cresce il buon grano che Dio stesso ha seminato, ma anche la zizzania che un “nemico” di nascosto ha seminato in mezzo al grano. In effetti, la zizzania nel campo di Dio, la Chiesa, salta all’occhio per la sua quantità e anche i pesci cattivi nella rete mostrano la loro forza. Ma il campo resta comunque campo di Dio e la rete rimane rete da pesca di Dio. E in tutti i tempi c’è e ci saranno non solo la zizzania e i pesci cattivi ma anche la semina di Dio e i pesci buoni. Annunciare in egual misura entrambe con forza non è falsa apologetica, ma un servizio necessario reso alla verità.

In quest’ambito è necessario rimandare a un importante testo della Apocalisse di San Giovanni. Qui il diavolo è chiamato accusatore che accusa i nostri fratelli dinanzi a Dio giorno e notte (Ap 12, 10). In questo modo l’Apocalisse riprende un pensiero che sta al centro del racconto che fa da cornice allibro di Giobbe (Gb 1 e 2, 10; 42, 7-16). Qui si narra che il diavolo tenta di screditare la rettitudine e l’integrità di Giobbe co­me puramente esteriori e superficiali. Si tratta proprio di quello di cui parla l’Apocalisse: il diavolo vuole dimostrare che non ci sono uomini giusti; che tutta la giustizia degli uomini è solo una rappresentazione esteriore. Che se la si potesse saggiare di più, ben presto l’apparenza della giustizia svanirebbe. Il racconto inizia con una disputa fra Dio e il diavolo in cui Dio indicava in Giobbe un vero giusto. Ora sarà dunque lui il banco di prova per stabilire chi ha ragione. «Togligli quanto possie­de - argomenta il diavolo - e vedrai che nulla resterà della sua devozio­ne». Dio gli permette questo tentativo dal quale Giobbe esce in modo po­sitivo. Ma il diavolo continua e dice: «Pelle per pelle; tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia» (Gb 2, 4s). Così Dio concede al diavolo una seconda possibilità. Gli è permesso anche di stendere la mano su Giobbe. Unicamente gli è precluso ucci­derlo. Per i cristiani è chiaro che quel Giobbe che per tutta l’umanità esemplarmente sta di fronte a Dio è Gesù Cristo. Nell’Apocalisse, il dramma dell’uomo è rappresentato in tutta la sua ampiezza. Al Dio creatore si contrappone il diavolo che scredita l’intera creazione e l’intera umanità. Egli si rivolge non solo a Dio ma soprattutto agli uo­mini dicendo: «Ma guardate cosa ha fatto questo Dio. Apparentemente una creazione buona. In realtà nel suo complesso è piena di miseria e di schifo». Il denigrare la creazione in realtà è un denigrare Dio. Il diavolo vuole dimostrare che Dio stesso non è buono e vuole allontanarci da lui.

L’attualità di quel che dice l’Apocalisse è lampante L’accusa contro Dio oggi si concentra soprattutto nello screditare la sua Chiesa nel suo complesso e così nell’allontanarci da essa. L’idea di una Chiesa migliore creata da noi stessi è in verità una proposta del diavolo con la quale vuole allontanarci dal Dio vivo, servendosi di una logica menzognera nella quale caschiamo sin troppo facilmente. No, anche oggi la Chiesa non consiste solo di pesci cattivi e di zizzania. La Chiesa di Dio c’è an­ che oggi, e proprio anche oggi essa è lo strumento con il quale Dio ci salva. È molto importante contrapporre alle menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il male nella Chiesa sono. Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è indistruttibile. Anche oggi ci sono molti uomini che umilmente credono, soffrono e amano e nei quali si mostra a noi il vero Dio, il Dio che ama. Anche oggi Dio ha i suoi testimoni («martyres») nel mondo. Dobbiamo solo essere vigili per vederli e ascoltarli.

Il termine martire è tratto dal diritto processuale. Nel processo contro il diavolo, Gesù Cristo è il primo e autentico testimone di Dio, il primo martire, al quale da allora innumerevoli ne sono seguiti. La Chiesa di oggi è come non mai una Chiesa di martiri e così testimone del Dio vivente. Se con cuore vigile ci guardiamo intorno e siamo in ascolto, ovunque, fra le persone semplici ma anche nelle alte gerarchie della Chiesa, possiamo trovare testimoni che con la loro vita e la loro soffe­renza si impegnano per Dio. È pigrizia del cuore non volere accorgersi di loro. Fra i compiti grandi e fondamentali del nostro annuncio c’è, nel limite delle nostre possibilità, il creare spazi di vita per la fede, e soprat­tutto il trovarli e il riconoscerli.

Vivo in una casa nella quale una piccola comunità di persone scopre di continuo, nella quotidianità, testimoni così del Dio vivo, indicandoli an­ che a me con letizia. Vedere e trovare la Chiesa viva è un compito meraviglioso che rafforza noi stessi e che sempre di nuovo ci fa essere lieti della fede.

Alla fine delle mie riflessioni vorrei ringraziare Papa Francesco per tutto quello che fa per mostrarci di continuo la luce di Dio che anche oggi non è tramontata. Grazie, Santo Padre!
11 aprile 2019