Aggrappata al suo indecifrabile stalker, un uomo ossessionato dai calcoli matematici che ama parlare saltando le vocali, La ragazza che non era lei dà il titolo all'ultimo e il più bello dei romanzi di Tommaso Pincio, appena pubblicato da Einaudi Stile Libero. Un viaggio di andata, malinconico e coraggioso, verso un altro mondo possibile. Con un ritorno tutt'altro che prevedibile
EMANUELE TREVI
Con La ragazza che non era lei (Einaudi «Stile libero», pp.307, euro 14,80), Tommaso Pincio ha rischiato grosso, ed è stato premiato da quella fortuna che, secondo l'antico motto, si concede volentieri solo agli audaci. Leggendo questo suo quarto libro, mi è spesso venuta in mente l'immagine di uno di quei giocatori accaniti che mai si sognerebbero di allontanarsi dal tavolo da gioco quando hanno già accumulato di fronte a sé un discreto gruzzoletto. Quella vincita già ottenuta, infatti, è solo il mezzo per alzare ulteriormente la posta, ottenendo maggiore profondità e velocità alla propria vertigine. Da Dostoevskij a Tommaso Landolfi, abbiamo imparato che un vero giocatore può comportarsi solamente così. Evadendo dalla metafora, bisognerà ammettere che le stesse prerogative appartengono al vero scrittore. Nella cui opera, intesa come successione di libri, esistono certamente degli elementi, anche immediati, di riconoscibilità, ma ogni volta, appunto, rimessi in gioco, sottoposti a torsioni e giri di vite così violenti da evocare costantemente lo spettro del fallimento. Il fatto è che per Pincio la forma stessa della narrazione, l'architettura di quell'oggetto verbale che definiamo una «storia», non è mai la cornice, inerte ed accogliente, delle idee, dei fatti e delle emozioni che intende esprimere. Il suo impianto narrativo, in altre parole, a partire dal punto di vista e dal «montaggio» delle sequenze, è radicalmente poetizzato. Ciò che rende assolutamente unici e inconfondibili i suoi romanzi, non è solo il fatto, constatabile ad apertura di pagina, che essi costruiscono sempre dei malinconici e stupefatti universi paralleli che il lettore è costretto ad accettare (o magari a rifiutare) in quanto tali. È il regime di senso che si instaura all'interno di queste visioni ad apparire ancora più interessante delle visioni in sé. Perché, nell' «America» di Pincio, come accade in quella di Kafka e di Burroughs, dal tramonto della verosimiglianza non deriva l'anarchia, ma un nuovo, misterioso e vagamente sapienziale modello di coerenza simbolica. Tutta la folgorante sezione iniziale della Ragazza che non era lei è un esempio perfetto del funzionamento del mondo immaginale di Pincio. Laika Orbit vive, da un tempo imprecisato che ormai le appare lunghissimo, prigioniera di una realtà estranea e bizzarra, di cui non comprende le regole elementari e nella quale è scivolata al seguito di un uomo incontrato casualmente in un bar. A quanto pare, è bastato salire nella macchina di quell'uomo per smarrire completamente la via del ritorno. Se ogni incontro umano, e soprattutto ogni incontro tra un uomo e una donna, implica la possibilità di accedere a un altro mondo, nel racconto di Pincio questa espressione, rassicurante fin tanto che si mantiene generica come ogni modo di dire, diventa una realtà empirica concreta. Sfruttando un procedimento che appartiene a un millenario patrimonio fiabesco, Pincio reifica la metafora, ne scopre le carte semantiche. Ebbene, come la disorientata, indifesa Laika scopre a sue spese, un altro mondo è possibile. Ma il rovescio della metafora (o dello slogan politico, come non sarà sfuggito a nessuno), insomma la sua declinazione letterale, dà luogo a una specie di incubo senza possibilità di risveglio. Aggrappata al suo indecifrabile stalker, un uomo ossessionato dai calcoli matematici che ama parlare senza impiegare le vocali, Laika non può che continuare il suo viaggio in una terra incognita e perturbante dove un'unica stazione radiofonica trasmette continuamente una sola canzone, la polvere che si deposita implacabile dappertutto spia ogni gesto e, una volta ingerita, si trasforma in una potente e pericolosa sostanza psicotropa, la luce di ogni ora del giorno è quella del crepuscolo... Ma c'è di più. Non solo Laika non sa niente della realtà che la tiene prigioniera, ma ha dimenticato tutto ciò che riguarda la sua vita precedente al fatale incontro con l'uomo che parla senza vocali. L'incubo in cui si trova a vivere deriva da questa recisione del filo dell'identità e della memoria un decisivo supplemento di angosciosa incertezza.
Ancora più che dalla inospitale stranezza di tutto ciò che la circonda, infatti, Laika è afflitta dal non sapere nulla su se stessa. Era una ragazza infelice? È per questo motivo che ha seguito il richiamo dell'altrove? Chi erano i suoi genitori, i suoi amici, i suoi ragazzi? Gli interrogativi dettati dall'amnesia si avvitano su se stessi, scavando un ulteriore abisso nell'abisso dell'estraneità. L'ultima tappa del folle viaggio è la città di Cloaca Maxima, dove i macchinari delle fabbriche, adeguatamente alimentati, producono immense quantità di merda. L'infida polvere si insinua dappertutto. E Laika, al colmo della sua derelizione, rimane sola in una camera d'albergo che ovviamente non può pagare, e che dovrebbe abbandonare entro l'ora del tramonto...
Mentre leggiamo la prima parte del romanzo di Pincio, sempre più identificandoci con le assurde traversie della sua involontaria e smemorata eroina, ci troviamo giocoforza a desiderare, assieme a lei, la possibilità di una via del ritorno, o di un risveglio. Ammesso e non concesso che il narratore ci concederà un simile sollievo, la narrazione però imbocca una strada totalmente imprevista, che per molto tempo ci farà abbandonare, a malincuore, l'adorabile e derelitta Laika al suo destino. Tanto per cominciare, un sapientissimo e graduale cambiamento di registro fa sì che dalla terza persona iniziale si passi alla prima. È lo sconcertante «rapitore» di Laika che inizia a raccontare la sua storia. E questa storia ci riporta a un mondo, e a un tempo, che sono i nostri, ma che ben poco sollievo ci procurano con la loro indubbia riconoscibilità. Tanto più che quest'uomo che si confessa dichiara di parlarci dal regno dei morti, o meglio dal Bush of Ghosts di Brian Eno e David Byrne che dà il titolo al sesto capitolo del romanzo. «Sembra proprio che ora tocchi a me. Certo, sarebbe stato meglio non dover arrivare a questo punto. Per quanto non è che mi possa lamentare. Prendere la parola dall'oltretomba al cospetto di un uditorio di idioti ancora in vita comporta i suoi vantaggi. Il principale è che non ti interrompe nessuno».
Zxyz, questo è il nome del nostro beckettiano eroe, deve partire da lontano per riportarci fino a Laika. Ma attenzione: non è detto che un morto abbia la voglia, o il potere, di dire la verità - o solo la verità. La sua storia di bambino cresciuto in una comunità di hippy, tra San Francisco ed Amsterdam, sembra svolgersi tutta all'interno di una mente tormentata dalla solitudine, dalla mancanza d'amore, e infine da una immedicabile depressione. Come già nel suo romanzo precedente, Un amore dell'altro mondo, Pincio si dimostra un vero maestro nella gestione narrativa del «male oscuro», con tutto il suo sinistro corteggio di fallimenti e inibizioni. Nel senso che il fallimento della vita non è semplicemente un tema enunciato dal racconto, ma un modello del mondo, un cosmo senza vie d'uscite, né più né meno della distopia nella quale la storia ha abbondonato la povera Laika, allontanandosene sempre più via via che il monologo del morto prosegue verso la sua fine ineluttabile. A un certo punto, i lettori inizieranno a chiedersi come mai le due storie di questo libro, quella raccontata in terza e quella raccontata in prima persona, stentino così tanto a ricongiungersi in un punto di comprensione e illuminazione reciproca. Ma mentre si pongono questa domanda, alla quale solo l'ultima pagina darà una risposta plausibile (che non intendo affatto anticipare) quegli stessi lettori non potranno non rimanere ammirati da quello che è l'effetto poetico più intenso e difficile da ottenere in questo romanzo: la certezza - inspiegabile ma concreta - che attraverso e nonostante un così radicale slittamento di piani, in realtà quella che ci viene raccontata è la stessa storia, dotata di un'unità molto più profonda di quella assicurata da una successione univoca di fatti all'interno di uno spazio-tempo omogeneo.
Dalla prima all'ultima pagina, infatti, La ragazza che non era lei non ci parla d'altro che di un solo argomento: è davvero possibile, un altro mondo? E come uscire da questo? Ci sono frasi, e parole, che l'uso e l'abitudine rendono logore, e destinate entropicamente all'inerzia del loro senso. E se c'è una vera missione della letteratura, cerdo l'unica possibile, è invertire questo processo costante. Affondando le dita fino al midollo del linguaggio, rivoltandone gli elementi come un calzino. La ragazza coi capelli strani è uno di quei rarissimi libri contemporanei che ci insegna l'arte, preziosa e interminabile, di ridare senso e nuova vita alle parole che amiamo di più, e che amare non basta mai.
il manifesto
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
20.5.05
Tutti sulle orme di Caino e Edipo
SENSO DI COLPA E RESPONSABILITÀ
di Elena Loewenthal
Malgrado la distanza, le due storie hanno molto in comune. Caino uccide il fratello in preda a un accesso di ira ma anche di ottusa, irrefrenabile gelosia. Prima ancora che lo scontro fra due civiltà primordiali, l'una pastorale e l'altra agricola, l'episodio biblico è il dramma di due fratelli. In un altro angolo del mondo, Edipo inconsapevole uccide il padre e sposa la madre: con ciò abbraccia un fato che è al tempo stesso demiurgo e tragica predestinazione. Questi due delitti sono all'origine dell'umanità, sono una specie di zoccolo duro delle emozioni, perennemente latente nell'inconscio.
Al di là della distanza che separa questi due eroi in negativo, c'è un tratto comune e fondamentale che li unisce: quando il Signore interroga Caino su dove sia suo fratello, questi ribatte, con una tremebonda alzata di spalle, «sono forse il custode di mio fratello?». Dal canto suo, nel momento in cui sa, in cui conosce il proprio destino, Edipo si acceca. Entrambi rifiutano la responsabilità, rinnegano ciò che è stato commesso, vuoi con le parole vuoi con un gesto terribile contro se stessi, che non è espiazione bensì rifiuto della realtà. Tale rifiuto è la radice del senso di colpa, che è il rovescio della medaglia della responsabilità.
A questo tema antico quasi quanto il mondo, ma così lento ad affiorare alla coscienza - ci son voluti millenni, e c'è voluta l'incoscienza coraggiosa dell'inventore della psicoanalisi... - è dedicato un corposo volume in uscita presso Bruno Mondadori. Si tratta di L’interpretazione della colpa, la colpa dell'interpretazione, a cura di Marco Francesconi. Il chiasmo del titolo richiama i due fronti di questa miscellanea: dapprima una rassegna interdisciplinare sul concetto di colpa nelle religioni e nelle teorie laiche, e poi due sezioni dedicate all'interpretazione della responsabilità e a quella della colpa.
Freud stesso, cita Paolo D'Alessandro nel suo saggio, sostiene che è «difficile dar conto in modo adeguato del fenomeno del sentimento di colpa. Si giunge ad averlo, perché si riconosce di aver fatto (o anche solamente pensato) qualche cosa di male, esprimendo un giudizio sulla scorta di una (presunta) capacità di discernere il bene dal male... Quel che matura come istanza interna ha poi una sua proiezione esterna, nel nome della legge e dell'autorità di un Dio». La psicoanalisi ci insegna, però, che il più delle volte il senso di colpa non è la conseguenza di un male commesso o pensato, ma sta invece a monte. È, in sostanza, il principio rimosso, il nucleo inconscio di un nostro modo di pensare o di agire. Che ha per conseguenza la violenza verso noi stessi e gli altri: scontando insomma le malefatte di Caino e Edipo, finiamo di ritrovarci sulle loro orme. E la colpa è davvero un modello ancestrale delle nostre emozioni, dal quale è arduo affrancarsi.
Per usare un linguaggio più acconcio, ricavato dalla psicoanalisi, la colpa è la manifestazione di quell'aggressività primaria cui l'uomo ha risposto, a un certo punto della sua storia, con l'invenzione del sacro. Ma è anche una costante storica, come rilevano alcuni dei saggi qui presentati: ne parlano ad esempio Luisa Accati e Mauro Pasqua. Giovanni Foresti pone invece l'accento sulla delicata distinzione fra peccato, sofferenza e colpa.
«Se proprio dobbiamo parlare di male, sarebbe meglio distinguere almeno il male commesso dal male subito», che sono effettivamente due categorie ontologiche diverse, cui bisognerebbe anche trovare due nomi diversi. Anche la colpa è sofferenza, ma una sofferenza dalla natura del tutto particolare, distinta da quella che procura tanto il male subito quanto quello commesso (se mai).
Inutile? Dannoso? Liquidare il senso di colpa sarebbe comodo, e fors'anche provvidenziale. Ma esso è così radicato nelle culture e nella coscienza, che l'impresa ha un che di messianico. Forse bisognerebbe cominciare da una educazione al valore della responsabilità, che è il suo unico, efficace antidoto.
lastampa.it 19 maggio 2005
di Elena Loewenthal
Malgrado la distanza, le due storie hanno molto in comune. Caino uccide il fratello in preda a un accesso di ira ma anche di ottusa, irrefrenabile gelosia. Prima ancora che lo scontro fra due civiltà primordiali, l'una pastorale e l'altra agricola, l'episodio biblico è il dramma di due fratelli. In un altro angolo del mondo, Edipo inconsapevole uccide il padre e sposa la madre: con ciò abbraccia un fato che è al tempo stesso demiurgo e tragica predestinazione. Questi due delitti sono all'origine dell'umanità, sono una specie di zoccolo duro delle emozioni, perennemente latente nell'inconscio.
Al di là della distanza che separa questi due eroi in negativo, c'è un tratto comune e fondamentale che li unisce: quando il Signore interroga Caino su dove sia suo fratello, questi ribatte, con una tremebonda alzata di spalle, «sono forse il custode di mio fratello?». Dal canto suo, nel momento in cui sa, in cui conosce il proprio destino, Edipo si acceca. Entrambi rifiutano la responsabilità, rinnegano ciò che è stato commesso, vuoi con le parole vuoi con un gesto terribile contro se stessi, che non è espiazione bensì rifiuto della realtà. Tale rifiuto è la radice del senso di colpa, che è il rovescio della medaglia della responsabilità.
A questo tema antico quasi quanto il mondo, ma così lento ad affiorare alla coscienza - ci son voluti millenni, e c'è voluta l'incoscienza coraggiosa dell'inventore della psicoanalisi... - è dedicato un corposo volume in uscita presso Bruno Mondadori. Si tratta di L’interpretazione della colpa, la colpa dell'interpretazione, a cura di Marco Francesconi. Il chiasmo del titolo richiama i due fronti di questa miscellanea: dapprima una rassegna interdisciplinare sul concetto di colpa nelle religioni e nelle teorie laiche, e poi due sezioni dedicate all'interpretazione della responsabilità e a quella della colpa.
Freud stesso, cita Paolo D'Alessandro nel suo saggio, sostiene che è «difficile dar conto in modo adeguato del fenomeno del sentimento di colpa. Si giunge ad averlo, perché si riconosce di aver fatto (o anche solamente pensato) qualche cosa di male, esprimendo un giudizio sulla scorta di una (presunta) capacità di discernere il bene dal male... Quel che matura come istanza interna ha poi una sua proiezione esterna, nel nome della legge e dell'autorità di un Dio». La psicoanalisi ci insegna, però, che il più delle volte il senso di colpa non è la conseguenza di un male commesso o pensato, ma sta invece a monte. È, in sostanza, il principio rimosso, il nucleo inconscio di un nostro modo di pensare o di agire. Che ha per conseguenza la violenza verso noi stessi e gli altri: scontando insomma le malefatte di Caino e Edipo, finiamo di ritrovarci sulle loro orme. E la colpa è davvero un modello ancestrale delle nostre emozioni, dal quale è arduo affrancarsi.
Per usare un linguaggio più acconcio, ricavato dalla psicoanalisi, la colpa è la manifestazione di quell'aggressività primaria cui l'uomo ha risposto, a un certo punto della sua storia, con l'invenzione del sacro. Ma è anche una costante storica, come rilevano alcuni dei saggi qui presentati: ne parlano ad esempio Luisa Accati e Mauro Pasqua. Giovanni Foresti pone invece l'accento sulla delicata distinzione fra peccato, sofferenza e colpa.
«Se proprio dobbiamo parlare di male, sarebbe meglio distinguere almeno il male commesso dal male subito», che sono effettivamente due categorie ontologiche diverse, cui bisognerebbe anche trovare due nomi diversi. Anche la colpa è sofferenza, ma una sofferenza dalla natura del tutto particolare, distinta da quella che procura tanto il male subito quanto quello commesso (se mai).
Inutile? Dannoso? Liquidare il senso di colpa sarebbe comodo, e fors'anche provvidenziale. Ma esso è così radicato nelle culture e nella coscienza, che l'impresa ha un che di messianico. Forse bisognerebbe cominciare da una educazione al valore della responsabilità, che è il suo unico, efficace antidoto.
lastampa.it 19 maggio 2005
19.5.05
Un pianeta con la pancia vuota
«Dalla parte dei deboli», un libro sul diritto all'alimentazione di Jean Zigler
L'opulenza inventata. Le diseguaglianze tra Nord e Sud e i programmi di lotta alla fame lanciati dall'Onu, dal Brasile e dal Sudafrica
MAURO TROTTA
La nostra è una società opulenta. Almeno, così dicono molti studiosi. Attualmente, considerando il livello di sviluppo delle forze produttive agricole, si potrebbero nutrire senza problemi dodici miliardi di esseri umani, il doppio della popolazione mondiale. Eppure la lotta alla fame negli ultimi anni ha vissuto solo cocenti sconfitte. Invece di progredire si registrano regressi impressionanti. Se nel 2001 ogni sette secondi un bambino al di sotto dei dieci anni moriva per fame o per malattie legate a essa, nel 2004 le cose sono peggiorate sensibilmente e ogni cinque secondi un bimbo è morto per fame. Sempre nel 2001, 826 milioni di persone sono diventate invalide per sottoalimentazione grave e cronica, nel 2004 gli invalidi per tale causa sono saliti a 841 milioni. Tra il 1995 e il 2004 il numero di vittime della fame è aumentato di ben 28 milioni. E, attualmente, ogni giorno nel mondo centomila persone muoiono di fame o per le conseguenze immediate della fame. La ragione principale di tale disastrosa situazione è nota. Stiamo pagando in maniera sempre più dura e insostenibile le conseguenze delle politiche di liberalizzazione selvaggia e privatizzazione estrema portate avanti dai padroni del mondo e dai loro mercenari, come il Fondo monetario internazionale o l'Organizzazione mondiale del commercio (i tristemente famosi Fmi e Wto).
Proprio per cercare di far fronte a questa situazione l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha deciso di creare un nuovo diritto universale, il diritto all'alimentazione, e di operare in maniera tale da rendere gradualmente possibile il ricorso ai tribunali sulla base di tale diritto. Così, il 4 settembre 2000, Jean Ziegler è stato nominato relatore speciale della «Commissione per i diritti dell'uomo sul diritto all'alimentazione».
Ora un libro, intitolato Dalla parte dei deboli (Marco Tropea editore, pp. 156, € 14,50) dà conto di parte del lavoro svolto da Ziegler in questo suo ruolo. Il volume raccoglie, infatti, un rapporto generale sul diritto all'alimentazione discusso all'Assemblea generale dell'Onu nel 2001 e il resoconto di una missione in Niger presentato alla Commissione per i diritti dell'uomo l'anno successivo. Completa il libro un interessante saggio introduttivo, intitolato La fame e i diritti dell'uomo, che offre una panoramica esauriente della situazione.
Ziegler, docente all'Università di Ginevra e più volte eletto al parlamento svizzero, è autore noto anche in Italia, dove sono stati pubblicati numerosi suoi testi contro la globalizzazione neoliberista e il sistema finanziario svizzero. In questo suo Dalla parte dei deboli espone con forza e chiarezza l'insostenibilità dello stato di cose presente e con rabbia trattenuta la mancata adozione di rimedi concreti e praticabili senza troppe difficoltà. Nel panorama generalmente desolante emergono anche barlumi di speranza legati, ad esempio, al «Programa fame zero», la strategia di lotta alla fame avviata, pur con difficoltà e ritardi, dal governo di Lula in Brasile o, ancora, alla creazione in Sudafrica - paese che ha iscritto nella sua costituzione il diritto all'alimentazione - di una «Commissione nazionale dei diritti dell'uomo», dotata di competenze molto vaste, come la possibilità di contestare davanti alla corte suprema qualsiasi legge votata dal Parlamento, qualsiasi decisione del governo e qualsiasi azione di imprese private che violi il diritto all'alimentazione.
Nella sua analisi puntuale e approfondita, sempre interessante, anche quando l'autore è costretto a usare un linguaggio più «burocratico» - è il caso dei due rapporti alle Nazioni unite - Ziegler non nasconde nemmeno la burocratizzazione, l'incompetenza, le difficoltà che affliggono le organizzazioni specializzate e i vari «programmi», «fondi» e «comitati» dell'Onu: «Le Nazioni unite sono una galassia complicata, abitata da decine di migliaia di uomini e donne dotati di capacità, origini, remunerazioni e funzioni molto diverse tra loro. La maggior parte mostra una certa buona volontà. Alcuni sono brillanti e molto competenti. Altri sono incompetenti. Altri ancora corrotti». Eppure ne difende, tutto sommato, la validità, citando le parole di Sérgio Vieira de Mello, l'ex alto commissario per i diritti umani, ucciso a Bagdad il 19 agosto 2003, il quale, a proposito della sua commissione, disse: «La Commissione va male [...] ma se la si distrugge invece di portarle aiuto non ci sarà più alcuna possibilità di ricorso».
Questo, però, potrà avvenire soltanto se la lotta diventerà una priorità sentita da tutti. È vero, «i predatori trionfano. Impongono al mondo la privatizzazione. Invece di affrontarli, le Nazioni unite cercano di ammansirli. Senza successo». E allora: «Che fare? Mobilitare le forze popolari, organizzare la resistenza. Usare tutte le armi di cui disponiamo, mettendo al servizio di questa lotta tutto il nostro sapere e le nostre forze».
il manifesto
L'opulenza inventata. Le diseguaglianze tra Nord e Sud e i programmi di lotta alla fame lanciati dall'Onu, dal Brasile e dal Sudafrica
MAURO TROTTA
La nostra è una società opulenta. Almeno, così dicono molti studiosi. Attualmente, considerando il livello di sviluppo delle forze produttive agricole, si potrebbero nutrire senza problemi dodici miliardi di esseri umani, il doppio della popolazione mondiale. Eppure la lotta alla fame negli ultimi anni ha vissuto solo cocenti sconfitte. Invece di progredire si registrano regressi impressionanti. Se nel 2001 ogni sette secondi un bambino al di sotto dei dieci anni moriva per fame o per malattie legate a essa, nel 2004 le cose sono peggiorate sensibilmente e ogni cinque secondi un bimbo è morto per fame. Sempre nel 2001, 826 milioni di persone sono diventate invalide per sottoalimentazione grave e cronica, nel 2004 gli invalidi per tale causa sono saliti a 841 milioni. Tra il 1995 e il 2004 il numero di vittime della fame è aumentato di ben 28 milioni. E, attualmente, ogni giorno nel mondo centomila persone muoiono di fame o per le conseguenze immediate della fame. La ragione principale di tale disastrosa situazione è nota. Stiamo pagando in maniera sempre più dura e insostenibile le conseguenze delle politiche di liberalizzazione selvaggia e privatizzazione estrema portate avanti dai padroni del mondo e dai loro mercenari, come il Fondo monetario internazionale o l'Organizzazione mondiale del commercio (i tristemente famosi Fmi e Wto).
Proprio per cercare di far fronte a questa situazione l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha deciso di creare un nuovo diritto universale, il diritto all'alimentazione, e di operare in maniera tale da rendere gradualmente possibile il ricorso ai tribunali sulla base di tale diritto. Così, il 4 settembre 2000, Jean Ziegler è stato nominato relatore speciale della «Commissione per i diritti dell'uomo sul diritto all'alimentazione».
Ora un libro, intitolato Dalla parte dei deboli (Marco Tropea editore, pp. 156, € 14,50) dà conto di parte del lavoro svolto da Ziegler in questo suo ruolo. Il volume raccoglie, infatti, un rapporto generale sul diritto all'alimentazione discusso all'Assemblea generale dell'Onu nel 2001 e il resoconto di una missione in Niger presentato alla Commissione per i diritti dell'uomo l'anno successivo. Completa il libro un interessante saggio introduttivo, intitolato La fame e i diritti dell'uomo, che offre una panoramica esauriente della situazione.
Ziegler, docente all'Università di Ginevra e più volte eletto al parlamento svizzero, è autore noto anche in Italia, dove sono stati pubblicati numerosi suoi testi contro la globalizzazione neoliberista e il sistema finanziario svizzero. In questo suo Dalla parte dei deboli espone con forza e chiarezza l'insostenibilità dello stato di cose presente e con rabbia trattenuta la mancata adozione di rimedi concreti e praticabili senza troppe difficoltà. Nel panorama generalmente desolante emergono anche barlumi di speranza legati, ad esempio, al «Programa fame zero», la strategia di lotta alla fame avviata, pur con difficoltà e ritardi, dal governo di Lula in Brasile o, ancora, alla creazione in Sudafrica - paese che ha iscritto nella sua costituzione il diritto all'alimentazione - di una «Commissione nazionale dei diritti dell'uomo», dotata di competenze molto vaste, come la possibilità di contestare davanti alla corte suprema qualsiasi legge votata dal Parlamento, qualsiasi decisione del governo e qualsiasi azione di imprese private che violi il diritto all'alimentazione.
Nella sua analisi puntuale e approfondita, sempre interessante, anche quando l'autore è costretto a usare un linguaggio più «burocratico» - è il caso dei due rapporti alle Nazioni unite - Ziegler non nasconde nemmeno la burocratizzazione, l'incompetenza, le difficoltà che affliggono le organizzazioni specializzate e i vari «programmi», «fondi» e «comitati» dell'Onu: «Le Nazioni unite sono una galassia complicata, abitata da decine di migliaia di uomini e donne dotati di capacità, origini, remunerazioni e funzioni molto diverse tra loro. La maggior parte mostra una certa buona volontà. Alcuni sono brillanti e molto competenti. Altri sono incompetenti. Altri ancora corrotti». Eppure ne difende, tutto sommato, la validità, citando le parole di Sérgio Vieira de Mello, l'ex alto commissario per i diritti umani, ucciso a Bagdad il 19 agosto 2003, il quale, a proposito della sua commissione, disse: «La Commissione va male [...] ma se la si distrugge invece di portarle aiuto non ci sarà più alcuna possibilità di ricorso».
Questo, però, potrà avvenire soltanto se la lotta diventerà una priorità sentita da tutti. È vero, «i predatori trionfano. Impongono al mondo la privatizzazione. Invece di affrontarli, le Nazioni unite cercano di ammansirli. Senza successo». E allora: «Che fare? Mobilitare le forze popolari, organizzare la resistenza. Usare tutte le armi di cui disponiamo, mettendo al servizio di questa lotta tutto il nostro sapere e le nostre forze».
il manifesto
18.5.05
Il Rubicone del lavoro dipendente
Il concetto di «eterodirezione» che continua a definire le attività lavorative subordinate è superato. Oggi le imprese richiedono soggetti in grado di effettuare scelte autonome
Un tipo unico di contratto imperniato sulla dipendenza economica offrirebbe sia agli attuali lavoratori subordinati sia ai collaboratori le necessarie garanzie
PIERGIOVANNI ALLEVA
Un interessante articolo di Giuseppe Bronzini, pubblicato dal manifesto il 30 aprile con il titolo «La costituzione dei lavori» ha toccato un argomento di grande rilievo per il futuro assetto del diritto del lavoro, e per il programma di governo del centrosinistra. L'argomento è quello di un nuovo assetto della tipologia dei rapporti di lavoro, che non soltanto ponga rimedio alla moltiplicazione di figure precarie e sottotutelate indotta dalla legislazione del centrodestra (specialmente dal Dlgs n. 368/2001 e dal Dlgs. n. 276/2003) ma offra anche una convincente soluzione a problemi già evidenti nel precedente quadro normativo. Ci si riferisce, come intuibile, a quella distinzione, o più esattamente dicotomia, tra lavoro «subordinato» e lavoro «parasubordinato» (anzitutto, anche se non solo, collaborazione coordinata continuativa) che almeno dagli inizi degli anni `90 ha rappresentato il principale strumento della precarizzazione e di massiccia evasione o elusione, in danno di tanti lavoratori, dalle tutele legali e contrattuali. Elusione resa possibile da due ordini di ragioni, la prima delle quali consiste nel fatto che il lavoro che si definisce «parasubordinato» è, dal punto di vista tecnico-giuridico, lavoro autonomo, e di conseguenza resta al di fuori dell'ambito di applicazione di tutta la normativa legale e contrattuale di tutela del lavoro subordinato, anche della più elementare e basilare in tema, ad esempio, di stabilità del rapporto e di sufficienza della retribuzione.
La seconda decisiva ragione è che il tradizionale criterio distintivo usato dalla giurisprudenza per qualificare una prestazione lavorativa come subordinata o, invece, come di collaborazione autonoma coordinata e continuativa, - criterio costituito dalla cosiddetta «eterodirezione» - è ormai del tutto obsoleto, storicamente datato e, come vedremo, anche in sé equivoco e incapace di svolgere una effettiva funzione selettiva e di qualificazione delle fattispecie concrete.
L'incertezza dei criteri
È esperienza comune che lavoratori che svolgono attività lavorative del tutto, o in massima parte, similari presso la medesima impresa, siano qualificati gli uni come subordinati - godendo così della pienezza delle tutele legali e contrattuali - e gli altri come collaboratori autonomi privi di ogni garanzia. Ed è ancora esperienza comune che i datori di lavoro cerchino di qualificare come a loro più conviene i nuovi assunti, e che questo «abuso» non trovi poi rimedio neanche in un giudizio proprio per l'incertezza del criterio distintivo.
Esaminiamo ancora più da vicino questo criterio della «eterodirezione»: esso afferma, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, che il lavoratore è subordinato (e per questo destinatario delle normative di garanzia) quando è sottoposto a direttive precise, vincolanti, «capillari», sul modo di svolgimento della prestazione e a continui controlli sul loro rispetto nonché a sanzioni disciplinari in caso di inosservanza. Il che, nel concreto, si traduce - o dovrebbe tradursi - in orario di lavoro rigido, disciplina paramilitare del lavoro, organizzazione gerarchica e riduzione al minimo della possibilità del lavoratore di effettuare delle scelte anche puramente tecniche.
La figura di lavoratore tratteggiata da questo criterio è in definitiva quella di un soggetto «pagato per lavorare e non per pensare», ma proprio qui sta l'obsolescenza del criterio stesso: infatti l'impresa moderna, di un simile lavoratore, che si limiti a operare secondo precise direttive, non saprebbe che farsene. Quel criterio poteva essere attuale in uno scenario di prima o, al massimo, di seconda industrializzazione, caratterizzata da produzione di massa, lavorazioni parcellizzate, scarsa scolarità.
Un'impresa moderna, destinata a competere in un'economia di servizi ha invece caratteristiche e necessità opposte: orizzontalizzazione dei rapporti, capacità di ogni soggetto di effettuare le migliori scelte operative, aggiornamento culturale e tecnico continuo, orientamento costante agli obiettivi. Accade, allora, per paradosso, che se veramente bisognasse restare fedeli a quel criterio, la maggior parte dei lavoratori che pure sono assunti come «subordinati» dovrebbero essere qualificati come «autonomi». Dunque, alla fine, il datore di lavoro ha una ampia possibilità di «etichettare» il rapporto nell'uno o nell'altro modo, a suo piacimento.
Moduli gerarchici obsoleti
Bisogna, però, aggiungere che anche nei tempi in cui più o meno rifletteva la realtà produttiva, quel criterio della eterodirezione era comunque il frutto di un equivoco, ovvero di uno scambio o inversione tra epifenomeno e sostanza del lavoro alle dipendenze di altri. Si può dire, in massima sintesi, che la dipendenza tecnico-funzionale e personale, ossia la soggezione alla «eterodirezione», ha rappresentato solo il modo, storicamente condizionato da un certo grado di sviluppo delle tecniche produttive, di utilizzare i soggetti in stato di dipendenza economico-sociale. Di quei soggetti, cioè, che al fine di procurarsi i mezzi di sopravvivenza loro e delle loro famiglie «vendono» la propria forza e capacità lavorativa, aderendo a un piano economico e di impresa altrui ed alla organizzazione produttiva che lo supporta.
Un tempo il modo più semplice, efficiente e fruttuoso di utilizzarli era quello di inquadrarli secondo un modulo gerarchico e paramilitare, dunque e per l'appunto, secondo il canone della eterodirezione, ma oggi non lo è più, essendo mutata l'economia e il modo di produrre, mentre per altro verso, quella che è rimasta immutata è la relazione sostanziale di dipendenza socioeconomica tra i soggetti. L'equivoco legislativo e giurisprudenziale, è stato quello di cristallizzare e rendere eterno l'epifenomeno della eterodirezione, facendone il proprium del lavoro subordinato, e, soprattutto collegando a essa, e non alla dipendenza socioeconomica, l'introduzione e la vigilanza di norme di tutela.
L'aporia è evidente: forse che al lavoratore subordinato è stata riconosciuta la garanzia del salario sufficiente e della stabilità del posto perché ogni giorno deve «timbrare» a una certa ora ed è tiranneggiato da un capo reparto? O non piuttosto perché la sua fondamentale risorsa di vita è di spendere la propria forza-lavoro presso quell'impresa?
Per converso, il collaboratore - che allo stesso modo conta su quella identica risorsa - non avrebbe bisogno di quelle fondamentali garanzie solo perché non è tenuto a un orario fisso, e può organizzarsi la prestazione con una qualche discrezionalità?
Un equivoco storico
Tutte le considerazioni fino ad ora svolte sono oramai acquisite all'opinione comune, così da poter apparire anche scontate. Perché, allora, giunti a questo punto, non passare decisamente il Rubicone e riconoscere in sede di riforma legislativa che la figura di lavoratore meritevole delle tutele previste dal corpus del diritto del lavoro è ampia e unitaria, e ricorre quando un soggetto si obbliga, senza propria organizzazione di mezzi, a prestare attività lavorativa, personalmente e continuativamente, in un progetto o in un'organizzazione o impresa altrui?
Una volta chiarito l'equivoco storico della eterodirezione come criterio di qualificazione del lavoro dipendente e ratio della legislazione di garanzia, perché non trarre le logiche conseguenze? È questa la proposta riformatrice che Bronzini chiama «monista», perché predica, appunto, la necessità di configurare un tipo unitario di rapporto di lavoro alle dipendenze altrui (seppur con articolazione di modalità esecutive).
Dobbiamo rilevare, invece che tra i soggetti politici che si riconoscono nel centrosinistra permangono dubbi e contrarietà, talché alla proposta cosiddetta «monista» viene contrapposta quella, di cui lo stesso Bronzini si dimostra sostenitore, di mantenere una configurazione «pluralista» dei rapporti di lavoro, e dunque di conservare (anzi di reintrodurre, compiendo un passo indietro rispetto allo stesso Dlgs 276/2001) le collaborazioni coordinate e continuative anche a tempo indeterminato, ma fornendole di garanzie oggi inesistenti e simili, su scala minore, a quelle che assistono i rapporti di lavoro subordinato.
L'idea, ci sembra, è quella di «svuotare» il problema anziché affrontarlo direttamente, e certamente soluzioni del genere si sono, in passato, anche raggiunte, ma in questioni molto minori: così , ad esempio , quando il trattamento degli operai era di gran lunga peggiore di quello degli impiegati in ordine a retribuzione, qualificazione, ferie, liquidazione, e via dicendo. Così, si dibatteva molto in giurisprudenza il problema se il «magazziniere» fosse da qualificare operaio o impiegato. E si è smesso di discutere - pur senza averlo risolto - quando, con l'inquadramento unico, i trattamenti di operai e impiegati sono stati parificati.
Su un argomento di questa rilevanza, invece, un simile approccio empirico non può essere giudicato affidabile, perché prospetta ai «parasubordinati» una «lunga marcia» verso la parificazione, defatigante e dagli esiti quanto mai incerti: chi può credere che per questa via si possa, ad esempio, giungere ad assicurare ai collaboratori una stabilità reale del posto di lavoro, o la parità di trattamento in tema di ammortizzatori sociali, contribuzione e pensione?
Regole frustranti
Le varie proposte di «statuto dei lavori» che sono circolate non consentono di nutrire illusioni: i differenziali di trattamento resterebbero, alcuni per sempre, altri per molto tempo, e dunque continuerebbero simulazioni ed abusi. Di questo i sostenitori della soluzione «pluralista» sono - riteniamo - consapevoli e dunque la ragione vera del loro atteggiamento è un'altra, evidenziata nella parte finale dell'articolo di Bronzini. La convinzione, cioè, che non esista più «un solo modo» di lavorare, e che la proposta «monista» porterebbe invece proprio e solo a un appiattimento delle regole e condizioni di effettuazione della prestazione, con generalizzazione di quelle attualmente previste dal codice civile per il lavoro subordinato in senso stretto e tradizionale. Le quali regole, certamente, per come sono scritte possono risultare frustranti del legittimo desiderio di molti lavoratori delle giovani generazioni di organizzare autonomamente il proprio apporto lavorativo nell'impresa, di far valere la propria capacità professionale nei risultati, di sottrarsi a vincoli gerarchici poco comprensibili, ed anche di contrattare la propria remunerazione.
Formuliamo, allora, la considerazione che simili legittime aspirazioni urtano, semmai, contro la eterodirezione, della cui inessenzialità si è detto, ma non hanno nulla a che vedere con lo stato di dipendenza socioeconomica dei collaboratori coordinati e continuativi, ragion per cui non esiste contraddizione nella loro diffusa rivendicazione di avere sicurezza (al pari dei lavoratori oggi detti subordinati) ma senza obbligo di timbrare il cartellino.
Distinzioni inutili
Bisogna liberarsi dell'idea che per sottrarsi alla eterodirezione «in senso forte» occorre di necessità passare a un «altro tipo» di contratto di lavoro, e abbracciare invece, quella che la eterodirezione o la «autorganizzazione» della prestazione possono essere solo due modalità esecutive di un unico contratto di lavoro dipendente. Infatti, un tipo unico di contratto di lavoro, imperniato sulla dipendenza socioeconomica, comprenderebbe naturalmente sia gli attuali lavoratori subordinati, sia i collaboratori, e altrettanto naturalmente offrirebbe allo stesso modo agli uni e agli altri tutte quelle tutele di sufficienza salariale, di stabilità del rapporto, di garanzia contro le diverse sopravvenienze negative (malattie infortuni, crisi aziendali ecc.) che la dipendenza economica invoca: a quel punto non avrebbe più senso distinguere tra «subordinati» e «parasubordinati», proprio perché la eterodirezione in senso forte non sarebbe più un elemento costitutivo della fattispecie negoziale.
Questo tuttavia non impedirebbe che la prestazione potrebbe poi essere effettuata sia con eterodirezione che con autorganizzazione perché questa non sarebbe più un'alternativa tra contratti ma tra due modi di adempiere allo stesso contratto, così come un aereo «a geometria variabile» è sempre lo stesso aereo sia quando vola ad ali estese sia quando vola ad ali ripiegate.
Si tratterebbe di una modalità secondaria, da negoziare tra le parti in base alla reciproca convenienza, perché anche agli imprenditori può comunque convenire puntare più sull'estro e sulla motivazione che sull'obbedienza di un dipendente, e nulla vieterebbe d'altro canto a una legge di riforma non solo di consentire, ma anche di regolare, simili parti di deroga alle norme codicistiche (molto poche, invero) che disciplinano i poteri di eterodirezione.
La proposta «monista» vuole comunque puntare non solo alla giustizia e alla parità di trattamento, ma anche alla qualità delle condizioni e degli apparati lanciando una «via alta» per il recupero della competitività laddove invece, la pluralità e frammentazione dei tipi contrattuali con conseguente diversificazione delle tutele, ha purtroppo sempre significato fino ad oggi, incentivo alle scelte di comodo, e al risparmio a breve, con danno del lavoratore e sul medio periodo anche della stessa impresa. La proposta cosiddetta monista, d'altra parte, è quella fatta propria anche dalla Cgil nelle sue proposte di legge, dopo una approfondita elaborazione nella sua Consulta di cui chi scrive si onora di far parte. È, dunque, questo qui descritto un importante terreno di confronto per valutare l'effettiva diversità di orientamenti programmatici tra le forze dell'Unione e del centrodestra.
il manifesto
Un tipo unico di contratto imperniato sulla dipendenza economica offrirebbe sia agli attuali lavoratori subordinati sia ai collaboratori le necessarie garanzie
PIERGIOVANNI ALLEVA
Un interessante articolo di Giuseppe Bronzini, pubblicato dal manifesto il 30 aprile con il titolo «La costituzione dei lavori» ha toccato un argomento di grande rilievo per il futuro assetto del diritto del lavoro, e per il programma di governo del centrosinistra. L'argomento è quello di un nuovo assetto della tipologia dei rapporti di lavoro, che non soltanto ponga rimedio alla moltiplicazione di figure precarie e sottotutelate indotta dalla legislazione del centrodestra (specialmente dal Dlgs n. 368/2001 e dal Dlgs. n. 276/2003) ma offra anche una convincente soluzione a problemi già evidenti nel precedente quadro normativo. Ci si riferisce, come intuibile, a quella distinzione, o più esattamente dicotomia, tra lavoro «subordinato» e lavoro «parasubordinato» (anzitutto, anche se non solo, collaborazione coordinata continuativa) che almeno dagli inizi degli anni `90 ha rappresentato il principale strumento della precarizzazione e di massiccia evasione o elusione, in danno di tanti lavoratori, dalle tutele legali e contrattuali. Elusione resa possibile da due ordini di ragioni, la prima delle quali consiste nel fatto che il lavoro che si definisce «parasubordinato» è, dal punto di vista tecnico-giuridico, lavoro autonomo, e di conseguenza resta al di fuori dell'ambito di applicazione di tutta la normativa legale e contrattuale di tutela del lavoro subordinato, anche della più elementare e basilare in tema, ad esempio, di stabilità del rapporto e di sufficienza della retribuzione.
La seconda decisiva ragione è che il tradizionale criterio distintivo usato dalla giurisprudenza per qualificare una prestazione lavorativa come subordinata o, invece, come di collaborazione autonoma coordinata e continuativa, - criterio costituito dalla cosiddetta «eterodirezione» - è ormai del tutto obsoleto, storicamente datato e, come vedremo, anche in sé equivoco e incapace di svolgere una effettiva funzione selettiva e di qualificazione delle fattispecie concrete.
L'incertezza dei criteri
È esperienza comune che lavoratori che svolgono attività lavorative del tutto, o in massima parte, similari presso la medesima impresa, siano qualificati gli uni come subordinati - godendo così della pienezza delle tutele legali e contrattuali - e gli altri come collaboratori autonomi privi di ogni garanzia. Ed è ancora esperienza comune che i datori di lavoro cerchino di qualificare come a loro più conviene i nuovi assunti, e che questo «abuso» non trovi poi rimedio neanche in un giudizio proprio per l'incertezza del criterio distintivo.
Esaminiamo ancora più da vicino questo criterio della «eterodirezione»: esso afferma, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, che il lavoratore è subordinato (e per questo destinatario delle normative di garanzia) quando è sottoposto a direttive precise, vincolanti, «capillari», sul modo di svolgimento della prestazione e a continui controlli sul loro rispetto nonché a sanzioni disciplinari in caso di inosservanza. Il che, nel concreto, si traduce - o dovrebbe tradursi - in orario di lavoro rigido, disciplina paramilitare del lavoro, organizzazione gerarchica e riduzione al minimo della possibilità del lavoratore di effettuare delle scelte anche puramente tecniche.
La figura di lavoratore tratteggiata da questo criterio è in definitiva quella di un soggetto «pagato per lavorare e non per pensare», ma proprio qui sta l'obsolescenza del criterio stesso: infatti l'impresa moderna, di un simile lavoratore, che si limiti a operare secondo precise direttive, non saprebbe che farsene. Quel criterio poteva essere attuale in uno scenario di prima o, al massimo, di seconda industrializzazione, caratterizzata da produzione di massa, lavorazioni parcellizzate, scarsa scolarità.
Un'impresa moderna, destinata a competere in un'economia di servizi ha invece caratteristiche e necessità opposte: orizzontalizzazione dei rapporti, capacità di ogni soggetto di effettuare le migliori scelte operative, aggiornamento culturale e tecnico continuo, orientamento costante agli obiettivi. Accade, allora, per paradosso, che se veramente bisognasse restare fedeli a quel criterio, la maggior parte dei lavoratori che pure sono assunti come «subordinati» dovrebbero essere qualificati come «autonomi». Dunque, alla fine, il datore di lavoro ha una ampia possibilità di «etichettare» il rapporto nell'uno o nell'altro modo, a suo piacimento.
Moduli gerarchici obsoleti
Bisogna, però, aggiungere che anche nei tempi in cui più o meno rifletteva la realtà produttiva, quel criterio della eterodirezione era comunque il frutto di un equivoco, ovvero di uno scambio o inversione tra epifenomeno e sostanza del lavoro alle dipendenze di altri. Si può dire, in massima sintesi, che la dipendenza tecnico-funzionale e personale, ossia la soggezione alla «eterodirezione», ha rappresentato solo il modo, storicamente condizionato da un certo grado di sviluppo delle tecniche produttive, di utilizzare i soggetti in stato di dipendenza economico-sociale. Di quei soggetti, cioè, che al fine di procurarsi i mezzi di sopravvivenza loro e delle loro famiglie «vendono» la propria forza e capacità lavorativa, aderendo a un piano economico e di impresa altrui ed alla organizzazione produttiva che lo supporta.
Un tempo il modo più semplice, efficiente e fruttuoso di utilizzarli era quello di inquadrarli secondo un modulo gerarchico e paramilitare, dunque e per l'appunto, secondo il canone della eterodirezione, ma oggi non lo è più, essendo mutata l'economia e il modo di produrre, mentre per altro verso, quella che è rimasta immutata è la relazione sostanziale di dipendenza socioeconomica tra i soggetti. L'equivoco legislativo e giurisprudenziale, è stato quello di cristallizzare e rendere eterno l'epifenomeno della eterodirezione, facendone il proprium del lavoro subordinato, e, soprattutto collegando a essa, e non alla dipendenza socioeconomica, l'introduzione e la vigilanza di norme di tutela.
L'aporia è evidente: forse che al lavoratore subordinato è stata riconosciuta la garanzia del salario sufficiente e della stabilità del posto perché ogni giorno deve «timbrare» a una certa ora ed è tiranneggiato da un capo reparto? O non piuttosto perché la sua fondamentale risorsa di vita è di spendere la propria forza-lavoro presso quell'impresa?
Per converso, il collaboratore - che allo stesso modo conta su quella identica risorsa - non avrebbe bisogno di quelle fondamentali garanzie solo perché non è tenuto a un orario fisso, e può organizzarsi la prestazione con una qualche discrezionalità?
Un equivoco storico
Tutte le considerazioni fino ad ora svolte sono oramai acquisite all'opinione comune, così da poter apparire anche scontate. Perché, allora, giunti a questo punto, non passare decisamente il Rubicone e riconoscere in sede di riforma legislativa che la figura di lavoratore meritevole delle tutele previste dal corpus del diritto del lavoro è ampia e unitaria, e ricorre quando un soggetto si obbliga, senza propria organizzazione di mezzi, a prestare attività lavorativa, personalmente e continuativamente, in un progetto o in un'organizzazione o impresa altrui?
Una volta chiarito l'equivoco storico della eterodirezione come criterio di qualificazione del lavoro dipendente e ratio della legislazione di garanzia, perché non trarre le logiche conseguenze? È questa la proposta riformatrice che Bronzini chiama «monista», perché predica, appunto, la necessità di configurare un tipo unitario di rapporto di lavoro alle dipendenze altrui (seppur con articolazione di modalità esecutive).
Dobbiamo rilevare, invece che tra i soggetti politici che si riconoscono nel centrosinistra permangono dubbi e contrarietà, talché alla proposta cosiddetta «monista» viene contrapposta quella, di cui lo stesso Bronzini si dimostra sostenitore, di mantenere una configurazione «pluralista» dei rapporti di lavoro, e dunque di conservare (anzi di reintrodurre, compiendo un passo indietro rispetto allo stesso Dlgs 276/2001) le collaborazioni coordinate e continuative anche a tempo indeterminato, ma fornendole di garanzie oggi inesistenti e simili, su scala minore, a quelle che assistono i rapporti di lavoro subordinato.
L'idea, ci sembra, è quella di «svuotare» il problema anziché affrontarlo direttamente, e certamente soluzioni del genere si sono, in passato, anche raggiunte, ma in questioni molto minori: così , ad esempio , quando il trattamento degli operai era di gran lunga peggiore di quello degli impiegati in ordine a retribuzione, qualificazione, ferie, liquidazione, e via dicendo. Così, si dibatteva molto in giurisprudenza il problema se il «magazziniere» fosse da qualificare operaio o impiegato. E si è smesso di discutere - pur senza averlo risolto - quando, con l'inquadramento unico, i trattamenti di operai e impiegati sono stati parificati.
Su un argomento di questa rilevanza, invece, un simile approccio empirico non può essere giudicato affidabile, perché prospetta ai «parasubordinati» una «lunga marcia» verso la parificazione, defatigante e dagli esiti quanto mai incerti: chi può credere che per questa via si possa, ad esempio, giungere ad assicurare ai collaboratori una stabilità reale del posto di lavoro, o la parità di trattamento in tema di ammortizzatori sociali, contribuzione e pensione?
Regole frustranti
Le varie proposte di «statuto dei lavori» che sono circolate non consentono di nutrire illusioni: i differenziali di trattamento resterebbero, alcuni per sempre, altri per molto tempo, e dunque continuerebbero simulazioni ed abusi. Di questo i sostenitori della soluzione «pluralista» sono - riteniamo - consapevoli e dunque la ragione vera del loro atteggiamento è un'altra, evidenziata nella parte finale dell'articolo di Bronzini. La convinzione, cioè, che non esista più «un solo modo» di lavorare, e che la proposta «monista» porterebbe invece proprio e solo a un appiattimento delle regole e condizioni di effettuazione della prestazione, con generalizzazione di quelle attualmente previste dal codice civile per il lavoro subordinato in senso stretto e tradizionale. Le quali regole, certamente, per come sono scritte possono risultare frustranti del legittimo desiderio di molti lavoratori delle giovani generazioni di organizzare autonomamente il proprio apporto lavorativo nell'impresa, di far valere la propria capacità professionale nei risultati, di sottrarsi a vincoli gerarchici poco comprensibili, ed anche di contrattare la propria remunerazione.
Formuliamo, allora, la considerazione che simili legittime aspirazioni urtano, semmai, contro la eterodirezione, della cui inessenzialità si è detto, ma non hanno nulla a che vedere con lo stato di dipendenza socioeconomica dei collaboratori coordinati e continuativi, ragion per cui non esiste contraddizione nella loro diffusa rivendicazione di avere sicurezza (al pari dei lavoratori oggi detti subordinati) ma senza obbligo di timbrare il cartellino.
Distinzioni inutili
Bisogna liberarsi dell'idea che per sottrarsi alla eterodirezione «in senso forte» occorre di necessità passare a un «altro tipo» di contratto di lavoro, e abbracciare invece, quella che la eterodirezione o la «autorganizzazione» della prestazione possono essere solo due modalità esecutive di un unico contratto di lavoro dipendente. Infatti, un tipo unico di contratto di lavoro, imperniato sulla dipendenza socioeconomica, comprenderebbe naturalmente sia gli attuali lavoratori subordinati, sia i collaboratori, e altrettanto naturalmente offrirebbe allo stesso modo agli uni e agli altri tutte quelle tutele di sufficienza salariale, di stabilità del rapporto, di garanzia contro le diverse sopravvenienze negative (malattie infortuni, crisi aziendali ecc.) che la dipendenza economica invoca: a quel punto non avrebbe più senso distinguere tra «subordinati» e «parasubordinati», proprio perché la eterodirezione in senso forte non sarebbe più un elemento costitutivo della fattispecie negoziale.
Questo tuttavia non impedirebbe che la prestazione potrebbe poi essere effettuata sia con eterodirezione che con autorganizzazione perché questa non sarebbe più un'alternativa tra contratti ma tra due modi di adempiere allo stesso contratto, così come un aereo «a geometria variabile» è sempre lo stesso aereo sia quando vola ad ali estese sia quando vola ad ali ripiegate.
Si tratterebbe di una modalità secondaria, da negoziare tra le parti in base alla reciproca convenienza, perché anche agli imprenditori può comunque convenire puntare più sull'estro e sulla motivazione che sull'obbedienza di un dipendente, e nulla vieterebbe d'altro canto a una legge di riforma non solo di consentire, ma anche di regolare, simili parti di deroga alle norme codicistiche (molto poche, invero) che disciplinano i poteri di eterodirezione.
La proposta «monista» vuole comunque puntare non solo alla giustizia e alla parità di trattamento, ma anche alla qualità delle condizioni e degli apparati lanciando una «via alta» per il recupero della competitività laddove invece, la pluralità e frammentazione dei tipi contrattuali con conseguente diversificazione delle tutele, ha purtroppo sempre significato fino ad oggi, incentivo alle scelte di comodo, e al risparmio a breve, con danno del lavoratore e sul medio periodo anche della stessa impresa. La proposta cosiddetta monista, d'altra parte, è quella fatta propria anche dalla Cgil nelle sue proposte di legge, dopo una approfondita elaborazione nella sua Consulta di cui chi scrive si onora di far parte. È, dunque, questo qui descritto un importante terreno di confronto per valutare l'effettiva diversità di orientamenti programmatici tra le forze dell'Unione e del centrodestra.
il manifesto
Abusi a Bolzaneto A giudizio in 45
Dopo la Diaz, via libera al processo per Bolzaneto. Rinviati a giudizio a Genova 45 tra agenti e medici penitenziari, poliziotti e carabinieri. Abusi vari, lesioni, percosse e violazione delle norme europea sulla tortura
ALESSANDRO MANTOVANI
Sarà una lotta contro la prescrizione, che scatterà nel gennaio 2008. Entro quel termine bisognerà arrivare alle condanne di primo grado per assicurare almeno il risarcimento alle 150 parti civili ammesse al processo per Bolzaneto. Quasi tutti i contestati si prescrivono in cinque anni più la metà, dunque sette e mezzo da quel fatidico luglio 2001. E' ben difficile, anche senza la legge «salva Previti», che possa pronunciarsi la cassazione. Ieri mattina a Genova, alla presenza di tre soli imputati, il giudice dell'udienza preliminare Maurizio De Matteis ha rinviato a giudizio 45 dei 47 imputati, accogliendo la quasi totalità delle tesi dei pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello. E' il via libera al secondo grande processo alle forze dell'ordine per i fatti del G8 di quattro anni fa. L'altro è quello per l'assalto e le prove false alla scuola Diaz, 28 imputati tra i quali alti dirigenti della polizia.Alla sbarra per Bolzaneto andranno quattordici appartenenti alla polizia penitenziaria (il più alto in grado è il generale Oronzo Doria) più cinque medici della stessa amministrazione compreso il responsabile sanitario del carcere provvisorio del G8, Giacomo Toccafondi; quattordici della polizia di stato a partire dal vicequestore Alessandro Perugini ex vicecapo della Digos di Genova, già rinviato a giudizio per l'aggressione a un manifestante minorenne; dodici carabinieri tra cui un tenente. Per un imputato, agente penitenziario, il giudice ha disposto il non luogo a procedere. Un suo collega, Antonio Biribao, sarà giudicato a parte con rito abbreviato. Sono stati stralciati alcuni capi d'accusa che riguardavano imputati comunque rinviati davanti al tribunale. E conviene ricordare che per altri centodue indagati la procura ha già sollecitato l'archiviazione, dimostrando di non voler sparare nel mucchio. Tra loro anche il magistrato Alfonso Sabella, capomissione del Dap a Genova e primo responsabile del carcere eccezionale e provvisorio istituito per il G8.I reati contestati a vario titolo sono abuso d'ufficio, abuso d'autorità su arrestati, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie, minacce e falso ideologico per i verbali in cui si affermava che gli arrestati erano stati informati dei loro diritti (qui la prescrizione è più lunga). Sono state denunciati insulti fascistoidi e imposizione odiose come quella di gridare «viva il duce», ma l'apologia del fascismo è stata esclusa. Secondo la memoria depositata a marzo dai pm, a Bolzaneto fu violato l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti: applicando i criteri della Corte di Strasburgo si rientra precisamente in quest'ultima definizione, un gradino sotto la tortura. Ma in Italia non è previsto un reato specifico, come invece esigerebbe la Convenzione europea contro la tortura, e per questo la procura di Genova ricorre alle diverse fattispecie elencate che prevedono tempi di prescrizione ridotti.Per molti episodi di violenza - dita divaricate fino a strapparle, pestaggi, spray urticante nelle celle - vittime e testimoni hanno riconosciuto i diretti responsabili. E i riconoscimenti si sarebbero moltiplicati se fossero stati possibili fin dall'inizio, subito dopo le scarcerazioni: gli stranieri vennero invece espulsi e quindi ascoltati solo a distanza di uno o due anni; gli italiani hanno comunque dovuto attendere i tempi lunghi degli album fotografici, per non dire della qualità delle foto.Al contrario il vicequestore Perugini, il generale Doria e altri, come l'ispettore Biagio Antonio Gugliotta e i vari ispettori e sottufficiali che avevano la responsabilità delle celle rispondono anche dell'operato dei loro sottoposti e dunque dei reati che avrebbero dovuto impedire. Da subito era parso chiaro, sulla stampa come nelle prime deposizioni, che nella caserma c'era un clima diffuso di violenza e di abuso. Fin dal comitato d'accoglienza in cortile e dalle due ali di agenti disposte nel corridoio per malmenare gli arrestati al loro passaggio. Nell'ordinanza il giudice De Matteis sottolinea che si andò ben al di là di «qualsiasi ipotesi di limitazione ulteriore della libertà dei detenuti stessi, anche con forme di rigore non consentite. Non si vede infatti come, ad esempio, il costringere una persona a chinare la testa dentro un vespasiano possa costituire una `misura di rigore non consentita'. Tali azioni appaiono, per la loro feroce gratuità, totalmente estranee a qualsiasi nozione di `misura di rigore', sia essa consentita o meno, in quanto non perseguono il fine di limitare e controllare la libertà di una persona, ma solo di umiliarne la personalità».
il manifesto
ALESSANDRO MANTOVANI
Sarà una lotta contro la prescrizione, che scatterà nel gennaio 2008. Entro quel termine bisognerà arrivare alle condanne di primo grado per assicurare almeno il risarcimento alle 150 parti civili ammesse al processo per Bolzaneto. Quasi tutti i contestati si prescrivono in cinque anni più la metà, dunque sette e mezzo da quel fatidico luglio 2001. E' ben difficile, anche senza la legge «salva Previti», che possa pronunciarsi la cassazione. Ieri mattina a Genova, alla presenza di tre soli imputati, il giudice dell'udienza preliminare Maurizio De Matteis ha rinviato a giudizio 45 dei 47 imputati, accogliendo la quasi totalità delle tesi dei pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello. E' il via libera al secondo grande processo alle forze dell'ordine per i fatti del G8 di quattro anni fa. L'altro è quello per l'assalto e le prove false alla scuola Diaz, 28 imputati tra i quali alti dirigenti della polizia.Alla sbarra per Bolzaneto andranno quattordici appartenenti alla polizia penitenziaria (il più alto in grado è il generale Oronzo Doria) più cinque medici della stessa amministrazione compreso il responsabile sanitario del carcere provvisorio del G8, Giacomo Toccafondi; quattordici della polizia di stato a partire dal vicequestore Alessandro Perugini ex vicecapo della Digos di Genova, già rinviato a giudizio per l'aggressione a un manifestante minorenne; dodici carabinieri tra cui un tenente. Per un imputato, agente penitenziario, il giudice ha disposto il non luogo a procedere. Un suo collega, Antonio Biribao, sarà giudicato a parte con rito abbreviato. Sono stati stralciati alcuni capi d'accusa che riguardavano imputati comunque rinviati davanti al tribunale. E conviene ricordare che per altri centodue indagati la procura ha già sollecitato l'archiviazione, dimostrando di non voler sparare nel mucchio. Tra loro anche il magistrato Alfonso Sabella, capomissione del Dap a Genova e primo responsabile del carcere eccezionale e provvisorio istituito per il G8.I reati contestati a vario titolo sono abuso d'ufficio, abuso d'autorità su arrestati, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie, minacce e falso ideologico per i verbali in cui si affermava che gli arrestati erano stati informati dei loro diritti (qui la prescrizione è più lunga). Sono state denunciati insulti fascistoidi e imposizione odiose come quella di gridare «viva il duce», ma l'apologia del fascismo è stata esclusa. Secondo la memoria depositata a marzo dai pm, a Bolzaneto fu violato l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti: applicando i criteri della Corte di Strasburgo si rientra precisamente in quest'ultima definizione, un gradino sotto la tortura. Ma in Italia non è previsto un reato specifico, come invece esigerebbe la Convenzione europea contro la tortura, e per questo la procura di Genova ricorre alle diverse fattispecie elencate che prevedono tempi di prescrizione ridotti.Per molti episodi di violenza - dita divaricate fino a strapparle, pestaggi, spray urticante nelle celle - vittime e testimoni hanno riconosciuto i diretti responsabili. E i riconoscimenti si sarebbero moltiplicati se fossero stati possibili fin dall'inizio, subito dopo le scarcerazioni: gli stranieri vennero invece espulsi e quindi ascoltati solo a distanza di uno o due anni; gli italiani hanno comunque dovuto attendere i tempi lunghi degli album fotografici, per non dire della qualità delle foto.Al contrario il vicequestore Perugini, il generale Doria e altri, come l'ispettore Biagio Antonio Gugliotta e i vari ispettori e sottufficiali che avevano la responsabilità delle celle rispondono anche dell'operato dei loro sottoposti e dunque dei reati che avrebbero dovuto impedire. Da subito era parso chiaro, sulla stampa come nelle prime deposizioni, che nella caserma c'era un clima diffuso di violenza e di abuso. Fin dal comitato d'accoglienza in cortile e dalle due ali di agenti disposte nel corridoio per malmenare gli arrestati al loro passaggio. Nell'ordinanza il giudice De Matteis sottolinea che si andò ben al di là di «qualsiasi ipotesi di limitazione ulteriore della libertà dei detenuti stessi, anche con forme di rigore non consentite. Non si vede infatti come, ad esempio, il costringere una persona a chinare la testa dentro un vespasiano possa costituire una `misura di rigore non consentita'. Tali azioni appaiono, per la loro feroce gratuità, totalmente estranee a qualsiasi nozione di `misura di rigore', sia essa consentita o meno, in quanto non perseguono il fine di limitare e controllare la libertà di una persona, ma solo di umiliarne la personalità».
il manifesto
12.5.05
La memoria dei guastafeste
di Barbara Spinelli
La notte che Hitler invase la Russia, il 22 giugno 1941, Stalin stava adagiato sul letto nella sua dacia di Kuncevo, presso Mosca, e a tutto pensava tranne a quest'inaudibile atto d'aggressione. Era deluso, ma soprattutto incredulo. Aveva preparato l'industria a una guerra - fin dai tempi di Lenin la guerra era fondamento del comunismo sovietico - ma quest'offensiva l'aveva sottovalutata. Per mesi aveva ricevuto ammonimenti (84 avvertimenti scritti) e mai aveva accettato la realtà, che pure sembrava verosimile da quando, nel settembre '39, era iniziata la seconda guerra mondiale.
Il fatto è che in quello stesso anno - il 23 agosto '39, otto giorni prima dell'invasione della Polonia - il Cremlino aveva stipulato con Hitler un patto speciale, che era molto più d'un patto di non aggressione. Il Trattato sulle frontiere e l'amicizia rivelò l'esistenza non del tutto stupefacente di una sotterranea affinità d'intenti, di visioni. Ambedue i dittatori diffidavano dei risultati della prima guerra mondiale, che s'era conclusa restituendo l'indipendenza a tante nazioni collocate in territori che Mosca e Berlino vedevano come mere retrovie. Ambedue erano convinti che l'occupazione di spazi vitali avrebbe dato loro una potenza mondiale. In un protocollo segreto si spartirono dunque terre, popoli che entrambi reputavano schiavi.
Hitler poté invadere la Polonia senza temere l'apertura d'un secondo fronte, avendo promesso di suddividersela con Stalin. Stalin ricevette in regalo i Baltici (Lituania, Estonia, Lettonia) oltre a Bessarabia. Lo scrittore Martin Amis racconta quel che accadde in Stalin, la notte in cui Hitler lo tradì, nel libro Koba il Terribile - Una risata e venti milioni di morti: «Quando giunsero le notizie ("Stanno bombardando le nostre città"), la psiche di Stalin semplicemente crollò. Ne fu prostrato, divenne un sacco di ossa in una giubba grigia; non fu più altro che un vuoto di potere (...). Era convinto che se lui non vedeva la realtà, anche la realtà non avrebbe potuto vederlo».
L'Unione Sovietica vinse infine la guerra - ed è questo trionfo che le democrazie s'apprestano a celebrare, domani con Putin a Mosca - ma il prezzo che pagò fu enorme e scandaloso: 27 milioni di morti secondo le stime ottimiste, 30 secondo Alexander Yakovlev, presidente dalla Fondazione della Democrazia Internazionale a Mosca. Yakovlev conferma che il Paese fu mal preparato, che ai soldati vennero distribuiti pochi fucili (uno ogni tre soldati), che si combatté per innumerevoli città pur d'arrivare prima degli anglo-americani. Martin Amis ricorda le conseguenze della prostrazione di Stalin: nelle prime settimane di guerra l'Urss perse il 30 per cento di munizioni e il 50 per cento delle riserve di cibo e carburante. Nei primi tre mesi l'aeronautica perse
il 96,4 per cento degli aeroplani. Alla fine del 1942, 3,9 milioni di soldati russi erano prigionieri (il 65 per cento dell'Armata Rossa). Ancor oggi la vittoria evoca, com'è naturale, la liberazione di Auschwitz. Ancor oggi, il 9 maggio inorgoglisce i russi: forse è l'unica data che li unisce, dicono i sondaggi. Ma la verità su quella guerra e sui morti sovietici e sulle nazioni che Stalin pretese d'aver liberato ancora non è stata detta, in Russia.
Koba il Terribile sarà dunque presente senza esser stato veramente rimesso in questione, alla festa per il sessantesimo anniversario della Liberazione allestito da Putin. Certo fu un tiranno, Putin lo ha ammesso in un'intervista a Bild, ma la Grande Guerra Patriottica (così vien chiamata dai russi l'ultima guerra) ha poco a vedere con la tirannide comunista - secondo l'interpretazione ufficiale - e nulla con il patto Hitler-Stalin e il successivo dominio sovietico su Baltici e Polonia. Putin stesso smentisce ogni altra versione. Il 22 febbraio, a Bratislava, ha ricordato che il patto nazi-sovietico fu stipulato in risposta al ben più infame trattato di Monaco, che nel '38 consegnò a Hitler la Cecoslovacchia. Ha taciuto tuttavia una differenza sostanziale: per gli occidentali Monaco non è più un punto di riferimento legale, mentre il patto Ribbentrop-Molotov continua a esser visto a Mosca come un normale trattato, rientrante nel diritto internazionale anche se «deviante rispetto alle norme leniniste» (dichiarazione del Parlamento sovietico nell'89).
In altre parole: l'indipendenza conquistata dai Baltici nel '91 non ha, per Putin, alcuna base legale. È tutta la politica espansiva dell'Urss che egli difende, ed è questo che lo ha spinto a ribadire, il 25 aprile nel discorso sullo stato della nazione: «Il crollo dell'Urss è la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Non pochi liberali russi lamentano questa sclerosi della memoria: un ripensamento ancora non è cominciato, essi sostengono, e solo quando il popolo sarà davvero informato sul passato, quando la vittoria del '45 potrà convivere con la sconfitta dell'Urss nel '90, potrà nascere una società responsabile, non prigioniera di una storia falsificata.
Se questa falsificazione oggi non è più possibile è perché sono molti i guastafeste venuti a turbare la festa della memoria trasformata da Putin in festa della potenza russa inossidabile. Alle celebrazioni non parteciperanno Estonia e Lituania, perché per i Baltici la liberazione del '45 coincise con una dittatura pluridecennale. La Lettonia sarà presente a Mosca, ma il capo di Stato Vike-Freiberga metterà in questione l'interpretazione russa della guerra. Varsavia verrà, ma per denunciare le spartizioni della Polonia e dei Baltici fra Hitler e Stalin, e per ricordare il massacro di Katyn del '40: un massacro di più di 20.000 alti ufficiali, sacerdoti, intellettuali polacchi commesso dai sovietici e attribuito per decenni ai nazisti (gli archivi russi si sono aperti sotto Eltsin, si sono richiusi sotto Putin). Poi ci saranno altre delegazioni, che ricorderanno il passaggio di mezza Europa da un totalitarismo all'altro: tra esse Georgia e Ucraina, che evocheranno le deportazioni compiute dal comunismo sovietico. Prima, durante e dopo la guerra, l'Urss deportò interi popoli in Siberia: meskheti georgiani, tatari di Crimea, ceceni, ucraini, ingusci, caracevi, calmucchi, balcari, tedeschi del Volga, baltici.
Se la memoria della seconda guerra pesa ancora sui rapporti tra democrazie e Russia è perché il presente russo è contagiato da quel passato non riesaminato, perché il potere di Putin si fa sempre più autoritario, e perché l'Europa che confina con l'ex impero sovietico è radicalmente cambiata. Dicono che è la guerra fredda che ritorna, ma la guerra fredda fu tutt'altro. Fu una cosa ambigua, prese la forma di un conflitto con l'Urss ma al tempo stesso ebbe come fondamento una complicità di visioni storiche, tra potenze vincitrici dell'ultima guerra. È quest'ambiguo status quo che il Cremlino vuol preservare, temendo di apparire d'un tratto come Stato perdente della guerra fredda. In realtà i guastafeste indicano che la guerra fredda è finita. Che son finiti i suoi equivoci, nel momento in cui son crollati l'Urss e le sue egemonie. Lo schema alleato della storia s'infrange, in questi giorni a Mosca, non solo perché Bush ha ricordato in Lettonia la schiavitù dei Baltici. S'infrange perché dell'Europa fanno ormai parte nazioni che hanno vissuto in maniera diversa il maggio '45, e per i quali la liberazione è venuta solo dopo: nell'89 per la Polonia, nel '91 per Lituania, Estonia, Lettonia. Per altri popoli che Stalin deportò, come i Ceceni, la guerra (una guerra imperiale cominciata nel '700) non è finita.
Con questa realtà l'Unione europea deve ancora fare i conti: stabilendo infine un legame tra il '45, l'89 e il '91; celebrando la liberazione di Auschwitz ma anche dei Gulag; tenendo conto di quel che pensano europei orientali e baltici; edificando con l'immensa Russia ai propri confini una relazione basata su verità, non su capricciosi inchini o capricciose collere. Nel Parlamento europeo sono ancora tanti, coloro che rifiutano di accettare la verità detta nei giorni scorsi dall'ex ministro polacco Geremek: «Yalta fu un regalo delle democrazie a Stalin». Il gruppo socialista si è opposto alla richiesta, avanzata da baltici e polacchi, di adottare una risoluzione su Yalta. «Così si offende la memoria di 20 milioni di morti sovietici», ha detto la socialista belga Véronique de Keyser. Già una volta, in marzo, il Parlamento votò contro la commemorazione della strage di Katyn.
Non è solo la Russia dunque a dover rivedere la storia del continente. Anche l'Europa è davanti a un compito inconcluso. Spesso gli Stati dell'Est sono visti come filoamericani, con cui un'Unione potente è impossibile. Ma nel loro filoamericanismo non c'è sempre antieuropeismo: c'è una diffidenza profonda verso la Russia, e verso una memoria ancor oggi pericolosamente sprovvista, a Mosca, di senso della realtà. Una Russia che non ha avviato un'autentica revisione dei miti sovietici. Che ancora identifica statuto di grande potenza e ordine territoriale postbellico. La guerra in Cecenia (ricominciata da Eltsin e Putin per debellare un indipendentismo, non un terrorismo) è la dimostrazione di quanto ancora conti lo spazio vitale, per il Cremlino. È quello che lo rende così malvisto in tanta parte d'Europa, e incapace d'esser utile a sé e agli altri nella battaglia contro il terrorismo.
La notte che Hitler invase la Russia, il 22 giugno 1941, Stalin stava adagiato sul letto nella sua dacia di Kuncevo, presso Mosca, e a tutto pensava tranne a quest'inaudibile atto d'aggressione. Era deluso, ma soprattutto incredulo. Aveva preparato l'industria a una guerra - fin dai tempi di Lenin la guerra era fondamento del comunismo sovietico - ma quest'offensiva l'aveva sottovalutata. Per mesi aveva ricevuto ammonimenti (84 avvertimenti scritti) e mai aveva accettato la realtà, che pure sembrava verosimile da quando, nel settembre '39, era iniziata la seconda guerra mondiale.
Il fatto è che in quello stesso anno - il 23 agosto '39, otto giorni prima dell'invasione della Polonia - il Cremlino aveva stipulato con Hitler un patto speciale, che era molto più d'un patto di non aggressione. Il Trattato sulle frontiere e l'amicizia rivelò l'esistenza non del tutto stupefacente di una sotterranea affinità d'intenti, di visioni. Ambedue i dittatori diffidavano dei risultati della prima guerra mondiale, che s'era conclusa restituendo l'indipendenza a tante nazioni collocate in territori che Mosca e Berlino vedevano come mere retrovie. Ambedue erano convinti che l'occupazione di spazi vitali avrebbe dato loro una potenza mondiale. In un protocollo segreto si spartirono dunque terre, popoli che entrambi reputavano schiavi.
Hitler poté invadere la Polonia senza temere l'apertura d'un secondo fronte, avendo promesso di suddividersela con Stalin. Stalin ricevette in regalo i Baltici (Lituania, Estonia, Lettonia) oltre a Bessarabia. Lo scrittore Martin Amis racconta quel che accadde in Stalin, la notte in cui Hitler lo tradì, nel libro Koba il Terribile - Una risata e venti milioni di morti: «Quando giunsero le notizie ("Stanno bombardando le nostre città"), la psiche di Stalin semplicemente crollò. Ne fu prostrato, divenne un sacco di ossa in una giubba grigia; non fu più altro che un vuoto di potere (...). Era convinto che se lui non vedeva la realtà, anche la realtà non avrebbe potuto vederlo».
L'Unione Sovietica vinse infine la guerra - ed è questo trionfo che le democrazie s'apprestano a celebrare, domani con Putin a Mosca - ma il prezzo che pagò fu enorme e scandaloso: 27 milioni di morti secondo le stime ottimiste, 30 secondo Alexander Yakovlev, presidente dalla Fondazione della Democrazia Internazionale a Mosca. Yakovlev conferma che il Paese fu mal preparato, che ai soldati vennero distribuiti pochi fucili (uno ogni tre soldati), che si combatté per innumerevoli città pur d'arrivare prima degli anglo-americani. Martin Amis ricorda le conseguenze della prostrazione di Stalin: nelle prime settimane di guerra l'Urss perse il 30 per cento di munizioni e il 50 per cento delle riserve di cibo e carburante. Nei primi tre mesi l'aeronautica perse
il 96,4 per cento degli aeroplani. Alla fine del 1942, 3,9 milioni di soldati russi erano prigionieri (il 65 per cento dell'Armata Rossa). Ancor oggi la vittoria evoca, com'è naturale, la liberazione di Auschwitz. Ancor oggi, il 9 maggio inorgoglisce i russi: forse è l'unica data che li unisce, dicono i sondaggi. Ma la verità su quella guerra e sui morti sovietici e sulle nazioni che Stalin pretese d'aver liberato ancora non è stata detta, in Russia.
Koba il Terribile sarà dunque presente senza esser stato veramente rimesso in questione, alla festa per il sessantesimo anniversario della Liberazione allestito da Putin. Certo fu un tiranno, Putin lo ha ammesso in un'intervista a Bild, ma la Grande Guerra Patriottica (così vien chiamata dai russi l'ultima guerra) ha poco a vedere con la tirannide comunista - secondo l'interpretazione ufficiale - e nulla con il patto Hitler-Stalin e il successivo dominio sovietico su Baltici e Polonia. Putin stesso smentisce ogni altra versione. Il 22 febbraio, a Bratislava, ha ricordato che il patto nazi-sovietico fu stipulato in risposta al ben più infame trattato di Monaco, che nel '38 consegnò a Hitler la Cecoslovacchia. Ha taciuto tuttavia una differenza sostanziale: per gli occidentali Monaco non è più un punto di riferimento legale, mentre il patto Ribbentrop-Molotov continua a esser visto a Mosca come un normale trattato, rientrante nel diritto internazionale anche se «deviante rispetto alle norme leniniste» (dichiarazione del Parlamento sovietico nell'89).
In altre parole: l'indipendenza conquistata dai Baltici nel '91 non ha, per Putin, alcuna base legale. È tutta la politica espansiva dell'Urss che egli difende, ed è questo che lo ha spinto a ribadire, il 25 aprile nel discorso sullo stato della nazione: «Il crollo dell'Urss è la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Non pochi liberali russi lamentano questa sclerosi della memoria: un ripensamento ancora non è cominciato, essi sostengono, e solo quando il popolo sarà davvero informato sul passato, quando la vittoria del '45 potrà convivere con la sconfitta dell'Urss nel '90, potrà nascere una società responsabile, non prigioniera di una storia falsificata.
Se questa falsificazione oggi non è più possibile è perché sono molti i guastafeste venuti a turbare la festa della memoria trasformata da Putin in festa della potenza russa inossidabile. Alle celebrazioni non parteciperanno Estonia e Lituania, perché per i Baltici la liberazione del '45 coincise con una dittatura pluridecennale. La Lettonia sarà presente a Mosca, ma il capo di Stato Vike-Freiberga metterà in questione l'interpretazione russa della guerra. Varsavia verrà, ma per denunciare le spartizioni della Polonia e dei Baltici fra Hitler e Stalin, e per ricordare il massacro di Katyn del '40: un massacro di più di 20.000 alti ufficiali, sacerdoti, intellettuali polacchi commesso dai sovietici e attribuito per decenni ai nazisti (gli archivi russi si sono aperti sotto Eltsin, si sono richiusi sotto Putin). Poi ci saranno altre delegazioni, che ricorderanno il passaggio di mezza Europa da un totalitarismo all'altro: tra esse Georgia e Ucraina, che evocheranno le deportazioni compiute dal comunismo sovietico. Prima, durante e dopo la guerra, l'Urss deportò interi popoli in Siberia: meskheti georgiani, tatari di Crimea, ceceni, ucraini, ingusci, caracevi, calmucchi, balcari, tedeschi del Volga, baltici.
Se la memoria della seconda guerra pesa ancora sui rapporti tra democrazie e Russia è perché il presente russo è contagiato da quel passato non riesaminato, perché il potere di Putin si fa sempre più autoritario, e perché l'Europa che confina con l'ex impero sovietico è radicalmente cambiata. Dicono che è la guerra fredda che ritorna, ma la guerra fredda fu tutt'altro. Fu una cosa ambigua, prese la forma di un conflitto con l'Urss ma al tempo stesso ebbe come fondamento una complicità di visioni storiche, tra potenze vincitrici dell'ultima guerra. È quest'ambiguo status quo che il Cremlino vuol preservare, temendo di apparire d'un tratto come Stato perdente della guerra fredda. In realtà i guastafeste indicano che la guerra fredda è finita. Che son finiti i suoi equivoci, nel momento in cui son crollati l'Urss e le sue egemonie. Lo schema alleato della storia s'infrange, in questi giorni a Mosca, non solo perché Bush ha ricordato in Lettonia la schiavitù dei Baltici. S'infrange perché dell'Europa fanno ormai parte nazioni che hanno vissuto in maniera diversa il maggio '45, e per i quali la liberazione è venuta solo dopo: nell'89 per la Polonia, nel '91 per Lituania, Estonia, Lettonia. Per altri popoli che Stalin deportò, come i Ceceni, la guerra (una guerra imperiale cominciata nel '700) non è finita.
Con questa realtà l'Unione europea deve ancora fare i conti: stabilendo infine un legame tra il '45, l'89 e il '91; celebrando la liberazione di Auschwitz ma anche dei Gulag; tenendo conto di quel che pensano europei orientali e baltici; edificando con l'immensa Russia ai propri confini una relazione basata su verità, non su capricciosi inchini o capricciose collere. Nel Parlamento europeo sono ancora tanti, coloro che rifiutano di accettare la verità detta nei giorni scorsi dall'ex ministro polacco Geremek: «Yalta fu un regalo delle democrazie a Stalin». Il gruppo socialista si è opposto alla richiesta, avanzata da baltici e polacchi, di adottare una risoluzione su Yalta. «Così si offende la memoria di 20 milioni di morti sovietici», ha detto la socialista belga Véronique de Keyser. Già una volta, in marzo, il Parlamento votò contro la commemorazione della strage di Katyn.
Non è solo la Russia dunque a dover rivedere la storia del continente. Anche l'Europa è davanti a un compito inconcluso. Spesso gli Stati dell'Est sono visti come filoamericani, con cui un'Unione potente è impossibile. Ma nel loro filoamericanismo non c'è sempre antieuropeismo: c'è una diffidenza profonda verso la Russia, e verso una memoria ancor oggi pericolosamente sprovvista, a Mosca, di senso della realtà. Una Russia che non ha avviato un'autentica revisione dei miti sovietici. Che ancora identifica statuto di grande potenza e ordine territoriale postbellico. La guerra in Cecenia (ricominciata da Eltsin e Putin per debellare un indipendentismo, non un terrorismo) è la dimostrazione di quanto ancora conti lo spazio vitale, per il Cremlino. È quello che lo rende così malvisto in tanta parte d'Europa, e incapace d'esser utile a sé e agli altri nella battaglia contro il terrorismo.
1.5.05
Le geografie mobili della precarietà
«Lavoro contro capitale», un libro collettivo sull'economia mondiale e la crescita dei lavoratori atipici dall'Europa all'America latina agli Stati uniti
MAURIZIO GALVANI
Si è fatto un gran parlare in quest'ultimo periodo di declino industriale italiano e, forse, a ragione. Il paese è ormai collocato nell'ambito della divisione internazionale del lavoro tra le nazioni meno presenti nei settori a tecnologia avanzata e il prodotto interno lordo (pil) è cresciuto di solo l'uno per cento a fine anno. Per una serie di paradossi, la globalizzazione allarga il mercato e l'Italia deve sempre di più confrontarsi con i paesi emergenti che a loro volta insediano il made in Italy. Dalla seconda metà degli anni Novanta e dall'inizio del Duemila, il capitalismo italiano è entrato in una crisi gravissima e non può più nemmeno utilizzare le «armi» tradizionali della svalutazione della lira o gli strumenti di protezionismo (essendo ormai confluita nell'Unione europea). Può, semmai, usare lo strumento della delocalizzazione produttiva nei paesi «terzi». Soprattutto, può ricorrere alla precarizzazione del lavoro che - secondo le ultime statistiche relative ai trend occupazionali - è in continua crescita e, non solo, nei settori tradizionali della manifattura ma anche in quelli del pubblico pubblico e della prestazione di tipo intellettuale. Vengono dunque al pettine le distorsioni proprie di un certo sviluppo del capitalismo italiano durante tutto il Novecento, come spiegano i vari autori del libro Lavoro contro Capitale (Jaca Book, pp. 286 € 18). Come ricordano, infatti, Luciano Vasopollo, Donato Antonello, Vladimiro Giacchè: «la situazione attuale è la logica conseguenza dell'incompiutezza della borghesia italiana»; «una classe inadeguata», come sottolinea Vladimiro Giacchè.
L'economia italiana è passata attraverso varie fasi: quella del dualismo industria-agricoltura, quella della divaricazione tra Nord industrializzato e Sud contadino, l'epoca dei grandi interventi statali, in due distinti periodi (il ventennio fascista e quello dei grandi monopoli pubblici lottizzati dalla Democrazia Cristiana), l'epoca delle grandi famiglie capitalistiche che, comunque, si sono sempre giovate di un sostanziale sostegno dei vari governi, anche di centrosinistra; l'epoca delle tre Italie e, più recentemente, il periodo delle privatizzazioni e della scomparsa dei grandi gruppi privati. Infine la riaffermazione del nostro sistema industriale nei comparti a basso impiego di tecnologica. Oltretutto, come spiega Sergio Carraro, in un periodo nel quale si è passati dalla celebrazione indistinta ed unilaterale della globalizzazione alla conflittualità agita (sopratutto commerciale) tra i vari blocchi: l'Europa, l'Asia, gli Stati uniti. All'interno dei quali, il paese più forte assume una centralità e sfrutta le risorse, le opportunità di mercato delle nazioni satellite.
E' quello che sta avvenendo in America latina (il saggio dell'economista James Petras lo evidenzia molto bene); potrebbe essere il destino della Cina, che sta progressivamente sostituendo il Giappone nell'area asiatica. Mentre in Europa, i paesi di nuova integrazione stanno offrendo: sia la possibilità di sfruttare i lavoratori senza diritti che l'occasione per inglobare milioni di consumatori nel nuovo mercato europeo. L'altra faccia di questo scenario ma ad esso strettamente collegato, riguarda ovviamente i cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro salariato.
Senza nessuna forzatura si può dire che la globalizzazione ha diffuso ormai a livello generalizzato la precarizzazione del lavoro e la flessibilità più selvaggia. Con le dovute differenze, i lavoratori marginali dei paesi del Sud del mondo non sono così «lontani» dalle condizioni di lavoro delle nuove povertà del mondo più industrializzato. Le nuove povertà che interessano solo coloro che suono fuori dal mercato del lavoro, piuttosto vedono coinvolti migliaia e centinaia di lavoratori che hanno un occupazione, a tempo determinato, a progetto, co.co.co, e cosi via. Inoltre, nell'attuale realtà del mondo capitalista sono sempre di più i lavoratori occupati in nero, senza diritti e rappresentanza sindacale. Come cerca di evidenziare questo libro la fine del lavoro fordista non ha significato la fine del lavoro salariato tutt'altro. La sua trasformazione in una quantità di «figure professionali» che sono fonte comunque di realizzazione del plusvalore. E le sinistre e i sindacati?
Le politiche concertative praticate negli anni '80-'90 hanno provocato più di un danno, mentre, come spiega l'economista brasiliano Ricardo Antunes, le esperienze che avevano suscitato un rinnovato entusiasmo (vedi la vittoria di Lula in Brasile) stanno riproponendo esperienze di capitalismo neoliberale.
Per quanto riguarda l'Italia, nel libro si sostiene che le organizzazioni sindacali confederali hanno praticato una battaglia contrattuale che, quasi sempre, ha eluso il conflitto di classe (tra capitale e lavoro). Soprattutto, Cgil, Cisl e Uil non sono riusciti a rappresentare i «nuovi lavoratori», come pure non è stata in grado di garantire i diritti acquisiti ai medesimi occupati stabili. Tranne, in alcune situazioni, (ad esempio, a Melfi) dove si è imposta un rappresentanza autonoma degli operai.
il manifesto
MAURIZIO GALVANI
Si è fatto un gran parlare in quest'ultimo periodo di declino industriale italiano e, forse, a ragione. Il paese è ormai collocato nell'ambito della divisione internazionale del lavoro tra le nazioni meno presenti nei settori a tecnologia avanzata e il prodotto interno lordo (pil) è cresciuto di solo l'uno per cento a fine anno. Per una serie di paradossi, la globalizzazione allarga il mercato e l'Italia deve sempre di più confrontarsi con i paesi emergenti che a loro volta insediano il made in Italy. Dalla seconda metà degli anni Novanta e dall'inizio del Duemila, il capitalismo italiano è entrato in una crisi gravissima e non può più nemmeno utilizzare le «armi» tradizionali della svalutazione della lira o gli strumenti di protezionismo (essendo ormai confluita nell'Unione europea). Può, semmai, usare lo strumento della delocalizzazione produttiva nei paesi «terzi». Soprattutto, può ricorrere alla precarizzazione del lavoro che - secondo le ultime statistiche relative ai trend occupazionali - è in continua crescita e, non solo, nei settori tradizionali della manifattura ma anche in quelli del pubblico pubblico e della prestazione di tipo intellettuale. Vengono dunque al pettine le distorsioni proprie di un certo sviluppo del capitalismo italiano durante tutto il Novecento, come spiegano i vari autori del libro Lavoro contro Capitale (Jaca Book, pp. 286 € 18). Come ricordano, infatti, Luciano Vasopollo, Donato Antonello, Vladimiro Giacchè: «la situazione attuale è la logica conseguenza dell'incompiutezza della borghesia italiana»; «una classe inadeguata», come sottolinea Vladimiro Giacchè.
L'economia italiana è passata attraverso varie fasi: quella del dualismo industria-agricoltura, quella della divaricazione tra Nord industrializzato e Sud contadino, l'epoca dei grandi interventi statali, in due distinti periodi (il ventennio fascista e quello dei grandi monopoli pubblici lottizzati dalla Democrazia Cristiana), l'epoca delle grandi famiglie capitalistiche che, comunque, si sono sempre giovate di un sostanziale sostegno dei vari governi, anche di centrosinistra; l'epoca delle tre Italie e, più recentemente, il periodo delle privatizzazioni e della scomparsa dei grandi gruppi privati. Infine la riaffermazione del nostro sistema industriale nei comparti a basso impiego di tecnologica. Oltretutto, come spiega Sergio Carraro, in un periodo nel quale si è passati dalla celebrazione indistinta ed unilaterale della globalizzazione alla conflittualità agita (sopratutto commerciale) tra i vari blocchi: l'Europa, l'Asia, gli Stati uniti. All'interno dei quali, il paese più forte assume una centralità e sfrutta le risorse, le opportunità di mercato delle nazioni satellite.
E' quello che sta avvenendo in America latina (il saggio dell'economista James Petras lo evidenzia molto bene); potrebbe essere il destino della Cina, che sta progressivamente sostituendo il Giappone nell'area asiatica. Mentre in Europa, i paesi di nuova integrazione stanno offrendo: sia la possibilità di sfruttare i lavoratori senza diritti che l'occasione per inglobare milioni di consumatori nel nuovo mercato europeo. L'altra faccia di questo scenario ma ad esso strettamente collegato, riguarda ovviamente i cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro salariato.
Senza nessuna forzatura si può dire che la globalizzazione ha diffuso ormai a livello generalizzato la precarizzazione del lavoro e la flessibilità più selvaggia. Con le dovute differenze, i lavoratori marginali dei paesi del Sud del mondo non sono così «lontani» dalle condizioni di lavoro delle nuove povertà del mondo più industrializzato. Le nuove povertà che interessano solo coloro che suono fuori dal mercato del lavoro, piuttosto vedono coinvolti migliaia e centinaia di lavoratori che hanno un occupazione, a tempo determinato, a progetto, co.co.co, e cosi via. Inoltre, nell'attuale realtà del mondo capitalista sono sempre di più i lavoratori occupati in nero, senza diritti e rappresentanza sindacale. Come cerca di evidenziare questo libro la fine del lavoro fordista non ha significato la fine del lavoro salariato tutt'altro. La sua trasformazione in una quantità di «figure professionali» che sono fonte comunque di realizzazione del plusvalore. E le sinistre e i sindacati?
Le politiche concertative praticate negli anni '80-'90 hanno provocato più di un danno, mentre, come spiega l'economista brasiliano Ricardo Antunes, le esperienze che avevano suscitato un rinnovato entusiasmo (vedi la vittoria di Lula in Brasile) stanno riproponendo esperienze di capitalismo neoliberale.
Per quanto riguarda l'Italia, nel libro si sostiene che le organizzazioni sindacali confederali hanno praticato una battaglia contrattuale che, quasi sempre, ha eluso il conflitto di classe (tra capitale e lavoro). Soprattutto, Cgil, Cisl e Uil non sono riusciti a rappresentare i «nuovi lavoratori», come pure non è stata in grado di garantire i diritti acquisiti ai medesimi occupati stabili. Tranne, in alcune situazioni, (ad esempio, a Melfi) dove si è imposta un rappresentanza autonoma degli operai.
il manifesto
Domande cruciali sull'arte del narrare
Un libro di Lidia De Federicis per Manni analizza il patto con i lettori in un'epoca di racconti ai confini dell'io
MASSIMO ONOFRI
Una riflessione su che cosa significa «raccontare»? O, più semplicemente, qualcosa che ha a che fare, e in chissà che modo, con l'arte del racconto? Del raccontare, in effetti, s'intitola l'ultimo libro di Lidia De Federicis edito da Manni (pp. 80, euro 8,00): né il sottotitolo, Saggi affettivi, ci aiuta a scioglierne le ambiguità, semmai si aggiunge per accrescerle, oltre a dichiarare l'angolazione dalla quale si è scelto di parlare, quella di «una soggettiva verità». Lidia De Federicis è stata tra i fondatori d'una rivista, «L'Indice dei libri del mese», che proprio ora ha compiuto vent'anni, e si è occupata da sempre, in proprio ma anche per delega ai tanti collaboratori, di letteratura italiana, soprattutto recentissima. Ma ha anche alle spalle una lunga esperienza nella scuola pubblica dove ha insegnato, quasi da subito al Gobetti di Torino, per più d'un quarto di secolo. Da questo suo doppio e precoce ruolo di insegnante e critico (la prima recensione fu nel 1956, su «Lettere italiane») è venuto fuori, in collaborazione con Remo Ceserani, quell'impresa editoriale che è Il materiale e l'immaginario, che ha contribuito a cambiare, piaccia o no, la didattica della letteratura nelle nostre scuole. Quando la si riconduce con troppo zelo - e accade non di rado - a questa cifra pedagogica, Lidia De Federicis mostra insofferenza. E non ha torto: quella del Materiale e l'immaginario è una vicenda ormai conclusa, così come è finito per sempre un ciclo decisivo della scuola italiana, legato alle speranze di un fervoroso riformismo, a una bella utopia, tutta giocata sulla scommessa d'una vera democratizzazione della società italiana. Si trattava di un'Italia che si fa fatica, oggi, a credere che sia esistita, quella che, per la De Federicis, rispondeva ai nomi di Francesco De Bartolomeis e l'antipedagogia, di Elvio Fachinelli e la psicoanalisi antiautoritaria, di Giovanni Arpino (con cui la De Federicis ha scritto un Novecento) e Albino Galvano, di Tullia Carrettoni, carismatica dirigente del Psi torinese.
La storia di Lidia De Federicis oggi è un'altra e questo libro magrissimo e veloce lo testimonia: un libro spalancato su problemi di non poco conto e non eludibili per chiunque abbia chiara (e a cuore) la situazione della nostra contemporaneità letteraria: poco importa che i narratori italiani coevi, magari i famosi e accreditati campioni del giallo e del noir, non si pongano nemmeno lontanamente questi problemi, piuttosto regredendo a strutture e a situazioni pacificanti (in modo, così, da eludere il conflitto sociale), proponendo una letteratura consolatoria e di risarcimenti che dissimuli il disordine. I problemi veri, De Federicis lo sa, sono altri: chi è che scrive, quando scrive per un pubblico? E per cosa scrive? Quali garanzie può offrire al lettore, una volta che il patto di credulità stipulato con gli autori è andato, conflagrante il `900, completamente in frantumi, e, davvero, non si può più far finta di niente. Si direbbe che, come molti degli scrittori italiani qui rubricati (dalla Ramondino de L'isola riflessa alla Rasy di Tra noi due, dal Carraro di Non c'è più tempo al Trevi de I cani del nulla), la De Federicis non voglia garantire nulla del proprio racconto, se non attraverso la sua vita e il suo corpo, e grazie alla memoria, credibile, appunto, proprio perché singolare e irripetibile, non replicabile. «Se davvero, e si è detto, alla fine del Novecento, dopo due secoli di confessioni e autobiografie, l'io è come un genere, il problema sarà quale genere farne, ora che va finendo il novecentesco romanzo dell'io. Il problema è biografico, situarsi e raccontarsi nella mutazione culturale. Tenersi ai limiti dell'io e tuttavia percepire il carattere illimitato, asistematico, della nostra contemporaneità». Sono parole dalle quali si capisce bene che questo libro non sarebbe nato se non trovando il giusto tono di voce: che è, anch'esso, problema cruciale, abbracciando tutte quelle forme di scrittura non solo autobiografica che, solo per pigrizia critica, continuiamo a chiamare saggistica.
Problema cruciale, tanto più per Lidia De Federicis, che s'è trovata ad accordare, a un io prosodico, una vita plurale: critico militante e recensore, saggista, professoressa e, integralmente calata nella storia delle donne, con laico disincanto ma sacrosanta partigianeria, si è impegnata a raccontare la propria vita anche attraverso i libri, e a pensarli, ripassandoli, anche in forza delle esperienze che la vita imponeva. L'ha trovato, quel tono di voce, incontrando qualche anno fa la «sottorubrichetta a intervalli liberi» di «Belfagor»: Minima personalia, appunto, che è il suo modo, un po' all'inglese (ma senza filarsela), di dire delle faccende massime col minimo di retorica possibile. Ecco perché, come la Morante, la De Federicis pare credere che non possa darsi romanzo degno che non si confronti con «le cose ultime»: giusto, allora, il rilievo dato a un libro misterioso, Dava fine alla tremenda notte, della più misteriosa delle nostre scrittrici, Marosia Castaldi. L'extratesto, ecco il punto, qui vince sempre sul testo. Come potrebbe essere altrimenti: «La letteratura può riuscire insopportabile, rispetto al `corpo di un essere vivente che combatte con la morte'».
il manifesto
MASSIMO ONOFRI
Una riflessione su che cosa significa «raccontare»? O, più semplicemente, qualcosa che ha a che fare, e in chissà che modo, con l'arte del racconto? Del raccontare, in effetti, s'intitola l'ultimo libro di Lidia De Federicis edito da Manni (pp. 80, euro 8,00): né il sottotitolo, Saggi affettivi, ci aiuta a scioglierne le ambiguità, semmai si aggiunge per accrescerle, oltre a dichiarare l'angolazione dalla quale si è scelto di parlare, quella di «una soggettiva verità». Lidia De Federicis è stata tra i fondatori d'una rivista, «L'Indice dei libri del mese», che proprio ora ha compiuto vent'anni, e si è occupata da sempre, in proprio ma anche per delega ai tanti collaboratori, di letteratura italiana, soprattutto recentissima. Ma ha anche alle spalle una lunga esperienza nella scuola pubblica dove ha insegnato, quasi da subito al Gobetti di Torino, per più d'un quarto di secolo. Da questo suo doppio e precoce ruolo di insegnante e critico (la prima recensione fu nel 1956, su «Lettere italiane») è venuto fuori, in collaborazione con Remo Ceserani, quell'impresa editoriale che è Il materiale e l'immaginario, che ha contribuito a cambiare, piaccia o no, la didattica della letteratura nelle nostre scuole. Quando la si riconduce con troppo zelo - e accade non di rado - a questa cifra pedagogica, Lidia De Federicis mostra insofferenza. E non ha torto: quella del Materiale e l'immaginario è una vicenda ormai conclusa, così come è finito per sempre un ciclo decisivo della scuola italiana, legato alle speranze di un fervoroso riformismo, a una bella utopia, tutta giocata sulla scommessa d'una vera democratizzazione della società italiana. Si trattava di un'Italia che si fa fatica, oggi, a credere che sia esistita, quella che, per la De Federicis, rispondeva ai nomi di Francesco De Bartolomeis e l'antipedagogia, di Elvio Fachinelli e la psicoanalisi antiautoritaria, di Giovanni Arpino (con cui la De Federicis ha scritto un Novecento) e Albino Galvano, di Tullia Carrettoni, carismatica dirigente del Psi torinese.
La storia di Lidia De Federicis oggi è un'altra e questo libro magrissimo e veloce lo testimonia: un libro spalancato su problemi di non poco conto e non eludibili per chiunque abbia chiara (e a cuore) la situazione della nostra contemporaneità letteraria: poco importa che i narratori italiani coevi, magari i famosi e accreditati campioni del giallo e del noir, non si pongano nemmeno lontanamente questi problemi, piuttosto regredendo a strutture e a situazioni pacificanti (in modo, così, da eludere il conflitto sociale), proponendo una letteratura consolatoria e di risarcimenti che dissimuli il disordine. I problemi veri, De Federicis lo sa, sono altri: chi è che scrive, quando scrive per un pubblico? E per cosa scrive? Quali garanzie può offrire al lettore, una volta che il patto di credulità stipulato con gli autori è andato, conflagrante il `900, completamente in frantumi, e, davvero, non si può più far finta di niente. Si direbbe che, come molti degli scrittori italiani qui rubricati (dalla Ramondino de L'isola riflessa alla Rasy di Tra noi due, dal Carraro di Non c'è più tempo al Trevi de I cani del nulla), la De Federicis non voglia garantire nulla del proprio racconto, se non attraverso la sua vita e il suo corpo, e grazie alla memoria, credibile, appunto, proprio perché singolare e irripetibile, non replicabile. «Se davvero, e si è detto, alla fine del Novecento, dopo due secoli di confessioni e autobiografie, l'io è come un genere, il problema sarà quale genere farne, ora che va finendo il novecentesco romanzo dell'io. Il problema è biografico, situarsi e raccontarsi nella mutazione culturale. Tenersi ai limiti dell'io e tuttavia percepire il carattere illimitato, asistematico, della nostra contemporaneità». Sono parole dalle quali si capisce bene che questo libro non sarebbe nato se non trovando il giusto tono di voce: che è, anch'esso, problema cruciale, abbracciando tutte quelle forme di scrittura non solo autobiografica che, solo per pigrizia critica, continuiamo a chiamare saggistica.
Problema cruciale, tanto più per Lidia De Federicis, che s'è trovata ad accordare, a un io prosodico, una vita plurale: critico militante e recensore, saggista, professoressa e, integralmente calata nella storia delle donne, con laico disincanto ma sacrosanta partigianeria, si è impegnata a raccontare la propria vita anche attraverso i libri, e a pensarli, ripassandoli, anche in forza delle esperienze che la vita imponeva. L'ha trovato, quel tono di voce, incontrando qualche anno fa la «sottorubrichetta a intervalli liberi» di «Belfagor»: Minima personalia, appunto, che è il suo modo, un po' all'inglese (ma senza filarsela), di dire delle faccende massime col minimo di retorica possibile. Ecco perché, come la Morante, la De Federicis pare credere che non possa darsi romanzo degno che non si confronti con «le cose ultime»: giusto, allora, il rilievo dato a un libro misterioso, Dava fine alla tremenda notte, della più misteriosa delle nostre scrittrici, Marosia Castaldi. L'extratesto, ecco il punto, qui vince sempre sul testo. Come potrebbe essere altrimenti: «La letteratura può riuscire insopportabile, rispetto al `corpo di un essere vivente che combatte con la morte'».
il manifesto
28.4.05
L'Europa cancella i bambini poveri
Nel mondo sono 600 milioni i minori che vivono in famiglie il cui reddito è di un dollaro al giorno. La denuncia di Save the children: Bruxelles li ha dimenticati. L'Italia il paese più «canaglia»
ALBERTO D'ARGENZIO - BRUXELLES
L'Unione europea ha cancellato i bambini dalla politica di sviluppo. Questo l'atto d'accusa presentato ieri all'Eurocamera da Save the children, la più grande organizzazione internazionale indipendente per la promozione e la tutela dei diritti dei bambini. E se la Ue non guarda ai minori, l'Italia non guarda più in generale alla politica di sviluppo. «Stato canaglia», hanno detto del Belpaese solo un paio di mesi fa Oxfam e Action aid commentando i dati romani dell'aiuto allo sviluppo. Il governo destina alla lotta alla povertà meno dello 0,17% del suo Pil, il più tirchio nell'Unione a 15. Ieri pure Save the children si è unita al coro dello «Stato canaglia». Dietro all'accusa, le cifre della povertà. Allarmanti. Nei paesi in via di sviluppo - afferma la ong - 600 milioni di bambini vivono in famiglie che sopravvivono con meno di un dollaro al giorno, 10 milioni muoiono ogni anno per malattie facilmente prevenibili, più di 100 milioni di minori, di cui due terzi bambine, non vanno a scuola, oltre 150 milioni di bambini e bambine soffrono di malnutrizione e l'Aids si sta diffondendo a ritmi vertiginosi. «Una persona su due di quelle che vivono in assoluta povertà - sostiene Costanza De Toma, una delle relatrici del rapporto presentato ieri - sono bambini, più spesso bambine».
Di fronte a questo panorama, la Ue - che è pure il maggior donatore al mondo - ha chiuso gli occhi sui minori, insiste l'organizzazione internazionale. «Se le politiche per combattere la povertà non sono mirate alla povertà infantile, cioè alla protezione sociale, alla sanità, all'istruzione, allora non si potrà mai sradicare la povertà nel mondo».
Il ragionamento è semplice ma Bruxelles non lo segue, anzi farebbe di peggio: marcia indietro. Nel 2000 il tema dei diritti dei bambini era stato inserito nelle linee guida per le politiche di sviluppo europee, ma quando si è passati alla pratica i diritti dei minori sono scomparsi dai punti di riferimento. La Commissione risponde che «è vero perché è falso». «La protezione dei bambini - afferma Amadeu Altafaj, portavoce del commissario allo sviluppo Louis Michel - è diventata orizzontale, è stata inserita in tutti i programmi di sviluppo continuando a essere una priorità comune a tutti i progetti». «E la protezione dei minori - insiste Bruxelles - è inserita nella nostra richiesta di raggiungere più rapidamente gli obiettivi del Millennio». Save the Children continua la sua accusa, sostenendo che «non si ravvisa un approccio strategico globale alla povertà infantile».
Oltre alle tirate di orecchie, arrivano anche dei consigli, degli inviti. L'Europa - afferma la ong - deve incrementare gli aiuti allo sviluppo fino allo 0,6% del Pil dei Paesi dell'Ue entro il 2009, per poi raggiungere l'obiettivo dello 0,7 entro il 2013. I 25 sembrano invece intenzionati a mettersi d'accordo per arrivare allo 0,51% nel 2010 (lasciando per i 10 nuovi, che partono da posizioni molto inferiori, l'obiettivo dello 0,17%). Inoltre - insiste il rapporto - è necessario dire no all'imposizione di tasse sui servizi educativi e sui servizi sanitari di base. Sia la Banca mondiale che Bruxelles sono ambigui sul tema salute gratis, sostengono infatti che le spese dei poveri permettono comunque di finanziare la sanità. In realtà coprono appena il 5% dei costi. Save the children insiste sul sostegno agli orfani e ai bambini più vulnerabili nella lotta all'Aids, sul finanziamento alla ricerca e allo sviluppo di farmaci retrovirali accessibili gratuitamente.
Divisi su molto, Save the children e Commissione sono invece d'accordo su un punto: l'Italia fa pochissimo per la politica di sviluppo. «Lo 0,17% del Pil è una cifra inadeguata al suo livello di ricchezza», afferma De Toma. Peggio di lei fanno solamente gli Usa con lo 0,12% del Pil. Il caso Italia non si ferma comunque alle nude cifre. Roma doveva presentare a dicembre il suo rapporto per la politica di sviluppo, ma non l'ha fatto. All'appello mancano solo Italia e Cipro. «Inoltre - insiste Carlotta Sami, coordinatrice di Save the children Italia - la spesa viene indirizzata massicciamente a imprese profit nazionali», in pratica viene reinvestita in casa, poi «si fa sempre meno differenza tra attori privati profit e non profit». Addirittura molte associazioni sono creditrici del ministero degli esteri per progetti approvati e finanziati con soldi che poi non sono mai arrivati.
ilmanifesto.it
ALBERTO D'ARGENZIO - BRUXELLES
L'Unione europea ha cancellato i bambini dalla politica di sviluppo. Questo l'atto d'accusa presentato ieri all'Eurocamera da Save the children, la più grande organizzazione internazionale indipendente per la promozione e la tutela dei diritti dei bambini. E se la Ue non guarda ai minori, l'Italia non guarda più in generale alla politica di sviluppo. «Stato canaglia», hanno detto del Belpaese solo un paio di mesi fa Oxfam e Action aid commentando i dati romani dell'aiuto allo sviluppo. Il governo destina alla lotta alla povertà meno dello 0,17% del suo Pil, il più tirchio nell'Unione a 15. Ieri pure Save the children si è unita al coro dello «Stato canaglia». Dietro all'accusa, le cifre della povertà. Allarmanti. Nei paesi in via di sviluppo - afferma la ong - 600 milioni di bambini vivono in famiglie che sopravvivono con meno di un dollaro al giorno, 10 milioni muoiono ogni anno per malattie facilmente prevenibili, più di 100 milioni di minori, di cui due terzi bambine, non vanno a scuola, oltre 150 milioni di bambini e bambine soffrono di malnutrizione e l'Aids si sta diffondendo a ritmi vertiginosi. «Una persona su due di quelle che vivono in assoluta povertà - sostiene Costanza De Toma, una delle relatrici del rapporto presentato ieri - sono bambini, più spesso bambine».
Di fronte a questo panorama, la Ue - che è pure il maggior donatore al mondo - ha chiuso gli occhi sui minori, insiste l'organizzazione internazionale. «Se le politiche per combattere la povertà non sono mirate alla povertà infantile, cioè alla protezione sociale, alla sanità, all'istruzione, allora non si potrà mai sradicare la povertà nel mondo».
Il ragionamento è semplice ma Bruxelles non lo segue, anzi farebbe di peggio: marcia indietro. Nel 2000 il tema dei diritti dei bambini era stato inserito nelle linee guida per le politiche di sviluppo europee, ma quando si è passati alla pratica i diritti dei minori sono scomparsi dai punti di riferimento. La Commissione risponde che «è vero perché è falso». «La protezione dei bambini - afferma Amadeu Altafaj, portavoce del commissario allo sviluppo Louis Michel - è diventata orizzontale, è stata inserita in tutti i programmi di sviluppo continuando a essere una priorità comune a tutti i progetti». «E la protezione dei minori - insiste Bruxelles - è inserita nella nostra richiesta di raggiungere più rapidamente gli obiettivi del Millennio». Save the Children continua la sua accusa, sostenendo che «non si ravvisa un approccio strategico globale alla povertà infantile».
Oltre alle tirate di orecchie, arrivano anche dei consigli, degli inviti. L'Europa - afferma la ong - deve incrementare gli aiuti allo sviluppo fino allo 0,6% del Pil dei Paesi dell'Ue entro il 2009, per poi raggiungere l'obiettivo dello 0,7 entro il 2013. I 25 sembrano invece intenzionati a mettersi d'accordo per arrivare allo 0,51% nel 2010 (lasciando per i 10 nuovi, che partono da posizioni molto inferiori, l'obiettivo dello 0,17%). Inoltre - insiste il rapporto - è necessario dire no all'imposizione di tasse sui servizi educativi e sui servizi sanitari di base. Sia la Banca mondiale che Bruxelles sono ambigui sul tema salute gratis, sostengono infatti che le spese dei poveri permettono comunque di finanziare la sanità. In realtà coprono appena il 5% dei costi. Save the children insiste sul sostegno agli orfani e ai bambini più vulnerabili nella lotta all'Aids, sul finanziamento alla ricerca e allo sviluppo di farmaci retrovirali accessibili gratuitamente.
Divisi su molto, Save the children e Commissione sono invece d'accordo su un punto: l'Italia fa pochissimo per la politica di sviluppo. «Lo 0,17% del Pil è una cifra inadeguata al suo livello di ricchezza», afferma De Toma. Peggio di lei fanno solamente gli Usa con lo 0,12% del Pil. Il caso Italia non si ferma comunque alle nude cifre. Roma doveva presentare a dicembre il suo rapporto per la politica di sviluppo, ma non l'ha fatto. All'appello mancano solo Italia e Cipro. «Inoltre - insiste Carlotta Sami, coordinatrice di Save the children Italia - la spesa viene indirizzata massicciamente a imprese profit nazionali», in pratica viene reinvestita in casa, poi «si fa sempre meno differenza tra attori privati profit e non profit». Addirittura molte associazioni sono creditrici del ministero degli esteri per progetti approvati e finanziati con soldi che poi non sono mai arrivati.
ilmanifesto.it
22.4.05
Stupidità, la peste di oggi
di Vittorino Andreoli
Nessuno si chiede se un’ape sia intelligente oppure no, se una formica o un coleottero siano stupidi. E si tratta di specie che hanno una lunga storia sulla terra: le tartarughe e gli elefanti hanno visto l’arrivo dell’uomo quando già calpestavano questo mondo da molte migliaia di anni. Verrebbe da sorridere di fronte a uno che accusasse di stupidità una farfalla o la proclamasse sapiente. Si è pensato a macchine straordinarie ma concluse, incapaci di creatività, insomma prive di intelligenza. Nell’uomo sapiens-sapiens l’intelligenza giunge a sovvertire gli imperativi della specie, stampati nel codice genetico e, quindi, uno può suicidarsi o uccidere un esemplare della propria famiglia. Secondo questo criterio, da una parte si potrebbero mettere le specie viventi non intelligenti ma perfette e dall’altra parte l’uomo, intelligente ma sommamente imperfetto. La fuga del gene è una fuga dalla perfezione e ce se ne allontana sia con un gesto innovativo, sia con uno distruttivo. Al di fuori della perfezione c’è l’errore e la specie umana ne è certamente la massima espressione.
Aver applicato lo schema intelligenza-stupidità ha permesso una lettura dell’evoluzione completamente opposta a quella che avremmo se si applicasse lo schema perfezione-difetto. In un caso risultiamo all’apice dell’evoluzione, nell’altro a un livello certamente basso. Era prevedibile che un criterio inventato dall’uomo fosse a lui benevolo e anzi che lo usasse persino per giudicare gli altri esseri viventi.
Non sono affatto sicuro che l’intelligenza sia una considerevole acquisizione e non sono sicuro che un bilancio dei suoi effetti, tra negativi e positivi, sia per il vantaggio. Metterei su un piatto i versi poetici, ma sull’altro le guerre. Da un lato le raffinate espressioni amorose, dall’altro gli odî fratricidi. Nessun’altra specie vivente sa odiare come l’uomo e nessuna «belva» si è mai comportata come lui. Su un piatto della bilancia dovrei mettere il trapianto di cuore su un bambino, sull’altro tutti gli altri che vengono lasciati morire di fame.
La specie umana ha introdotto tecnologie, si è servita di protesi che ha dapprima trovato in natura e poi inventato artificiosamente. E all’uso degli strumenti si accompagna la comunicazione che diventa simbolica fino ai linguaggi parlati e scritti. Un risultato straordinario, una moltiplicazione, una sommazione di capacità semmai già presenti in nuce in altre specie.
Insomma, andrebbe rivisitato con molta più prudenza il processo evolutivo nel suo insieme che ha autoassegnato all’uomo capacità e doti così speciali da farne il più alto rappresentante della vita sulla terra e da rendere accettabili tutte le sciocchezze che compie e che nessun essere «inferiore» mette in atto. Con un po’ più di prudenza l’uomo può apparire, come appare a me, un essere imperfetto e, in termini di intelligenza, uno stupido.
La stupidità massima si coniuga, l’abbiamo detto, con il potere, quando cioè l’uomo tende ad aumentare la propria avidità. Però la stupidità si è infiltrata ovunque, fino a obbligare la persona onesta e creativa a chiudersi nella cella del privato, in una stanza che ha il sapore di un carcere di massima sicurezza.
Ci sono mafia e ’ndrangheta, ma anche i clan universitari, le famiglie intellettuali e industriali. Una società idiota. I più grandi emarginati del tempo presente sono le persone veramente intelligenti. Sullo scenario della vita si percepiscono solo le loro controfigure, sembrano intelligenti ma sono idioti. I travestiti della mente, dentro la testa hanno solo sterco. Come in un transessuale: si cerca il mons veneris e si trova un pene mostruoso.
Gli intelligenti vivono male in questa società, ma sono pochi e insignificanti. Per il resto è una «città ideale», persino democratica, dove tutti sono egualmente idioti, ma nessuno se ne accorge e quindi si può cambiare il dizionario e dare la stessa definizione dell’intelligente all’idiota. La misura di tutte le cose è il denaro, questo amuleto delle civiltà evolute. Può tutto e ha dalla propria parte ogni divinità.
La stupidità è endemica, come la più grave delle malattie infettive, come la peste. E’ la peste del tempo presente. Se uno è stupido si aggregherà con gli stupidi, si attornierà di idioti. Si attiva il meccanismo della selezione naturale: gli intelligenti sono segregati e uccisi psicologicamente, gli stupidi si moltiplicheranno come i topi, come i conigli. Genereranno bambini che la natura potrà anche aver dotato di capacità creative, ma diventeranno stupidi perché educati alla stupidità. Respireranno un’aria mefitica, che uccide la mente e rinvigorisce i muscoli e il tessuto cavernoso del pene che si erigerà sempre di più. L’intelligenza è una possibilità della biologia, non un imperativo, non una necessità. L’educazione sopprime ogni potenzialità e così crescono piccoli idioti che poi diventano grandi e ancor più idioti. I bambini più intelligenti muoiono perché appaiono, nel migliore dei casi, folli. Una società di idioti genera idioti che genereranno idioti.
Persino gli strumenti tecnologici ne vengono colpiti: basti guardare la televisione, il cinematografo, i videogiochi. Oggetti stupidi a immagine e somiglianza di un uomo cretino che deve stare in video a mostrare il proprio mostruoso pene, l’unico organo vivente. Sul teleschermo si muovono tanti peni incravattati, rivestiti di griffe prestigise. Una società di idioti non può che avere una televisione idiota che li rassicuri, che permetta di identificarsi continuamente, di percepirsi come grandi. E così si programma il concorso per miss idiota, le sfide della stupidità, i quiz dell’ignoranza. E il televisore diventa il luogo della pornografia, la pornografia della stupidità, del gusto dell’orrido intellettivo, dell’osceno razionale, del voyeurismo ebete. Gli intellettuali balbettano dimenticandosi di essere degli attori di questo teatro dell’ipocrisia e della crudeltà. (...) Nella società del sembrare, una patacca brilla come un cristallo di Boemia, come un diamante del Transvaal. Una puttana si confonde con una vergine, un travestito con una miss. Solo l’idiota rimane idiota, con desideri idioti, con l’invidia da idiota, con l’arroganza dell’idiota, con la superbia degli stupidi.
L’ho imparato da molto tempo: per essere felici bisogna essere idioti oppure maniacali, delirare fino a percepirsi dio. Se il fine dell’umanità è la felicità, allora questo tempo è in perfetta sintonia con l’evoluzione. Aumentando il sapere, aumenta il dolore: l’idiota non sa nulla ed è felice.
NELLA BUR
Esce nella Bur Dietro lo specchio. Realtà e sogni dell’uomo di oggi, il nuovo saggio di Vittorino Andreoli. Nato a Verona nel 1940, Andreoli è uno dei più famosi neurologi e psichiatri italiani. Tra i suoi libri ricordiamo Cronaca dei sentimenti, Lettera a un adolescente, I miei matti. Per Andreoli l’uomo è arrivato al terzo millennio confuso, frammentato, smarrito in preda a mille contraddizioni. Il suo libro cerca di analizzarle. Pubblichiamo il capitolo «L’uomo della stupidità».
lastampa.it
Nessuno si chiede se un’ape sia intelligente oppure no, se una formica o un coleottero siano stupidi. E si tratta di specie che hanno una lunga storia sulla terra: le tartarughe e gli elefanti hanno visto l’arrivo dell’uomo quando già calpestavano questo mondo da molte migliaia di anni. Verrebbe da sorridere di fronte a uno che accusasse di stupidità una farfalla o la proclamasse sapiente. Si è pensato a macchine straordinarie ma concluse, incapaci di creatività, insomma prive di intelligenza. Nell’uomo sapiens-sapiens l’intelligenza giunge a sovvertire gli imperativi della specie, stampati nel codice genetico e, quindi, uno può suicidarsi o uccidere un esemplare della propria famiglia. Secondo questo criterio, da una parte si potrebbero mettere le specie viventi non intelligenti ma perfette e dall’altra parte l’uomo, intelligente ma sommamente imperfetto. La fuga del gene è una fuga dalla perfezione e ce se ne allontana sia con un gesto innovativo, sia con uno distruttivo. Al di fuori della perfezione c’è l’errore e la specie umana ne è certamente la massima espressione.
Aver applicato lo schema intelligenza-stupidità ha permesso una lettura dell’evoluzione completamente opposta a quella che avremmo se si applicasse lo schema perfezione-difetto. In un caso risultiamo all’apice dell’evoluzione, nell’altro a un livello certamente basso. Era prevedibile che un criterio inventato dall’uomo fosse a lui benevolo e anzi che lo usasse persino per giudicare gli altri esseri viventi.
Non sono affatto sicuro che l’intelligenza sia una considerevole acquisizione e non sono sicuro che un bilancio dei suoi effetti, tra negativi e positivi, sia per il vantaggio. Metterei su un piatto i versi poetici, ma sull’altro le guerre. Da un lato le raffinate espressioni amorose, dall’altro gli odî fratricidi. Nessun’altra specie vivente sa odiare come l’uomo e nessuna «belva» si è mai comportata come lui. Su un piatto della bilancia dovrei mettere il trapianto di cuore su un bambino, sull’altro tutti gli altri che vengono lasciati morire di fame.
La specie umana ha introdotto tecnologie, si è servita di protesi che ha dapprima trovato in natura e poi inventato artificiosamente. E all’uso degli strumenti si accompagna la comunicazione che diventa simbolica fino ai linguaggi parlati e scritti. Un risultato straordinario, una moltiplicazione, una sommazione di capacità semmai già presenti in nuce in altre specie.
Insomma, andrebbe rivisitato con molta più prudenza il processo evolutivo nel suo insieme che ha autoassegnato all’uomo capacità e doti così speciali da farne il più alto rappresentante della vita sulla terra e da rendere accettabili tutte le sciocchezze che compie e che nessun essere «inferiore» mette in atto. Con un po’ più di prudenza l’uomo può apparire, come appare a me, un essere imperfetto e, in termini di intelligenza, uno stupido.
La stupidità massima si coniuga, l’abbiamo detto, con il potere, quando cioè l’uomo tende ad aumentare la propria avidità. Però la stupidità si è infiltrata ovunque, fino a obbligare la persona onesta e creativa a chiudersi nella cella del privato, in una stanza che ha il sapore di un carcere di massima sicurezza.
Ci sono mafia e ’ndrangheta, ma anche i clan universitari, le famiglie intellettuali e industriali. Una società idiota. I più grandi emarginati del tempo presente sono le persone veramente intelligenti. Sullo scenario della vita si percepiscono solo le loro controfigure, sembrano intelligenti ma sono idioti. I travestiti della mente, dentro la testa hanno solo sterco. Come in un transessuale: si cerca il mons veneris e si trova un pene mostruoso.
Gli intelligenti vivono male in questa società, ma sono pochi e insignificanti. Per il resto è una «città ideale», persino democratica, dove tutti sono egualmente idioti, ma nessuno se ne accorge e quindi si può cambiare il dizionario e dare la stessa definizione dell’intelligente all’idiota. La misura di tutte le cose è il denaro, questo amuleto delle civiltà evolute. Può tutto e ha dalla propria parte ogni divinità.
La stupidità è endemica, come la più grave delle malattie infettive, come la peste. E’ la peste del tempo presente. Se uno è stupido si aggregherà con gli stupidi, si attornierà di idioti. Si attiva il meccanismo della selezione naturale: gli intelligenti sono segregati e uccisi psicologicamente, gli stupidi si moltiplicheranno come i topi, come i conigli. Genereranno bambini che la natura potrà anche aver dotato di capacità creative, ma diventeranno stupidi perché educati alla stupidità. Respireranno un’aria mefitica, che uccide la mente e rinvigorisce i muscoli e il tessuto cavernoso del pene che si erigerà sempre di più. L’intelligenza è una possibilità della biologia, non un imperativo, non una necessità. L’educazione sopprime ogni potenzialità e così crescono piccoli idioti che poi diventano grandi e ancor più idioti. I bambini più intelligenti muoiono perché appaiono, nel migliore dei casi, folli. Una società di idioti genera idioti che genereranno idioti.
Persino gli strumenti tecnologici ne vengono colpiti: basti guardare la televisione, il cinematografo, i videogiochi. Oggetti stupidi a immagine e somiglianza di un uomo cretino che deve stare in video a mostrare il proprio mostruoso pene, l’unico organo vivente. Sul teleschermo si muovono tanti peni incravattati, rivestiti di griffe prestigise. Una società di idioti non può che avere una televisione idiota che li rassicuri, che permetta di identificarsi continuamente, di percepirsi come grandi. E così si programma il concorso per miss idiota, le sfide della stupidità, i quiz dell’ignoranza. E il televisore diventa il luogo della pornografia, la pornografia della stupidità, del gusto dell’orrido intellettivo, dell’osceno razionale, del voyeurismo ebete. Gli intellettuali balbettano dimenticandosi di essere degli attori di questo teatro dell’ipocrisia e della crudeltà. (...) Nella società del sembrare, una patacca brilla come un cristallo di Boemia, come un diamante del Transvaal. Una puttana si confonde con una vergine, un travestito con una miss. Solo l’idiota rimane idiota, con desideri idioti, con l’invidia da idiota, con l’arroganza dell’idiota, con la superbia degli stupidi.
L’ho imparato da molto tempo: per essere felici bisogna essere idioti oppure maniacali, delirare fino a percepirsi dio. Se il fine dell’umanità è la felicità, allora questo tempo è in perfetta sintonia con l’evoluzione. Aumentando il sapere, aumenta il dolore: l’idiota non sa nulla ed è felice.
NELLA BUR
Esce nella Bur Dietro lo specchio. Realtà e sogni dell’uomo di oggi, il nuovo saggio di Vittorino Andreoli. Nato a Verona nel 1940, Andreoli è uno dei più famosi neurologi e psichiatri italiani. Tra i suoi libri ricordiamo Cronaca dei sentimenti, Lettera a un adolescente, I miei matti. Per Andreoli l’uomo è arrivato al terzo millennio confuso, frammentato, smarrito in preda a mille contraddizioni. Il suo libro cerca di analizzarle. Pubblichiamo il capitolo «L’uomo della stupidità».
lastampa.it
13.4.05
Internet, metà degli italiani sta in rete
... Ma gli insegnanti non lo sanno
di red
Un italiano su due utilizza regolarmente Internet. Tre anni fa lo faceva soltanto uno su tre. Il computer di casa si utilizza sempre meno come “macchina da scrivere”, rappresentando invece un grande contenitore attaccato ad un filo, nel quale gli italiani amano soprattutto cercare informazioni, leggere giornali, consultare enciclopedie e, sempre di più, fare acquisti.
Nel Rapporto 2005 sull’editoria on-line che l’Associazione Italiana Editori ha presentato a Milano si sono delineate diverse tipologie di ‘internauti’: dei 23 milioni di italiani che si sono collegati in rete negli ultimi tre anni (passando dal 35 al 46% della popolazione), il 17% sono «gli ultimi arrivati». Si tratta soprattutto dei sessantenni del sud e delle isole, quelli che probabilmente sono stati iniziati alla navigazione per esigenze di lavoro o magari dall’insistenza dei figli. Poi c’è un 24% di «basici», soprattutto casalinghe e gente poco esperta, che sembra cliccare in punta di piedi, giusto il tempo necessario di cercare cio di cui ha bisogno, senza soffermarsi troppo.
Gli studenti delle scuole superiori sono invece il tipico utente «funzionale» (il 22%): hanno buona dimestichezza, sanno destreggiarsi nel mare del web e salvano sempre i contenuti di cui hanno bisogno. Infine la categoria più numerosa (il 37%), i ‘curiosi’: sono gli utenti che con internet si divertono di più. Hanno un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, buona cultura, amanti della lettura ma soprattutto interessati all’informazione in tempo reale. Naturalmente si concedono il lusso di scaricare musica e film e in numero crescente si divertono a fare acquisti senza spostarsi da casa. Più della metà di loro, infatti, ritiene che scegliere un oggetto e pagare utilizzando i servizi on line sia più che sicuro.
Il rapporto tuttavia dimostra come utilizzare con sempre più assiduità il computer non precluda necessariamente il tempo alla lettura di un buon libro di carta. I lettori in Italia sono pochi, ma aumentano gradualmente, con una media personale che passa dai 2,3 del 2002 ai 3,2 libri di oggi. Poco male, dicono naturalmente gli editori, che però registrano un crescente interesse di chi naviga a trovare un momento per sfogliare un giornale digitale. Chi si trova su Internet infatti con frequenza coglie l’occasione di collegarsi anche per pochi minuti ai siti di informazione e salvare sul desktop o stampare la notizia che gli interessa. Molti tra l’altro si dicono pronti a pagare un abbonamento pur di avere accesso illimitato ai canali di informazione telematica. Una prospettiva nuova che si apre per l’industria editoriale, tenendo anche conto che il computer è diventato un oggetto familiare per la metà degli italiani.
Ma l’Associazione Italiana Editori ha lanciato una nuova proposta al Ministero dell' Istruzione e a quello dell'Innovazione: sperimentare in 200 scuole l’utilizzo concreto del pc nelle classi, facendolo diventare uno strumento della didattica alla pari della lavagna e dei libri. È un modo per far recuperare, almeno in parte, il gap di cui soffre il corpo insegnate italiano. Da un’indagine commissionata all’Istituto IARD Franco Brambilla, è risultato infatti che il rapporto tra insegnanti e nuove tecnologie non è proprio dei migliori. Come dire, gli insegnanti potrebbero prendere lezione dai propri studenti, per quanto riguarda l’utilizzo del pc e di internet.
Su ottanta interpellati, solo un insegnate su tre utilizza regolarmente il computer per preparare le lezioni e solo uno su cinque sa come preparare una lezione usando il pc. Eppure se sono chiamati a dare un voto sui vantaggi che le nuove tecnologie possono apportare alla didattica e al reperimento dei materiali, tutti si affrettano a promuoverle a pieni voti (una media che supera l’8). E poi sono loro stessi a chiedere sempre di più contenuti digitali tipo esercizi, immagini, materiali specialistici, di ricerca e test di autovalutazione. Un mercato in grande espansione che gli editori non vogliono lasciare sfornito. Una rivoluzione tante volte annunciata, che forse non eliminerà quaderni, libri, lavagna e gessetti ma che inevitabilmente segnerà la differenza tra le vecchie generazioni di studenti e quelli che inizieranno a formarsi nel futuro. Finché forse non arriverà il giorno in cui l’insegnante chiamerà lo studente dicendogli «Dai forza, vieni al desktop».
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=42013
di red
Un italiano su due utilizza regolarmente Internet. Tre anni fa lo faceva soltanto uno su tre. Il computer di casa si utilizza sempre meno come “macchina da scrivere”, rappresentando invece un grande contenitore attaccato ad un filo, nel quale gli italiani amano soprattutto cercare informazioni, leggere giornali, consultare enciclopedie e, sempre di più, fare acquisti.
Nel Rapporto 2005 sull’editoria on-line che l’Associazione Italiana Editori ha presentato a Milano si sono delineate diverse tipologie di ‘internauti’: dei 23 milioni di italiani che si sono collegati in rete negli ultimi tre anni (passando dal 35 al 46% della popolazione), il 17% sono «gli ultimi arrivati». Si tratta soprattutto dei sessantenni del sud e delle isole, quelli che probabilmente sono stati iniziati alla navigazione per esigenze di lavoro o magari dall’insistenza dei figli. Poi c’è un 24% di «basici», soprattutto casalinghe e gente poco esperta, che sembra cliccare in punta di piedi, giusto il tempo necessario di cercare cio di cui ha bisogno, senza soffermarsi troppo.
Gli studenti delle scuole superiori sono invece il tipico utente «funzionale» (il 22%): hanno buona dimestichezza, sanno destreggiarsi nel mare del web e salvano sempre i contenuti di cui hanno bisogno. Infine la categoria più numerosa (il 37%), i ‘curiosi’: sono gli utenti che con internet si divertono di più. Hanno un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, buona cultura, amanti della lettura ma soprattutto interessati all’informazione in tempo reale. Naturalmente si concedono il lusso di scaricare musica e film e in numero crescente si divertono a fare acquisti senza spostarsi da casa. Più della metà di loro, infatti, ritiene che scegliere un oggetto e pagare utilizzando i servizi on line sia più che sicuro.
Il rapporto tuttavia dimostra come utilizzare con sempre più assiduità il computer non precluda necessariamente il tempo alla lettura di un buon libro di carta. I lettori in Italia sono pochi, ma aumentano gradualmente, con una media personale che passa dai 2,3 del 2002 ai 3,2 libri di oggi. Poco male, dicono naturalmente gli editori, che però registrano un crescente interesse di chi naviga a trovare un momento per sfogliare un giornale digitale. Chi si trova su Internet infatti con frequenza coglie l’occasione di collegarsi anche per pochi minuti ai siti di informazione e salvare sul desktop o stampare la notizia che gli interessa. Molti tra l’altro si dicono pronti a pagare un abbonamento pur di avere accesso illimitato ai canali di informazione telematica. Una prospettiva nuova che si apre per l’industria editoriale, tenendo anche conto che il computer è diventato un oggetto familiare per la metà degli italiani.
Ma l’Associazione Italiana Editori ha lanciato una nuova proposta al Ministero dell' Istruzione e a quello dell'Innovazione: sperimentare in 200 scuole l’utilizzo concreto del pc nelle classi, facendolo diventare uno strumento della didattica alla pari della lavagna e dei libri. È un modo per far recuperare, almeno in parte, il gap di cui soffre il corpo insegnate italiano. Da un’indagine commissionata all’Istituto IARD Franco Brambilla, è risultato infatti che il rapporto tra insegnanti e nuove tecnologie non è proprio dei migliori. Come dire, gli insegnanti potrebbero prendere lezione dai propri studenti, per quanto riguarda l’utilizzo del pc e di internet.
Su ottanta interpellati, solo un insegnate su tre utilizza regolarmente il computer per preparare le lezioni e solo uno su cinque sa come preparare una lezione usando il pc. Eppure se sono chiamati a dare un voto sui vantaggi che le nuove tecnologie possono apportare alla didattica e al reperimento dei materiali, tutti si affrettano a promuoverle a pieni voti (una media che supera l’8). E poi sono loro stessi a chiedere sempre di più contenuti digitali tipo esercizi, immagini, materiali specialistici, di ricerca e test di autovalutazione. Un mercato in grande espansione che gli editori non vogliono lasciare sfornito. Una rivoluzione tante volte annunciata, che forse non eliminerà quaderni, libri, lavagna e gessetti ma che inevitabilmente segnerà la differenza tra le vecchie generazioni di studenti e quelli che inizieranno a formarsi nel futuro. Finché forse non arriverà il giorno in cui l’insegnante chiamerà lo studente dicendogli «Dai forza, vieni al desktop».
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=42013
11.4.05
Vietato fumare, cala la produttività
Uno studio dell'Associazione direttori delle risorse umane: quel
tempo "perso" a fumare lontano dalle scrivanie va recuperato
Fumo in ufficio, allarme imprese
"Produttività cala fino al 10,5%"
Il problema nelle aziende dove non sono sono stati previsti spazi
per i fumatori. Ma si arriverà a detrazioni in busta paga?
di GIORGIO LONARDI
MILANO - Fumatori attenti: la pausa sigaretta durante il lavoro potrebbe non essere più "gratis". Quel nuovo rito nato il 10 gennaio in seguito all'approvazione della legge antifumo, quello sciamare fuori dagli uffici per fumarsi una bionda all'aperto in santa pace potrebbe diventare un'abitudine costosa.
Una ricerca su 177 imprese promossa dall'Associazione Direttori Risorse Umane (GIDP/ HRDA) e patrocinata dall'agenzia per il lavoro interinale Randstad, infatti, non lascia dubbi: il fumo pesa sui bilanci aziendali provocando una perdita secca di produttività compresa fra il 6,5% e il 10,5%. Risultato: ci sono le premesse per una detrazione della pausa dalla busta paga. O per un recupero del tempo dedicato al vizio.
L'indagine precisa che il problema coinvolge ben il 75% delle imprese che non ha attrezzato in azienda locali dedicati al fumo. Insomma, la questione è delicata. Anche perché GIDP/HRDA è un network influente che comprende 1.250 imprese con 800 mila addetti. E la ricerca ha messo in luce il "costo", finora sottovalutato, del fumo.
"Visto che un fumatore "medio" nell'arco delle 9 ore di servizio consuma almeno 5 sigarette", spiega Paolo Citterio, presidente dell'Associazione Direttori Risorse Umane, "ed ipotizzando circa 10 minuti per volta per la sosta abbiamo un risultato piuttosto pesante: le imprese stanno sopportando un onere che va da mezzora a 50 minuti al giorno, quindi una riduzione della produttività che va dal 6,5% al 10,5%".
Secondo Citterio, dunque, è inevitabile che le aziende prendano provvedimenti. Dice: "Visti i costi della nostra manodopera non è ipotizzabile che il fenomeno della pausa-sigaretta possa continuare. Soprattutto se si tratta di imprese con lavorazioni altamente specializzate dove il costo del lavoro incide molto sul prodotto finito". Oggi infatti il 92% delle aziende che non hanno installato locali per fumatori considera la pausa-sigaretta come normale orario di lavoro. Mentre appena il 3% sta valutando se trattenere o meno dalla busta paga il tempo passato a fumare. E nessuna delle società intervistate farà recuperare il tempo dedicato alle bionde.
Insomma, nonostante le preoccupazioni dell'Associazione Direttori Risorse Umane sembra che manager e imprese non siano coscienti della situazione. Circa l'80% delle aziende, ad esempio, non appare preoccupato per il calo di produttività dei propri dipendenti. "Si tratta di imprese", commenta Citterio, "dove la maggioranza del personale è costituita da impiegati, quadri e dirigenti e dove il recupero del tempo perso per il fumo può essere gestito nel modo migliore, con un alto grado di flessibilità".
In effetti questa considerazione schiude la porta ad alcune osservazioni polemiche. Da una parte, infatti, troviamo i lavoratori impegnati nelle mansioni più umili (operai e impiegati) per i quali il vizio ha un "costo" immediatamente misurabile sul piano della prestazione lavorativa.
Sono loro dunque, quelli che dovranno pagare la riduzione della produttività. Mentre dall'altra i dirigenti, i quadri e i "creativi" possono essere esentati dal prezzo del fumo. Intanto perché si presume che potranno recuperare successivamente il tempo perso, magari anche lavorando più del necessario. E poi, forse, perché alcuni capi azienda, anch'essi fumatori incalliti, sono convinti che dopo una sigaretta ci si concentri di più.
Fra le curiosità emerse dalla ricerca c'è il comportamento adottato dal mondo del lavoro all'indomani del divieto di fumo. Ebbene, il 50% ha divulgato il provvedimento grazie ad appositi cartelli. Un altro 24% ha informato i dipendenti della nomina di un responsabile incaricato di far rispettare la legge. Mentre il 9,5% ha subito predisposto locali per fumatori il cui costo medio oscillerebbe fra i 5 mila e 10 mila euro.
Resta quindi un 5% che non ha fatto nulla e un 1% dove si continua a fumare allegramente. Questi ultimi, però, rischiano parecchio. E non si tratta solo delle multe (fino a un massimo di 3.300 euro) ma della possibilità di essere portati in tribunale da quei lavoratori che si sentono danneggiati dal fumo passivo.
repubblica.it
tempo "perso" a fumare lontano dalle scrivanie va recuperato
Fumo in ufficio, allarme imprese
"Produttività cala fino al 10,5%"
Il problema nelle aziende dove non sono sono stati previsti spazi
per i fumatori. Ma si arriverà a detrazioni in busta paga?
di GIORGIO LONARDI
MILANO - Fumatori attenti: la pausa sigaretta durante il lavoro potrebbe non essere più "gratis". Quel nuovo rito nato il 10 gennaio in seguito all'approvazione della legge antifumo, quello sciamare fuori dagli uffici per fumarsi una bionda all'aperto in santa pace potrebbe diventare un'abitudine costosa.
Una ricerca su 177 imprese promossa dall'Associazione Direttori Risorse Umane (GIDP/ HRDA) e patrocinata dall'agenzia per il lavoro interinale Randstad, infatti, non lascia dubbi: il fumo pesa sui bilanci aziendali provocando una perdita secca di produttività compresa fra il 6,5% e il 10,5%. Risultato: ci sono le premesse per una detrazione della pausa dalla busta paga. O per un recupero del tempo dedicato al vizio.
L'indagine precisa che il problema coinvolge ben il 75% delle imprese che non ha attrezzato in azienda locali dedicati al fumo. Insomma, la questione è delicata. Anche perché GIDP/HRDA è un network influente che comprende 1.250 imprese con 800 mila addetti. E la ricerca ha messo in luce il "costo", finora sottovalutato, del fumo.
"Visto che un fumatore "medio" nell'arco delle 9 ore di servizio consuma almeno 5 sigarette", spiega Paolo Citterio, presidente dell'Associazione Direttori Risorse Umane, "ed ipotizzando circa 10 minuti per volta per la sosta abbiamo un risultato piuttosto pesante: le imprese stanno sopportando un onere che va da mezzora a 50 minuti al giorno, quindi una riduzione della produttività che va dal 6,5% al 10,5%".
Secondo Citterio, dunque, è inevitabile che le aziende prendano provvedimenti. Dice: "Visti i costi della nostra manodopera non è ipotizzabile che il fenomeno della pausa-sigaretta possa continuare. Soprattutto se si tratta di imprese con lavorazioni altamente specializzate dove il costo del lavoro incide molto sul prodotto finito". Oggi infatti il 92% delle aziende che non hanno installato locali per fumatori considera la pausa-sigaretta come normale orario di lavoro. Mentre appena il 3% sta valutando se trattenere o meno dalla busta paga il tempo passato a fumare. E nessuna delle società intervistate farà recuperare il tempo dedicato alle bionde.
Insomma, nonostante le preoccupazioni dell'Associazione Direttori Risorse Umane sembra che manager e imprese non siano coscienti della situazione. Circa l'80% delle aziende, ad esempio, non appare preoccupato per il calo di produttività dei propri dipendenti. "Si tratta di imprese", commenta Citterio, "dove la maggioranza del personale è costituita da impiegati, quadri e dirigenti e dove il recupero del tempo perso per il fumo può essere gestito nel modo migliore, con un alto grado di flessibilità".
In effetti questa considerazione schiude la porta ad alcune osservazioni polemiche. Da una parte, infatti, troviamo i lavoratori impegnati nelle mansioni più umili (operai e impiegati) per i quali il vizio ha un "costo" immediatamente misurabile sul piano della prestazione lavorativa.
Sono loro dunque, quelli che dovranno pagare la riduzione della produttività. Mentre dall'altra i dirigenti, i quadri e i "creativi" possono essere esentati dal prezzo del fumo. Intanto perché si presume che potranno recuperare successivamente il tempo perso, magari anche lavorando più del necessario. E poi, forse, perché alcuni capi azienda, anch'essi fumatori incalliti, sono convinti che dopo una sigaretta ci si concentri di più.
Fra le curiosità emerse dalla ricerca c'è il comportamento adottato dal mondo del lavoro all'indomani del divieto di fumo. Ebbene, il 50% ha divulgato il provvedimento grazie ad appositi cartelli. Un altro 24% ha informato i dipendenti della nomina di un responsabile incaricato di far rispettare la legge. Mentre il 9,5% ha subito predisposto locali per fumatori il cui costo medio oscillerebbe fra i 5 mila e 10 mila euro.
Resta quindi un 5% che non ha fatto nulla e un 1% dove si continua a fumare allegramente. Questi ultimi, però, rischiano parecchio. E non si tratta solo delle multe (fino a un massimo di 3.300 euro) ma della possibilità di essere portati in tribunale da quei lavoratori che si sentono danneggiati dal fumo passivo.
repubblica.it
L'ultimo evento
CARLO FRECCERO
Giovanni Paolo II conosce con i suoi funerali un trionfo mediatico che non ha precedenti. Queste esequie sono un evento. Sono presenti i capi di stato attuali e storici di tutto il mondo. La folla affluisce da ogni parte ed è incontenibile, commossa, conscia di partecipare a un evento storico. Tra le grandi cerimonie dei media, questa è la cerimonia per eccellenza. L'eccezionale successo di questo evento è legato a una serie di congiunture favorevoli: la figura del papa incarna oggi lo spirito del tempo. Il bisogno di religiosità è palpabile. La gente è affamata di cerimonie che consolidano il reciproco legame di appartenenza e connessione. Partecipare a una cerimonia storica, essere parte attiva di una maggioranza, essere inquadrato da una telecamera come un punto in mezzo a centinaia di migliaia di punti sembra oggi un obiettivo sufficiente a dare un senso alla vita. Si dirà: il papa è il papa. Ma non basta.
Nessun papa storico, e tutti i papa hanno fatto la storia, ha incarnato così profondamente gli umori della folla. Le spoglie di Pio IX, storico papa del Risorgimento italiano, vennero assalite dagli anticlericali al grido «al fiume il papa porco». E anche il pontefice più popolare Giovanni XXIII non ebbe per le sue esequie un così massiccio, irrazionale e divistico assalto di pubblico, perché tutto il suo pontificato era stato svolto sulle corde della carità, dell'impegno terreno e dell'aiuto reciproco tra gli uomini. Il pontificato di Giovanni Paolo II si è sviluppato invece all'insegna della comunicazione. Per questo l'ultimo papa incarna lo spirito del tempo. Conservatore a livello ideologico non ha concesso nulla alle spinte di rinnovamento interne alla chiesa che gli chiedevano di completare l'opera del concilio vaticano II. Ha riportato la chiesa a una classicità, una solennità, una tradizione che fanno parte oggi del comune sentire.
Anche a livello politico il pensiero dominante è oggi di destra, conservatore e impregnato di valori tradizionali: dio, patria, famiglia. Però è una conservazione non passiva, ma militante. I teocon teorizzano la guerra per diffondere la democrazia. Il papa è stato pacifista, ma ha combattuto il comunismo e ha contribuito al suo crollo. E lo ha fatto non con le armi tradizionali, ma con le armi della comunicazione. Tutto il suo pontificato è stato un viaggio. Tutto il suo pontificato è stato ricerca e creazione di eventi. Come il giubileo, che rispetto al Concilio Vaticano II non ha portato un rinnovamento di idee o principi, ma una esibizione vistosa della liturgia. In questo il papa è stato contemporaneo. La generazione del `68 - e con essa la chiesa del tempo - è stata intellettualmente anticonformista e ha teorizzato una rivoluzione che faceva appello alla ragione ed insieme alle sue possibilità pratiche: i filosofi si erano limitati a interpretare il mondo, bisognava cambiarlo. La carità è stata per la chiesa lo strumento e il concetto cristiano che giustificava un intervento attivo rispetto alle ingiustizie sociali. In questo senso la chiesa ha ridimensionato la sua trascendenza per impegnarsi nel sociale nell'al di qua piuttosto che nell'al di là. Ma si trattava di una rivoluzione concettuale, libresca, improntata a una sobrietà aniconica, poco fotogenica. Con Wojtyla ritorna la liturgia.
Lo spirito del tempo è conservatore e visionario. Chiede emozioni e immagini, e la chiesa tradizionale è più fotogenica e solenne dei preti operai. Esiste una spiritualità che non si esprime per concetti, ma per sensazioni: il canto gregoriano, l'incenso, le folle, il latino incomprensibile come il corano recitato meccanicamente a memoria ma egualmente solenne. Cerimonie storiche sono state le nozze e i funerali di Diana. Ma anche la monarchia è più sobria e meno sacrale e solenne della chiesa e della sua liturgia. A questo si aggiunge il bisogno di aggregazione della nostra epoca. Conformismo e maggioranza sono state a lungo disvalori. Oggi il bisogno di aggregazione, di integrazione, prevale sul bisogno di distinzione. Nessuno ricerca più l'esclusività, la differenza, l'originalità. L'imperativo è partecipare, essere accettati, connessi, presenti. Viviamo oggi una adolescenza collettiva in cui il bisogno di appartenenza al gruppo prevale sulla ricerca della propria identità. Appartenere alla maggioranza, fare maggioranza, non passivamente, ma attivamente è il desiderio di tutti. Per questo come per i pellegrinaggi dell'anno mille, una immensa folla si è riversata sul sagrato di san Pietro. E' una folla di fedeli, ma anche di agnostici che capisce che un frammento di storia si celebra oggi e che è importante essere presenti. Ore di coda sono sopportabili per poter fissare sul telefonino l'immagine del papa. Quell'immagine significa: «io c'ero». A quella folla in jeans attaccata al telefonino, compatta ed eternamente connessa, la chiesa conferisce forma e significato. E' la liturgia che attribuisce a questa massa informe un contenuto religioso, una convinzione. La maggioranza, la folla, scopre di avere un senso, di essere venuta per una idea e uno scopo e le guance di tutti si rigano di lacrime.
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/09-Aprile-2005/art5.html
Giovanni Paolo II conosce con i suoi funerali un trionfo mediatico che non ha precedenti. Queste esequie sono un evento. Sono presenti i capi di stato attuali e storici di tutto il mondo. La folla affluisce da ogni parte ed è incontenibile, commossa, conscia di partecipare a un evento storico. Tra le grandi cerimonie dei media, questa è la cerimonia per eccellenza. L'eccezionale successo di questo evento è legato a una serie di congiunture favorevoli: la figura del papa incarna oggi lo spirito del tempo. Il bisogno di religiosità è palpabile. La gente è affamata di cerimonie che consolidano il reciproco legame di appartenenza e connessione. Partecipare a una cerimonia storica, essere parte attiva di una maggioranza, essere inquadrato da una telecamera come un punto in mezzo a centinaia di migliaia di punti sembra oggi un obiettivo sufficiente a dare un senso alla vita. Si dirà: il papa è il papa. Ma non basta.
Nessun papa storico, e tutti i papa hanno fatto la storia, ha incarnato così profondamente gli umori della folla. Le spoglie di Pio IX, storico papa del Risorgimento italiano, vennero assalite dagli anticlericali al grido «al fiume il papa porco». E anche il pontefice più popolare Giovanni XXIII non ebbe per le sue esequie un così massiccio, irrazionale e divistico assalto di pubblico, perché tutto il suo pontificato era stato svolto sulle corde della carità, dell'impegno terreno e dell'aiuto reciproco tra gli uomini. Il pontificato di Giovanni Paolo II si è sviluppato invece all'insegna della comunicazione. Per questo l'ultimo papa incarna lo spirito del tempo. Conservatore a livello ideologico non ha concesso nulla alle spinte di rinnovamento interne alla chiesa che gli chiedevano di completare l'opera del concilio vaticano II. Ha riportato la chiesa a una classicità, una solennità, una tradizione che fanno parte oggi del comune sentire.
Anche a livello politico il pensiero dominante è oggi di destra, conservatore e impregnato di valori tradizionali: dio, patria, famiglia. Però è una conservazione non passiva, ma militante. I teocon teorizzano la guerra per diffondere la democrazia. Il papa è stato pacifista, ma ha combattuto il comunismo e ha contribuito al suo crollo. E lo ha fatto non con le armi tradizionali, ma con le armi della comunicazione. Tutto il suo pontificato è stato un viaggio. Tutto il suo pontificato è stato ricerca e creazione di eventi. Come il giubileo, che rispetto al Concilio Vaticano II non ha portato un rinnovamento di idee o principi, ma una esibizione vistosa della liturgia. In questo il papa è stato contemporaneo. La generazione del `68 - e con essa la chiesa del tempo - è stata intellettualmente anticonformista e ha teorizzato una rivoluzione che faceva appello alla ragione ed insieme alle sue possibilità pratiche: i filosofi si erano limitati a interpretare il mondo, bisognava cambiarlo. La carità è stata per la chiesa lo strumento e il concetto cristiano che giustificava un intervento attivo rispetto alle ingiustizie sociali. In questo senso la chiesa ha ridimensionato la sua trascendenza per impegnarsi nel sociale nell'al di qua piuttosto che nell'al di là. Ma si trattava di una rivoluzione concettuale, libresca, improntata a una sobrietà aniconica, poco fotogenica. Con Wojtyla ritorna la liturgia.
Lo spirito del tempo è conservatore e visionario. Chiede emozioni e immagini, e la chiesa tradizionale è più fotogenica e solenne dei preti operai. Esiste una spiritualità che non si esprime per concetti, ma per sensazioni: il canto gregoriano, l'incenso, le folle, il latino incomprensibile come il corano recitato meccanicamente a memoria ma egualmente solenne. Cerimonie storiche sono state le nozze e i funerali di Diana. Ma anche la monarchia è più sobria e meno sacrale e solenne della chiesa e della sua liturgia. A questo si aggiunge il bisogno di aggregazione della nostra epoca. Conformismo e maggioranza sono state a lungo disvalori. Oggi il bisogno di aggregazione, di integrazione, prevale sul bisogno di distinzione. Nessuno ricerca più l'esclusività, la differenza, l'originalità. L'imperativo è partecipare, essere accettati, connessi, presenti. Viviamo oggi una adolescenza collettiva in cui il bisogno di appartenenza al gruppo prevale sulla ricerca della propria identità. Appartenere alla maggioranza, fare maggioranza, non passivamente, ma attivamente è il desiderio di tutti. Per questo come per i pellegrinaggi dell'anno mille, una immensa folla si è riversata sul sagrato di san Pietro. E' una folla di fedeli, ma anche di agnostici che capisce che un frammento di storia si celebra oggi e che è importante essere presenti. Ore di coda sono sopportabili per poter fissare sul telefonino l'immagine del papa. Quell'immagine significa: «io c'ero». A quella folla in jeans attaccata al telefonino, compatta ed eternamente connessa, la chiesa conferisce forma e significato. E' la liturgia che attribuisce a questa massa informe un contenuto religioso, una convinzione. La maggioranza, la folla, scopre di avere un senso, di essere venuta per una idea e uno scopo e le guance di tutti si rigano di lacrime.
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/09-Aprile-2005/art5.html
9.4.05
AIE: buono il quadro dell'online italiano
08-04-2005
L'83% di chi possiede un computer naviga su internet, e il 49% sarebbe disposto a pagare per accedere ai siti di informazione
Il 43% della popolazione italiana, e l'83% di chi possiede un pc, naviga su internet. In totale sono 21 milioni gli italiani online secondo le stime dell'ISPO. Di questi, l'85% ha visitato negli ultimi sei mesi almeno un sito di informazione, e il 49% sarebbe disposto a pagare per avere accesso o per avere una maggiore velocità di servizio, maggiore ricchezza di contenuti o per ricevere aggiornamenti.
Un quadro decisamente interessante che conferma come il settore online, in un quadro economico non certo positivo, stia dando segnali importanti. Questi sono i dati del Rapporto 2004 dell'Osservatorio AIE (associazione italiana editori) sull'editoria digitale. Il Rapporto prende in esame con due indagini il rapporto tra gli italiani e la tecnologia: sia come consumatori di contenuti digitali (la parte curata dall'ISPO), sia come utilizzo di tecnologie nella scuola (indagine realizzata dall'Istituto IARD).
Già si è detto che il mercato dei contenuti digitali è in crescita e ha ottime prospettive per il futuro. Ora i dati del Rapporto AIE indicano che il servizio deve diventare un valore. Forse è una frase un po' vuota, ma è un fatto che il 17% degli intervistati quando deve scegliere un canale per accedere a un qualsiasi tipo di contenuto digitale cita prevalentemente le tecnologie, come internet o il telefono cellulare. In prevalenza sono giovani (24%) e studenti (26%) gli utenti di internet più assidui, per lavoro o per svago. L'approccio cosiddetto 'tradizionale', invece, interessa il 47% della popolazione. Soltanto il 23% mischia i due approcci.
Sempre leggendo i dati della parte del Rapporto AIE curata da ISPO, emerge che dal 2002 si è triplicato il numero di accede ai contenuti editoriali e informativi attraverso il telefonino: dal 10% della popolazione e il 14% di chi possiede un cellulare si è passati al 25% della popolazione e al 33% di chi ha un telefonino. Per quanto riguarda Internet, nel 30% dei casi serve per raccogliere informazioni, nel 23% per avere materiali di supporto allo studio o per scaricare musica, e solo nel 17% per leggere articoli.
http://www.cwi.it/showPage.php?template=articoli&id=12797
____________________________________________
Gli italiani si dividono tra analfabeti informatici e interessati alle possibilità della rete. Solo il 9%, secondo il Rapporto 2005 dell'Osservatorio Aie, dichiara di non connettersi mai. Secondo gli insegnati, i linguaggi dei computer favoriscono l'apprendimento degli studenti.
Italiani sempre più appassionati al mondo di internet e sempre meno interessati ad adoperare il pc come elaboratore: il 46% della popolazione utilizza il computer per collegarsi alla rete, mentre solo il 9% di chi lo usa dice di non accedere mai a internet. I dati emergono dal Rapporto 2005 dell'Osservatorio Aie (Associazione italiana editori) sull'editoria digitale che sarà presentato a Milano il 12 aprile alle 10,30 a Palazzo Turati.
Quasi un italiano su due ricorre alle informazioni del web, ma resta alta la percentuale degli analfabeti informatici, pari al 45% del campione intervistato nell'ambito dell'indagine condotta dall'Ispo (Istituto per gli studi sulla pubblica opinione) e contenuta nel rapporto. La popolazione italiana, quindi, sarebbe divisa: da un lato coloro che non hanno ancora le competenze tecniche e i mezzi per utilizzare ne' il pc, ne' internet, dall'altro chi usa il computer e lo fa in maniera sempre più diversificata.
Il ricorso alla rete, comunque, si va diffondendo sempre di più anche nel settore scolastico. Secondo l'indagine dell'Istituto Iard, anch'essa contenuta nel rapporto dell'Aie, gli insegnanti che impiegano le nuove tecnologie per favorire l'apprendimento sottolineano come siano molteplici i vantaggi derivanti dal ricorso ai codici di internet. Il linguaggio della rete, infatti, è più vicino a quello degli studenti, i contenuti sono più stimolanti, mentre la flessibilità stessa del mezzo permette anche la realizzazione di percorsi di studio personalizzati da classe a classe.
http://www.panorama.it/internet/meglioweb/articolo/ix1-A020001030176
L'83% di chi possiede un computer naviga su internet, e il 49% sarebbe disposto a pagare per accedere ai siti di informazione
Il 43% della popolazione italiana, e l'83% di chi possiede un pc, naviga su internet. In totale sono 21 milioni gli italiani online secondo le stime dell'ISPO. Di questi, l'85% ha visitato negli ultimi sei mesi almeno un sito di informazione, e il 49% sarebbe disposto a pagare per avere accesso o per avere una maggiore velocità di servizio, maggiore ricchezza di contenuti o per ricevere aggiornamenti.
Un quadro decisamente interessante che conferma come il settore online, in un quadro economico non certo positivo, stia dando segnali importanti. Questi sono i dati del Rapporto 2004 dell'Osservatorio AIE (associazione italiana editori) sull'editoria digitale. Il Rapporto prende in esame con due indagini il rapporto tra gli italiani e la tecnologia: sia come consumatori di contenuti digitali (la parte curata dall'ISPO), sia come utilizzo di tecnologie nella scuola (indagine realizzata dall'Istituto IARD).
Già si è detto che il mercato dei contenuti digitali è in crescita e ha ottime prospettive per il futuro. Ora i dati del Rapporto AIE indicano che il servizio deve diventare un valore. Forse è una frase un po' vuota, ma è un fatto che il 17% degli intervistati quando deve scegliere un canale per accedere a un qualsiasi tipo di contenuto digitale cita prevalentemente le tecnologie, come internet o il telefono cellulare. In prevalenza sono giovani (24%) e studenti (26%) gli utenti di internet più assidui, per lavoro o per svago. L'approccio cosiddetto 'tradizionale', invece, interessa il 47% della popolazione. Soltanto il 23% mischia i due approcci.
Sempre leggendo i dati della parte del Rapporto AIE curata da ISPO, emerge che dal 2002 si è triplicato il numero di accede ai contenuti editoriali e informativi attraverso il telefonino: dal 10% della popolazione e il 14% di chi possiede un cellulare si è passati al 25% della popolazione e al 33% di chi ha un telefonino. Per quanto riguarda Internet, nel 30% dei casi serve per raccogliere informazioni, nel 23% per avere materiali di supporto allo studio o per scaricare musica, e solo nel 17% per leggere articoli.
http://www.cwi.it/showPage.php?template=articoli&id=12797
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Gli italiani si dividono tra analfabeti informatici e interessati alle possibilità della rete. Solo il 9%, secondo il Rapporto 2005 dell'Osservatorio Aie, dichiara di non connettersi mai. Secondo gli insegnati, i linguaggi dei computer favoriscono l'apprendimento degli studenti.
Italiani sempre più appassionati al mondo di internet e sempre meno interessati ad adoperare il pc come elaboratore: il 46% della popolazione utilizza il computer per collegarsi alla rete, mentre solo il 9% di chi lo usa dice di non accedere mai a internet. I dati emergono dal Rapporto 2005 dell'Osservatorio Aie (Associazione italiana editori) sull'editoria digitale che sarà presentato a Milano il 12 aprile alle 10,30 a Palazzo Turati.
Quasi un italiano su due ricorre alle informazioni del web, ma resta alta la percentuale degli analfabeti informatici, pari al 45% del campione intervistato nell'ambito dell'indagine condotta dall'Ispo (Istituto per gli studi sulla pubblica opinione) e contenuta nel rapporto. La popolazione italiana, quindi, sarebbe divisa: da un lato coloro che non hanno ancora le competenze tecniche e i mezzi per utilizzare ne' il pc, ne' internet, dall'altro chi usa il computer e lo fa in maniera sempre più diversificata.
Il ricorso alla rete, comunque, si va diffondendo sempre di più anche nel settore scolastico. Secondo l'indagine dell'Istituto Iard, anch'essa contenuta nel rapporto dell'Aie, gli insegnanti che impiegano le nuove tecnologie per favorire l'apprendimento sottolineano come siano molteplici i vantaggi derivanti dal ricorso ai codici di internet. Il linguaggio della rete, infatti, è più vicino a quello degli studenti, i contenuti sono più stimolanti, mentre la flessibilità stessa del mezzo permette anche la realizzazione di percorsi di studio personalizzati da classe a classe.
http://www.panorama.it/internet/meglioweb/articolo/ix1-A020001030176
«L’acqua? Due litri all’ora per curarsi»
Primo studio scientifico: così la minerale ha gli effetti di una medicina
La ricerca sul valore terapeutico condotta dall'università di Siena e da quella della Calabria pubblicata negli Stati Uniti
L’acqua termale, a basso contenuto di sali, può essere un farmaco. La posologia: 25 millilitri per chilo di peso da bere nel giro di un’ora. In pratica: un litro e mezzo in un’ora per una persona di 60 chili, due litri per una di 80 chili. Donne e uomini, bambini e adulti è uguale. L’effetto: l’azione di uno «tsunami» interno, organico, che porta via tossine e renella. Difende da calcoli e infezioni urinarie, purifica l’organismo, mantiene giovani. La prima dimostrazione scientifica delle proprietà terapeutiche delle acque minerali è italiana. La firmano ricercatori senesi e dell’università della Calabria e la pubblica una rivista medica americana ( International journal of artificial organs ) nel numero di aprile. L’effetto dimostrato è appunto quello di uno «tsunami»: così titola l’editoriale di Claudio Ronco, nefrologo dell’ospedale San Bortolo di Vicenza, che commenta il lavoro. Ed è sintomatico che sia proprio una rivista americana a pubblicare la ricerca. La medicina statunitense è stata sempre scettica sulla validità terapeutica delle acque: «Senza prove scientifiche l’acqua resta acqua».
RE SALOMONE -Eppure gli antichi popoli della Terra hanno sempre creduto nei poteri terapeutici di certe fonti. Basterebbe citare le terme degli antichi romani, ma è anche noto che il re Salomone, il medico saggio, era convinto che alcune sorgenti celassero lo «spirito della fonte» e nei suoi lunghi viaggi esplorativi inviava avanti personale specializzato per individuare le fonti benedette. Molti popoli africani si avvalgono da sempre di acque dalle proprietà taumaturgiche. Papi e cardinali usufruivano di località termali sia per purificare il corpo sia per fanghi e bagni terapeutici. Michelangelo, durante i lavori nella cappella Sistina, curava così i calcoli renali. Finora, però, non vi erano mai state dimostrazioni scientifiche dei meccanismi d’azione dell’acqua bevuta. Dimostrazione riuscita a Nicola Di Paolo, il nefrologo senese che ha guidato lo studio. Un ricercatore non nuovo a scoperte ad effetto: come quella del fungo causa della «Maledizione dei faraoni» (Richard Newbury in un articolo dell’agosto 2004 sul Corriere della Sera conferma che grazie a Di Paolo oggi gli archeologi entrano nelle tombe con maschere protettive e tute). «E’ noto a tutti - spiega il ricercatore senese - che bere acqua in quantità adeguata, meglio ancora in ambiente termale, può essere molto utile nel prevenire o curare la recidiva di calcolosi e di infezione delle vie urinarie. Nella realtà questa osservazione è stata sempre oggetto di discussioni e di rigidità nel riconoscere tali terapie come indispensabili».
FIUME IN PIENA - L’équipe del reparto di Nefrologia (diretto da Enzo Gaggiotti) del policlinico «Le Scotte» di Siena è partita dall’osservazione di un fiume in piena per impostare un percorso razionale di ricerca. «Se un fiume, o una conduttura, raddoppia la sua portata liquida - dice Di Paolo -, tutti possono osservare quali effetti determina: trasporto di una quantità enorme di sedimenti (il fiume diventa limaccioso), ma anche di pietre, massi, tronchi, e di tutto ciò che incontra nel suo cammino, comprese abitazioni, strade, eccetera. Quindi la forza di trasporto aumenta di molto se raddoppia la portata liquida. Grandi scienziati fra i quali Hopkins e Einstein Jr furono colpiti dal fenomeno e lo studiarono. Ancora oggi la legge postulata da Hopkins e convalidata da Einstein è universalmente accettata: se la portata liquida di un fiume raddoppia, la portata solida aumenta di 64 volte».
MODELLI DI STUDIO - Di Paolo ha creato in laboratorio un modello delle vie urinarie per capire se anche negli esseri viventi la forza di trasporto dell’acqua si comporta come nei fiumi e nelle condotte. E ha chiesto ad uno scienziato esperto in meccanica fluviale (Francesco Calmino, dell’università della Calabria) un modello matematico adattabile all’uomo. I risultati? Nell’uomo sano il carico idrico di 25ml/kg di peso in un’ora aumenta di 46 volte la forza di trasporto dando notevoli probabilità di espulsione di renella, piccoli calcoli e aggregati batterici. «Il che è esattamente quanto avviene in ambiente termale», conclude Di Paolo. «Gli antichi romani e lo stesso Leonardo da Vinci avevano ragione ritenendo efficace l’acqua termale», commenta il direttore della rivista americana. La cura dell’acqua è però controindicata per chi soffre di malattie (cardiopatie) nelle quali può essere problematica l’ingestione di notevoli quantità di liquidi in tempi brevi.
Mario Pappagallo
corriere.it
La ricerca sul valore terapeutico condotta dall'università di Siena e da quella della Calabria pubblicata negli Stati Uniti
L’acqua termale, a basso contenuto di sali, può essere un farmaco. La posologia: 25 millilitri per chilo di peso da bere nel giro di un’ora. In pratica: un litro e mezzo in un’ora per una persona di 60 chili, due litri per una di 80 chili. Donne e uomini, bambini e adulti è uguale. L’effetto: l’azione di uno «tsunami» interno, organico, che porta via tossine e renella. Difende da calcoli e infezioni urinarie, purifica l’organismo, mantiene giovani. La prima dimostrazione scientifica delle proprietà terapeutiche delle acque minerali è italiana. La firmano ricercatori senesi e dell’università della Calabria e la pubblica una rivista medica americana ( International journal of artificial organs ) nel numero di aprile. L’effetto dimostrato è appunto quello di uno «tsunami»: così titola l’editoriale di Claudio Ronco, nefrologo dell’ospedale San Bortolo di Vicenza, che commenta il lavoro. Ed è sintomatico che sia proprio una rivista americana a pubblicare la ricerca. La medicina statunitense è stata sempre scettica sulla validità terapeutica delle acque: «Senza prove scientifiche l’acqua resta acqua».
RE SALOMONE -Eppure gli antichi popoli della Terra hanno sempre creduto nei poteri terapeutici di certe fonti. Basterebbe citare le terme degli antichi romani, ma è anche noto che il re Salomone, il medico saggio, era convinto che alcune sorgenti celassero lo «spirito della fonte» e nei suoi lunghi viaggi esplorativi inviava avanti personale specializzato per individuare le fonti benedette. Molti popoli africani si avvalgono da sempre di acque dalle proprietà taumaturgiche. Papi e cardinali usufruivano di località termali sia per purificare il corpo sia per fanghi e bagni terapeutici. Michelangelo, durante i lavori nella cappella Sistina, curava così i calcoli renali. Finora, però, non vi erano mai state dimostrazioni scientifiche dei meccanismi d’azione dell’acqua bevuta. Dimostrazione riuscita a Nicola Di Paolo, il nefrologo senese che ha guidato lo studio. Un ricercatore non nuovo a scoperte ad effetto: come quella del fungo causa della «Maledizione dei faraoni» (Richard Newbury in un articolo dell’agosto 2004 sul Corriere della Sera conferma che grazie a Di Paolo oggi gli archeologi entrano nelle tombe con maschere protettive e tute). «E’ noto a tutti - spiega il ricercatore senese - che bere acqua in quantità adeguata, meglio ancora in ambiente termale, può essere molto utile nel prevenire o curare la recidiva di calcolosi e di infezione delle vie urinarie. Nella realtà questa osservazione è stata sempre oggetto di discussioni e di rigidità nel riconoscere tali terapie come indispensabili».
FIUME IN PIENA - L’équipe del reparto di Nefrologia (diretto da Enzo Gaggiotti) del policlinico «Le Scotte» di Siena è partita dall’osservazione di un fiume in piena per impostare un percorso razionale di ricerca. «Se un fiume, o una conduttura, raddoppia la sua portata liquida - dice Di Paolo -, tutti possono osservare quali effetti determina: trasporto di una quantità enorme di sedimenti (il fiume diventa limaccioso), ma anche di pietre, massi, tronchi, e di tutto ciò che incontra nel suo cammino, comprese abitazioni, strade, eccetera. Quindi la forza di trasporto aumenta di molto se raddoppia la portata liquida. Grandi scienziati fra i quali Hopkins e Einstein Jr furono colpiti dal fenomeno e lo studiarono. Ancora oggi la legge postulata da Hopkins e convalidata da Einstein è universalmente accettata: se la portata liquida di un fiume raddoppia, la portata solida aumenta di 64 volte».
MODELLI DI STUDIO - Di Paolo ha creato in laboratorio un modello delle vie urinarie per capire se anche negli esseri viventi la forza di trasporto dell’acqua si comporta come nei fiumi e nelle condotte. E ha chiesto ad uno scienziato esperto in meccanica fluviale (Francesco Calmino, dell’università della Calabria) un modello matematico adattabile all’uomo. I risultati? Nell’uomo sano il carico idrico di 25ml/kg di peso in un’ora aumenta di 46 volte la forza di trasporto dando notevoli probabilità di espulsione di renella, piccoli calcoli e aggregati batterici. «Il che è esattamente quanto avviene in ambiente termale», conclude Di Paolo. «Gli antichi romani e lo stesso Leonardo da Vinci avevano ragione ritenendo efficace l’acqua termale», commenta il direttore della rivista americana. La cura dell’acqua è però controindicata per chi soffre di malattie (cardiopatie) nelle quali può essere problematica l’ingestione di notevoli quantità di liquidi in tempi brevi.
Mario Pappagallo
corriere.it
5.4.05
Attenti a Internet "Ci cambia dentro"
La Rete è diventato un temibile persuasore occulto. Che modifica i nostri comportamenti e i nostri pensieri. Perfino più potente della tv. La denuncia di B. J. Fogg, psicologo del Web
di Francesca Tarissi
I computer e la tecnologia in generale possono cambiare i nostri comportamenti e influenzarci in modo occulto? Possono, ad esempio, spingerci a fare acquisti insensati, modificare le nostre convinzioni politiche e indurci a compiere delle azioni che non faremmo altrimenti? Secondo B. J. Fogg, psicologo sperimentale e direttore del Persuasive Technology Lab presso l'Università di Stanford, assolutamente sì. Quarantun'anni di età, 12 dei quali passati a sondare pionieristicamente un nuovo ambito d'indagine e studi, da lui stesso poi definito "captologia" (gioco di parole che contiene l'acronimo di Computers as Persuasive Technologies), Fogg è il primo ad avere delineato un modello di manipolazione delle idee e delle menti che trova su Internet e nei videogame il mezzo più rapido ed efficace per raggiungere le persone in tutto il mondo. Con un libro intitolato "Tecnologia della persuasione" (in uscita in Italia a maggio edito da Apogeo) Fogg lancia così un allarme contro le motivazioni occulte che sottendono allo sviluppo della Rete e dalle quali occorre difendersi per non perdere la propria individualità e forse molto di più. "L'espresso" gli ha chiesto da chi e da cosa dobbiamo guardarci nella rivoluzione high tech.
Professor Fogg, che cos'è la captologia?
«La captologia è un campo relativamente nuovo, che guarda al modo in cui i computer e i siti Web, ma anche i cellulari e i videogiochi, possono essere progettati per cambiare le nostre credenze e i nostri comportamenti. In un senso estremo, la captologia studia come le macchine possono controllare gli esseri umani, il modo in cui pensiamo o quello che facciamo. La captologia consiste quindi nel capire come i computer possono influenzare le persone. Qualche volta tutto questo può risultare positivo, per esempio se la Rete promuove uno stile di vita più sano o la tolleranza reciproca, ma qualche volta può essere nocivo, come nel caso di certi videogame che abituano le persone alla violenza o di quei siti Internet che ci convincono ad acquistare oggetti di cui non abbiamo realmente bisogno. A mano a mano che i computer e le tecnologie diventano una componente importante delle nostre vite, volenti o nolenti rischiamo di restarne influenzati».
Nel suo libro lei parla di "persuasive technology", ossia di una tecnologia persuasiva. In che modo un computer può essere convincente?
«Il mio libro delinea ben 43 modi attraverso i quali un computer è in grado di persuaderci. Per esempio, una bambola computerizzata chiamata Baby Think It Over ("ragazza rifletti a fondo", ndr) è riuscita a cambiare il modo in cui centinaia di migliaia di ragazzi e di ragazze pensano alla gravidanza, riducendo di fatto la percentuale delle mamme adolescenti. La Microsoft convince milioni di utenti ad aggiornare il loro software molto più spesso di quanto non sarebbe necessario, con le cosiddette patches. Amazon persuade le persone a comprare cianfrusaglie on line, mediante suggerimenti mirati o l'offerta della spedizione gratuita. E ancora: il sito eBay è stato sviluppato per convincerci a fidarci di sconosciuti nelle transazioni finanziarie; un recente videogioco distribuito dall'esercito americano ha riscosso un grande successo nel reclutamento di nuovi soldati e, forse, il sito Sorryeverybody.com ha convinto qualche navigatore che i cittadini statunitensi sono veramente dispiaciuti della rielezione di George W. Bush... La tecnologia persuasiva si applica molto più di quanto si creda. I sistemi informatici possono cambiare le nostre idee politiche, il nostro credo religioso, il nostro comportamento verso coloro che amiamo, le nostre abitudini o quanto studiamo a scuola. Ovunque la persuasione gioca un ruolo nelle vite di tutti noi, sia che siamo semplici genitori, insegnanti, allenatori o venditori. E i computer e la captologia hanno parte in questo processo. Io credo che potenzialmente oggigiorno qualunque sito Web sia progettato con l'intenzione di modificare in qualche modo le attitudini o il comportamento dei navigatori. Il Web non è una piattaforma per l'informazione, ma una piattaforma per la persuasione. Ci illudiamo se pensiamo alla Rete come a una grande libreria o a un'enorme enciclopedia. è molto più simile a un posto nel quale la gente cerca di venderti idee e prodotti. Quando si usa il Web si dovrebbe pensare alla motivazione che sta dietro ad ogni sito. Se i creatori non avessero una ragione - qualcosa che vogliono da te - allora non si sarebbero dati la pena di creare il sito. Lo scopo di persuasione è la regola, non l'eccezione. Molti non l'hanno ancora capito: ecco perché la persuasione occulta delle nuove tecnologie è perfino più pericolosa di quella televisiva: dei pc non abbiamo ancora imparato a diffidare».
Ma la persuasione che viene dalla Rete è il peggio che può capitarci?
«Non direi. Ancora più problematici del Web possono essere certi videogiochi. Le forze armate americane, per esempio, usano i videogame per motivare e convincere le persone. E ciò accade anche al di fuori degli Stati Uniti. Le organizzazioni chiamano questo tipo di videogiochi "training" e tramite loro promuovono una certa visione del mondo e determinati modelli di comportamento. Cioè propaganda. Questi videogiochi sono un nuovo tipo di armi. E in questo senso stiamo assistendo all'inizio di un'epoca che usa le macchine per forgiare i pensieri e i comportamenti delle persone. Il paese o la compagnia che lo fa meglio ottiene un immenso potere, anche più grande di quello che le armi fisiche possono offrire. Noi tutti dovremmo esserne molto preoccupati».
Quindi esiste una forma di persuasione occulta hi-tech che va ben oltre i confini della Rete.
«Sì, la forma più pericolosa di captologia è quella che viene usata per promuovere la guerra, la violenza e l'odio. è pieno di gente che usa le tecnologie in questo modo. Abbiamo bisogno di creare sistemi alternativi che sostengano l'armonia globale al posto del conflitto. Il mio laboratorio ha aiutato a creare un sistema Internet di questo genere. Il nostro scopo è aiutare i ragazzi di qualunque nazionalità mondo a diventare amici. Noi crediamo che usare Internet per promuovere l'amicizia tra i bambini condurrà nel lungo termine a una maggiore armonia globale. Quando avranno 30 o 40 anni, questi stessi ragazzini non dimenticheranno i loro amici d'infanzia iraniani, coreani, indiani o canadesi. E penseranno e agiranno diversamente dai leader politici d'oggi. Io sono convinto che gli esseri umani sono potenzialmente in grado di convivere in modo pacifico e che se le persone interagiscono tra loro si riduce il rischio di conflitti. Bisogna però utilizzare i computer e Internet per costruire un mondo più armonioso. E' un fine ambizioso, ne sono consapevole. Ma dobbiamo intraprendere un'azione positiva ora. E cercare anche altri con i quali condividere la nostra visione per lavorare congiuntamente. Se ci sono delle organizzazioni in Italia cui piacerebbe promuovere questi obiettivi, si mettano pure in contatto con noi. E se mi chiede perché spendo così tanto tempo e denaro nella captologia per la pace, le rispondo che il motivo è che sono preoccupato della situazione politica mondiale».
In generale come possiamo difenderci dalla persuasione occulta hi-tech?
«Non penso a divieti o a obblighi: le leggi sono anti-libertarie e non funzionano quasi mai. Possiamo solo sperare di educare le persone, in modo che non si lascino ingannare, che imparino a diffidare dei pc. L'educazione è la chiave. Le persone necessitano di capire come i computer possono manipolarli. è l'unica difesa. Quello che mi preoccupa è quanta poca attenzione si presta alle motivazioni di un sito Web. A molti non piace dover pensare e concentrarsi. Siamo degli "avari cognitivi" e spendiamo il meno possibile per ragionare. Il che può creare problemi quando siamo on line e crediamo a cose non vere. Tutto ciò può avere conseguenze per la nostra salute e anche per la nostra cattiva situazione politica».
Lei ha già dei seguaci?
«Durante gli ultimi cinque anni ho trovato molto interesse nella captologia. Anche in Italia. Ricevo moltissime e-mail e richieste dal vostro paese, più che da tutti gli altri. Non so perché, ma è così».
http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=null&m2s=t&idCategory=4801&idContent=893251
di Francesca Tarissi
I computer e la tecnologia in generale possono cambiare i nostri comportamenti e influenzarci in modo occulto? Possono, ad esempio, spingerci a fare acquisti insensati, modificare le nostre convinzioni politiche e indurci a compiere delle azioni che non faremmo altrimenti? Secondo B. J. Fogg, psicologo sperimentale e direttore del Persuasive Technology Lab presso l'Università di Stanford, assolutamente sì. Quarantun'anni di età, 12 dei quali passati a sondare pionieristicamente un nuovo ambito d'indagine e studi, da lui stesso poi definito "captologia" (gioco di parole che contiene l'acronimo di Computers as Persuasive Technologies), Fogg è il primo ad avere delineato un modello di manipolazione delle idee e delle menti che trova su Internet e nei videogame il mezzo più rapido ed efficace per raggiungere le persone in tutto il mondo. Con un libro intitolato "Tecnologia della persuasione" (in uscita in Italia a maggio edito da Apogeo) Fogg lancia così un allarme contro le motivazioni occulte che sottendono allo sviluppo della Rete e dalle quali occorre difendersi per non perdere la propria individualità e forse molto di più. "L'espresso" gli ha chiesto da chi e da cosa dobbiamo guardarci nella rivoluzione high tech.
Professor Fogg, che cos'è la captologia?
«La captologia è un campo relativamente nuovo, che guarda al modo in cui i computer e i siti Web, ma anche i cellulari e i videogiochi, possono essere progettati per cambiare le nostre credenze e i nostri comportamenti. In un senso estremo, la captologia studia come le macchine possono controllare gli esseri umani, il modo in cui pensiamo o quello che facciamo. La captologia consiste quindi nel capire come i computer possono influenzare le persone. Qualche volta tutto questo può risultare positivo, per esempio se la Rete promuove uno stile di vita più sano o la tolleranza reciproca, ma qualche volta può essere nocivo, come nel caso di certi videogame che abituano le persone alla violenza o di quei siti Internet che ci convincono ad acquistare oggetti di cui non abbiamo realmente bisogno. A mano a mano che i computer e le tecnologie diventano una componente importante delle nostre vite, volenti o nolenti rischiamo di restarne influenzati».
Nel suo libro lei parla di "persuasive technology", ossia di una tecnologia persuasiva. In che modo un computer può essere convincente?
«Il mio libro delinea ben 43 modi attraverso i quali un computer è in grado di persuaderci. Per esempio, una bambola computerizzata chiamata Baby Think It Over ("ragazza rifletti a fondo", ndr) è riuscita a cambiare il modo in cui centinaia di migliaia di ragazzi e di ragazze pensano alla gravidanza, riducendo di fatto la percentuale delle mamme adolescenti. La Microsoft convince milioni di utenti ad aggiornare il loro software molto più spesso di quanto non sarebbe necessario, con le cosiddette patches. Amazon persuade le persone a comprare cianfrusaglie on line, mediante suggerimenti mirati o l'offerta della spedizione gratuita. E ancora: il sito eBay è stato sviluppato per convincerci a fidarci di sconosciuti nelle transazioni finanziarie; un recente videogioco distribuito dall'esercito americano ha riscosso un grande successo nel reclutamento di nuovi soldati e, forse, il sito Sorryeverybody.com ha convinto qualche navigatore che i cittadini statunitensi sono veramente dispiaciuti della rielezione di George W. Bush... La tecnologia persuasiva si applica molto più di quanto si creda. I sistemi informatici possono cambiare le nostre idee politiche, il nostro credo religioso, il nostro comportamento verso coloro che amiamo, le nostre abitudini o quanto studiamo a scuola. Ovunque la persuasione gioca un ruolo nelle vite di tutti noi, sia che siamo semplici genitori, insegnanti, allenatori o venditori. E i computer e la captologia hanno parte in questo processo. Io credo che potenzialmente oggigiorno qualunque sito Web sia progettato con l'intenzione di modificare in qualche modo le attitudini o il comportamento dei navigatori. Il Web non è una piattaforma per l'informazione, ma una piattaforma per la persuasione. Ci illudiamo se pensiamo alla Rete come a una grande libreria o a un'enorme enciclopedia. è molto più simile a un posto nel quale la gente cerca di venderti idee e prodotti. Quando si usa il Web si dovrebbe pensare alla motivazione che sta dietro ad ogni sito. Se i creatori non avessero una ragione - qualcosa che vogliono da te - allora non si sarebbero dati la pena di creare il sito. Lo scopo di persuasione è la regola, non l'eccezione. Molti non l'hanno ancora capito: ecco perché la persuasione occulta delle nuove tecnologie è perfino più pericolosa di quella televisiva: dei pc non abbiamo ancora imparato a diffidare».
Ma la persuasione che viene dalla Rete è il peggio che può capitarci?
«Non direi. Ancora più problematici del Web possono essere certi videogiochi. Le forze armate americane, per esempio, usano i videogame per motivare e convincere le persone. E ciò accade anche al di fuori degli Stati Uniti. Le organizzazioni chiamano questo tipo di videogiochi "training" e tramite loro promuovono una certa visione del mondo e determinati modelli di comportamento. Cioè propaganda. Questi videogiochi sono un nuovo tipo di armi. E in questo senso stiamo assistendo all'inizio di un'epoca che usa le macchine per forgiare i pensieri e i comportamenti delle persone. Il paese o la compagnia che lo fa meglio ottiene un immenso potere, anche più grande di quello che le armi fisiche possono offrire. Noi tutti dovremmo esserne molto preoccupati».
Quindi esiste una forma di persuasione occulta hi-tech che va ben oltre i confini della Rete.
«Sì, la forma più pericolosa di captologia è quella che viene usata per promuovere la guerra, la violenza e l'odio. è pieno di gente che usa le tecnologie in questo modo. Abbiamo bisogno di creare sistemi alternativi che sostengano l'armonia globale al posto del conflitto. Il mio laboratorio ha aiutato a creare un sistema Internet di questo genere. Il nostro scopo è aiutare i ragazzi di qualunque nazionalità mondo a diventare amici. Noi crediamo che usare Internet per promuovere l'amicizia tra i bambini condurrà nel lungo termine a una maggiore armonia globale. Quando avranno 30 o 40 anni, questi stessi ragazzini non dimenticheranno i loro amici d'infanzia iraniani, coreani, indiani o canadesi. E penseranno e agiranno diversamente dai leader politici d'oggi. Io sono convinto che gli esseri umani sono potenzialmente in grado di convivere in modo pacifico e che se le persone interagiscono tra loro si riduce il rischio di conflitti. Bisogna però utilizzare i computer e Internet per costruire un mondo più armonioso. E' un fine ambizioso, ne sono consapevole. Ma dobbiamo intraprendere un'azione positiva ora. E cercare anche altri con i quali condividere la nostra visione per lavorare congiuntamente. Se ci sono delle organizzazioni in Italia cui piacerebbe promuovere questi obiettivi, si mettano pure in contatto con noi. E se mi chiede perché spendo così tanto tempo e denaro nella captologia per la pace, le rispondo che il motivo è che sono preoccupato della situazione politica mondiale».
In generale come possiamo difenderci dalla persuasione occulta hi-tech?
«Non penso a divieti o a obblighi: le leggi sono anti-libertarie e non funzionano quasi mai. Possiamo solo sperare di educare le persone, in modo che non si lascino ingannare, che imparino a diffidare dei pc. L'educazione è la chiave. Le persone necessitano di capire come i computer possono manipolarli. è l'unica difesa. Quello che mi preoccupa è quanta poca attenzione si presta alle motivazioni di un sito Web. A molti non piace dover pensare e concentrarsi. Siamo degli "avari cognitivi" e spendiamo il meno possibile per ragionare. Il che può creare problemi quando siamo on line e crediamo a cose non vere. Tutto ciò può avere conseguenze per la nostra salute e anche per la nostra cattiva situazione politica».
Lei ha già dei seguaci?
«Durante gli ultimi cinque anni ho trovato molto interesse nella captologia. Anche in Italia. Ricevo moltissime e-mail e richieste dal vostro paese, più che da tutti gli altri. Non so perché, ma è così».
http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=null&m2s=t&idCategory=4801&idContent=893251
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