7.4.08

Pensiamoci

Rossana Rossanda

A una settimana dal voto, tutto è stato detto dai leader. Dai microfoni su piazza e in tv. Tutto di basso profilo, qualche bugia, qualche furberia ma il quadro è chiaro. È il momento di pensare da soli, elettori maschi e femmine e giovani che avranno la scheda per la prima volta. Non affidiamoci agli umori, quelli che piacciono ai sondaggi. Come è successo al tempo del «Silvio facci sognare», lo slogan più scemo del secolo. Siamo alfabetizzati, abbiamo non solo speranze e delusioni ma comprendonio e memoria.
Gli elementi per valutare a chi dare il voto ci sono tutti, nel presente e nel passato prossimo. Facciamo parlare i dati di fatto. 1. L'ultimo, arrivato fresco fresco dal Fondo Monetario Internazionale è che l'Italia è a crescita zero (0,3). E non è la crescita zero preconizzata dagli ecologisti, cioè una selezione degli investimenti che protegga e risani l'ambiente. È crescita zero nell'insieme caotico dell'attuale modello, crescita zero nell'occupazione, crescita zero del potere d'acquisto. Sarebbe utile che si incazzassero i candidati premier di fronte alle loro trovate, tipo: con me, mille euro mensili a ogni precario. Ottimo. Chi li paga? L'azienda che lo ha assunto per dodici giorni al mese? Gli intermediari, Adecco o Manpower? La cooperativa fasulla che lo costringe a essere socio-lavoratore o niente? Lo stato? E da dove fa entrare i soldi? Visto che nessuno propone di accrescere le tasse. Eppure si dovrebbe almeno redistribuirne i carichi, toglierli ai ceti più deboli, aggravare quelli più forti, bastonare un po' le operazioni finanziare - ma tutti sono contro. E poi la Banca centrale europea di una sola cosa ha paura - che il potere di acquisto aumenti e si riaffacci l'inflazione... chi mangia poco continui a digiunare, per favore.

Nell'ultima settimana si sono ventilati ottocento o mille euro minimi di pensione al mese. Sette anni fa Berlusconi ne aveva promessi mille. Poi s'è visto che ne avevano diritto solo quelli in tardissima età e condizioni più disastrate. L'estate scorsa tutti salvo l'abominevole «sinistra radicale» hanno strillato che l'Inps era in deficit, e sulla parola di Epifani i pensionati hanno votato in massa come se fosse vero. E intanto né Berlusconi né Veltroni né Casini accennano a mettere un tetto alle pensioni superiori a una certa cifra - tipo Banca d'Italia e altre. Forse redistribuire non basta, ma sarebbe una misura di decenza.
2. La recessione è in arrivo. Già imperversa sugli Usa, la Fed riduce i tassi, tutti sono preoccupati salvo Repubblica, quotidiano di Veltroni, che ha pescato a Cernobbio quattro persone (per la verità tre e mezzo, Spaventa è più cauto) disposte all'ottimismo. Sta arrivando in Europa e che significherà per l'Italia? Berlusconi, in un sussulto di sincerità, ha promesso lacrime e sangue - a tutti, meno ai ricchi cui ridurrà le tasse. Ma che significa l'arrivo d'una recessione su un paese che è già a crescita 0,3? In un'Europa a crescita 1,3 se va bene?
Fra poco nessuno sarà in grado di pagare quel che importa e di farsi pagare quel che esporta. Per quale altro motivo la Cina sostiene il dollaro? In questo quadro l'occupazione - che per salire avrebbe bisogno almeno d'una crescita del Pil attorno al 3% (dieci volte di più dell'attuale in Italia) - non crescerà. Già gli occupati dichiarati dalle statistiche erano per almeno un quarto fasulli, mezzi-posti o quarti di posto del precariato, forma di disoccupazione travestita. Ormai trentenni già diplomati, laureati o dottorati, (se non in qualche disciplina scientifica per la quale c'è sbocco fuori dall'Italia) , figurarsi i non diplomati, sono ancora in cerca dell'impiego per il quale hanno studiato, pesano sui genitori, e non pochi si accingono a montare un bar o un'impresina del genere, perlopiù in subappalto, per rendersi indipendenti, sposarsi, fare un figlio. E poi ci si duole che le intelligenze se ne vadano e la natalità resti bassa.
3. Dagli anni '90 tutti i partiti, eccentuata Rifondazione e pochi altri, hanno piegato la testa al vecchio diktat liberista: lo stato non metta il becco in economia. Capitali e lavoratori, vanno lasciati al mercato e al suo occhio invisibile. Ah sì? Oggi l'occhio del mercato ha come minimo la congiuntivite acuta. Se no non saremmo a questo punto (dovrei scrivere «nella merda»). Anche gli europei lo sono, appena un po' meno la Germania perché ha difeso la qualità del prodotto e la Francia perché al mercato sottrae ogni tanto qualcosa. Ma la Commissione Ue strilla subito al protezionismo (sottace soltanto l'uso degli Stati Uniti delle spese militari a mo' di enorme offerta). E infatti il miliardario indiano Mittal s'è mangiato l'acciaio francese, non perciò pagando i lavoratori indiani come in Francia, ma proprio perché li paga quattro volte di meno. Da noi, i liberisti si rallegrano che l'Italia debba lasciare l'Alitalia a Air France-Klm, i sindacati sembrano accorgersi solo ora della gestione sciagurata dell'azienda della quale sono i soli a pagare il prezzo, la destra sanguina per l'«italianità» perduta, Berlusconi tira fuori conigli dal cilindro per far voti, l'insieme fa pena.
Non solo. Lo stato non ha da metter becco nell'economia, ma soldi nelle imprese sulla semplice fiducia che creeranno nuovi posti di lavoro. Così i furbetti prendono i soldi, alzano capannoni e se la filano senza aver assunto nessuno o licenziando subito. Non ci sono controlli. Ma non impossibile a sapersi: ce lo dice Report, cifre, nomi, luoghi, anni - ma anche noi telespettatori siamo strani, non so, non ho visto, se c'ero dormivo. L'Italia ha smesso di avere industria pubblica per dare i quattrini ai privati, che li prendono e scappano.
Quanti? Vorrei saperlo, e anche perché, invece che spendere a destra e a sinistra senza controllo, lo stato non ha a suo tempo raddrizzato Alitalia. Non mi si dica che è colpa dei sindacati che non accettavano 2000 «esuberi». Se Air France la può comprare, come ha già fatto con la compagnia olandese, perché non lo ha fatto la nobile imprenditoria italiana? E magari, ahinoi, lo stato di cui sopra? Alla sottoscritta di una compagna di bandiera non importa niente, dei suoi lavoratori molto. Perché devono subire e pagare per le nefandezze di chi li ha gestiti? Il loro paese li deve difendere, e così i loro sindacati. Ma come possono farlo senza discutere la strategia dell'impresa? Se l'ideologia oggi in voga dice che proprio non si può, perché i leader della destra e del centro non dicono al microfono: «Lavoratori! Cavatevela! Noi sulle scelte delle imprese non siamo in grado di interferire! Né lo vogliamo!». Almeno così l'elettore lo sa. E' vero che potrebbe saperlo lo stesso, siamo nell'epoca della comunicazione totale, e rammentarlo al leader del Pd quando questi gli predica con voce commossa che padroni e dipendenti pari sono e hanno lo stesso identico interesse.
4. Ci dicono che bisogna tagliare la spesa pubblica. Dove? La teoria liberista dice che lo stato deve intervenire solo dove il privato non arriva. Ebbene, si diano ai privati scuole e sanità, e più o meno sottobanco i soldi per gestirseli da aggiungere ai costi che il cittadino deve pagare. Erano diritti? Ebbene, prendiamoli come semplici raccomandazioni. Non che in Italia sia enunciato così chiaro, ma largamente praticato. Due giorni fa il presidente francese Sarkozy ha deciso di «modernizzare» lo stato, cioè ridurne energicamente le spese, ogni due funzionari che se ne vanno, se ne prende uno solo. Peccato che la maggioranza dei funzionari siano nella scuola. Si dimezzino lo stesso. E poi a Lisbona hanno detto e sottoscritto che educazione e formazione sono l'asse della nuova Europa.
Da quel che si capisce, soltanto le spese militari aumenteranno. L'Europa avrebbe finalmente il permesso degli Stati Uniti per fare la sua forza di difesa da aggiungere, si suppone, alle «missioni», parola con cui si nascondono le partecipazioni alle imprese belliche di Bush. Ecco un intervento statale ammesso: servono anche per dare impieghi, contratti detti condizioni di ingaggio, che stanno diventando sempre più strani. Vedi l'ammazzamento di Calipari.
5. Non dimentichiamo la sicurezza. Gli italiani sono buoni ma non amano essere assillati tutti i giorni dall'extracomunitario - pardon anche dal comunitario romeno - appena mettono il naso fuori di casa. Per la sicurezza sono disposti a spendere, gli elettori di nove decimi dell'arco politico, quel che non vogliono più spendere in beni pubblici o in solidiarietà - diciamo che la sicurezza è il solo bene pubblico da privilegiare. E i candidati premier di destra e di centro e democratici non se ne privano. A Milano si fanno i pogrom contro i campi nomadi, e quella illuminata città non fa una piega. Da Roma Veltroni ha ottenuto in 48 ore non solo una calata di polizia contro un insediamento romeno, ma una legge che facilita le espulsioni, e sarebbe peggiore se la sinistra «estremista» non l'avesse parzialmente corretta.
La sicurezza è un tema imbroglione. Perché chi immigra è perlopiù un marginale e quindi malvisto. E come no? Chi viene senza un contratto di lavoro - ma come farebbe ad averlo da fuori, da lontano, senza appoggi perché si muovono i più disgraziati - si deve poter mandar via, perché se non ce la fa si muove sull'orlo della legalità, e magari ne esce, e alimenta la microcriminalità. Di chi sono piene per due terzi le italiche galere? Di immigrati. I quali servono, e come, alle imprese, anche se in nero, per cui il cavaliere ha pensato persino di dargli un voto amministrativo - arretrando subito davanti alla Lega su tutte le furie. L'attuale società afferma di essere per i diritti umani, ma produce marginalità, la sbatte in galera, produce crisi e bisogni crescenti nel resto del mondo e però tenta di bloccare l'immigrazione.
Intanto l'occidente abbassa di anno in anno i già modesti aiuti che davano ai paesi di provenienza.
6. I costi della politica. Ecco un punto che unifica, a quanto sembra, gli italiani: la politica costa troppo, ma soprattutto gli addetti alla politica trovano il modo di compensarsi troppo. Falso? No,vero. Da quando? Dagli anni Settanta in poi, per salari da capogiro da una legislazione all'altra. Meno i politici sono stati apprezzati, più sono stati pagati. Facciamo l'esempio che conosco: il mio. Per essere stata cinque anni deputata (1963-1968) ricevo un vitalizio che oggi è di 2.162 euro netti. Si chiama vitalizio perché non si sommino due pensioni - la mia dell'Inps è 850 euro. Non so come sarei vissuta senza, ma ammetto che se me lo togliessero non oserei aprir bocca. Ma, negli anni Ottanta sono stati in molti a sostenere che se un deputato non veniva pagato bene, si sarebbero candidati solo i miserabili. No, la retribuzione per l'incarico politico, elettivo o no, ha da essere decente ma commisurata al tenore di vita medio del paese, non della sua parte privilegiata. Ma questa verità, che Salvi e Villone avevano scritto per primi, ma nessuno ha ascoltato finché non l'hanno ripetuta quelli del Corriere della Sera - non può servire da grimaldello per cambiare le Costituzione, perché diciamola tutta, quando Veltroni e Berlusconi litigano o si accordano per le riforme delle istituzioni, non intendono solo la legge elettorale né che si tratti di abbassare i costi delle Camere e dei ministeri. Si tratta di andare verso una repubblica presidenziale. Ci sono riforme e riforme: quando si sente la parola, bisogna chiedere: Scusi, precisiamo?
7 e finale. Ecco dunque altri sei punti, oltre quelli trattati finora dal povero gatto del lunedì - su cui ci sono state più oscurità che chiarezze nella campagna elettorale. O qualche chiarezza, se c'è stata, fa paura. Chi legge, ci pensi. Siamo a una svolta della storia italiana, vorrebbe esser la conclusione del 1989. Tabula rasa della sinistra.
Per conto mio, tanto perché sia chiaro, voterò Bertinotti. So bene che la Sinistra Arcobaleno non ha dato tutte le risposte, ne ha date, siamo sinceri, solo alcune. Ma è la sola ad avere posto questi problemi. Ed è per questo che la si vuole cancellare dalla scena politica. Il più accanito sembra il Pd, come succede quando si ha che fare con il proprio passato, che non si riesce a elaborare e si vorrebbe liquidare. Bisogna essere ben obnubilati dalla passione, e forse da una certa angoscia, per accusare Bertinotti di aver «segato» l'albero di Prodi. Come fosse stato lui ad averlo fatto cadere, invece che Mastella, Dini e soci.
Lasciamo andare. Io voto Bertinotti perché voglio che una sinistra seria e non pentita resti su piazza. E perché la Sinistra Arcobaleno intende rielaborare tutto quello di cui sopra, e prima, e altro. Non sarà semplice, non dovranno essere loro soli. Tutti portiamo qualche livido addosso. Ma non siamo morti, né staremo zitti.

ilmanifesto.it

6.4.08

Quanto è cristiana la destra

Barbara Spinelli

Chi ha visto su Internet il film Fitna, che in arabo significa stato di divisione, guerra civile, sarà stato colpito dalla violenza con cui si parla non tanto dei terroristi che pretendono rappresentare Dio ma del Corano e delle sue sure. Ogni attentato corrisponde a una sura, ogni assassinio attinge ai suoi versetti: come se per parlare dei territori palestinesi occupati si mostrassero le pagine bibliche che incitano allo sterminio dei Cananei e dei tanti popoli insediati nella terra promessa. Autore del film è un parlamentare olandese, Geert Wilders, appartenente all’estrema destra. Un partito minoritario, se non fosse che la sua ideologia in Europa è diffusa, per nulla marginale. È ideologia dominante nel Popolo della libertà che aspira a governare l’Italia: nella Lega, ma anche in Alleanza nazionale e Forza Italia. È solida corrente di pensiero in Francia.

E’un’ideologia che ha il potere di tacitare i dissenzienti, intimorire giornali. La sua tesi centrale: questi sono tempi terribili, contrassegnati dal dilagare dei diritti, del permissivismo, della perdita d’autorità e d’identità. Giulio Tremonti nel suo ultimo libro li riassume con due parole, simili a quelle di Oriana Fallaci dopo l’11 settembre: «Al fondo (della difesa dell’identità) c’è qualcosa di molto più intenso che una parodia bigotta della tradizione: è un misto di paura e orgoglio» (La Paura e la Speranza, Mondadori 2008).

Paura del diverso, che ci assedia. Orgoglio di chi si esalta, temprandosi, nelle proprie radici e nello scontro di civiltà. Il film di Wilders infiamma questo scontro come si fa con la brace: soffiandoci sopra. Più scontro c’è, più ritroveremo noi stessi. Avere un nemico fa bene all’anima, fuori casa e dentro.

Il libro di Tremonti è la traduzione delle immagini di Fitna. Il modo di scrivere è analogo: formule brevi, a scatti, a slogan. Non mancano riflessioni importanti sulla globalizzazione ma il nocciolo è lo scontro di civiltà e la solitudine dell’individuo in Stati e società indeboliti. Quel che lo salva è l’identificazione con comunità chiuse, piccole, etnicamente e religiosamente omogenee. Lì sono le radici: immutabili, impermeabili a qualsiasi incrocio-meticciato col diverso. Il valore da opporre al mercatismo globale è l’esclusione: il contrario del messaggio di Gesù, oltre che della storia laica d’Europa.

Quel che dà sicurezza, in chi cerca l’identità con orgoglio e paura, il lettore lo scopre a partire da pagina 77: visto che è nella differenza che si formano comunità unite, visto che l’identità «non è solo ciò che siamo, ma anche differenza da ciò che non siamo», «tutto è chiuso nella coppia dialettica “noi-altri”». «Non vale qui la logica “sia l’uno che l’altro”»: prima veniamo noi con le nostre radici cristiane poi gli altri, con cui non dev’esserci confusione. Un tempo l’avanguardia era la classe, dopo venne la razza, ora ecco l’identità cristiana. Tremonti dice esplicitamente (è un suo merito) che il Noi non serve solo a riempire il «vuoto nell’anima e nel cuore». Serve alla politica per consolidare una «rivendicazione di potere» altrimenti esangue, che non deve temere conflitti con l’Altro.

Anche in questo caso, come nel film olandese, non sono pensieri minoritari. Tremonti s’immagina rivoluzionario controcorrente ma le sue sono idee conformisticamente consensuali, che intimidiscono. Hanno impregnato per anni l’America, e solo Obama le contesta veramente. Intimidiscono a tal punto che ogni pensare diverso viene malinteso, demonizzato. Negli stessi giorni in cui appariva Fitna (27 marzo), negli stessi giorni in cui in Italia si discuteva il libro di Tremonti, in Inghilterra era dramma attorno a un discorso, essenziale, dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams. Il capo della Chiesa anglicana è stato accusato ­ per aver detto che parti della Shariah potrebbero conciliarsi col codice civile ­ di capitolazione verso il nemico, di appeasement. Quel testo conviene leggerlo: non dice affatto le cose che i giornali gli attribuiscono.

È un testo profondo, in cui si difende la laicità (Rowan parla di rule of law, valevole per ciascuno) ma si cercano nuovi orizzonti: a questa laicità, bisogna integrare i fedeli di altre tradizioni, come l’Islam. La shariah non è un sistema di leggi, ma un metodo aspirante al bene che alcuni codificano in modo «primitivista», opprimendo innanzitutto la donna. Non mancano però convergenze, da valorizzare. I diritti nelle società liberali vanno custoditi ma non «attivati per forza»: opporre a essi l’obiezione di coscienza deve essere giuridicamente consentito, anche se tutti, cittadini musulmani compresi, devono potersene avvalere. Esenzioni analoghe già sono concesse per legge agli ebrei ortodossi, o ai cristiani sull’aborto. In fondo, Rowan condivide la distinzione che Gustavo Zagrebelsky fa tra valori e principi. I valori sono un bene finale, imposto dall’alto, senza badare ai mezzi. I principi sono un bene iniziale con cui ci si incammina verso la meta confrontandosi con la realtà. La laicità è un approdo arduo, cui si giunge tramite l’adattamento e la ricerca di punti comuni con l’altro. Per non sciuparla e perderla devi tener conto che ogni persona ha oggi più identità: di fedele e cittadino, di musulmano e italiano, di italiano e europeo. Queste dualità esistono anche nell’Islam, secondo Rowan.

Rowan è stato trattato come un erede di chi cedette a Hitler. Ma chi lo attacca ha una singolare concezione della religione, dell’identità, della laicità; sinistramente somigliante a quella degli integralisti musulmani, che piegano la religione alla politica e a comunitarismi tribali. Non a caso la Chiesa è vista, da Tremonti, come strumento di dominio. Serve a riempir vuoti, non tanto spirituali ma di potere. Serve a escludere (con la formula del Noi e gli Altri) e a creare capri espiatori.

Non tutta la Chiesa si presta a simile strumentalizzazione, lo si è visto nei giorni scorsi a Milano. Di fronte a uno sgombero eccezionalmente brutale di due campi nomadi (via Bovisasca, via Porretta), il cardinale Tettamanzi s’è indignato: ha detto che «la legalità è sacrosanta», ma «qui si sta scendendo abbondantemente sotto i limiti stabiliti dai fondamentali diritti umani». Il rispetto della persona avrebbe imposto «qualche tanica d’acqua, del latte per i più piccoli, un presidio medico, qualche soluzione alternativa»: «C’è da augurarsi che la conquista dell’Expo non diventi il paravento per nascondere o spostare più in là i drammi di questa città».

Questo tipo di Chiesa indispettisce la destra. Ha un «buonismo peloso», protesta Romano La Russa, dirigente An a Milano. Tremonti stesso dice, nel libro: alla «vecchia tradizione puramente caritatevole» bisogna sostituire la «responsabilità verso se stessi, verso la propria famiglia, verso la propria comunità».

La carità ai suoi occhi è come il ‘68, contro cui si erge la destra italiana ed europea. In realtà anche il ‘68 è paravento. Quel che si contesta è il patrimonio conciliare e giovanneo della Chiesa, ed è la tradizione liberale del Saggio sulla Libertà di John Stuart Mill (1859). È Mill e non il ‘68 che teorizza il diritto di parola dato a ciascuno ­ perfino a chi sostiene la poligamia ­ se non si vuol precipitare nella «tirannia del sentimento predominante» e nel «profondo sonno dogmatico indotto da un’opinione definitiva».

Condizione di questo liberalismo è tuttavia non usare la Chiesa. Quando il sindaco Moratti si dichiara «profondamente amareggiata dalle parole del cardinale» (Corriere, 4-4) accampa un ben stravagante diritto: il diritto ad avere un’aspettativa politica verso il proprio vescovo. Tale è l’identità cristiana invocata dalla destra. Non la cura dei poveri, degli ultimi, del diversi. Ma un orgoglio da tener acceso facendo leva sul più orrido dei marchingegni politici: la paura.

lastampa.it

25.3.08

Sotto il martello del capitalismo globale

Vita moderna Le logiche del capitale in «The Beginning of History. Value Struggles and Global Capital», un libro di Massimo De Angelis per Pluto press
Massimiliano Tomba
La letteratura più avveduta considera ormai l'accumulazione originaria non come uno stadio relegabile alla protostoria del modo di produzione capitalistico, ma come basso continuo di tutta la sua storia, anche contemporanea. La questione è da un lato individuare i nuovi modi di accumulazione, dall'altro mostrare come diverse forme di sfruttamento si implicano reciprocamente: su questi due assi si articolano prospettive analitiche e politiche diverse. Confrontandosi con alcune delle più importanti interpretazioni del capitalismo contemporaneo il libro di Massimo De Angelis, The Beginning of History. Value Struggles and Global Capital (London, Pluto 2007) mette in luce come l'accumulazione di capitale sia sempre giocata contro una dimensione esterna, un outside, che non è solo sopravvivenza di aree non capitalistiche, perché viene invece costantemente prodotto dalle lotte di uomini e donne contro la separazione tra mezzi di produzione e condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Contro nuove e vecchie forme di enclosure. Le analisi di De Angelis mettono in discussione gli assunti della concezione postmodernista secondo la quale il capitalismo costituirebbe una sorta di sistema totale, senza più alcun esterno rispetto ad esso. Una concezione che dà luogo a una sorta di olismo del capitale, non diversa dall'immagine della fantasmagoria delineata da Marx nel celebre capitolo del Capitale sul feticismo. De Angelis prende invece le mosse dal capitale come insieme di rapporti di produzione e come rapporto con il suo altro. Con un outside, appunto, che è risultato di una pratica comune, non solo sottrazione, ma interruzione della temporalità del valore: temporalità di atti creativi ed esperienza soggettiva della trasformazione. Un'alterità che incessantemente si produce e che il capitale, altrettanto incessantemente, cerca di sussumere. Considerando il modo di produzione capitalistico non secondo un'unica linea temporale, le enclosures vengono lette da De Angelis come «una caratteristica continua della logica del capitale». Compito primario dell'analisi è quindi cogliere la funzione centrale delle nuove forme di enclosure nel capitalismo globalizzato. Sia chiaro: questo non significa pensare - secondo una immagine ancora postmodernista - che le più diverse forme di sfruttamento e di insorgenza del lavoro vivo coesistano indifferentemente l'una accanto all'altra in una sorta di esposizione universale delle forme di sussunzione. Quella che deve essere indagata è, piuttosto, «l'articolazione globale di una molteplicità di tecniche e strategie: dallo schiavismo al lavoro salariato, dal lavoro non pagato di riproduzione al lavoro temporaneo post-fordista», dalle produzioni nel cosiddetto terzo mondo alle produzioni del capitalismo high-tech. Una politica di liberazione deve oggi affrontare l'articolazione di queste diverse tipologie nella gerarchia globale dei salari e delle forme di sfruttamento. Non solo il mondo non è una superficie omogenea di forme equivalenti, ma una politica di emancipazione deve seriamente porsi il problema del «superamento di questa articolazione, che tende a dividere la società globale» e a metterne in competizione i diversi segmenti. Importante diventa allora la questione di uno spazio che renda possibili concrete pratiche soggettive, capaci di costituirsi comel'outside del capitale. L'attenzione di De Angelis si sposta con ciò alle nuove forme di insorgenza, cercando di coglierne l'elemento comune. Il conatus verso l'auto-conservazione può fungere da collettore. Permette forse di trovare un punto di convergenza tra lotte oggi ancora nefastamente contrapposte come le lotte per la difesa dell'ambiente e quelle del lavoro, là dove invece proprio la questione delle nuove e vecchie forme di nocività legate al lavoro impone di riarticolare battaglie concrete contro la nocività dentro e fuori ai luoghi di lavoro. Il martello dell'industrializzazione, per usare un'immagine di Joel Kovel (The Enemy of Nature: The End of Capitalism or the End of the World?, Zed Books, 2002) devasta anche la natura umana, assorbendo il tempo di vita nel tempo di lavoro. Sempre più figure lavorative, precarie e non, sono costrette a subire una sempre maggiore indistinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro. Contemporaneamente anche le funzioni biologiche dell'essere umano sono diventate oggetto di enclosure: viene privatizzata l'acqua che dobbiamo bere e, in molte metropoli occidentali, siamo costretti a pagare per il privilegio di evacuarla.
ilmanifesto.it

21.3.08

Da Kossi Komla-Ebri storie di vite migranti

Velio Abati

«Indefinibile malinconia quel fuoco che arde sotto le ceneri del vivere quotidiano in terra straniera. Quel sempre sentirsi nessuno. Peggio, non esistere: percepire gli sguardi, curiosi, irritati o compassionevoli scivolarti addosso come se fossi un'ombra»: così scrive in Vita e sogni. Racconti in concerto (Edizioni dell'Arco, pp. 111, euro 6,90) Kossi Komla-Ebri, emigrato togolese, da anni medico a Erba, esponente impegnato della prima generazione di scrittori immigrati in lingua italiana. Tra gli animatori della rivista online «El ghibli» (www.el-ghibli. provincia.bologna.it), e autore tra l'altro di una fortunata raccolta di racconti, Imbarazzismi, più volte ristampata dalle Edizioni dell'Arco, Kossi guarda con una certa impazienza alle sollecitazioni di quei critici che chiedono alla «letteratura della migrazione» di «rinnovare l'italiano», e preferisce mettere in scena una polifonia dissonante di condizioni umane tratte dalla sua esperienza. Ora a parlare è un io molto vicino alla biografia dell'autore: «Ho vissuto la mia infanzia sotto il peso dei secchi d'acqua e dei carichi di legno, contorcendo il collo, a piedi nudi nella sabbia calda, una scatola di Nestlé come pallone di cuoio perché certamente Babbo Natale aveva perso la bussola passando il Mar Mediterraneo e il suo carro trascinato dalle renne si era insabbiato nelle dune del Ténéré...». Ora è invece la seconda generazione d'immigrati a presentare la doppia estraneità tra padri e figli: «A me papà della tua Africa non me ne frega niente!... per anni mi avete rotto le scatole con i vostri sogni, i vostri ricordi, i vostri sacrifici. Ma che volete da me? Non ho mica chiesto io di nascere!... Sì, mamma, so che non mi è permesso parlarvi così, so che è contro le tradizioni, che è un modo di fare dei piccoli bianchi come dite voi». Ma le voci narranti non si limitano ad allargare la cittadinanza della lingua di Dante al vissuto meticcio del migrante e del clandestino. Inseguendo il rimosso occultato al passaggio di frontiera, Kossi dà vita qui - nella lingua italiana delle nostre case - alle tragedie che lo spettacolo rassicurante delle notizie serali proclama non appartenerci, così come avviene nel racconto sui bambini soldato, che «mutilavano con il machete i collaboratori dell'esercito regolare... e in stato di perenne eccitazione a causa delle droghe, ai posti di blocco coi mitra puntati si divertivano a umiliare i passanti, anche gli adulti e i vecchi»
ilmanifesto.it

13.3.08

Analfabeti d’Italia

di Tullio De Mauro (Internazionale)

Un’analisi terrorizzante della capacità degli italiani di comprendere ciò che viene scritto e detto. Un pericolo per la democrazia?

"Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un'altra, una cifra dall'altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un'icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea. Questi dati risultano da due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2004-2005 in diversi paesi. Ad accurati campioni di popolazione in età lavorativa è stato chiesto di rispondere a questionari: uno, elementarissimo, di accesso, e cinque di difficoltà crescente. Si sono così potute osservare le effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo degli intervistati, e nella seconda indagine anche le capacità di problem solving. I risultati sono interessanti per molti aspetti. Sacche di popolazione a rischio di analfabetismo (persone ferme ai questionari uno e due) si trovano anche in società progredite. Ma non nelle dimensioni italiane (circa l'80 per cento in entrambe le prove). Tra i paesi partecipanti all'indagine l'Italia batte quasi tutti. Solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori. I dati sono stati resi pubblici in Italia nel 2001 e nel 2006. Ma senza reazioni apprezzabili da parte dei mezzi di informazione e dei leader politici.
Nelle ultime settimane, però, alcuni mezzi di informazione hanno parlato con curiosità del fatto che parecchi laureati italiani uniscono la laurea a un sostanziale, letterale analfabetismo. Questa curiosità vagamente moralistica è meglio di niente? No, non è meglio, se porta a distrarre l'attenzione dalla ben più estesa e massiccia presenza di persone incapaci di leggere, scrivere e far di conto (quello che in inglese chiamiamo illiteracy e innumeracy e in italiano diciamo, complessivamente, analfabetismo). È notevole che l'analfabetismo numerico (l'incapacità di cavarsela con una percentuale o con un grafico) non abbia neanche un nome usuale nella nostra lingua.
È grave non saper leggere, scrivere e far di conto? Per alcuni millenni - dopo che erano nati e si erano diffusi sistemi di scrittura e cifrazione - leggere, scrivere e far di conto furono un bene di cui si avvantaggiava l'intera vita sociale: era importante che alcuni lo sapessero fare per garantire proprietà, conoscenze, pratiche religiose, memorie di rilievo collettivo, amministrazione della giustizia. Ma nelle società aristocratiche a base agricola, purché ci fossero alcuni letterati, la maggioranza poteva fare tranquillamente a meno di queste capacità. I saperi essenziali venivano trasmessi oralmente e perfino senza parole. Anche i potenti potevano infischiarsene, purché disponessero di scribi depositari di quelle arti. Carlo v poteva reggere un immenso impero, ma aveva difficoltà perfino a fare la firma autografa. Le cose sono cambiate in tempi relativamente recenti almeno in alcune aree del mondo. Dal cinquecento in parte d'Europa la spinta della riforma protestante, con l'affermarsi del diritto-dovere di leggere direttamente Bibbia e Vangelo senza mediazioni del clero, si è combinata con una necessità creata dal progredire di industrializzazione e urbanizzazione: quella del possesso diffuso di un sapere almeno minimo. In seguito è sopravvenuta l'idea che tutti i maschi abbienti, poi tutti i maschi in genere, infine perfino le donne, potessero avere parte nelle decisioni politiche. La "democrazia dei moderni" e i movimenti socialisti hanno fatto apparire indispensabile che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto. Il solo saper parlare non bastava più. E in quelle che dagli anni settanta del novecento chiamiamo pomposamente "società postmoderne" o "della conoscenza”; leggere, scrivere e far di conto servono sempre, ma per acquisire livelli ben più alti di conoscenza necessari oggi all'inclusione, anzi a sopravvivere in autonomia.
L'analfabetismo italiano ha radici profonde. Ancora negli anni cinquanta il paese viveva soprattutto di agricoltura e poteva permettersi di avere il 59.2 per cento della popolazione senza titolo di studio e per metà totalmente analfabeta (come oggi il 5 per cento). Fuga dai campi, bassi costi della manodopera, ingegnosità (gli "spiriti vitali" evocati dal presidente Napolitano) lo hanno fatto transitare nello spazio di una generazione attraverso una fase industriale fino alla fase postindustriale. Nonostante gli avvertimenti di alcuni (da Umberto Zanotti Bianco o Giuseppe Di Vittorio a Paolo Sylos Labini), l'invito a investire nelle conoscenze non è stato raccolto né dai partiti politici né dalla mitica "gente". Secondo alcuni economisti il ristagno produttivo italiano, che dura dagli anni novanta, è frutto dei bassi livelli di competenza. Ma nessuno li ascolta; e nessuno ascolta neanche quelli che vedono la povertà nazionale di conoscenze come un fatto negativo anzitutto per il funzionamento delle scuole e per la vita sociale e democratica".

7.3.08

La spia che venne dal web

Software di governo per investigare nei computer dei cittadiniSui mezzi che autorità di mezzo mondo usano per spiare nei Pc dei cittadini c'è stato poco controllo, finora. Ma dopo una sentenza della suprema corte tedesca qualcosa potrebbe cambiare
Carola Frediani
Se si potesse scaricare una legge nel proprio ordinamento così come si aggiorna l'antivirus del computer, milioni di utenti internet nel mondo dovrebbero correre a fare il download di una recente decisione della Corte costituzionale tedesca. Come ha giù documentato questo giornale (vedi il manifesto del 28 febbraio scorso), l'organo di controllo della carta fondamentale della Germania ha infatti piantato dei solidi paletti intorno al potere dello stato di spiare, sia pure a scopo investigativo, l'utilizzo del pc da parte dei cittadini. Ma come funziona di fatto questo spionaggio, a cui ricorrono governi di mezzo mondo? Si tratta di un monitoraggio che la polizia o le forze di intelligence sono in grado di eseguire da remoto, «sparando» nei dischi fissi dei sospettati alcuni programmi spia (spyware) capaci di rilevare le attività svolte. In pratica, gli investigatori di turno si servono, come dei novelli Ulisse, di appositi cavalli di Troia (trojan), ovvero di programmi malevoli che travisano la propria identità sotto le spoglie di un'innocente email o nascondendosi in una pagina web. Strumenti non molto diversi da quelli utilizzati quotidianamente dai cyber-criminali di tutto il globo; con la differenza che i mandanti sono in questo caso dei corpi dello stato. «E' l'unico modo per fare intercettazioni quando si ha a che fare con siti cifrati, sistemi di anonimizzazione, ma anche con Skype», ci spiega Matteo Flora, esperto di sicurezza informatica. «Siccome in questi casi è come se i dati fossero spediti dentro dei pacchi chiusi col lucchetto, il solo sistema per conoscerli è andare direttamente alla fonte, dentro il Pc, prima che avvenga la cifratura». E se Berlino - e forse non per caso, visto il ricordo della Gestapo e della Stasi - va controcorrente, nel resto del mondo è già difficile sapere se lo stato utilizza simili strumenti o meno. Da tempo si ipotizzava che l'Fbi inviasse software malevolo per sorvegliare di nascosto i sospettati. Tuttavia il primo caso documentato è venuto alla luce solo la scorsa estate, quando si è scoperto che l'agenzia investigativa aveva utilizzato spyware per smascherare un quindicenne con la mania dei falsi allarme bomba. Il programma di monitoraggio - nome in codice Cipav - era stato spedito al ragazzo attraverso il sistema di messaggistica di MySpace, che permette di incorporare immagini e codice html, e quindi di far eseguire dei comandi all'ignaro destinatario. Ma i federali avrebbero potuto sfruttare anche uno dei tanti «bachi» che rodono i nostri browser bucherellandoli come gruviera. Una di quelle vulnerabilità che ancora non sono state divulgate al resto del mondo, in gergo Zero Day, ampiamente rivelate, a pagamento, sul mercato nero; e che chiunque può sfruttare per eseguire dei comandi su una macchina altrui. Quanto all'Italia, «di sicuro non esiste un protocollo d'intercettazione che dica di non usare trojan» commenta Flora. «D'altra parte certe comunicazioni possono essere agganciate solo attraverso questi sistemi». Quasi certo, dunque, che si usino anche da noi. Dopo tutto, le intercettazioni e le password sono le nuove frontiere digitali, luoghi in cui vige ancora il Far West. Lo dimostra una recente sentenza americana che ha difeso il diritto a non rivelare la propria parola d'ordine digitale.«Ora sono arrivati i giudici federali tedeschi a specificare che i dati conservati o scambiati attraverso un computer sono protetti dal diritto costituzionale alla privacy personale. E che quindi andare segretamente a frugare nel sistema informatico di un cittadino può essere concesso solo di fronte alla prova di una minaccia reale come il rischio di una vita umana o la sopravvivenza dello stato; e, soprattutto, soltanto dopo aver ottenuto l'approvazione di un magistrato. In questo modo la Corte tedesca ha ancorato i computer dei suoi concittadini, inclusi gli apparecchi più mobili e senza fili, alle mura domestiche: il cyberspazio di una persona diventa infatti inviolabile quanto la sua casa. E le ripercussioni della decisione potrebbero superare i confini tedeschi.«E' una sentenza molto importante - spiega l'ex Garante della privacy, il professor Stefano Rodotà. Innanzitutto perché, in un periodo in cui i diritti fondamentali sono sempre più sacrificati in nome della sicurezza, questo pronunciamento va in controtendenza. E in secondo luogo perché proviene da una Corte che da anni si sforza di legare la tutela dei dati a quella della persona, e ora ha esteso questo principio agli strumenti informatici».Insomma, conclude il giurista, considerata la grande storia che sta alle spalle dei giudici tedeschi, la loro sentenza dovrà far ripensare tutta l'Europa.
freddy@totem.to
ilmanifesto.it

2.3.08

Pagine per giovani lettori riluttanti

Due recenti romanzi, «Oh, boy!» di Marie Aude Murail e il «Diario di una schiappa» di Jeff Kinney, presentano agli adolescenti un mondo che per fortuna non coincide cone le fosche visioni degli atei devoti
Francesca Lazzarato
Nell' Italia della Binetti, di Ratzinger e di Ferrara, avvolta nelle nubi di una nuova e dissennata Controriforma e di una vecchia e tenacissima ipocrisia, un'iniziativa del genere sarebbe probabilmente impensabile, ma in Francia esiste da otto anni, senza suscitare censure o particolari imbarazzi: è il sito HomoEdu (homoedu.free.france), gestito da un collettivo di insegnanti intenzionati a fornire a colleghi e genitori, qualunque sia il loro orientamento sessuale, strumenti pedagogici per una educazione antiomofoba e rispettosa della altersexualité, ossia della sessualità non strettamente etero.Ricco di notizie, bibliografie e proposte, animato da continui dibattiti, HomoEdu si occupa anche di libri per bambini recensiti in modo puntuale da Lionel Labosse, e compila fra l'altro una lista di testi consigliati, gli «Isidor», che permettono di affrontare l'argomento attraverso racconti, romanzi, album illustrati o poemetti incantevoli come Medhi met du rouge à lévres di David Dumortier (Cheyne 2006), in cui uno dei migliori fra i giovani poeti francesi racconta con commovente semplicità la storia di un bambino che sin da piccolissimo percepisce se stesso come una bambina.Si tratta di libri spesso eccellenti e che quasi mai sono arrivati fino al pubblico italiano, specie a quello adolescente. È per questo che l'uscita di un romanzo come Oh boy! di Marie Aude Murail (Giunti, pp.187, euro 11,90) non può non incuriosire e perfino consolare, come una rondine che magari non farà primavera, ma che intanto si è magicamente materializzata sugli scaffali delle librerie.Neanche a dirlo, Oh boy! è proprio uno degli Isidor, entusiasticamente proposto da HomoEdu come un piccolo classico - in Francia è uscito nel 2000 - adorato dai lettori giovanissimi, e con ragione; si tratta infatti di un romanzo squisitamente scritto (la Murail è una delle migliori autrici francesi per ragazzi, attentissima allo stile e alla forma) e soprattutto capace di trattare una serie di argomenti tutt'altro che lievi con una sana noncuranza per il politically correct e un delizioso umorismo da commedia brillante, in tutto degno dell'epigrafe di Romain Gary che precede il primo capitolo: «L'ironia è una dichiarazione di dignità, un'affermazione della superiorità dell'uomo su ciò che gli capita». Parafrasando il Mark Twain di Huckleberry Finn, si potrebbe aggiungere che «chiunque sia tentato di considerare questo libro come un romanzo a tesi verrà punito a termini di legge», perché la storia di Venise, Morgane e Siméon Morlevent (abbandonati dal padre e orfani di una madre che si è suicidata bevendo l'Anitra WC) rifiuta l'idea stessa di proporsi come testo militante. Si limita invece a raccontare la vita com'è, affrontando la storia di due bambine e un ragazzo che si ritrovano soli al mondo, chiusi in un orfanotrofio da cui usciranno solo se qualcuno deciderà di prendersene cura: per esempio una sorellastra omofoba che vuole adottare solo la piccola Venise (incantevole biondina e fanatica collezionista di Barbie), o l'effervescente Bart, il fratellastro gay promiscuo e scriteriato, inizialmente inorridito all'idea di occuparsi dei piccoli e ignoti parenti.La storia si complica con la malattia di Siméon, e riusciti personaggi di contorno si affacciano a movimentarla: una giudice tutelare sognatrice e cioccolatomane, una vicina maltrattata (e poi felicemente vedova di un marito rappresentante di biancheria intima, morto lasciando dietro di sé «più reggiseni che rimpianti»), un medico affascinante e riservato che alla fine cederà al fascino di Bart. E così, nonostante l'acida sorellastra noti a ogni pié sospinto che «un omosessuale non può crescere dei bambini», i Morlevent diventeranno una famiglia nata da una scelta e da un incontro che li ha cambiati, fondata su affetto, solidarietà, litigi, tolleranza. Una famiglia uguale a tutte le altre e giustamente diversa da tutte le altre, una delle tante famiglie possibili in un mondo che non coincide con le cupe visioni di atei devoti e papi tedeschi.Se confrontato con la corrente produzione per adolescenti, il romanzo della Murail (piacevole anche per gli adulti) indica una strada da percorrere: quella che vede i giovani lettori come esseri capaci di ragionare e di trarre da soli le proprie conclusioni, piuttosto che come consumatori da lusingare proponendo loro libri e spettacoli oltraggiosamente sciatti e semplificati all'eccesso, in cui l'orizzonte si restringe sino a coincidere con le dimensioni di uno specchio dove contemplarsi all'infinito.Di diversa impostazione, ma gradevole e adatto a ragazzi un po' più giovani è Diario di una schiappa di Jeff Kinney (Il Castoro, pp. 217, euro 11), un libro che negli Stati Uniti è diventato un caso: pubblicato meno di un anno fa, ha occupato il primo posto nelle classifiche del «New York Times» per quaranta settimane. Scritto a stampatello su pagine che simulano un quaderno a righe e punteggiato di vignette, potrebbe far pensare a una quasi-graphic novel per undicenni, e racconta con linguaggio sintetico la vita di un antieroe imbranato e per nulla «popolare», che si destreggia tra i bulli da cui la sua scuola (come le nostre) è piena, l'amico del cuore un po' tonto, il fratello maggiore pronto a fare scherzi vagamente sadici, i genitori irragionevoli.Un testo adatto a lettori «riluttanti» o desiderosi di confrontarsi con un personaggio che conosce le loro difficoltà quotidiane e riesce comunque a crescere e a non perdere il senso dell'umorismo come il mitico Adrian Mole di Susan Tonwsend, capostipite irraggiungibile dei diari di questo tipo. E non va dimenticato che il libro è nato in rete, perché l'autore ha cominciato a raccontare le avventure di Greg, il protagonista, su un sito per ragazzi (funbrain.com/journal/Journal.html). Si calcola che quasi quaranta milioni di ragazzi abbiano letto in video Il diario di una schiappa, il che dovrebbe far riflettere sul presunto abbandono della lettura da parte dei preadolescenti: leggere non è per forza un'attività legata alle pagine di un libro, ed è ora di prenderne atto. Lo spontaneo successo ha convinto Kinney a trasferire il suo antieroe su carta stampata, riscuotendo consensi straordinari, segno del fatto che non sempre dietro le alte vendite c'è il doping del marketing, e che il potere della rete può farla in barba perfino a Harry Potter.
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28.2.08

Trame americane sullo sfondo della guerra in Vietnam

Confronto a distanza tra due libri separati da trent'anni. Il misconosciuto e appena tradotto romanzo di Newton Thornburg «La strana vita di Cutter e Bone», e l'ultimo di Denis Johnson «Tree of Smoke», recente vincitore del National Book Award. Un intreccio di classica bellezza che allude all'attuale coinvolgimento militare in Iraq
Tommaso Pincio
La letteratura di genere solo in apparenza è generosa con gli scrittori. In realtà, quel che dà se lo riprende, spesso con gli interessi. Poniamo il caso abbiate scritto un buon thriller - un thriller «spaventosamente riuscito», per citare le parole di una recensione più che favorevole apparsa recentemente su uno fra i più importanti quotidiani nazionali. Poniamo, poi, abbiate scritto anche qualcosa di più, «un'opera di alto livello» in assoluto, sempre per stare a quel che hanno detto i giornali. Poniamo inoltre che questo vostro romanzo venda assai bene e abbia pure la fortuna di essere portato sul grande schermo da un bravo regista che ne ricava una pellicola che, seppur non eccelsa, vedono in molti. Tutto lascerebbe presagire che il romanzo e voi in quanto autore sopravviviate decentemente all'oblio cui gran parte della letteratura di un certo tipo è fatalmente destinata. E invece no. Una sfida al genere giallo Newton Thornburg, che ai suoi tempi ha conosciuto il genere di successo appena descritto, trascorre oggi gli ultimi anni della propria esistenza in un ospizio di Seattle confidando esclusivamente su una pensione di invalidità. Un infarto lo ha costretto su una sedia a rotelle, la moglie se ne è andata da molto tempo, un figlio se l'è portato via l'alcolismo: il quadro è questo. Quanto alla sua fama di autore, si fa presto a testarla: alzi la mano chi ha letto un libro di Newton Thornburg o conosce anche solo il suo nome. Nel 1976 diede alle stampe La strana vita di Cutter e Bone (Fanucci, trad. Daniela Middioni, pp. 340, euro 16) da cui il regista Ivan Passer trasse un film interpretato da Jeff Bridges. Nonostante ciò, dopo qualche tempo il romanzo sparì dalla circolazione. È stato ripescato di recente grazie anche all'ammirazione di un altro scrittore, George Pelecanos, che lo colloca, insieme a L'ultimo bacio di James Crumley e Surf City di Kem Nunn, nel novero di quei romanzi che negli '70 si posero come «una sfida alla tradizione giallistica». In effetti è molto più di questo. Come ogni grande libro, La strana vita di Cutter e Bone è il ritratto dell'epoca che lo ha generato; nella fattispecie è uno dei migliori romanzi mai scritti sui postumi della grande ubriacatura da stupefacenti, amore libero, ribellione e pacifismo che mise in fibrillazione gli Stati Uniti sul finire degli anni '70. La scena prende infatti le mosse nel decennio successivo, più o meno in zona Watergate, quando, finita la festa, il paese versò in una crisi profonda, tanto economica che di valori. Luogo di partenza dell'azione: la fetta d'America che più di ogni altra ha incarnato quel sogno, la California. E siccome a pagare lo scotto sono quasi sempre gli sfigati, ecco una coppia di sgangherati protagonisti il cui squallido destino di pochissime prospettive e nessuna idealità pare scritto fin nel nome che portano: Cutter e Bone. Il primo è tornato dal Vietnam con un gamba e un braccio in meno e una consistente dose di amarezza e follia in più. Il secondo è invece un uomo di gradevole aspetto, diciamo pure avvenente. È però un mollaccione. Ha piantato baracca e burattini - vale a dire: moglie, figlie e un lavoro nel Minnesota - per venire a fare il gigolo dei poveri nella patria degli hippy e degli sciroccati in genere. Lo si vede dunque vagolare per le spiagge di Santa Barbara in cerca di donne a cui scroccare pranzo, cena e magari qualche soldo. Non ha grandi velleità. «Qualcosa accadrà. Qualcosa cambierà»: è la sua fatalistica filosofia di vita. Qualcosa infatti accade. Una notte il caso decide che Bone debba rincasare a piedi per essere testimone di uno fatto strano. Un uomo scende da un'auto e scarica in un cassonetto qualcosa che, nell'oscurità, pare essere un involto contenente mazze da golf. Fatto ciò, l'uomo risale in macchina e schizza via. La strana coppia in azioneSul momento, Bone non dà troppa importanza a ciò che ha visto. I problemi nascono quando viene a sapere che in quel luogo e a quell'ora qualcuno si è sbarazzato del cadavere di una cheerleader alla stessa maniera: quelle che in un primo tempo erano parse mazze da golf ora sono diventate un paio di gambe. Naturalmente, il pensiero di presentarsi alla polizia manco sfiora Bone. Del resto, quale aiuto potrebbe mai dare? Dopotutto non ha scorto che una sagoma nera. Sfogliando un giornale, ha però l'inspiegabile impressione di riscontrare una qualche somiglianza tra il misterioso assassino e un magnate di passaggio a San Barbara. Stessa altezza, stessa corporatura. Le vaghissima similitudine si limita a questo. Ma qui entra in gioco Cutter, che per ragioni sue si convince e cerca di convincere l'amico che l'uomo in questione è proprio questo milionario del Missouri. Per Cutter, il riccone è l'incarnazione del malefico sistema che lo ha spedito in Vietnam per sacrificare pezzi del proprio corpo in una guerra inutile. «Non è mai il loro culo a finire in prima linea, ma il nostro, il mio» pensa il veterano cominciando ad architettare un piano per ricattare il magnate. Bone obietta che l'estorsione è un reato. «Pure l'omicidio lo è» replica laconico Cutter ormai deciso a fare giustizia a modo suo. Quel che segue è una convulsa serie di disavventure nel corso delle quali la strana coppia dimentica spesso e volentieri i suoi propositi per dedicarsi al sesso e all'alcol. Il tutto raccontato con un cinismo gravido di passione che finisce per rendere verosimile le situazioni più grottesche. Sul set di una crisi moraleSospeso tra due anime dell'America, quella del disperato edonismo californiano e quella degli Stati dell'entroterra più patriottici ma nascostamente inclini alla violenza, il romanzo di Thornburg rimane - a tre decenni dalla sua pubblicazione - uno dei migliori ritratti della profonda crisi morale in cui è precipitato il paese nel corso degli anni '70. Un libro misconosciuto che varrebbe la pena di leggere solo per la sorprendete frase finale. Ma c'è anche un altro motivo per cui ha senso riscoprirlo: un confronto a distanza con l'ultimo romanzo di Denis Johnson cui è stato recentemente assegnato il National Book Award, Tree of Smoke (Farrar, Straus and Giroux, pp. 614, $ 27). Johnson è un autore agli antipodi rispetto a Thornburg. Benché abbia talvolta sconfinato nel genere, è sempre stato considerato scrittore di alto rango, poco adatto al grande pubblico in quanto appartenente al quel filone che vede in Burroughs il suo maestro e nell'America dei derelitti e degli emarginati il suo argomento centrale. Per molto tempo si è parlato di lui come un'eterna promessa della letteratura, perché nonostante la sua produzione fosse sempre di ottima qualità, l'opera davvero significativa - il suo Great American Novel - faticava a venire alla luce. Ora che non è più giovanissimo, Denis Johnson ce l'ha finalmente fatta. Per mole, stile e ambizione, Tree of Smoke si muove ovviamente su piani lontani da quelli tutto sommato immediato della Strana vita di Cutter e Bone. Affronta però lo stesso argomento: la brutta America del Vietnam.Si parte dal giorno dell'assassinio di John F. Kennedy per arrivare al 1983. Un ventennio di storia per un romanzo la cui trama è difficile se non impossibile da riassumere. Personaggio principale è un certo William Sands detto «Skip», il quale non si risolve ad avere un'opinione definitiva su se stesso. A volte si immagina simile all'americano tranquillo dell'omonimo romanzo di Graham Greene, altre si vede invece come un americano schifoso. Come è facile intuire, vorrebbe però essere migliore di come si vede o si immagina. Gli piacerebbe essere un bravo americano, ma essendo un agente della Cia, di stanza prima nelle Filippine e poi in Vietnam, si ritrova fatalmente a recitare la parte del peggiore americano che si possa incontrare. E non gli è certo di aiuto il fatto di lavorare al fianco di suo zio, un «Colonnello» che ricorda da vicino tanto il Kurtz di Conrad quanto quello rivisitato da Francis Ford Coppola e Marlon Brando in Apocalypse Now. Come ogni Kurtz che si rispetti, il Colonnello di Denis Johnson è un rinnegato per il quale è un punto di merito tradire la fiducia dei propri superiori. Disprezza i burocrati di Washington e pertanto prende ordini solo da se stesso. I limiti che pone alle sue operazioni sono soltanto quelli della sua immaginazione. Seminare droghe psichedeliche nei tunnel nord-vietnamiti oppure spargere la voce che un qualche gruppo dissidente ha in mano un'arma nucleare e medita di farci saltare la casa di Ho Chi Minh. Tra lealtà e tradimentoL'idea di fondo è che «la guerra è per il novanta per cento mito», per cui tanto vale sfondare i limiti del reale, confondere il noto con l'inconoscibile, rivolgere tutto in sogno, in una ragnatela nebbiosa, quella dei rami dell'albero di fumo che dà il titolo del romanzo. Attorno a questo asse centrale Johnson racconta molte altre storie, le vite di persone che per varie strade vengono toccate, coinvolte e segnate dalle conseguenze di questa sporca guerra. Ritroviamo Bill Houston - protagonista di Angeli, splendido romanzo d'esordio dell'autore - e suo fratello James il quale scoprirà che lo stesso comportamento che in Vietnam gli è valso una medaglia, in America lo farà finire in carcere. Sul fronte opposto assistiamo alla complessa relazione, in perenne bilico tra lealtà e tradimento, fra Nguyen Hao, che fa il doppio gioco per gli americani e un suo vecchio amico vietcong.Seguiamo infine il percorso di colei che è un po' la chiave morale del romanzo, Kathy Jones, una donna che arriva nel sud-est asiatico come moglie di un missionario e se ne va perdendo la fede religiosa e non soltanto quella. La domanda che sorge spontanea è se c'era bisogno di un ulteriore libro su una guerra che è stata raccontata in tutte le salse e non di rado in modo magistrale. La risposta è sì, perché Denis Johnson usa il Vietnam per parlare dell'attuale coinvolgimento militare in Iraq. Ma soprattutto perché Tree of Smoke è semplicemente un romanzo di classica bellezza, uno fra i migliori che l'asfittica letteratura americana di questo decennio ci abbia regalato.
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24.1.08

Reporter «blasfemo» condannato a morte

Sayed Parwez Kaambakhsh, 23 anni, era in carcere da tre mesi. Aveva diffuso testi sui diritti delle donne

Sayed Parwez Kaambakhsh, 23 anni, era in carcere da tre mesi. Appello della comunità internazionale a Karzai per salvarlo Condannato alla pena capitale con l'accusa di avere offeso Maometto e il verbo del Corano. In Afghanistan può ancora capitare a un giornalista sette anni dopo la caduta del regime talebano. Di certo è accaduto a Sayed Parwez Kaambakhsh, 23enne studente alla scuola di giornalismo a Mazar- i-Sharif, nel Nord del Paese, e neo-assunto in un quotidiano locale. Secondo i giudici, l'imputato avrebbe definito il Profeta «un assassino e un adultero» e soprattutto avrebbe difeso il diritto delle donne ad avere più partner maschili. «Se un uomo secondo il Corano può sposare sino a quattro mogli, perché una donna non può avere quattro mariti?», chiedeva un articolo trovato da Sayed su Internet e da lui diffuso tra gli studenti dell’Università di Balkh. Parole di fuoco, temi delicatissimi, che secondo i giudici in primo grado sono immediatamente punibili con la morte.

Il giovane giornalista ha comunque diritto a due ricorsi in appello. E lo stesso presidente Hamid Karzai per legge in un caso del genere dispone della piena facoltà di modificare la sentenza. A detta dei giornalisti locali, tra l'altro, la vicenda sarebbe molto più complessa e vedrebbe coinvolto il fratello dell'accusato, Sayed Yaqub Ibrahimi (il quale nega con fermezza che questi sia responsabile di alcuna dichiarazione blasfema), che da tempo sarebbe impegnato in un pericoloso braccio di ferro con Piram Qul, noto signore della guerra e membro del parlamento. «Si colpiscono i due fratelli per affossare la nuova stampa liberale, che sempre più di frequente mette in dubbio il potere dei vecchi signori della guerra. A Kabul un fatto del genere sarebbe stato subito denunciato. Lo stesso presidente Karzai è intervenuto più volte di persona a difesa dei giornalisti. Ma oggi più che mai il potere centrale è debole, fiacco, non arriva nelle province, dove gli uomini forti dell'era talebana restano in sella», sostengono nei circoli giornalistici della capitale. Nella primavera scorsa il procuratore generale dello Stato, Abdul Jabar Sabet, era intervenuto personalmente per cercare di imporre la censura contro Tolo, la più diffusa televisione privata.

Ma, dopo alcune brevi colluttazioni tra giornalisti e forze dell'ordine a Kabul, Sabet era stato costretto a tornare sui suoi passi. Eppure le accuse di blasfemia sono certamente più difficili da combattere. Nei tre casi noti per gli ultimi sei anni, quasi tutti gli imputati e i loro famigliari hanno dovuto lasciare il Paese. Non aiuta la crescita dell'influenza dei mullah e delle corti religiose locali di fronte alla crisi del governo centrale e le continue accuse di corruzione e nepotismo nei confronti dei suoi rappresentanti. Di recente il governo ha persino accolto la richiesta dei circoli religiosi affinché venissero censurati i film indiani ritrasmessi dalle tv private afghane, giudicati «immorali». In ogni caso i maggiori responsabili delle organizzazioni della stampa afghana sono già corsi a chiedere aiuto a Karzai. Dichiara Rahimullah Samander, direttore dell'Associazione dei Giornalisti Indipendenti: «Le accuse contro Sayed sono scioccanti. Di lui si deve occupare un'apposita commissione di giornalisti».

Lorenzo Cremonesi
corriere.it

20.1.08

Il senso del laico

Questo termine non è un sinonimo di ateo o miscredente ma implica rispetto per gli altri e libertà da ogni idolatria

di Claudio Magris

Quando, all'università, con alcuni amici studiavamo tedesco, lingua allora non molto diffusa, e alcuni compagni che l'ignoravano ci chiedevano di insegnar loro qualche dolce parolina romantica con cui attaccar bottone alle ragazze tedesche che venivano in Italia, noi suggerivamo loro un paio di termini tutt'altro che galanti e piuttosto irriferibili, con le immaginabili conseguenze sui loro approcci. Questa goliardata, stupidotta come tutte le goliardate, conteneva in sé il dramma della Torre di Babele: quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l'invito del Papa all'università di Roma, l'elemento più pacchiano è stato, per l'ennesima volta, l'uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo, nel mio caso ripetitivo, tentativo di chiarirne il significato.

Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l'opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall'adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.

La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l'attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura— anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.

Una visione religiosa può muovere l'animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l'articolo del codice penale che punisce l'omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Un altro grande laico è stato Arturo Carlo Jemolo, maestro di diritto e libertà, cattolico fervente e religiosissimo, difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa e duro avversario dell'inaccettabile finanziamento pubblico alla scuola privata — cattolica, ebraica, islamica o domani magari razzista, se alcuni genitori pretenderanno di educare i loro figli in tale credo delirante.

Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l'autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall'idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.

I bacchettoni che si scandalizzano dei nudisti sono altrettanto poco laici quanto quei nudisti che, anziché spogliarsi legittimamente per il piacere di prendere il sole, lo fanno con l'enfatica presunzione di battersi contro la repressione, di sentirsi piccoli Galilei davanti all'Inquisizione, mai contenti finché qualche tonto prete non cominci a blaterare contro di loro.

Un laico avrebbe diritto di diffidare formalmente la cagnara svoltasi alla Sapienza dal fregiarsi dell'appellativo «laico». È lecito a ciascuno criticare il senato accademico, dire che poteva fare anche scelte migliori: invitare ad esempio il Dalai Lama o Jamaica Kincaid, la grande scrittrice nera di Antigua, ma è al senato, eletto secondo le regole accademiche, che spettava decidere; si possono criticare le sue scelte, come io criticavo le scelte inqualificabili del governo Berlusconi, ma senza pretendere di impedirgliele, visto che purtroppo era stato eletto secondo le regole della democrazia.

Si è detto, in un dibattito televisivo, che il Papa non doveva parlare in quanto la Chiesa si affida a un'altra procedura di percorso e di ricerca rispetto a quella della ricerca scientifica, di cui l'università è tempio. Ma non si trattava di istituire una cattedra di Paleontologia cattolica, ovviamente una scemenza perché la paleontologia non è né atea né cattolica o luterana, bensì di ascoltare un discorso, il quale — a seconda del suo livello intellettuale e culturale, che non si poteva giudicare prima di averlo letto o sentito — poteva arricchire di poco, di molto, di moltissimo o di nulla (come tanti discorsi tenuti all'inaugurazione di anni accademici) l'uditorio. Del resto, se si fosse invitato invece il Dalai Lama — contro il quale giustamente nessuno ha né avrebbe sollevato obiezioni, che è giustamente visto con simpatia e stima per le sue opere, alcune delle quali ho letto con grande profitto — anch'egli avrebbe tenuto un discorso ispirato a una logica diversa da quella della ricerca scientifica occidentale.

Ma anche a questo proposito il laico sente sorgere qualche dubbio. Così come il Vangelo non è il solo testo religioso dell'umanità, ma ci sono pure il Corano, il Dhammapada buddhista e la Bhagavadgita induista, anche la scienza ha metodologie diverse. C'è la fisica e c'è la letteratura, che è pure oggetto di scienza — Literaturwissenschaft, scienza della letteratura, dicono i tedeschi — e la cui indagine si affida ad altri metodi, non necessariamente meno rigorosi ma diversi; la razionalità che presiede all'interpretazione di una poesia di Leopardi è diversa da quella che regola la dimostrazione di un teorema matematico o l'analisi di un periodo o di un fenomeno storico. E all'università si studiano appunto fisica, letteratura, storia e così via. Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all'università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola.

Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell'insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico quale Max Weber, tutto dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente, mettendo le carte in tavola, ossia dichiarando a priori le sue convinzioni, scientifiche e filosofiche, affinché gli altri sappiano che forse esse possono influenzare pure inconsciamente la sua ricerca, anche se egli onestamente fa di tutto per evitarlo. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un'esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento. Se, invece, si affermano arrogantemente verità date una volta per tutte, si è intolleranti totalitari, clericali.
Non conta se il discorso di Benedetto XVI letto alla Sapienza sia creativo e stimolante oppure rigidamente ingessato oppure — come accade in circostanze ufficiali e retoriche quali le inaugurazioni accademiche — dotto, beneducato e scialbo. So solo che — una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo — un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all'inaugurazione dell'anno accademico (come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.

Nei confronti di Benedetto XVI è scattato infatti un pregiudizio, assai poco scientifico. Si è detto che è inaccettabile l'opposizione della dottrina cattolica alle teorie di Darwin. Sto dalla parte di Darwin (le cui scoperte si pongono su un altro piano rispetto alla fede) e non di chi lo vorrebbe mettere al bando, come tentò un ministro del precedente governo, anche se la contrapposizione fra creazionismo e teoria della selezione non è più posta in termini rozzi e molte voci della Chiesa, in nome di una concezione del creazionismo più credibile e meno mitica, non sono più su quelle posizioni antidarwiniane. Ma Benedetto Croce criticò Darwin in modo molto più grossolano, rifiutando quella che gli pareva una riduzione dello studio dell'umanità alla zoologia e non essendo peraltro in grado, diversamente dalla Chiesa, di offrire una risposta alternativa alle domande sull'origine dell'uomo, pur sapendo che il Pitecantropo era diverso da suo zio filosofo Bertrando Spaventa. Anche alla matematica negava dignità di scienza, definendola «pseudoconcetto». Se l'invitato fosse stato Benedetto Croce, grande filosofo anche se più antiscientista di Benedetto XVI, si sarebbe fatto altrettanto baccano? Perché si fischia il Papa quando nega il matrimonio degli omosessuali e non si fischiano le ambasciate di quei Paesi arabi, filo- o anti-occidentali, in cui si decapitano gli omosessuali e si lapidano le donne incinte fuori dal matrimonio?
In quella trasmissione televisiva Pannella, oltre ad aver infelicemente accostato i professori protestatari della Sapienza ai professori che rifiutarono il giuramento fascista perdendo la cattedra, il posto e lo stipendio, ha fatto una giusta osservazione, denunciando ingerenze della Chiesa e la frequente supina sudditanza da parte dello Stato e degli organi di informazione nei loro riguardi. Se questo è vero, ed in parte è certo vero, è da laici adoperarsi per combattere quest'ingerenza, per dare alle altre confessioni religiose il pieno diritto all'espressione, per respingere ogni invadenza clericale, insomma per dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, principio laico che, come è noto, è proclamato nel Vangelo.
Ma questa doverosa battaglia per la laicità dello Stato non autorizza l'intolleranza in altra sede, come è accaduto alla Sapienza; se il mio vicino fa schiamazzi notturni, posso denunciarlo, ma non ammaccargli per rivalsa l'automobile.

Una cosa, in tutta questa vicenda balorda, è preoccupante per chi teme la regressione politica del Paese, i rigurgiti clericali e il possibile ritorno del devastante governo precedente. È preoccupante vedere come persone e forze che si dicono e certo si sentono sinceramente democratiche e dovrebbero dunque razionalmente operare tenendo presente la gravità della situazione politica e il pericolo di una regressione, sembrano colte da una febbre autodistruttiva, da un'allegra irresponsabilità, da una spensierata vocazione a una disastrosa sconfitta.

L'imprudenza politica della chiesa

BARBARA SPINELLI
È probabile che Camillo Ruini, che per molti anni ha presieduto la Conferenza episcopale italiana e ancora influenza la Chiesa nella sua qualità di vicario di Roma, gioirà di quello che oggi potrebbe accadere nella capitale: una moltitudine di cittadini romani e italiani, da lui incitata e inebriata, accorrerà sicuramente all’Angelus, in piazza San Pietro, per ascoltare il Papa e denunciare la persecuzione di cui sarebbe stato vittima. Persecuzione che lo avrebbe indotto a non pronunciare più nell’aula universitaria la prolusione che gli era stata - senza seria preparazione - affidata. Il brutto episodio finirà col trasformarsi in una giornata gloriosa per la Chiesa, questo il giudizio cui sembra esser giunto il cardinale, e il male ancora una volta si muterà provvidenzialmente in bene. Lui stesso s’è espresso in questo modo, venerdì alla televisione, ripetendo quanto già detto il 4 novembre a Aldo Cazzullo sul Corriere. La Chiesa (tali furono le sue parole) è attaccata quando vince: «Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa “perde”, tutto fila liscio».

Il rifiuto che numerosi scienziati e un gruppo di studenti hanno opposto al Pontefice, la ritirata strategica del Santo Padre: tutto questo non è, per una parte della gerarchia, un episodio increscioso, o come ha detto sull’Avvenire Souad Sbai, in nome dell’Islam italiano anti-integralista, un «giorno di tristezza».

Forse non è del tutto increscioso neppure per il Papa. Al giornalista Rai che l’interrogava, Ruini ha detto: «I rapporti tra Stato italiano e Chiesa possono migliorare, grazie a episodi come questo».

E ha sorriso sibillino, come si rallegrano quei militanti apocalittici che provocano tenebre e caos pensando che solo a queste condizioni rinasca la luce, che incitano a sfasciare (nel linguaggio brigatista si diceva «disarticolare») per generare palingenesi prerivoluzionarie. La sovversione ha in genere queste proprietà, avverse al filar liscio dei rapporti. Non a caso il sorriso di Ruini si accentua sino a tingersi di scherno, quando respinge l’accusa d’ingerenza nell’agenda politica e chiede - provocatoriamente, accendendo sorrisi complici nel giornalista - se ci sia oggi «qualcuno in Italia, capace di dettare agende politiche». Esiste insomma un modo di raccontare l’episodio della Sapienza, che deforma ogni cosa. Si falsifica quel che accade, si comprime il tempo che viviamo schiacciandolo tutto sul presente e togliendogli ogni profondità. Ci si racconta la storia di una Chiesa perseguitata, prendendo in prestito il linguaggio dell’esperienza ebraica; si denuncia e si irride la stasi della politica. In questo Ruini ha comportamenti sovversivi che singolarmente lo apparentano alla figura di Berlusconi.

Ma è un sovversivo che miete successi, e sono questi ultimi che conviene analizzare. Non è un successo religioso, perché l’indebolirsi delle fedi non si argina riempiendo piazze. Non è neppure in questione la libertà della religione cattolica, perché in Italia essa è garantita e ha un’estensione enorme. Nessuno l’ostacola, tanto meno la censura: se la fede è debole, quando è debole, lo è per cause spirituali o pastorali e non per cause esterne, di potere politico. Solo in Italia questa realtà è obnubilata. È sottratta allo sguardo dei cittadini anche dai commentatori che dovrebbero sapere e che sanno, senza però sentirsi in dovere di aiutare i fedeli a emettere giudizi adulti perché informati.

Quel che molti commentatori o intellettuali nascondono è il divario tra simili realtà e il modo di raccontarle. Il rapporto mimetico del cattolicesimo italiano con l’ebraismo è un non senso, nelle democrazie. Fuori dall’Italia, in Francia o Germania, Spagna o Inghilterra, esiste certo una nuova consapevolezza dell’importanza delle religioni (le parole e le esperienze personali di Sarkozy e Blair lo testimoniano), ma i mutamenti avvengono in contesti radicalmente diversi: in nessuno di questi Paesi la Chiesa ha il peso, il tempo di parola che ha in Italia. Venerdì, su questo giornale, Giacomo Galeazzi ha spiegato bene lo spazio abnorme che le viene dato: da quando è Papa, Benedetto XVI ha avuto un tempo d’antenna superiore a quello del premier e del Capo dello Stato, e appena inferiore a quello di tutti i ministri messi insieme. Non solo: la Chiesa cattolica ha il 99,8% dello spazio dell’informazione religiosa, lasciando briciole a altre fedi. Il vittimismo è storia senza sostanza. La Chiesa italiana non è imbavagliata ma piuttosto sovraesposta. L’idea che esistano comportamenti etici su cui lo Stato non può autonomamente legiferare perché appartenenti alla legge naturale, dunque iscritti dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura umana, dunque interpretabili e tutelabili solo dalla Chiesa, è idea diffusa. Chi contesta il diritto della Chiesa a imporre i suoi veti su famiglia, unioni di fatto, aborto, testamento biologico, ricerca biologica, è una minoranza.

È questa situazione che ha finito col generare rabbia gridata, e stupida perché perdente. Ma rabbia che comunque non nasce dal nulla. Ogni evento ha una storia, un tempo lungo in cui è iscritto ed è maturato: ha cause che dispiegano effetti, non è istante che fluttua nell’etere come piuma ed è infilabile in ogni tipo di racconto. Questa verità viene ignorata da parte della gerarchia, ma anche dal Pontefice nell’ultimo incidente italiano. È la verità di una Chiesa italiana che ancora non ha deciso che fare, dopo la perdita della Dc: se schierarsi con la destra o no, se far politica direttamente o privilegiare lo spirituale, il profetico-pastorale. È la verità di un Pontefice che sta mostrandosi incapace di sintesi, di delicatezza istituzionale. Di volta in volta Benedetto XVI aderisce a una corrente o all’altra della gerarchia, senza anticipare proprie soluzioni alte e meno italiane. Un giorno s’infiamma contro il «degrado» di Roma, e ventiquattr’ore dopo descrive una città accogliente e ben governata. Precipitosamente accetta di aprire l’anno accademico, poi rinuncia senza fugare il sospetto che la ritirata sia uno strumento - maneggiato da Ruini - per inasprire le tensioni anziché placarle. La sua opinione politica oscilla, diventa impreparazione, per forza vien chiamata inconsistente. È un’impreparazione che non solo ignora la dimensione del tempo ma che induce i vertici del Vaticano a sprezzare i significati profondi della laicità, dell’autonomia della politica, dello Stato neutrale. È assurdo doverlo ricordare alla presenza di un cattolicesimo che ha dato all’Europa questa separazione: ma laicità non è pensiero debole, non è visione relativista del mondo, dell’etica. Il laico non è, contrariamente a quello che Marcello Pera ha scritto su questo giornale, «chi non crede o non riesce a credere». Non è neppure chi non riesce a «conferire senso alla vita», a «interpretare il male» perché dotato del lume della ragione e non anche della fede. Il laico è colui che tra Chiesa e Stato sente di dover erigere, come diceva Thomas Jefferson, un alto «muro di separazione»: per proteggere sia la sovranità legiferante del popolo, sia le religioni. Diceva Jefferson che i poteri legislativi del governo «riguardano le azioni, non le opinioni» (Lettera ai Battisti di Danbury, 1802), e di azioni devono ancor oggi occuparsi i governi. La laicità non è un’opinione ma un metodo, uno spazio dove le convinzioni più diverse - anche integraliste - possono incontrarsi senza violenza e senza impedire leggi attente al bene comune. L’autonomia della politica (il «muro» di Jefferson) non appartiene al non cristiano: appartiene a ciascuno. Non esiste una forza esterna allo Stato cui viene delegata la «competenza delle competenze», come la chiama lo storico Giovanni Miccoli, e che può decidere le materie su cui lo Stato può o non può legiferare. Il muro di Jefferson in Italia è in permanenza fatiscente - anche se esiste nella sua Costituzione - e questo origina cronici disordini e l’alternarsi continuo di ingerenze e di contestazioni anti-papaline. Queste ultime son state definite malate, ma non meno malate son state le ingerenze degli ultimi anni: l’intera spirale necessita guarigione e correzione. Il chiaro muro divisorio non esisteva nemmeno nella Spagna di Franco, nel Portogallo di Salazar, e quella malattia ha prodotto la reazione di Zapatero e le sue misure di riordino e separazione laica.

In Italia siamo a un bivio simile, anche se con impressionante ritardo. È come se nella nostra Chiesa permanesse ancora il modello franchista spagnolo, come se il pensiero di cattolici come Rosmini e Maritain non avesse mai messo radice. Come se non ci fossero stati il Concilio Vaticano II e Paolo VI, difensore della laicità di Maritain contro gli integralisti del Vaticano. Come se fosse ancora vivo e forte il «partito romano» che per decenni, da dentro la Chiesa, cercò di suscitare uno Stato etico cristiano in Italia e mai si conciliò con papa Montini e la Dc autonoma di De Gasperi.

L’episodio della Sapienza non è caduto dal cielo, e non rendersene conto significa che una certa imprudentia politica sta divenendo la caratteristica del Pontefice. Dice ancora Pera che le vecchie regole laiche sono sorpassate, e forse lo pensa anche Benedetto XVI. Sono invece più che mai attuali, in un’Europa dove si è ormai insediato un Islam forte, in espansione. Senza Stato laico, che garantisca cattolici e non cattolici, atei e agnostici, avremmo in Europa guerre di religioni, intolleranze, pogrom. Avremmo catastrofi benefiche solo a chi non sa apprezzare quanto si stia bene, quando «tutto fila liscio».

lastampa.it

19.1.08

Il paese che non ce la fa

Galapagos

Poco più di due euro netti al giorno: a tanto ammontano le richieste dei metalmeccanici. Eppure il padronato non molla e - purtroppo - larga parte del paese è abbastanza indifferente alle lotte e molto seccato quando trova le strade e le autostrade bloccate dalle manifestazioni di chi rivendica un contratto scaduto da troppo tempo. Eppure basta guardare la bilancia commerciale: se l'Italia regge il merito è del settore manifatturiero e in particolare di quello metalmeccanico. Grazie al plusvalore da loro prodotto l'enorme disavanzo dei conti con l'estero viene bilanciato.
La lotta dei metalmeccanici assume una valenza ancora più grande alla luce dei dati diffusi ieri dall'Istat sulla distribuzione del reddito delle famiglie nel 2005. La media è di 2.311 euro al mese, «tuttavia il 61% ha conseguito un reddito inferiore all'importo medio a causa di una distribuzione diseguale». Questo significa che non bisogna farsi ingannare dalle medie visto che il i 2/3 delle famiglie hanno un reddito inferiore di 450 euro al mese della media. Non sappiamo esattamente cosa è successo nel 2006 e nel 2007, ma anche se non c'è più Berlusconi miracoli non sono stati fatti: la distribuzione del reddito seguita a essere infame.
Prendiamo i più ricchi e quelli più poveri: il 2% delle famiglie in fondo alla scala sociale dovrebbe riuscire a sopravvivere con meno di 6.358 euro l'anno, mentre il 5% di quelle più agiate vive con oltre 65 mila euro. Certo, stiamo parlando dei molto ricchi e dei molto poveri, ma allargando le percentuali al 10% o al 20% delle famiglie lo squilibrio si conferma. E chi sta al Sud sta molto peggio, mediamente di un 30%. Queste cifre ci dicono chiaramente che il fisco da solo non basta: per i meno abbienti serve un intervento diverso, «socialdemocratico», sperando che a sinistra nessuno si offenda.
C'è un dato - del 2006 - che colpisce: il 28,4% dei nuclei dichiara all'Istat di non essere in grado di affrontare una spesa «necessaria e imprevista» di 600 euro. E il disagio economico sale al 41,3% per le famiglie del sud. L'Italia è un popolo di risparmiatori, si è solito affermare. Falso: milioni di famiglie, decine di milioni di persone non hanno una lira da parte.
E qui torniamo ai metalmeccanici, ma non solo loro, visto che in piedi ci sono lotte molte più dure come quelle dei lavoratori del commercio che si scontrano con multinazionali o piccole aziende nelle quali lo sciopero è impossibile. Quei due euro al giorno sono necessari per sopravvivere un po' meno peggio. E per vivere un po' meno peggio serve restringere l'area della precarietà e della flessibilità che invece Federmeccanica vorrebbe allargare. Ma non basta: serve un fisco più selettivo che non premi l'evasione fiscale, per cui i lavoratori dipendenti guadagnano in media più del loro padrone. Forse i puristi del fisco neutrale storceranno la bocca, ma fino a quando il cancro dell'evasione non sarà estirpato è necessario «privilegiare» chi non può evadere destinando a questi soggetti deboli tutto l'extra gettito.
ilmanifesto.it

18.1.08

FINLANDIA - Gli insegnanti migliori

GUNNAR HERRMANN

Per capire perché gli studenti
finlandesi siano tra i più preparati al mondo basta dare un’occhiata alla qualità degli insegnanti, soprattutto nella scuola elementare. Secondo gli esperti è proprio nei primi anni di apprendimento che si gettano le basi per avere in futuro studenti brillanti. In Finlandia solo chi ha superato un duro processo di selezione può presentarsi di fronte a una classe di bambini. Quest’anno la scelta è stata particolarmente rigorosa e la competizione più dura del solito. “Avevamo 1.300 candidati per 120 posti”, spiega il professor Jukka Rantala, responsabile della formazione degli insegnanti all’università di Helsinki. Chi riesce a studiare con Rantala all’istituto di pedagogia applicata deve aver superato un esame scritto, che promuove solo 360 aspiranti insegnanti, e poi una prova orale. I futuri maestri tengono brevi relazioni di fronte a una commissione esaminatrice e svolgono alcuni compiti di gruppo. Ma soprattutto devono spiegare i motivi per cui vogliono diventare docenti. Gli esaminatori cercano di scoprire se la vocazione per l’insegnamento è abbastanza forte da spingerli ad affrontare classi difficili, bambini irrequieti e giornate di lavoro intense.
Chi supera le selezioni verrà formato per insegnare alle elementari, che in Finlandia durano nove anni. Per questo lavoro servono docenti preparati in tutte le materie, dalla letteratura finlandese alla chimica fino alla storia. Ma la materia principale è l’insegnamento stesso: psicologia, pedagogia e didattica compongono infatti buona parte del programma di studio per i futuri insegnanti. Anche la tesi di laurea deve riguardare le scienze dell’educazione.
La cosa più difficile da capire è perché la carriera scolastica sia così ambita. Neanche Rantala è riuscito a venire a capo di questo mistero. Solo di una cosa è certo: l’interesse dei giovani per l’insegnamento non dipende da una questione di soldi. “Lo stipendio degli insegnanti di scuola elementare è piuttosto basso”, spiega, “mentre i docenti delle superiori guadagnano meglio”. Eppure per quest’altro tipo di insegnamento i candidati sono molti di meno. “Forse la passione di tanti giovani”, afferma il professore, “è collegata ai ricordi piacevoli degli anni trascorsi alle elementari”.
internazionale.it

16.1.08

Lettere dei professori de La Sapienza in merito alla visita del Papa

Era il 14 novembre del 2007 quando il professor Cini inviò la seguente lettera aperta " Se la Sapienza chiama il Papa e lascia a casa Mussi", pubblicata sul Manifesto

Signor Rettore, apprendo da una nota del primo novembre dell'agenzia di stampaApcom che recita: «è cambiato il programma dell'inaugurazione del 705esìmo Anno Accademico dell'università di Roma La Sapienza, che in un primo momento prevedeva la presenza del ministro Mussi a ascoltare la Lectio Magistralis di papa Benedetto XVI». Il papa «ci sarà, ma dopo la cerimonia di inaugurazione, e il ministro dell'Università Fabio Mussi invece non ci sarà più».

Come professore emerito dell'università La Sapienza - ricorrono proprio in questi giorni cinquanta anni dalla mia chiamata a far parte della facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali su proposta dei fisici Edoardo Amaldi, Giorgio Salvini e Enrico Persico - non posso non esprimere pubblicamente la mia indignazione per la Sua proposta, comunicata al Senato accademico il 23 ottobre, goffamente riparata successivamente con una toppa che cerca di nascondere il buco e al tempo stesso ne mantiene sostanzialmente l'obiettivo politico e mediatico.

Non commento il triste fatto che Lei è stato eletto con il contributo determinante di un elettorato laico. Un cattolico democratico - rappresentato per tutti dall'esempio di Oscar Luigi Scalfaro nel corso del suo settennato di presidenza della Repubblica - non si sarebbe mai sognato di dimenticare che dal 20 settembre del 1870 Roma non è più la capitale dello stato pontificio. Mi soffermo piuttosto sull'incredibile violazione della tradizionale autonomia delle università - da più 705 anni incarnata nel mondo da La Sapienza dalla Sua iniziativa.

Sul piano formale, prima di tutto. Anche se nei primi secoli dopo la fondazione delle università la teologia è stata insegnata accanto alle discipline umanistiche, filosofiche, matematiche e naturali, non è da ieri che di questa disciplina non c'è più traccia nelle università moderne, per lo meno in quelle pubbliche degli stati non confessionali. Ignoro lo statuto dell'università di Ratisbona dove il professor Ratzinger ha tenuto la nota lectio magistralis sulla quale mi soffermerò più avanti, ma insisto che di regola essa fa parte esclusivamente degli insegnamenti impartiti nelle istituzioni universitarie religiose. I temi che sono stati oggetto degli studi del professor Ratzinger non dovrebbero comunque rientrare nell'ambito degli argomenti di una lezione, e tanto meno di una lectio magistralis tenuta in una università della Repubblica italiana. Soprattutto se si tiene conto che, fin dai tempi di Cartesio, si è addivenuti, per porre fine al conflitto fra conoscenza e fede culminato con la condanna di Galileo da parte del Santo ufficio, a una spartizione di sfere di competenza tra l'Accademia e la Chiesa. La sua clamorosa violazione nel corso dell'inaugurazione dell'anno accademico de La Sapienza sarebbe stata considerata, nel mondo, come un salto indietro nel tempo di trecento anni e più.

Sul piano sostanziale poi le implicazioni sarebbero state ancor più devastanti. Consideriamole partendo proprio dal testo della lectio magistralis del professor Ratzinger a Ratisbona, dalla quale presumibilmente non si sarebbe molto discostata quella di Roma. In essa viene spiegato chiaramente che la linea politica del papato di Benedetto XVI si fonda sulla tesi che la spartizione delle rispettive sfere di competenza fra fede e conoscenza non vale più: «Nel profondo.., si tratta - cito testualmente - dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'infima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio».

Non insisto sulla pericolosità di questo programma dal punto di vista politico e culturale: basta pensare alla reazione sollevata nel mondo islamico dall'accenno alla differenza che ci sarebbe tra il Dio cristiano e Allah - attribuita alla supposta razionalità del primo in confronto all'imprevedibile irrazionalità del secondo - che sarebbe a sua volta all'origine della mitezza dei cristiani e della violenza degli islamici. Ci vuole un bel coraggio sostenere questa tesi e nascondere sotto lo zerbino le Crociate, i pogrom contro gli ebrei, lo sterminio degli indigeni delle Americhe, la tratta degli schiavi, i roghi dell'Inquisizione che i cristiani hanno regalato al mondo. Qui mi interessa, però, il fatto che da questo incontro tra fede e ragione segue una concezione delle scienze come ambiti parziali di una conoscenza razionale più vasta e generale alla quale esse dovrebbero essere subordinate. «La moderna ragione propria delle scienze naturali - conclude infatti il papa - con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda {sui perché di questo dato di fatto) esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali a altri livelli e modi del pensare - alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi a essa significherebbe una riduzione inaccetabile del nostro ascoltare e rispondere».

Al di là di queste circonlocuzioni (i corsivi sono miei) il disegno mostra che nel suo nuovo ruolo l'ex capo del Sant'uffizio non ha dimenticato il compito che tradizionalmente a esso compete. Che è sempre stato e continua a essere l'espropriazione della sfera del sacro immanente nella profondità dei sentimenti e delle emozioni di ogni essere umano da parte di una istituzione che rivendica l'esclusività della mediazione fra l'umano e il divino. Un'appropriazione che ignora e svilisce le innumerevoli differenti forme storiche e geografiche di questa sfera così intima e delicata senza rispetto per la dignità personale e l'integrità morale di ogni individuo.

Ha tuttavia cambiato strategia. Non potendo più usare roghi e pene corporali ha imparato da Ulisse. Ha utilizzato l'effige della Dea Ragione degli illuministi come cavallo di Troia per entrare nella cittadella della conoscenza scientifica e metterla in riga. Non esagero. Che altro è, tanto per fare un esempio, l'appoggio esplicito del papa dato alla cosiddetta teoria del Disegno Intelligente se non il tentativo - condotto tra l'altro attraverso una maldestra negazione dell'evidenza storica, un volgare stravolgimento dei contenuti delle controversie interne alla comunità degli scienziati e il vecchio artificio della caricatura delle posizioni dell'avversario - di ricondurre la scienza sotto la pseudo-razionalità dei dogmi della religione? E come avrebbero dovuto reagire i colleghi biologi e i loro studenti di fronte a un attacco più o meno indiretto alla teoria danwiniana dell'evoluzione biologica che sta alla base, in tutto il mondo, della moderna biologia evolutiva?

Non desco a capire, quindi, le motivazioni della Sua proposta tanto improvvida e lesiva dell'immagine de La Sapienza nel mondo. Il risultato della Sua iniziativa, anche nella forma edulcorata della visita del papa (con «un saluto alla comunità universitaria») subito dopo una inaugurazione inevitabilmente clandestina, sarà comunque che i giornali del giorno dopo titoleranno (non si può pretendere che vadano tanto per il sottile): «Il Papa inaugura l'Anno Accademico dell'Università La Sapienza».

Congratulazioni, signor Rettore. Il Suo ritratto resterà accanto a quelli dei Suoi predecessori come. simbolo dell'autonomia, della cultura e del progresso delle scienze.

Marcello Cini

aprileonline.info



La lettera di 67 professori al Rettore de La Sapienza

Magnifico Rettore, con queste poche righe desideriamo portarLa a conoscenza del fatto che condividiamo appieno la lettera di critica che il collega Marcello Cini Le ha indirizzato sulla stampa a proposito della sconcertante iniziativa che prevedeva l'intervento di papa Benedetto XVI all'Inaugurazione dell'Anno Accademico alla Sapienza.

Nulla da aggiungere agli argomenti di Cini, salvo un particolare. Il 15 marzo 1990, ancora cardinale, in un discorso nella citta di Parma, Joseph Ratzinger ha ripreso un'affermazione di Feyerabend: ''All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto''.

Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano. In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora essere annullato.

15.1.08

Le incursioni di papa Ratzinger

Marcello Cini

Il «caso» della visita del papa, non si sa bene in che veste, per l'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza è scoppiato due giorni dopo quello della lavata di capo da lui rivolta al sindaco di Roma Veltroni come se fosse ancora il capo dello stato pontificio. Come già in altre occasioni non si sa se Ratzinger parli dalla cattedra di Pietro o da quella di professore di teologia, o magari dal trono di un re dell'ancien régime. E' un fuoco di fila di voluta confusione di ruoli che contrassegna il protagonismo di Benedetto XVI volto a riportare indietro di un paio di secoli l'orologio della storia. Un tentativo che, come ha ricordato Eugenio Scalfari, tende a «trasformare la gerarchia ecclesiastica e quello che pomposamente viene definito il Magistero in una lobby che chiede e promette favori e benefici, quanto di più lontano e disdicevole dall'attività pastorale e dall'approfondimernto culturale».
Questo disegno mostra che nel suo nuovo ruolo l'ex capo del Sant'Uffizio continua a interpretare il suo compito come espropriazione, con le buone o (come in passato) con le cattive, della sfera del sacro immanente nella profondità dei sentimenti e delle emozioni di ogni essere umano, da parte di una istituzione che rivendica l'esclusività della mediazione fra l'umano e il divino: espropriazione che ignora e svilisce le differenti forme storiche e geografiche di questa sfera così intima e delicata senza rispetto per la dignità personale e l'integrità morale di ogni individuo.
Come alcuni lettori del manifesto forse ricordano già in novembre avevo rivolto al rettore della Sapienza una lettera aperta, nella quale esponevo le ragioni della mia indignazione per un invito a tenere una lectio magistralis che mi appariva del tutto inappropriata nella forma e nella sostanza. Alcuni colleghi hanno voluto successivamente unire la loro voce alla mia e li ringrazio per averlo fatto. Siamo certamente una minoranza del corpo accademico, ma non credo purtroppo che la maggioranza dei miei colleghi si interessi molto alle questioni che non attengono direttamente alla loro attività professionale.
Anche se la proposta di lectio magistralis non è stata portata avanti, si è scoperto, guarda caso, che il papa si troverà a passare da quelle parti proprio lo stesso giorno dell'inaugurazione dell'anno accademico e dunque che sarebbe stato scortese non chiedergli di dire due parole. La sostanza è dunque che il papa inaugurerà giovedì l'anno accdemico dell'Università La Sapienza.
Perché ci indignamo tanto? Perché siamo così intolleranti e settari da non volergli dare la parola? Provo a spiegarlo in due parole. In primo luogo perchè le università, per lo meno quelle pubbliche, sono - negli stati non confessionali - una comunità di studiosi, docenti e discenti, di tutte le discipline universalmente riconosciute, di tutte le scuole di pensiero, di tutte le culture e gli orientamenti politici e religiosi, scelti dai loro pari per i loro contributi scientifici e culturali. Nessuno di loro può però accettare che qualcuno, per quanto vanti investiture dall'Alto, possa loro prescrivere cosa debbano o possano dire, fare o pensare. Ognuno ha la propria coscienza e la propria deontologia professionale. In particolare possiamo tollerare che il papa possa dire ai nostri colleghi biologi che non devono prendere sul serio Darwin? Oppure ai nostri colleghi filosofi che è «inammissibile» - parole del professor Ratzinger a Ratisbona - «rifiutarsi di ascoltare le tradizioni della fede cristiana»?
Concludo con una domanda semplice. Una cosa simile potrebbe mai accadere non dico nella Spagna di Zapatero ma anche in Francia in Germania, in Inghilterra o negli Stati Uniti?
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