21.9.12

Da dove ripartire

  Rossana Rossanda, il manifesto

La discussione sul manifesto è partita male. La prima domanda non è di «di chi è» ma «che cosa è» il manifesto. Anche per ragioni economiche. Un giornale è nel medesimo tempo una merce, se lettori non lo comprano fallisce. Occorre chiedersi perché da diversi anni abbiamo superato il limite delle perdite consentito ad una impresa editoriale, mentre i costi di produzione salivano. Direzione, Cda e redazione + tecnici hanno sottovalutato questo dato, pur reso regolarmente noto, illudendosi che avremmo recuperato lettori aumentando le pagine e i servizi con un restyling dopo l'altro. E' stato un errore imperdonabile. Se il giornale è di chi lo fa, il suo fallimento è di chi lo ha fatto. Cioè noi. Teniamolo presente. Altri giornali «politici» - cioè interessanti per un governo o una forza di opposizione o un gruppo sociale - hanno avuto problemi simili ai nostri: una tradizione da non perdere, una redazione rodata da decenni, vendite insufficienti e ricorso a finanziatori (nel nostro caso circoli o gruppi di lettori). Nessuno di questi tre attori è in grado di far uscire da solo un quotidiano. Perciò, per esempio in «Le Monde» la proprietà è ripartita un terzo i fondatori, un terzo la redazione e un terzo i finanziatori. Seil manifesto vivrà ancora, la sua proprietà potrebbe poggiare su un sistema analogo. Ma preliminare è che redazione, lettori e finanziatori siano d'accordo sul suo ruolo: «che cosa è», se ha un legame con la sua origine, se c'è un collettivo di lavoro che ci crede e un numero di lettori e sostenitori in grado di farlo uscire.
Le ragioni per rispondere sì o no a queste tre domande possono essere molte, ma tutte politiche. Su di esse è manifestamente diviso il «collettivo», mentre del gruppo dei fondatori siamo rimasti soltanto Parlato, Castellina ed io, e non è chiaro che cosa auspicano lettori e circoli di sostegno.
Il manifesto è nato nell'onda del '68 come quotidiano comunista libertario. I fondatori erano stati radiati dal Pci per questo e per la loro critica radicale all'Urss. Il riflusso del '68 assieme alla liquidazione da destra dei «socialismi reali» sono pesati sul collettivo non meno delle difficoltà materiali di tirare avanti. Il collettivo si è andato dividendo fra reducismi diversi, tentazioni di appoggio diretto o indiretto ai sostitutivi del partito comunista (Pds e seguenti o Rifondazione e seguenti), movimenti o «il movimento dei movimenti». Più di recente fra ecologia e teoria dei beni comuni.
Si riflettono nel suo specchio le difficoltà di una «sinistra» sempre meno omogenea nell'interpretare contraddizioni e bisogni d'un assetto sociale investito dalla crisi del socialismo reale e dal mutare della scena internazionale rispetto a quella ereditata dalla seconda guerra mondiale. Delle due superpotenze durate dal 1945 agli anni '90 una è sparita, l'Urss, la seconda, gli Stati Uniti, resta la più armata del mondo ma non ha più il primato nel ritmo di sviluppo che è passato alla Cina (partito unico e socialismo «di mercato») per il suo alto tasso di crescita, e per il fatto di detenere gran parte del debito americano. Nuovi per importanza anche i paesi «emergenti», il Brasile in ascesa con un modello politico democratico e socialmente progressista, l'India democratica e capitalista, mentre l'America Latina, sfuggita al dominio statunitense, sviluppa diversi progressismi a scarsa democrazia formale. La caduta dei socialismi reali ha frantumato il modello duale fra un «capitalismo imperialista» e i «socialismi reali», i secondi sono scomparsi e il primo vacilla fra crisi economica, sopravvento della finanza sulla «economia reale», incertezze del modello sociale, crisi della democrazia rappresentativa. Se vi si aggiunge la riaffermazione delle religioni monoteiste in polemica con il pensiero politico moderno, è evidente che i parametri con i quali si dovrebbe analizzare il presente non sono gli stessi di trenta anni or sono.
In Italia il suicidio del Partito comunista, non accompagnato da una analisi autocritica ma da elusivi cambi di nome e defezioni della sua base storica, e quello analogo della democrazia cristiana, ha portato a una crisi di identità della politica e dei partiti, che ha dato luogo alla consegna di tutto il parlamento alla priorità della «tecnica» rappresentata da Mario Monti. Ai margini si sviluppano dei movimenti o proteste qualunquiste al limite della legalità costituzionale. E' il solo paese che ha rinunciato a una fisionomia propria e articolata, seguendo i dettami liberisti della Unione Europea, fatti propri sfuggendo a ogni consultazione popolare.
Che può essere il manifesto in questo quadro? Direzione e collettivo si sono sottratti a un'analisi, fino ad arrivare a una dichiarazione di fallimento, dando voce senza discuterla a questa o quella posizione delle deboli sinistre come se fosse la propria. In particolare ad appoggiare la rinuncia ai partiti come forme della politica per una rappresentazione diretta di opinioni e interessi che si configurerebbero attraverso liste civiche più o meno legate ai comuni. Tuttavia l'assenza di una discussione lascia aperte anche altre ipotesi, come lo strutturarsi di un partito del lavoro per ora non ulteriormente definito.
Identità e finalità del manifesto non sono più quelle delle origini, ma il mutamento non è stato dichiarato. Così come sembra scomparsa, anche qui senza una argomentazione esplicita, la nostra ricerca di un marxismo critico. Le une e l'altra esigerebbero un lavoro analitico comune che non c'è stato, come se l'uscita quotidiana fosse incalzata e sommersa da eventi non previsti né dominati. Non a caso la sola priorità emersa dall'ex collettivo è stata la difesa del posto di lavoro.
Tale andazzo non è accettabile e il progressivo diminuire dei lettori e dell'ascolto lo conferma. Ammesso che la testata possa riprendere su un base economica sana e finché direzione e collettivo non avranno votato la decisione di rompere con la sua origine, il manifesto ha l'obbligo politico e morale di definirsi rispetto alla sua intenzione fondativa.
Nel 1969 dirsi comunisti non era puramente simbolico: le lotte degli anni sessanta, i movimenti studentesco e operaio del '68 e del '69, la vittoria del Vietnam che si annunciava, i problemi aperti dalla Cina sulla natura del socialismo reale, permettevano di puntare come a un obbiettivo realizzabile a un mutamento del rapporto di forze fra le classi, e all'interno delle medesime. Non solo fra di noi ma nel Psiup e in più d'uno dei gruppi che avrebbero tentato di dare vita alle forze extraparlamentari si era già riflettuto sui limiti di una rivoluzione dal vertice, soltanto politica, su quelli di una mera sostituzione del capitale pubblico al privato, e si erano fatti impetuosamente strada due temi di grande rilievo che erano assenti dall'agenda del socialismo, il femminismo e l' ecologia.
Questo processo è volto a termine in meno di un decennio, lasciando in piedi soltanto la tematica del movimento operaia in quanto fatta propria da alcuni sindacati, il problema sollevato dal femminismo e dall'ecologia. Ma le sinistre storiche - non solo per non rompere il legame con l'Urss, della quale non vedevano il declino - non si sono aperte alla inattesa spinta diffusa che emergeva in quegli anni, non hanno alimentato né si sono alimentate di questo movimento ma piuttosto vi si sono opposte. Isolato, quando non combattuto, esso è stato lasciato a una generosa ma immatura elaborazione, favorendo alcune derive, e infine la sua stessa dissoluzione. Ne è venuto un vuoto politico irrimediabile, dal quale è scaturita, più che in altri paesi dove la sinistra era pesata di meno, un disorientamento e poi una svolta dell'opinione verso una destra che Berlusconi - meno di cinque anni dopo il crollo del Muro di Berlino -esprimeva nella sua forma più volgare, e da questa sarebbe andata al nascere di un populismo distruttivo.
Non siamo stati capaci di occupare quel che poteva essere il nostro proprio terreno di lavoro, la crisi dei socialismi reali, che eravamo stati i soli ad annunciare, la ristrutturazione del capitalismo a livello mondiale, le diverse soggettività che ne sarebbero seguite. Il trionfo dell'avversario ci ha debilitato e demotivato: non solo i lettori sono diminuiti ma è calato il peso che il manifesto aveva avuto nell'opinione anche in momenti difficili, come il sequestro di Moro, l'emergenza, la messa sotto accusa del '68. Gli anni '80 ne sono stati la prova. La caduta dell'Est, che per noi doveva essere un'occasione, è stata la cartina di tornasole sulla quale si è scoperta la debolezza delle sinistre storiche ma anche la nostra, che non l'ha affrontata ed ha finito con il considerarla uno scoglio da evitare. Eppure un vecchio slogan aggiornato dalle nostre Tesi del 1970, «socialismo o barbarie» diventava la vera alternativa: come chiamare altrimenti la soppressione progressiva di ogni diritto sociale cui siamo avviati? Non tanto il «potere ai Soviet», del cui fallimento storico abbiamo lasciato parlare le destra, ma la priorità della salvaguardia del fattore umano, della sua crescita e dei suoi diritti è andata svanendo a favore d'un affidamento al libero mercato come unico regolatore sociale, facendoci arretrare agli anni venti e all'orlo delle pericolose involuzioni che ne sono seguite. Su una scelta liberista, e contrariamente alle speranze dei suo primi padri, s'è fatta l'Unione Europea, avvitandola saldamente con il trattato di Maastricht, ai pii desideri del trattato di Lisbona, alla impossibilita di sottoporsi a un giudizio dei popoli. Assai lontana da una omogeneizzazione politica, la Ue non è, in sostanza, che la sua moneta, l'euro, sottoposto ad acerbe oscillazioni per la discrasia dei regimi fiscali, l'ingigantirsi della finanza, la deindustrializzazione del continente, la conseguente debolezza dei codici del lavoro, la crisi esterne, prima di tutte quella dei subprimes nel 2008. L'esorbitante aumento della finanza rispetto alla cosiddetta economia reale e la interdizione agli stati di intervenire a correggerlo, ha esposto l'euro a una oscillazione in tutti i paesi del sud, cui si impongono direttamente per via legislativa o indirettamente, tramite il gioco dei mercati enfatizzato dalle agenzie di rathing, crudeli cure di austerità, che li precipitano nella crescente disoccupazione e precarietà. In queste condizioni rinascono scetticismi antieuropei ridesta e di sinistra, e la legittimazione popolare sia d'una misura o di un governo è resa difficile.
La politica lamenta che l'economia la ha sopraffatta, come se essa stessa - e si tratta di governi di socialisti, laburisti o di centrosinistra - non se ne fosse liberata, rinunciando alla possibilità di intervento pubblico («meno stato più mercato») e accettando la riduzione dell'economia a pura contabilità della spesa dello stato, aggravata dai six pack successivi. Privi di risorse, per la disoccupazione crescente e il rifiuto d'una tassazione dei redditi e in particolare della finanza, gli stati sono paralizzati e le classi subalterne pagano prezzi sempre maggiori. Basta scorrere i pochi articoli del «fiscal compact» votato dai governi europei il 28 giugno a Bruxelles per rendersi conto che si tratta di puro obbligo monetario, che avrebbe addirittura favorito la speculazione dei mercati sul debito degli stati se la Bce non fosse intervenuta con prestiti illimitati a breve termine, evitando uno strangolamento immediato ma esigendo dai paesi che li richiedano che si accetti uno stretto controllo della Bce, del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione. Il testo del fiscal compact appare difficile da sottoporre a un referendum, come chiedono alcune sinistre radicali, per il suo tecnicismo (tempi dei rimborsi e condizioni per i crediti) e il suo silenzio su tutte le richieste socialmente pressanti. Come osserva più d'uno dei commentatori politici (G. Rossi su «Il Sole 24 ore» o Adriano Prosperi su «Repubblica») il fattore umano è del tutto assente da questi accordi, che neppure notano l'aumento dei disoccupati (si calcolano 18 milioni in Europa), l'estendersi della deindustrializzazione crescente, la delocalizzazione verso paesi a costo del lavoro più basso che mediamente in Europa, la minaccia di evasione fiscale degli alti redditi in Francia.
Tale scelta dei governi, che rappresenta il massimo consenso alla tesi di un von Hajek e il massimo della contraddizione all'orientamento delle costituzioni dopo la seconda guerra mondiale, toglie spazio all'uso di quelle possibilità di difesa delle classi subalterne che esse avevano conquistato nel lungo periodo del compromesso keynesiano, prodotto dallo scontro fra capitale e lavoro, delineato per primo da Roosevelt come via d'uscita dalla crisi del '29, sicuramente rafforzato dalla potenza dell'Urss e teorizzato dopo il 1938 soprattutto in Gran Bretagna. Il movimento del '68 ne ha messo in luce i limiti politici e strutturali, ma è d'obbligo riconoscere che lo ha destrutturato, evidenziandone appunto gli aspetti di compromesso sociale, piuttosto che spingerlo in avanti. Accelerata dopo il 1989, la Unione Europea è nata sconfessando il modello «keynesiano» (e la nuova sinistra ne aveva dato alcuni argomenti) e una bozza di trattato dopo l'altra, malgrado i wishful thinkhing di Lisbona, hanno vincolato gli stati a un rigore di bilancio basato sulla riduzione del costo del lavoro e su una sua organizzazione che le nuove tecnologie permettono di ridurre nelle quantità della manodopera invece che nella riduzione dei tempi e delle cadenze, mentre la liberazione del mercato da ogni vincolo permette di mettere in concorrenza i salariati europei con quelli di paesi ex colonizzati, assai minori. Le classi subalterne sono spinte, come in Grecia e in Spagna, a votare il proprio annichilimento sindacale e politico. Non sorprende che dilaghi l'euroscetticismo soprattutto nelle ex roccaforti operaie e che in esse abbiano ascolto le destre estreme.
Quando l'ad della Fiat, Marchionne, parla di «un prima e un dopo Cristo» nelle relazioni sociali sottolinea una verità: le sinistre, non solo comuniste e socialiste ma socialdemocratiche, hanno lasciato nel disorientamento del 1989 la loro base e i loro principi, con ciò perdendo il loro potere contrattuale (salvo in alcuni paesi scandinavi) ed è quel che ne rimane oggi è il bersaglio della controparte. Non inganniamoci: non è il comunismo che oggi il padronato delle multinazionali ha deciso di distruggere, operazione che ha già compiuto da solo, ma quella legittimità degli opposti interessi sociali che i Trenta Gloriosi avevano dovuto riconoscere, che aveva permesso alle lotte operaie di esistere e di conquistare alcune condizioni che ancora oggi alcuni, anche fra noi, considerano diritti inalienabili. Non ci sono nei rapporti fra le classi diritti inalienabili. Essi vanno difesi metro per metro dalla possibilità di un arretramento, del quale nel recente passato lo strumento fondamentale è stata la utilizzazione esclusivamente padronale della tecnologia, e oggi la più volgare riduzione dell'economia a una contabilità dello stato, mutilata dalle entrate un tempo assicurate dalla più vasta platea occupazionale, e al suo regime comunitario. In questo senso la soggezione ai dettami liberisti, sulla quale è stata formata la Unione Europea, somiglia a un fatale combinato-disposto: è interdetto alla sfera politica di intervenire sul sistema economico, ed è permesso al sistema economico di intervenire nel continente, entrandovi e uscendone senza renderne conto agli stati, mentre le distruzioni, che queste razzie comportano sul tessuto sociale dei diversi paesi, costituiscono un aggravio finanziario per il relativo stato mentre ne minano le basi e il consenso.
La ricostituzione d'un potere di contrattazione sostenuto dalla legge e di conseguenza d'un controllo politico, statale o comunitario, sui movimenti di capitale, unitamente alla tassazione delle transazioni fiscali, è una misura che si va rivelando sempre più urgente. Ed è sostenuta non solo dalla manodopera industriale, che chiede di ricostituire le sue basi produttive, adeguandole nel contempo alle compatibilità ecologiche e ambientali, e quindi una politica economica esplicita e discussa in comune, ma anche dalle classi medie, il cui potere d'acquisto è in calo. L'allargarsi del ventaglio delle disuguaglianze sociali, come non mai nel secondo dopoguerra, ha portato a un affluire della ricchezza su un decimo della popolazione, e della grande ricchezza su un decimo di questo decimo (Gallino, Pianta).
E' una tendenza non sostenibile, e impone una inversione di rotta. Anche perché allo sbiadire dei rapporti di forza contrattuali si aggiunge l'affievolirsi del più generale sistema democratico, che si sconnette e contraddice, da una parte, sotto l'urto del mercato selvaggio e, dall'altra, di una antipolitica diffuso. La lezione di Federico Caffè è stata distrutta negli anni '70 e '80.
Essa è una condizione perché l'orizzonte di una trasformazione che investa alle radici la proprietà resti aperto, salvaguardandone anzitutto i soggetti. I tentativi di assegnare ad altri gruppi sociali il ruolo che era stato posto nella classe operaia non ha avuto esito. Esso non è durevolmente passato alla gioventù acculturata e/o marginale, come pensava Herbert Marcuse, malgrado i processi di proletarizzazione cui è sottoposta, né nelle popolazioni dei paesi terzi, come si è creduto nel primo postcolonialismo, né nella reattività delle moltitudini, difesa da Negri e Hardt.
In Italia, l'azzeramento di fatto del parlamento nella unanimità senza condizioni richiesta da Mario Monti per accettare l'incarico ha ottemperato di fatto alle condizioni poste dalla Bce, dal Fmi e dalla commissione europea. Quale partito o coalizione si presenta oggi esplicitamente contro Monti, garante di questa Europa? E di Monti, e ciò che rappresenta, è garante il presidente della Repubblica. Che questa soluzione sia stata promossa da un ex dirigente del Pci diventato Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è il segno più eloquente di ciò che è avvenuto nelle sinistre nel 1989. E anche dei limiti assai stretti nei quali potrà muoversi, se ci sarà, di una alternativa a questo governo.
Ma occorre tenere presente questi vincoli, dunque spostare l'orizzonte in Europa, se si vuol evitare che il primo passo già compiuto nella recessione diventi un cadere catastrofico in essa. E' la situazione di tutti i paesi europei del sud, dalla Grecia all'Italia alla Spagna, al Portogallo, e l'indice attorno allo zero crescita previsto in Francia sta mettendo anche Parigi su questa soglia. Negli Stati Uniti, l'esito della crisi del 2008 è violentemente impugnato dalle destre per corrodere i flebili risultati della presidenza Obama - dipinti come addirittura «comunisti»- in Francia per bloccare in partenza le modeste riforme di Hollande, dovunque per non disturbare il capitale finanziario, e per esso, soprattutto da noi, le banche tedesche. L'aggressione è totale.
Ma hanno ragione Stiglitz e Krugman a scrivere che questa strada è senza uscita, i livelli di disoccupazione e di «crescita negativa» non sono sostenibili da nessun paese, senza conseguenze politiche nefaste, ripetendo uno scenario da Anni Venti. I paesi del sud non vedono uscita dal tunnel, ma comincia a patirne anche la Germania che vendeva la maggior parte dei suoi prodotti sul mercato europeo, e lo vede restringersi. Una svolta appare a molti necessaria. Bisogna dimostrare che è ragionevole e possibile.
Mi pare indubbio che il manifesto, qualora resti in vita, debba lavorare sulla base di questa analisi e insistere sul riportare il fattore umano - occupazione e servizi sociali, redistribuzione delle imposte sui ceti più favoriti e sulla finanza - al centro di qualsiasi programma politico che si dica di sinistra. Argomentando modi e tappe e battendosi per spostare i vincoli europei che vi si oppongono. L'inquietudine è grande in vari paesi del continente, e il nostro giornale potrebbe darle argomenti e voce. Si tratta di un lavoro politico e culturale di lunga lena, rivolto senza equivoci a quella parte del paese che non intriga ma pensa e si interroga, smettendo di galleggiare su obbiettivi generici e a breve, nessuno dei quali è riuscito a realizzarsi ad oggi.

18.9.12

Rabbia, amore, sete di giustizia c’è ancora chi dice no

Rabbia, amore, sete di giustizia <br /> c’è ancora chi dice no
Di Ascanio Celestini
Verso la fine degli anni Sessanta iniziava un decennio o poco più di impegno politico. Un impegno che nasceva nelle sezioni dove si stracciavano le tessere di partiti e sindacati sognando una politica nuova, un paese libero dai burocrati che erano passati indenni dal fascismo alla repubblica, dalla Democrazia Cristiana che doveva stare al potere per legge tanto da sembrare una monarchia.
Libero dallo sfruttamento sul lavoro, dalla scuola fatta di tanti banchi di contenzione rivolti verso una cattedra che era posta sulla pedana per far sembrare ancora più grande l’insegnante. Negli anni Settanta si sognava una scuola dove il sapere era condiviso e non versato dall’alto sugli scolaretti trasformati in vasi vuoti da riempire. Sono gli anni dello statuto dei lavoratori, quello che Mario Monti ha recentemente indicato come un ostacolo alla creazione di posti di lavoro, delle leggi sull’aborto e sul divorzio, fino alla 180 che ha iniziato una lenta, ma inesorabile chiusura dei manicomi-lager dove i pazienti erano così poco curati che venivano stipati per comportamento (agitati, semi-agitati, tranquilli) invece che per patologia e finivano dentro per ciò che avevano fatto (pericolosi per se o per gli altri e di pubblico scandalo) e non per ciò che soffrivano.
In quegli anni c’è stata una guerra che il potere ha combattuto con i tentati colpi di Stato e con i tanti morti nelle strade, con il sostegno alla criminalità organizzata che iniziava dall’occhio chiuso sulla speculazione edilizia alla vera e propria collusione, con il finanziamento della destra eversiva e con le stragi. E tanti hanno cominciato a pensare che il PCI non aveva il copyright sulla rivoluzione, che stava con tanti piedi in tante scarpe, nelle sezioni e nei salotti, nelle fabbriche e nei palazzi del potere. In quegli anni molti hanno pensato che il capitalismo non può essere riformato perché è un tumore. Quando il tumore trionfa, l’organismo muore. E dunque andava colpito prima che dilagasse. Migliaia furono arrestati. Arrestati in massa secondo il cosiddetto teorema Calogero «visto che non si riesce a prendere il pesce, bisogna prosciugare il mare». Si inventarono nuove galere e nuove tecniche di detenzione, istituiti i Kampi dell’Asinara o di Trani dove il detenuto era il camoscio in gabbia.
Davanti ai sequestri e agli attacchi al cuore dello stato si videro reazioni diverse. Moro restò solo. Mentre per Cirillo, dalle cui mani passavano i soldi della ricostruzione dopo il terremoto campano, corsero politici e industriali. Le porte delle carceri divennero girevoli e le trattative coinvolsero tutti: stato, anti-stato e para-stato. Poi l’utopia si sgretolò. Accadde un po’ alla volta o tutto insieme, ma fatto sta che ad un certo punto non stava più in piedi. Arrivò anche una grande nuvola di eroina e gli anni Ottanta furono i veri anni di piombo. Gli anni in cui si guardava tanto la televisione e poco dalla finestra.
Non era solo l’intrattenimento delle tv commerciali. Abbiamo assistito alla trasformazione della televisione. Prima era intesa come elettrodomestico, uno strumento che accendi quando decidi tu quando ne hai bisogno o quando ti fa piacere usarlo. Negli anni Ottanta è diventata essa stessa una finestra che puoi aprire o chiudere, ma sta sempre lì ad occupare una parte del muro. Sempre aperta. Magari col vetro chiuso, ma con la persiana spalancata. E se oltre la finestra succede qualcosa, ci butti un occhio. Con la differenza che attraverso la finestra vedi solo quello che accade veramente, mentre quello che ti mostra la televisione non sai più se sta succedendo davvero.
Non lo sai e non ti interessa saperlo. Linguisticamente non ha più senso nemmeno chiederselo. La notizia del telegiornale è messa accanto al balletto televisivo, condivide la musica della pubblicità, si mescola alle facce del comico e del politico. Si mescolano immagini e cose e si mischiano anche i canali. In quegli anni, guardare la televisione non significava più seguire un programma o vedersi un film. La televisione è rimasta nel suo buco, magari col vecchio centrino e la gondola che c’aveva messo sopra la nonna, ma un pezzo fondamentale di quell’elettrodomestico è comparso nella nostra mano. Il telecomando è stato una rivoluzione pari allo schermo che avevamo davanti.
Oggi la televisione si guarda così. Passando da un canale all’altro. Se prima era un frullato nel quale non capivamo più gli ingredienti perché erano tanti e con tutti i sapori, ora è un frullato di frullati. È come mettere insieme cibo e vestiti, mezzi di trasporto e parole di lingue straniere. Non viene fuori un cibo che puoi indossare o un treno parlante, ma una pappa incommestibile che non veste, non dice e non porta da nessuna parte. Il passo avanti può essere solo internet che ti porta in giro per il mondo lasciandoti in mutande davanti al computer. Come internet anche la televisione è dispensatrice di invisibilità. Vedere senza essere visti è meglio che spiare dal buco della serratura. Non rischi che qualcuno ti apra la porta all’improvviso o ti arrivi alle spalle e ti scopra. E poi ti dà l’idea di vivere davvero in una democrazia. Tutti ugualmente invisibili. Una repubblica di spettri. Quei proletari che potevano unirsi per spezzare la proprie catene si sono riciclati in fantasmi che trascinano le proprie catene. Insomma gli italiani si sono abituati male.
Potevano odiare i politici restando seduti in poltrona o, al massimo, potevano tirare fuori la testa commentando i titoli dei giornali al bar. Poi è arrivata la crisi. Non una guerra che distrugge le città con la bomba atomica che trasforma centomila esseri umani in un unico mucchio di polvere, ma un grande evento che coinvolge soprattutto i paesi ricchi.
Quelli poveri non corrono rischi. Sono già stabilmente messi male. Ma sono i paesi che hanno inventato l’unione europea che corrono rischi. Quelli che hanno creduto alla macchina magica del capitalismo, quelli che se la sono inventata e che l’hanno brevettata. Che l’hanno sperimentata attraverso dittature e colpi di stato. Sono gli spagnoli che dopo decenni di dittatura s’erano presi il diritto di avere almeno un altro boom economico. Uno con la dittatura e poi un altro con la democrazia.
Sempre con la stessa famiglia reale impermeabile a qualsiasi regime e a qualsiasi opposizione. Sono gli irlandesi che hanno provato le contraddizioni di una guerra di religione antica, moderna e post-moderna allo stesso tempo. Sono i portoghesi che hanno assistito al salazarismo che inneggiava all’ignoranza di conoscere solo dieci parole perché la cultura era nemica dello stato. È la Grecia dei colonnelli, ma anche l’Europa spaccata in due, divisa da muri e accordi, cucita e scucita da servizi segreti. Fino alla Romania delle bandiere bucate, passando dall’Ungheria del ’56, dalla Cecoslovacchia del ’68, fino alla Jugoslavia smembrata, torturata e bombardata. E poi è l’Italia metà giardino e metà galera che s’è svegliata nell’estate del 2001 a Genova. Sì, mi pare che il presente che ci appartiene e al quale apparteniamo ricominci da lì. Da quei giorni s’è capito meglio che il mondo globalizzato è una grande truffa. Globalizzazione è solo un altro nome dell’imperialismo. Prima erano le caravelle a muoversi verso le presunte Indie, ora sono le portaerei. I cattivi avevano la pelle rossa, ora hanno la pelle scura, ma non troppo e in genere hanno la kufiya in testa o il passamontagna nero, a seconda dei casi.
Dopo Genova, sia chi c’era, sia chi non c’era, ha capito che il ventesimo secolo era davvero finito. Finite le sue lotte in cerca di una classe sociale e un partito che desse la linea. Finite le rivoluzioni che portano il paradiso in terra. Finite le democrazie che si chiamano rappresentative come in un felice ossimoro. Ma se sono democrazie, cioè sistemi nei quali il popolo ha il potere, perché questo potere deve essere consegnato nelle mani di rappresentanti? Finita l’Europa e i blocchi. Finita la capacità dei mezzi di comunicazione di portare la verità degli eventi direttamente nelle nostre case attraverso il giornale o la televisione, attraverso la radio o la magica rete di internet. L’informazione si trasforma in narrazione. Nell’impossibilità di raccontare tutto, si racconta e basta. Si narra per essere affascinanti, per riempire lo stomaco al fruitore.
E se ti capita di stare veramente lì dove le cose succedono, ti accorgi che quella cosa non viene mai raccontata abbastanza bene. Non viene mai detto tutto.
Così nascono le nuove lotte. Dopo i partiti e i movimenti si torna ai territori dove la democrazia è diretta. Dove l’informazione non conta. Dove il partito è una nostalgia per nonni. Si arriva alla Val Susa che non ha rappresentanti. Ai No DalMolin di Vicenza che si riappropriano almeno di un pezzo di terra strappandola alla base militare americana per farne un parco della pace. Ai coordinamenti contro l’inceneritore di Albano, le discariche di Riano, il ponte sullo stretto (che finalmente è stato decretato ufficialmente una stupidata)… fino agli occupanti dell’ex-cinema Palazzo, del Valle, di Cinecittà, del teatro di Ostia. E a chi li rimprovera di dire sempre no risponde il poeta, codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Da Pubblico del 18 settembre 2012

Chomsky: "Occupy Wall Street? Ora deve fare un salto di qualità"

Dialogo a 360°, spaziando dalla linguistica alla Primavera araba
e alla libertà di opinione in Italia

CARLA RESCHIA

"Occupy Wall Street? “Se un anno fa mi avessero detto quello che volevano fare avrei risposto che era una follia. Non ci credevo e sbagliavo, sono incredibili. Ora però devono fare il passo successivo: una tattica non può diventare un movimento, deve fare un salto di qualità”. Noam Chomsky a Trieste fa il pieno di folla - 1400 persone al teatro Rossetti strapieno, dopo che le prime due sedi, più piccole, erano state abbandonate per il crescere delle prenotazioni – e dialoga a 360°, spaziando dalla linguistica alla Primavera araba alla libertà di opinione in Italia, “Ne avete abbastanza, tutto sommato, ma pochi sanno usarla”. Senza dimenticare i temi economici e la dittatura delle multinazionali, suo cavallo di battaglia, con molti excursus storici, da Martin Luther King a Kennedy, e con uno speciale accanimento verso Obama, che voterà, dice con una metafora di montanelliana memoria, “turandosi il naso”, ma che intanto incolpa, con il suo stile sommesso, di colpe peggiori di quelle dei Bush padre e figlio e che definisce un ottimo pr, nulla di più: “Manca di sostanza, parla per slogan”. Dalla lectio magistralis del mattino alla Sissa, con il conferimento del dottorato honoris causa in Neuroscienze, al dialogo con i giornalisti, al confronto con il pubblico del pomeriggio, ricco di domande e generoso di risposte, Chomsky ribadisce punto per punto le tesi incendiarie che ne hanno fatto un’icona no global. Ma a un ragazzo che gli chiede che strategie usare durante le manifestazioni risponde in modo quasi pasoliniano, suggerendo il dialogo con i poliziotti: “Fanno parte del 99% dell’umanità sottomessa, e non dell’1% che ha in mano i soldi e il potere. Forse ricordarglielo può indurli a un modo diverso di vedere le cose”.

Ecco il Noam-pensiero
Obama v/s Romney

Non ho mai avuto nessuna particolare aspettativa su Obama, le elezioni negli Usa sono una farsa, una stravaganza, un fenomeno di pubbliche relazioni che non decide nulla. Obama ha vinto perché aveva un’ottima strategia di marketing, ecco tutto. Non è una mia opinione, è stato anche premiato per questo. Nel 2008 è stato nominato Advertising Age's marketer, votato da centinaia di addetti ai lavori riuniti nella conferenza nazionale dei pubblicitari”. Per il resto: “Il costo delle elezioni aumenta e diminuisce la loro credibilità, mentre Obama fa il peggio del peggio: arresta chi si oppone, fa ammazzare in giro per il mondo i “nemici”, nemmeno Bush aveva osato tanto, lui si limitava a farli sparire e a consegnarli a stati con leggi più elastiche.

Le emergenze globali
Sono indubbiamente la guerra e il disastro ambientale, ma ben lungi dal salvaguardarci i governi ci portano a questo, pensate solo a come viene gestita la crisi economica. E non solo. In passato ci sono stati innumerevoli allarmi atomici, disinnescati a pochi minuti dal passaggio alle vie di fatto, di cui nessuno ci ha informato. E questo negli Usa, nulla sappiamo, ad esempio, della Russia. Istituire, ad esempio un’area libera dalle armi nucleari in Medio Oriente sarebbe un passo in avanti , ma ne siamo più che mai lontani.

Primavera araba
Non fiorisce in Arabia Saudita, dove è stata subito repressa e non riesce in Egitto dove il potere dell’esercito resta intatto. Il Medio Oriente è l’ultima roccaforte del potere egemonico statunitense, in declino dalla fine della seconda guerra mondiale. Il Sud America è andato perso, il Medio Oriente è l’ultima roccaforte e gli Stati Uniti non vogliono la democrazia, appoggiano le dittature perché sono funzionali al loro controllo.

Iran
Ci sono studi e sondaggi che indicano come le popolazioni del Medio Oriente non vedano nell’Iran atomico un pericolo. Anzi, la bomba atomica iraniana è, per loro, un fattore di equilibrio verso quelli che considerano gli stati canaglia per eccellenza, Israele e Stati Uniti. E la bomba iraniana è vista come un legittimo diritto. Perché l’Iran non dovrebbe avere armi atomiche dato che è circondato da stati che le possiedono? Perché Israele dovrebbe rappresentare un’eccezione? Questo i media non lo dicono. Così come non dicono l’ovvio: Se l’Iran si comportasse come Israele può fare impunemente la reazione sarebbe ben diversa.

Social network
Non è una grande rivoluzione come, ad esempio, il telegrafo o il telefono. Non cambia il linguaggio, cambia solo la percezione. I social media creano l’illusione di avere tanti amici (vedi Facebook) ma non sono amici, solo conoscenze superficiali. Tecnologia: E’ neutra, né buona né cattiva, come il martello che può servire a costruire una casa ma anche a demolirla. Dipende dall’uso che se ne fa, può essere un grande strumento ma anche una trappola.

Cina Non credo che sarà il prossimo Paese egemone. Per quanto abbia fatto grandi progressi ha ancora grandi sacche di povertà e molti problemi interni. Inoltre non può né vuole competere con gli Stati Uniti sul piano militare, è impossibile perché le spese per gli armamenti degli Stati Uniti superano da sole, quelle del mondo intero. L’ecologia e l’aumento della popolazione sono i temi con cui dovrà fare i conti. La sua espansione in Africa è puramente economica, ma offre anche servizi, lavoro, in Libia, ad esempio, la guerra è stato il tentativo di reimporre il dominio occidentale su una realtà che stava sfuggendo.

Europa
Quello che si sta distruggendo, scientemente, è il welfare che rendeva peculiare il sistema europeo. L’ha dichiarato espressamente Mario Draghi al Wall Street Journal: è un modello obsoleto. Non avviene per caso, c’è un piano. Lo stesso che ha portato al declino degli Stati Uniti. Un declino autoinflitto perché causato da misure economiche che hanno provocato stagnazione e hanno azzerato i guadagni della classe media ma hanno moltiplicato quelli dell’elite dominante. Del resto, è folle pensare di poter risanare l’economia imponendo sacrifici e rinunce a paesi in recessione. Il risultato è che i giovani stanno perdendo la loro fiducia nel futuro. Davvero era necessario?

Mass media
Negli Usa la libertà d’informazione è straordinaria, ma anche in Europa non è male. Tutto sta ovviamente a volersi informare e a non dar retta ai mass media che fanno il loro lavoro, ovvero distrarre l’attenzione da quello che fa il governo. Il punto è che le informazioni non vengono diffuse, gli intellettuali sono complici e il lavoro di Wikileaks ha avuto la sorte che sappiamo.

La speranza
La storia ha tempi lunghi, cui non siamo più abituati. Rimpiango la scomparsa del partito comunista negli Stati Uniti perché i comunisti sapevano aspettare e non si arrendevano di fronte a una sconfitta ma, ostinatamente, perseveravano. Oggi la Norvegia che offre a un pluriassassino come Breivik un processo equo e la possiblità di una riabilitazione è un modello ma è una conquista recente, un tempo sarebbe stato ucciso. Questo per dire che non dobbiamo aspettarci miracoli o cambiamenti istantanei, ma lavorare per il cambiamento sapendo che non lo vedremo.

17.9.12

Inna Shevchenko. Un esprit sein (Libération)

Inna Shevchenko. Un esprit sein  (Libération)

Cette militante du Femen, mouvement féministe ukrainien qui manifeste poitrine à l’air, lance un «camp d’entraînement» à Paris.


Inna Schevchenko du mouvement Femen. - Photo Guillaume Herbaut Institute pour Libération
     «Nous étions jeunes quand nous avons commencé.» Inna Shevchenko a 22 ans. Elle croise les jambes et se redresse un peu dans son fauteuil étroit. Elle sourit. «Je ne suis plus jeune désormais.» Cette militante de Femen, ce mouvement féministe ukrainien devenu célèbre pour ses protestations seins nus, est arrivée en France fin août, en catastrophe, avec un visa de tourisme. Quelques jours plus tôt, à Kiev, cette grande et jolie blonde a découpé à la tronçonneuse une croix orthodoxe en soutien aux Pussy Riot. Scandale, évidemment, menace de prison. «Des hommes» la suivent dans tous ses déplacements. «Un matin, ils ont commencé à enfoncer ma porte, j’ai attrapé mon passeport et je me suis enfuie par la fenêtre», raconte-t-elle. D’abord Varsovie, puis c’est Paris, quartier de la Goutte-d’Or, au Lavoir moderne parisien (LMP). Cet «immense hangar, à plafond plat, à poutres apparentes, monté sur des piliers de fonte, fermés par de larges fenêtres claires» comme le décrit Zola dans l’Assommoir, est un théâtre de quartier menacé de fermeture. Ses gérants, sensibles à la cause, ont toutefois décidé de prêter gracieusement l’espace aux Femen pour qu’elles lancent un «camp d’entraînement international», qui ouvre officiellement ce mardi. Exercices psychologiques, théoriques, sportifs : le programme est chargé. Inna Shevchenko s’enthousiasme : «Nous voulons former des jeunes femmes à devenir des soldats pour la cause féministe à travers le monde.»Pour elle, le militantisme se résume en un mot : «Travail».
     La première manifestation des Femen a eu lieu à Kiev en avril 2008. Trois jeunes femmes se griment en prostituées. Elles savent déjà que leur militantisme, contre le sexisme et la prostitution, passera par des actions de rue. A l’université, menées par Anna Hutsol, 27 ans, la tête pensante, elles ont fondé une association exclusivement réservée aux femmes, Nouvelle Ethique. A l’époque, Inna Shevchenko est étudiante en journalisme, tout en étant employée au service de presse de la mairie de Kiev. «J’avais un bon boulot, je payais mon appartement sans problème, j’étais une jeune fille modèle.» Elle qui vient de Kherson, port sur les bords de la mer Noire, est séduite par le «pop-féminisme» des Femen. Son père est militaire, sa mère est employée dans un lycée, elle a une sœur aînée.
    En 2010, le mouvement décide de changer de stratégie. Certaines manifesteront désormais seins nus. La première est fixée un 24 août, jour de l’indépendance ukrainienne. «Nous avons eu une très longue discussion, se souvient-elle. Moi, je ne voulais pas le faire, mais aujourd’hui, je pense que c’était la meilleure des idées.» Des jeunes Ukrainiennes, belles et élancées, protestant en petite tenue ? Forcément, les médias accourent, plus intéressés par des plastiques réputées parfaites que par les revendications. «La presse est notre meilleure protection, explique-t-elle. Si nous sommes seins nus, notre message est beaucoup plus relayé et nous sommes moins en danger
    Elle assume : «Nous avons voulu montrer que les féministes ne sont pas que des vieilles femmes cachées derrière leurs bouquins.» Et, ce corps nu, ou presque, elle le défend vigoureusement. «En Ukraine, il n’y a pas de culture de l’activisme, nous avons dû tout inventer. J e serais incapable de me déshabiller à la plage, mais, quand je manifeste, j’ai l’impression de porter ce que j’appelle mon "uniforme spécial."» Elle mime quelqu’un en train de se déguiser. «Pour la première fois, le corps des femmes n’appartient plus aux hommes. Ils sont décontenancés, ils ont peur», continue-t-elle. Sa fierté est évidente.
    Manifestation contre la prostitution, la corruption, ou encore en France contre DSK… Les Femen sont sur tous les fronts. Si leurs manières d’agir détonnent, elles restent pour le moment sur des revendications féministes plutôt traditionnelles. La situation générale des femmes en Ukraine, «belles, pauvres et pas éduquées» comme les voit la jeune militante, y est sans doute pour beaucoup. Le plus souvent, elles sont plus ou moins violemment évacuées par la police mais, parfois, cela tourne mal.
    Soudain, Inna Shevchenko baisse la voix, elle hésite un peu, penche la tête, semble moins assurée. Le 21 décembre 2011, à Minsk, Biélorussie, elles sont trois à manifester en ce jour d’hiver contre le dictateur Loukachenko. Elle raconte qu’elles sont arrêtées par une quinzaine d’hommes. En garde à vue, elles sont longuement interrogées, insultées, menacées, frappées. Dans la nuit, elles sont encagoulées, puis remises à un autre groupe. Elles roulent longtemps, se retrouvent dans une forêt. Un instant de silence. Les hommes leur conseillent de bien respirer l’air frais, parce que «c’est la dernière fois». Et ils leur recommandent «de fermer les yeux et de penser au sourire» de leurs mères. Ils leur coupent les cheveux. Mais, finalement, ne les tuent pas. Ils les laissent là, au milieu de nulle part. Elles ne sont pas si loin de la frontière ukrainienne. Elles trouvent un petit village, appellent les médias. L’ambassadeur ukrainien est contraint de les exfiltrer. «Au départ, il ne voulait pas, mais Reuters était déjà arrivé, il était obligé.» Elle sourit un peu à nouveau.
    Le succès médiatique attire les soupçons sur les Femen. «On a dit qu’on était financées par Obama, Soros ou même Poutine ! Mais ce n’est pas vrai. On a une boutique en ligne où on vend des tee-shirts. On a des petits donateurs, et on essaye de se faire inviter tous frais payés quand on se déplace à l’étranger.» Inna Shevchenko est l’une des quatre militantes à percevoir un salaire, «environ 600 euros par mois». «La Biélorussie a été la pire expérience de ma vie et la meilleure en même temps. J’ai compris que je voulais m’engager totalement dans les Femen», juge-t-elle. Cette célibataire explique ne plus «avoir de vie» en dehors et que ses seules amies sont des militantes. Elle voudrait importer cette culture de l’engagement à Paris où elle imagine rester tant qu’un retour à Kiev est trop risqué. «Pour le lancement, les Françaises voulaient organiser une fête, raconte-t-elle, mais j’ai dit "non, il faut une conférence de presse. C’est sérieux, cela ne doit pas être amusant."» Elle se reprend un peu : «Bon, il y aura tout de même une soirée après.» Eloïse Bouton, passée par Osez le féminisme ! et le collectif la Barbe, est la représentante de la branche française des Femen. Elle le reconnaît : «Dans l’avenir, il faut faire attention à ne pas tomber juste dans le spectacle, l’entertainment.»
    Le soir, Inna Shevchenko dit avoir du mal à faire une pause. Elle lit et relit la Femme et le Socialisme d’August Bebel, l’ouvrage de référence du groupe. L’homme politique allemand écrivait ceci en 1883 : «La femme, dans la société nouvelle, jouira d’une indépendance complète ; […] elle sera placée vis-à-vis de l’homme sur un pied de liberté et d’égalité absolues».

    Inna Shevchenko en 5 dates

    23 juin 1990 Naissance à Kherson (Ukraine).
    Août 2010 Première manifestation seins nus.
    Décembre 2011 Enlèvement en Biélorussie.
    Août 2012 Fuite à Paris.
    Mardi 18 septembre. Ouverture du «camp d’entraînement international» des Femen, à Paris.
    Photo Guillaume Herbaut. Institute

    1.9.12

    «Chiesa indietro di 200 anni »

    L'ultima intervista: «Perché non si scuote, perché abbiamo paura?»

    Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme , e Federica Radice hanno incontrato Martini l'8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».

    Come vede lei la situazione della Chiesa?
    «La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell'istituzione».
    Chi può aiutare la Chiesa oggi?
    «Padre Karl Rahner usava volentieri l'immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vede nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell'amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».
    Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?
    «Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un'autorità di riferimento o solo una caricatura nei media? Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all'interiorità dell'uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti. Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l'indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...). L'atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l'avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L'amore è grazia. L'amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»
    Lei cosa fa personalmente?
    «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall'aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l'amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l'amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».

    Dieci cose che i Conservatori non vogliono che si sappiano su Ronald Reagan

    10 Things Conservatives Don’t Want You To Know About Ronald Reagan

    Tomorrow will mark the 100th anniversary of President Reagan’s birth, and all week, conservatives have been trying to outdo each others’ remembrances of the great conservative icon. Senate Republicans spent much of Thursday singing Reagan’s praise from the Senate floor, while conservative publications have been running non-stop commemorations. Meanwhile, the Republican National Committee and former GOP House Speaker Newt Gingrich are hoping to make a few bucks off the Gipper’s centennial.
    But Reagan was not the man conservatives claim he was. This image of Reagan as a conservative superhero is myth, created to unite the various factions of the right behind a common leader. In reality, Reagan was no conservative ideologue or flawless commander-in-chief. Reagan regularly strayed from conservative dogma — he raised taxes eleven times as president while tripling the deficit — and he often ended up on the wrong side of history, like when he vetoed an Anti-Apartheid bill.
    ThinkProgress has compiled a list of the top 10 things conservatives rarely mention when talking about President Reagan:
    1. Reagan was a serial tax raiser. As governor of California, Reagan “signed into law the largest tax increase in the history of any state up till then.” Meanwhile, state spending nearly doubled. As president, Reagan “raised taxes in seven of his eight years in office,” including four times in just two years. As former GOP Senator Alan Simpson, who called Reagan “a dear friend,” told NPR, “Ronald Reagan raised taxes 11 times in his administration — I was there.” “Reagan was never afraid to raise taxes,” said historian Douglas Brinkley, who edited Reagan’s memoir. Reagan the anti-tax zealot is “false mythology,” Brinkley said.
    2. Reagan nearly tripled the federal budget deficit. During the Reagan years, the debt increased to nearly $3 trillion, “roughly three times as much as the first 80 years of the century had done altogether.” Reagan enacted a major tax cut his first year in office and government revenue dropped off precipitously. Despite the conservative myth that tax cuts somehow increase revenue, the government went deeper into debt and Reagan had to raise taxes just a year after he enacted his tax cut. Despite ten more tax hikes on everything from gasoline to corporate income, Reagan was never able to get the deficit under control.
    3. Unemployment soared after Reagan’s 1981 tax cuts. Unemployment jumped to 10.8 percent after Reagan enacted his much-touted tax cut, and it took years for the rate to get back down to its previous level. Meanwhile, income inequality exploded. Despite the myth that Reagan presided over an era of unmatched economic boom for all Americans, Reagan disproportionately taxed the poor and middle class, but the economic growth of the 1980′s did little help them. “Since 1980, median household income has risen only 30 percent, adjusted for inflation, while average incomes at the top have tripled or quadrupled,” the New York Times’ David Leonhardt noted.
    4. Reagan grew the size of the federal government tremendously. Reagan promised “to move boldly, decisively, and quickly to control the runaway growth of federal spending,” but federal spending “ballooned” under Reagan. He bailed out Social Security in 1983 after attempting to privatize it, and set up a progressive taxation system to keep it funded into the future. He promised to cut government agencies like the Department of Energy and Education but ended up adding one of the largest — the Department of Veterans’ Affairs, which today has a budget of nearly $90 billion and close to 300,000 employees. He also hiked defense spending by over $100 billion a year to a level not seen since the height of the Vietnam war.
    5. Reagan did little to fight a woman’s right to choose. As governor of California in 1967, Reagan signed a bill to liberalize the state’s abortion laws that “resulted in more than a million abortions.” When Reagan ran for president, he advocated a constitutional amendment that would have prohibited all abortions except when necessary to save the life of the mother, but once in office, he “never seriously pursued” curbing choice.
    6. Reagan was a “bellicose peacenik.” He wrote in his memoirs that “[m]y dream…became a world free of nuclear weapons.” “This vision stemmed from the president’s belief that the biblical account of Armageddon prophesied nuclear war — and that apocalypse could be averted if everyone, especially the Soviets, eliminated nuclear weapons,” the Washington Monthly noted. And Reagan’s military buildup was meant to crush the Soviet Union, but “also to put the United States in a stronger position from which to establish effective arms control” for the the entire world — a vision acted out by Regean’s vice president, George H.W. Bush, when he became president.
    7. Reagan gave amnesty to 3 million undocumented immigrants. Reagan signed into law a bill that made any immigrant who had entered the country before 1982 eligible for amnesty. The bill was sold as a crackdown, but its tough sanctions on employers who hired undocumented immigrants were removed before final passage. The bill helped 3 million people and millions more family members gain American residency. It has since become a source of major embarrassment for conservatives.
    8. Reagan illegally funneled weapons to Iran. Reagan and other senior U.S. officials secretly sold arms to officials in Iran, which was subject to a an arms embargo at the time, in exchange for American hostages. Some funds from the illegal arms sales also went to fund anti-Communist rebels in Nicaragua — something Congress had already prohibited the administration from doing. When the deals went public, the Iran-Contra Affair, as it came to be know, was an enormous political scandal that forced several senior administration officials to resign.
    9. Reagan vetoed a comprehensive anti-Apartheid act. which placed sanctions on South Africa and cut off all American trade with the country. Reagan’s veto was overridden by the Republican-controlled Senate. Reagan responded by saying “I deeply regret that Congress has seen fit to override my veto,” saying that the law “will not solve the serious problems that plague that country.”
    10. Reagan helped create the Taliban and Osama Bin Laden. Reagan fought a proxy war with the Soviet Union by training, arming, equipping, and funding Islamist mujahidin fighters in Afghanistan. Reagan funneled billions of dollars, along with top-secret intelligence and sophisticated weaponry to these fighters through the Pakistani intelligence service. The Talbian and Osama Bin Laden — a prominent mujahidin commander — emerged from these mujahidin groups Reagan helped create, and U.S. policy towards Pakistan remains strained because of the intelligence services’ close relations to these fighters. In fact, Reagan’s decision to continue the proxy war after the Soviets were willing to retreat played a direct role in Bin Laden’s ascendancy.
    Conservatives seem to be in such denial about the less flattering aspects of Reagan; it sometimes appears as if they genuinely don’t know the truth of his legacy. Yesterday, when liberal activist Mike Stark challenged hate radio host Rush Limbaugh on why Reagan remains a conservative hero despite raising taxes so many times, Limbaugh flew into a tirade and demanded, “Where did you get this silly notion that Reagan raised taxes?

    Update
    Salon has more in their series “The Real Reagan,” including how he cared more about UFOs than AIDS and how Reagan destroyed respect for the social compact that rebuilt America after World War II.

    10.8.12

    It’s the End of the World as We Know It

    It’s the End of the World as We Know It: 6 Post-Apocalyptic Reads
    By David Phethean

    What happens when it seems like the world is coming to an end, when the population has been reduced to a small fraction of its former size, and when everything once taken for granted is now gone? The Dog Stars, by Peter Heller, takes place several years after disease has wiped out ninety-eight percent of the population of North America and made survivors distrustful of outsiders who might bring contagion (or worse) to their communities.

    Hig, the narrator, is a man who has lost his wife to the virus, and who lives on an isolated airfield with his dog, Jasper, and one other person -- a heavily armed survivalist with whom he has created an uneasy peace. Hig is also a pilot, and he flies his single-engine plane on reconnaissance flights, checking the security of their perimeter, occasionally landing near an abandoned Coca-Cola truck to bring home treats, but always staying within fuel range of returning home safely.

    After he is attacked by outsiders while returning home one day, he assesses his life and decides to risk a longer flight -- one from which he may never return, if he cannot find fuel -- to try to locate the source of a radio message he has heard. What he finds when he risks all is what gives this novel its staying power.

    I have always been fascinated by stories like this, not because I am interested in how (or why) the world ends, but because of the way the characters react to what is happening around them. Everyone in these novels starts from essentially the same place, yet the choices that they make can be so wildly different, and the retention -- or loss -- of humanity that follows those choices is what fascinates me. And when there is grace, and hope, and faith, in the face of destruction and savagery, it serves as a reminder of how I want to live my own life.

    Here is a short list of a few other titles that deal with similar themes, each in its own unique way:

    The Brief History of the Dead, by Kevin Brockmeier
    The City is inhabited by those who have departed Earth but are still remembered by the living. They will reside in this afterlife until they are completely forgotten. Brockmeier creates a lyrical and haunting story about love, loss, and the power of memory.

    The Road, by Cormac McCarthy
    A father and son walk alone through a burned America. They have nothing but a pistol to defend themselves against the lawless bands that stalk the road, a cart of scavenged food — and each other. This Pulitzer Prize-winning novel is destined to be McCarthy’s masterpiece.

    Oryx and Crake, by Margaret Atwood
    Snowman, known as Jimmy before mankind was overwhelmed by a plague, struggles to survive in a world where he may be the last human, and mourns the loss of his friend, Crake, and the beautiful Oryx, whom they both loved. In search of answers, Snowman embarks on a remarkable journey.

    World War Z, by Max Brooks
    The Zombie War came close to eradicating humanity. Max Brooks, driven by the urgency of preserving the acid-etched firsthand experiences of the survivors from those apocalyptic years, traveled the world to record their testimony of encountering the undead. Here are his findings.

    The Age of Miracles, by Karen Thompson Walker
    On a seemingly ordinary day, Julia awakens to discover that the rotation of the earth has suddenly begun to slow. The days and nights grow longer and longer, gravity is affected, and the environment is thrown into disarray, as she struggles to navigate the new normal.

    12.7.12

    Zu Silviu

    Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano)

    Non occorreva grande perspicacia per sapere con certezza che il Cainano sarebbe tornato anche ufficialmente a capo del Pdl. Bastava conoscere un po’ la sua indole, ma soprattutto guardare la faccia di Alfano e leggere le firme dei cervelloni che ne magnificavano le doti di leader, l’irresistibile ascesa, lo smarcamento da B., il programma anzi l’“agenda” per un “nuovo centrodestra” moderno, liberale, europeo, moderato, finalmente scevro da conflitti d’interessi, e vaticinavano per il Cavaliere un ruolo da “padre nobile”.
    Era chiaro a tutti, fuorché ad Alfano e ai laudatores di corte, che mai, per quanto acciaccato e bollito, il Cainano avrebbe consentito che quella nullità ambulante dilapidasse quel poco che resta del suo bottino elettorale. E che, al momento buono, sarebbe tornato in prima linea.

    Ora il momento buono è arrivato, non certo per i finti sondaggi che darebbero il Pdl sotto la sua guida al 30%. Nel paese dell’amnesia gli occorreva qualche mese per far dimenticare i disastri degli ultimi 18 anni e il nome del responsabile numero uno. Napolitano e Monti, con l’ausilio del centrosinistra più masochista dell’universo, hanno svolto egregiamente la loro missione: caricarsi sulle spalle il prezzo dei sacrifici necessari dopo anni di finanza allegra, evitando che si andasse subito alle urne dalle quali B. sarebbe uscito asfaltato (almeno più del solito). Lui li ha fatti votare tutti, quei sacrifici (tanto nemmeno lo sfioravano), ma sempre dando l’impressione di farlo obtorto collo, per senso di responsabilità, mentre i suoi house organ bombardavano Monti dando l’impressione che il Pdl fosse all’opposizione. E comunque il Pdl che li approvava era quello di Angelino Jolie, non certo il suo. Intanto Bersani si svenava per tutti, spalmato con un’adesione acritica e incondizionata sul governo dei tecnici. Invece B. i voti di fiducia se li faceva pagare a uno a uno, cari e salati.

    La tecnica dell’inabissamento, molto simile a quella adottata dopo le stragi del 1992-’93 da Bernardo Provenzano, ha funzionato a meraviglia. Calati Silviu ca passa la china, cioè la piena. Zu Binnu scomparve per tre lustri e nessuno lo cercò più, grazie alla trattativa con lo Stato e a vent’anni di pax mafiosa, mentre Cosa Nostra faceva affari d’oro e incassava dividendi legislativi come lo smantellamento del 41-bis, delle supercarceri, dei pentiti, persino dell’ergastolo. Così Zu Silviu ha smesso di scassare tutto quando la partita era ormai persa nel novembre scorso, e da allora se n’è rimasto zitto e buono nelle retrovie, intascando sottobanco gli utili di ogni fiducia a Monti: i soliti favori a Mediaset su frequenze e concessioni tv, gli omaggi su Rai e Agcom, niente patrimoniale, nuove porcate sulla giustizia (responsabilità dei giudici, niente anticorruzione né manette agli evasori e prossimamente, se tutto va bene, pure la legge-bavaglio sulle intercettazioni che serve anche al Quirinale). Ora le urne si avvicinano. Ogni tentativo di travestirsi da Passera, Montezemolo o Casini è naufragato per la palese inconsistenza dei medesimi.

    Jolie ha svolto egregiamente il suo ruolo di trompe l’oeil e può tornare a indossare la livrea di maggiordomo e a entrare dalla porta di servizio. Le elezioni andranno come andranno: difficile che il Pdl si avvicini alla soglia del 37% e rotti del 2008. Ma nessun partito supererà il 30, con Grillo al 15. Dunque si fa una legge elettorale proporzionale senza premi di maggioranza, nessuno avrà i numeri per governare, e appena chiuse le urne Silvio, Pier e Bersani (o chi per lui) comunicheranno dolenti ai propri elettori, truffati un’altra volta, che purtroppo bisogna rifare all’ammucchiata ABC, anzi BBC, per un governo ri-Monti o Passera.
    Per salvare la Patria, ce lo chiede l’Europa.

    Così B., che si sarebbe estinto se si fosse votato subito, resterà l’ago della bilancia anche nella prossima legislatura, seguitando come sempre a chiagnere e fottere. Chiamatelo fesso.

    1.7.12

    Le conseguenze politiche della crisi economica

    di Rony Hamaui (lavoce.info)

    ­­­­­Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso arrivarono al potere non soltanto il nazismo in Germania e il fascismo in Italia, ma si affermarono regimi autoritari in mezza Europa. La crisi economica e finanziaria ebbe un peso determinante nella creazione dell’ondata antidemocratica. Resistettero meglio i paesi con sistemi elettorali che prevedevano forti sbarramenti ai partiti minori. Sono fatti e dati che oggi devono tenere ben presenti i responsabili politici europei.

    Attorno al 1920 ventiquattro stati europei potevano definirsi democratici. Nel 1939 in tredici di questi aveva prevalso regimi autoritari, tuttavia anche nei rimanenti undici le istituzioni democratiche vennero minacciate in maniera più o meno severa da movimenti e partiti anti-sistema.

    VENT’ANNI CHE SCONVOLSERO IL MONDO

    Un colpo di stato militare abbatté le istituzioni democratiche in Ungheria nel 1920, in Bulgaria nel 1923 e in Portogallo, Lituania e Polonia nel 1926. In Jugoslavia il re Alessandro I abolì i partiti politici e prese in mano il potere nel 1929. In Grecia l’ingovernabilità del paese indusse il re a chiamare il generale Metaxas a governare il paese con l’appoggio delle forze di destra. Lo stesso avvenne due anni dopo in Bulgaria, questa volta per contrastare l’avanzata della destra. Anche in Austria nel 1934 il cancelliere Dollfuss assunse tutti i poteri per contrastare l’avanzata delle destre, che pochi mesi dopo lo uccisero. Lo stesso avvenne poco dopo in Lettonia ed Estonia. (1) Questo per non citare il caso italiano e tedesco dove negli anni Venti e Trenta i partiti fascista e nazista presero il potere attraverso “libere” elezioni. Un’ampia letteratura storica, sociologica e politica è concorde nel ritenere che un simile scenario, per altro comune a molti paesi dell’America Latina, sia in buona parte imputabile alla crisi economica e finanziaria che ha colpito molti paesi in quegli anni. (2) A puro titolo d’esempio vale la pena ricordare che in Germania dopo gli anni di iperinflazione (1922-23) l’economia tedesca fu caratterizzata da un periodo di forte boom, il cosiddetto Golden Twenties (1924-28), seguito da una lunga recessione: nel 1932 il Pil si era ridotto di circa un quarto rispetto al picco del 1928 e i disoccupati erano saliti a oltre 6 milioni, dopo che il governo Hindemburg-Bruning aveva applicato una rigorosa politica fiscale e pesanti tagli alla spesa sociale. È solo in questa fase che il partito nazista, nato negli anni Venti, conseguì risultati veramente significativi (grafico 1). Anche Italia l’ascesa del Partito nazionale fascista segue un lungo periodo di crisi economica e recessione che va dal 1918 al 1921 (grafico 2).





    LA CRISI ECONOMICA, HITLER E MUSSOLINI

    I risultati elettorali tedesci e italiani non furono terribili eccezioni, ma la regola. Eccezionali furono tutt’al più le conseguenze, come ci ricorda il titolo di un recente lavoro di King, Tanner e Wagner: “Ordinary Economic Voting Behavior in the Extraordinary Election of Adolf Hitler”. (3) Certamente il clima politico istauratosi dopo la fine della prima guerra mondiale con la punitiva pace di Versailles, i milioni reduci delusi, la giovane età di molte democrazie nate dalla disgraegazione dell'impero austro-ungarico, la paura del comunismo vittorioso in Russia e la spaccatura della sinistra giocarono un importante. Tuttavia come mostra un recente lavoro di Bromhead ,B. Eichengreen e O ‘Rourke (4), la prolungata crisi economica ha giocato un ruolo determinate nel portare al potere i partiti anti-sistema in un campione di 28 paesi e 171 consultazioni politiche.

    SISTEMI ELETTORALI

    La storia ci consegna tre ulteriori moniti. In primo luogo, anche i sistemi politici, oltre quelli economici, sono soggetti a fenomeni di contagio: i regimi democratici come quelli autoritari tendono per motivi culturali a riprodursi da un paese all’altro. Secondo, i paesi con sistemi elettorali che hanno un forte sbarramento all’ingresso ai partiti minori sono quelli che meglio resistono alle crisi e all’avanzata dei partiti anti-sistema. Terzo, il più delle volte, non sono i disoccupati o i colletti blu, che hanno ammortizzatori sociali, a voltare le spalle alle democrazia, ma i così detti “working poor” e cioè i lavoratori autonomi, commercianti, piccoli professionisti, lavoratori domestici, che più sono toccati dalla crisi e votano i partiti anti-sistema, quasi sempre di destra.
    Di questo devono ricordarsi i capi di governo che si riuniscono il  28 e 29 a Bruxelles. Il Pil Greco è già caduto del 16 per cento negli ultimi cinque anni, mentre gli acquisti di armi leggere sono enormemente aumentati così come la ricerca delle parole “guerra civile” su Google. Se il governo di Samaras dovesse fallire nei suoi obiettivi, il prossimo parlamento greco potrebbe davvero diventare ingovernabile e le istituzioni democratiche sarebbero a rischio, non solo in Grecia.

    (1) G. Capoccia, (2005), Defending Democracy: Reactions to Extremism in Interwar Europe, Baltimore, Johns Hopkins University Press.
    (2) Stögbauer C. (2001), “The Radicalisation of the German Electorate: Swinging to The Right and the Left in the Twilight of the Weimar Republic, ”European ReviewOf Economic History 5; A. Diskin , H. Dikin, and R. Hazan “ Why Democracies Collapse: The Reasons for Democratic Failure and Success” International Political Science Review (2005), Vol 26, No. 3, 291–309
    (3) King, G., Rosen, O., Tanner, M. and Wagner, A.F.!(2008), “Ordinary Economic Voting Behavior in the Extraordinary Election of Adolf Hitler, Journal of Economic History 68: 951596
    (4) A. Bromhead ,B. Eichengreen and H. O’Rourke (2012) Right Wing Political Extremism in the Great Depression University of Oxford Discussion Papers in Economic and Social History Number 95, February

    29.6.12

    Una lira da scordare

    Massimo Gramellini

    Mettono tenerezza i cittadini che chiedono la rottamazione dell’euro e il ritorno alla vecchia moneta. Non rimpiangono la lira, ma il tempo della lira. Quando le famiglie risparmiavano ancora, l’economia cresceva poco ma cresceva, e la svalutazione gonfiava gli affari. Fare un mutuo costava il doppio di adesso e l’inflazione viaggiava a due cifre, però i cinesi stavano dietro la Muraglia, gli slavi ansimavano dietro il Muro e i brasiliani e gli indiani esportavano solo miseria. Il mondo era un posto relativamente piccolo e ordinato che coincideva con l’Occidente. Ma se oggi tornasse la lira, di quel tempo tornerebbe soltanto lei. Insieme con l’inflazione a due cifre. I cinesi non andrebbero certo indietro, e nemmeno i brasiliani. In compenso noi andremmo al supermercato con la carriola: non per infilarci la spesa ma i soldi necessari a comprarla. Una pila di cartaccia che della vecchia lira conserverebbe soltanto il nome. Secondo i calcoli più ottimistici perderemmo in un giorno il 30 per cento del valore di tutto ciò che ci resta, diventando la replica della Germania di Weimar che fece da culla al nazismo.

    Mettono tenerezza i cittadini spaventati dal futuro, quando si aggrappano a un passato che non può tornare. Mentre provocano soltanto rabbia quei politici che queste cose le sanno benissimo, ma preferiscono lisciare il pelo del popolo impaurito invece di guardarlo negli occhi e dirgli parole adulte: che chi perde la strada deve resistere alla tentazione di tornare indietro, perché solo andando avanti troverà il sentiero che lo riporterà sulla strada perduta.

    28.6.12

    Sono uguale a voi quel volto bianco accanto ai pugni neri

    Gianni Mura (La Repubblica)

    Bisogna sforzarsi di non guardare i due a testa bassa, il pugno chiuso alzato in un guanto nero, calze nere e niente scarpe, sul podio. Bisogna concentrarsi sull' atleta di sinistra, bianco, lo sguardo dritto, le braccia lungo i fianchi. Bisogna ricordare alcune cose, di quel 1968 perennemente associato al Maggio francese. Il 16 marzo il massacro di My Lai, il 4 aprile l' assassinio di Martin L. King, il 5 giugno tocca a Bob Kennedy. Aggiungiamoci il Biafra, i carri armati sovietici sulla primavera di Praga, la strage di piazza delle Tre Culture poco prima che cominci l' Olimpiade messicana. Bisogna sapere che la finale dei 200 metri la vince Tommie Smith in 19"83 (primo a scendere sotto i 20") davanti a Norman (20' 06")e Carlos (20' 10"). Carlos parte forte, troppo forte. Smith lo passa a 30 metri dalla linea e corre gli ultimi 10 a braccia alzate. Norman ai 100 metri è solo sesto, viene fuori nel finale, supera Carlos negli ultimi metri. Bisogna sapere che nel ' 67 Harry Edwards, sociologo a Berkeley, voce baritonale, discreto discobolo, ha fondato l' Ophr, Olympic program for human rights. L' idea è che gli atleti neri boicottino i Giochi, ma è difficile da realizzare. Chi aderisce porta il distintivo, una sorta di coccarda, ed è libero di manifestare la sua protesta come crede. Smith e Carlos, accolti alla San José perché bravi atleti, a loro volta studenti di Sociologia, portano il distintivo e vogliono manifestare. Bisogna anche avere un' idea sull' età dei tre sul podio. Tutti nati nel mese di giugno. Smith nel Texas, settimo di undici figli. Ha 24 anni. Suo padre raccoglie cotone. Normanè il più anziano, ha 26 anni, suo padreè macellaio, famiglia molto credente e vicina all' Esercito della salvezza. Carlos ha 23 anni,è figlio di un calzolaio, natoe cresciuto ad Harlem. Appena giù dal podio la loro carriera sarà finita, bruciata, e la vita un inferno. Ma loro non lo sanno e, se lo sanno, non gliene importa. Nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani. Tutto è fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indica la povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos mette al collo (ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato). Smith e Carlos spiegano. E Norman dice: «Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti». Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta. C' è un problema, Carlos ha dimenticato i suoi guanti neri al villaggio, mentre Smith ha con sé quelli comprati da Denise, sua moglie. «Mettetevene uno tu e l' altro tu», consiglia Norman. Così fanno. Smith alza il pugno destro e Carlos il sinistro. «Se ne pentiranno tutta la vita», dice Payton Jordan, capodelegazione Usa. Vengono cacciati dal villaggio, Smith e Carlos. Uno camperà lavando auto, l' altro come scaricatore al porto di New York e come buttafuori ad Harlem. Sono come appestati. A casa di Smith arrivano minacce e pacchi pieni di escrementi, l' esercito lo espelle per indegnità. A casa di Carlos minacce telefoniche a ogni ora del giorno e della notte. Sua moglie si uccide. Solo molti anni dopo li riprenderannoa San José, come insegnanti di educazione fisica. E nel 2005 Norman sarà con loro, per l' inaugurazione di un monumento che ricorda quel giorno in Messico. Norman in Australia viene cancellato. Supera 13 volte il tempo di qualificazione per i 200 e 5 quello per i 100, ma a Monaco ' 72 non lo mandano. Nessuna spiegazione. Gioca a football ma smette per un infortunio al tendine d' Achille, rischia l' amputazione di una gamba. Insegna educazione fisica, svolge attività sindacale, arrotonda in una macelleria. Il più grande sprinter australiano non è coinvolto in Sydney 2000 né tantomeno invitato (col suo 20"06 avrebbe vinto l' oro). Sofferente di cuore, muore il 3 ottobre 2006. Smith e Carlos vanno a reggere la bara, il 9 ottobre. La banda suona "Chariots of fire". Il 9 ottobre diventa, su iniziativa Usa, la giornata mondiale dell' atletica. Il nipote Matt ha girato un lungometraggio sul nonno, intitolato "Salute", trovando pochi finanziatori in patria («È una storia che riguarda due atleti neri»). Non erano due neri e un bianco a chiedere rispetto e giustizia su quel podio, erano tre esseri umani. «Sono affari vostri», poteva dire Norman, ma non lo disse e non si pentì mai, e gli altri due nemmeno. Tutte cose che la foto non dice.

    26.6.12

    Il Faraone alla corte del Celeste

    di Claudio Bellinzona (Non mi fermo)

    Per me pagare Abelli era come stipulare un’assicurazione. Dovevo tenermi buono un personaggio politico che nel settore contava molto (…) Alcuni sono stati costretti alle dimissioni solo per un sospetto, altri sono stati premiati con la nomina ad assessore.

    Giuseppe Poggi Longostrevi

    Ci sono persone che ti accompagnano per una vita, così come prima hanno accompagnato quella dei padri. Si tratta di figure contornate da uno strano alone di mito, il cui potere si estende per generazioni, confondendosi nella fluida e magmatica oscurità del tempo. Nomi grigi che a volte non hanno nemmeno un volto perché non ne hanno bisogno. Uomini (perché è difficile si tratti di donne) in grado di condizionare l’immaginario pubblico della tua città o monopolizzare per anni i discorsi nei bar.

    Ecco, una di queste persone si chiama Gian Carlo Abelli, settantunenne ex-democristiano oggi deputato nelle file del PDL. La sua carriera, esclusivamente politica (perché Abelli, dagli anni ’70, non ha mai avuto una professione indipendente da nomina politica), si sviluppa lungo un percorso piuttosto lineare in termini per così dire politici, benché più volte ostacolato da alcuni spiacevoli inconvenienti.

    Gli inizi

    Dai primi anni ’70 la sua posizione si consolida all’interno della DC lombarda e ciò, a partire dal 1974, gli permette di diventare il più giovane presidente di uno dei più importanti ospedali della Regione (e non solo), il Policlinico San Matteo di Pavia. Abelli non è né un manager né un esperto di sanità; non è neppure laureato, ma dimostra già la scaltrezza del politico della “prima Repubblica”: consensi elettorali, amicizie, rapporti trasversali. A favorirlo in questa impresa forse anche il suo piglio ruvido, accentuato dal marcato accento oltre-padano, e un’esibita tracotanza nei modi (per questo basta vedere alcune delle sue più recenti interviste per farsi un’idea).

    Nasce il mito del “Faraone”. Perché è così che incominciano a chiamarlo un po’ tutti perché è lui – solo lui – decidere tutto al Policlinico. Non c’è niente che si muova senza il permesso del Faraone.

    Molto prima di Tangentopoli, però, Abelli subisce l’onta del carcere. Nel 1985, infatti, viene accusato di peculato, ma dal processo ne esce assolto (la faccenda riguardava in particolare polizze che il Policlinico aveva firmato proprio a partire dal 1974). A pagarne le conseguenze, invece, il fratello della (futura) moglie di Abelli, l’assicuratore Claudio Gariboldi: arrestato e condannato per truffa.

    Il contraccolpo non produce alcun effetto, anzi. Il suo potere locale cresce e, con esso, anche il prestigio politico in Regione Lombardia tanto da essere nominato Presidente della Commissione Consiliare Sanità. Abelli e la sanità sembrano ormai essere una cosa sola, la stessa.

    Sua Sanità (Lombarda)

    Risalgono a quegli anni i rapporti fra Gian Carlo Abelli e Giuseppe Poggi Longostrevi. Quest’ultimo noto alle cronache per il fiorente business delle cliniche private; tanto redditizio da essere soprannominato “Re Mida”. Peccato che nel 1997 la magistratura scoprì che il medico-manager era il responsabile di una truffa miliardaria ai danni del Servizio Sanitario Nazionale basata su false prescrizioni sanitarie ed esami inutili. Oltre a decine di condanne (e centinaia prescrizioni), nei rivoli dell’inchiesta ci finisce anche Gian Carlo Abelli.

    Per lui, all’epoca non più Presidente di Commissione bensì consulente di Roberto Formigoni, la magistratura accerta un “versamento” di 72 milioni di lire che il beneficiario giustifica come saldo per una consulenza (“non effettiva” dirà la sentenza). L’accusa sarà dunque di frode fiscale e l’esito un’assoluzione in quanto la nuova normativa stabilisce che le false fatture sono punibili solo in caso ci sia “il dolo specifico di far evadere le tasse”.

    Nel 2000 Poggi Longostrevi si uccide con una dose letale di barbiturici. Ai posteri lascerà alcune dichiarazioni (qui in esergo) non proprio confortanti anche sull’amico Abelli. Lui, il Faraone, nel frattempo diventa assessore di Formigoni e, sebbene alla “Famiglia e Solidarietà Sociale” (dove passano comunque le decisioni su case di cura e centri anziani), mantiene salda la sua posizione di riferimento in ambito sanitario.

    Roma, senza lasciare Milano

    Passano gli anni e la Sanità Lombarda diventa “un modello” fondato su alcuni pilastri. In particolare, sulla distinzione fra enti acquirenti (le ASL) ed erogatori di prestazioni sanitarie (le Aziende Ospedaliere) e sulla parità di condizioni degli attori che partecipano a questo sistema attraverso il metodo del cosiddetto “accreditamento”. In parole povere: da una parte si procede con un graduale processo di “aziendalizzazione” delle strutture ospedaliere pubbliche attraverso l’ingresso di capitali privati; dall’altra si tende sempre di più alla privatizzazione dei servizi attraverso il meccanismo della compensazione dei servizi erogati. Soldi pubblici, tasche private. Un business immenso e che in Italia rappresenta la seconda industria italiana, solo dopo quella immobiliare. Un affare da 17 miliardi e 300 milioni di euro il business sanitario in Lombardia, un fatturato colossale che sfiora l’80 per cento del bilancio regionale (cfr. qui).

    L’eccellenza del modello lombardo, dice Formigoni. Un sistema che dal 1997 a oggi ha fatto la fortuna di molti imprenditori. Il sistema è talmente diffuso, imponente e complesso da far tremare i polsi. Interessi incrociati, partecipazioni, soci più o meno visibili compongono la mappa della geografia sanitaria in Lombardia. Una miriade di società, direttamente coinvolte o collegate all’indotto, che trasforma ogni analisi su quest’ambito un’ardua scommessa per qualsiasi cronista o inquirente. A svettare, come punte di un iceberg, certamente sono la Holding Papiniano di Giuseppe Rotelli (anche lui pavese) e il San Raffaele di don Verzè, oggi guarda caso salvato dal fallimento proprio da Rotelli.

    Naturalmente, in tutti questi anni, Abelli resta saldo in sella e nel 2008 viene eletto in Parlamento sotto le fila del PdL, di cui diventerà persino vice coordinatore nazionale. Le sue competenze in ambito sanitario, così si dice, sono essenziali per il funzionamento sistema, soprattutto se si tratta di coordinare rapporti, nominare un direttore generale, dare il proprio beneplacito su un primario. Tanto per intenderci, anche se Abelli non ha più ruoli presso il Policlinico San Matteo di Pavia, anzi ne sia stato allontanato politicamente a livello locale, ogni nomina passa dal suo tavolo o telefono. D’altra parte, Pavia e provincia sono sempre nel cuore di Abelli, che non a caso benedice e promuove la candidatura del giovane Alessandro Cattaneo, eletto Sindaco nel giugno 2009 (cfr. qui) e oggi destinato a una carriera nazionale.

    Per Abelli tutto procede bene proprio fino al 2009, ovvero fino a quando le indagini sul “re delle bonifiche” Giuseppe Grossi non coinvolgono la moglie Rosanna Gariboldi, all’epoca assessore della Provincia di Pavia e già socia in diverse operazioni immobiliari di assessori delle giunte Formigoni, arrestata nell’ottobre di quell’anno con l’accusa di riciclaggio. Grossi in questi anni aveva gestito alcune fra le principali bonifiche (alcune solo parzialmente come per Montecity-Santa Giulia) creando un fitto sistema di fondi neri (si parla di almeno 22 milioni di euro) attraverso cui pagava collaboratori e soci su conti esteri. Lady Abelli riceve soldi (circa 2,4 milioni di euro) da Grossi e suoi fiduciari su un conto presso una banca di Montecarlo di cui lo stesso Abelli agisce come procuratore. Non avendo giustificazioni in merito, a gennaio 2010 Gariboldi patteggia 2 anni di reclusione attraverso il pagamento di 1,2 milioni di euro.

    A marzo di quell’anno Abelli cerca di riprendere un po’ di fiato ripresentandosi alle elezioni regionali, forse per riaffermare la propria forza o forse con la speranza di ottenere un altro assessorato, ma il risultato non è più la valanga di voti raggiunta nei tempi d’oro e da 17mila le preferenze sono “solo” 8mila. Eletto in Regione, però, sceglie di proseguire l’avventura parlamentare, ma grazie a una nomina diretta dello stesso Formigoni ottiene comunque un ufficio a Milano, in qualità di Delegato del Presidente di Regione Lombardia per i Rapporti con il Parlamento e le Istituzioni del Territorio.

    I voti degli amici

    Questa è una vicenda se vogliamo tangenziale rispetto alla trama principale, ma vale la pena farne accenno quantomeno per capire i meccanismi del “gioco” secondo un politico come Gian Carlo Abelli.

    Si tratta di uno dei tanti rivoli dell’inchiesta Infinito, in particolare quello che riguarda Pavia e i rapporti con la criminalità organizzata di Carlo Chiriaco (direttore della ASL di Pavia) e Pino Neri (avvocato), entrambi calabresi trapiantati a Pavia, accusati di essere – fra le altre cose – i tramiti fra ‘ndrangheta e politica locale (buona parte dei dettagli si possono ritrovare nelle ricostruzioni di Giovanni Giovannetti, qui e qui).

    Al di là della questione giudiziaria (e di quella che sarà poi la sentenza), emergono già dalle intercettazioni e dalle carte della magistratura inquirente diversi elementi che mettono in evidenza i rapporti di queste persone – più o meno direttamente – con Gian Carlo Abelli. Lo stesso Abelli, chiamato solo pochi giorni fa a testimoniare nel processo che vede imputato Chiariaco per concorso esterno in associazione mafiosa, ha ribadito la sua “vicinanza” al dirigente ASL (per altro nominato all’epoca anche grazie alla sponsorizzazione di Abelli): «Conobbi Chiriaco nel 1980, quando ero presidente del San Matteo. Negli anni Ottanta, al Comune di Pavia, feci anche votare per lui» (qui un estratto delle dichiarazioni).

    Il gatto perde il pelo…

    Si arriva al 2012 e si ritorna a parlare di sanità. Questa volta si tratta dei soldi (e sono tanti, tantissimi) ricevuti dal faccendiere Pierluigi Daccò, già in carcere per il crac del San Raffaele, dalla Fodazione Maugeri (altre cliniche private convenzionate con la Regione e con sede a Pavia). In particolare, a Daccò era richiesto di intervenire in qualità di consulente presso gli organi competenti della Regione per ottenere nuovi finanziamenti e, soprattutto, aumentare gli introiti da “prestazioni non tariffabili” e dunque soggette a specifiche delibere di giunta (il sistema è spiegato molto bene qui).

    Daccò non è un amico del “Faraone”.

    Questa volta, l’amicizia è con Roberto Formigoni; insomma, col “Celeste” in persona e che di Daccò è talmente intimo da trascorrere con lui le vacanze (ovviamente, vista l’amicizia, facendosele anche pagare) o farsi prestare lo yacht. Abelli, invece, conosce bene Costantino Passerino, ex direttore amministrativo della Maugeri, che racconta ai magistrati: «da un punto di vista tecnico non avevamo necessità di rivolgerci a Daccò per le problematiche che potevano insorgere, in quanto il nostro referente in materia era l’onorevole Giancarlo Abelli». Passerino, infatti, conosce Daccò solo una decina d’anni fa e, proprio ad Abelli, all’epoca ancora assessore in Regione chiede informazioni. Spiega sempre Passerino «Abelli disse che (Daccò) era una persona importante perché vicina al presidente Formigoni (…) intesi che era opportuno, se da lui richiesto, intraprendere operazioni economiche e imprenditoriali con le società da lui presentate». Da segnalare che lo stesso Passerino, dal 1998 a oggi, annovera fra i suoi consulenti anche la moglie di Abelli, Rosanna Gariboldi (quella del patteggiamento), ritenuta la persona giusta – viste le competenze – per risolvere questioni relative al personale del gruppo, gli impatti della legge Brunetta o le partecipazioni di un privato in un istituto scientifico. Le competenze? Lady Abelli non possiede una laurea, ma in passato è stata impiegata presso il Policlinico San Matteo di Pavia.

    Il senso del ridicolo

    Il racconto avrebbe bisogno di altre pagine. Tante, tantissime. Migliaia, milioni di pagine per raccontare tutte le storie di chi è coinvolto.

    Quasi 10 milioni di pagine come le persone che il Servizio Sanitario Lombardo serve attraverso 2,5 milioni di ricoveri e 150 milioni di prestazioni ambulatoriali. Perché non possiamo dimenticarcelo: questa storia è soprattutto la storia di chi, ogni giorno, cerca una cura o semplicemente un po’ di speranza.

    La storia di chi paga, attraverso le proprie tasse, un sistema dove il denaro pubblico finisce in tasche private e in parte – quasi a “garanzia” del sistema – nelle tasche di amministratori e legislatori locali. In sostanza, una colossale e vergognosa truffa politica della quale, purtroppo, anche l’opposizione in questi anni non ha saputo (o non ha voluto) chiederne davvero conto, dimostrando così il suo senso del ridicolo.

    Perché (fuori dai tribunali) gli Abelli, così come i Formigoni (e tutta la folta schiera degli Andreotti), si possono battere solo con una politica di assoluta intransigenza etica; una salda prospettiva politica (per esempio, attraverso la sanità pubblica che non finanzi il profitto); la creazione di rigide regole di trasparenza e controllo (soprattutto sui finanziamenti non tariffabili).

    1.6.12

    Il Codice Grillo

    Massimo Gramellini (La Stampa)

    Quando saremo al potere, spiega Grillo in un’intervista a «Sette», i politici verranno giudicati da un tribunale di cittadini incensurati estratti a sorte, che li condannerà ai lavori socialmente utili e alla restituzione del malloppo. Vedo già formarsi una ola da Bolzano a Trapani. Sorprende la moderazione del gabibbo barbuto: se avesse proposto di mozzare le mani ai ladri e la lingua agli ospiti dei talk show sarebbe stato portato in trionfo da tutti i sondaggi che chiedono agli italiani se preferiscono l’aumento della benzina o quello dello stipendio. Le persone hanno fame di capri espiatori per calmare l’ansia. Fin troppo facile blandirle con il populismo. Perciò merita rispetto la presa di distanza di Enrico Strabotti Bon, militante del movimento 5 Stelle sezione adulti: «La crisi ha ragioni più complesse. Magari potessimo ridurla a una vicenda di guardie e ladri. Ciò detto, chi ha commesso dei reati non la passerà liscia. Ma guai se a giudicarlo fossero i tribunali del popolo. Erano già poco democratici nella democratica Atene, dominati dall’emotività e dall’odio che si porta dietro altro odio. Giacobini, nazisti, stalinisti, talebani: non c’è epuratore che non li abbia usati per epurare, salvo esserne epurato a sua volta. Prima o poi, Beppe, quel tribunale giudicherebbe anche te. Il peggior Stato di diritto è meglio della migliore giustizia popolare».

    Condivido Enrico Strabotti Bon. Non foss’altro perché me lo sono dovuto inventare. Sempre in attesa che un seguace reale di Grillo trovi la forza di ricordargli che non ci siamo liberati di un contaballe per consegnarci a un ayatollah.