Jabilia, Bet Hanun, Rafah, Gaza City, le tappe della mia personale mappa per l'inferno. Checchè vadano ripetendo i comunicati diramati dai vertici militari israeliani, e ripetuti a pappagallo in Europa e Usa dai professionisti della disinformazione, sono stato testimone oculare in questi giorni di bombardamenti di moschee, scuole, università, ospedali, mercati, e decine e decine di edifici civili.
Il direttore medico dell'ospedale di Al Shifa mi ha confermato di aver ricevuto telefonate da esponenenti dell'IDF, l'esercito israeliano, che gli intimavano di evacuare all'istante l'ospedale, pena una pioggia di missili. Non si sono lasciati intimorire. Il porto, dove dovrei dormire, ma a Gaza non si chiude un occhio da 4 giorni, è costantemente soggetto a bombardamenti notturni. Non si odono più sirene di ambulanze rincorrersi all'impazzata, semplicemente perchè al porto e attorno non c'è più anima viva, sono morti tutti, sembra di poggiare piede su di un cimitero dopo un terremoto.
La situazione è davvero da catastrofe innaturale, un cataclisma di odio e cinismo piombato sulla popolazione di Gaza come piombo fuso, che fa a pezzi corpi umani, e contrariamente a quanto si prefigge, compatta i palestinesi tutti, gente che fino a qualche tempo fa non si salutava nemmeno perchè appartenenti a fazioni differenti, in un corpo unico.
Quando le bombe cadono dal cielo da diecimila metri di quota state tranquilli, non fanno distinzioni fra bandiere di hamas o fatah esposte sui davanzali, non hanno ripensamenti esplosivi neanche se sei italiano. Non esistono operazioni militari chirurgiche, quando si mette a bombardare l'aviazione e la marina, le uniche operazioni chirugiche sono quelle dei medici che amputano arti maciullate alle vittime senza un attimo di ripensamento, anche se spesso braccia e gambe sarebbe salvabili. Non c'è tempo, bisogna correre, le cure impegnate per un arto seriamente ferito sono la condanna a morte per il ferito susseguente in attesa di una trasfusione. All' ospedale di Al Shifa ci sono 600 ricoverati gravi e solo 29 macchine respiratorie. Mancano di tutto, soprattutto di personale preparato.
Per questa ragione, esausti più che dalle notti insonni, dall'immobilismo e dall'omertà dei governi occidentali , così complici dei crimini d'Israele, abbiamo deciso di far partire ieri da Larnaco, Cipro, una delle nostre barche del Free Gaza Movement con a bordo 3 tonnellate di medicinali e personale medico. Li ho aspettati invano, avrebbero dovuto attraccare al porto alle 8 am di questa mattina. Sono invece stati intercettati a 90 miglia nautiche da Gaza da 11 navi da guerra israeliane, che in piene acque internazionali hanno provato ad affondarli. Li hanno speronati tre volte, producendo una avaria ai motori e una falla nello scavo. Per puro caso l'equipaggio e i passeggeri sono ancora tutti vivi, e sono riusciti ad attraccare in un porto libanese.
Sempre più frustrati dall'assordante silenzio del mondo "civile", i miei amici ci riproveranno presto. Hanno scaricato infatti i medicinali dalla nostra nave danneggiata, la Dignity, e li hanno ricaricati su di un'altra pronta alla partenza alla volta di Gaza. Certi che la volontà criminale di Israele nel calpestare diritti umani e leggi internazionali non sarà mai forte come la nostra determinazione nella difesa di questi stessi diritti e uomini.
Molti giornalisti che mi intervistano mi chiedono conto della situazione umanitaria dei palestinesi di Gaza, come se il problema fossero la mancanza di cibo, di acqua, di elettricità, di gasolio, e non chi è la causa di questi problemi sigillando confini, bombardando impianti idrici e centrali elettriche. Lunghe file ai pochi panettieri con ancora le serrande semiaperte, 40-50 persone che si accapigliano per accappararsi l'ultima pagnotta. Uno di questi panettieri, Ahmed, è un mio amico, e mi ha confidato il suo terrore degli ultimi giorni. Più che per le bombe, teme per gli assalti al forni. Dinnanzi al suo, si sono già verificate risse. Fino a poco tempo fa c'era la polizia a mantenere l'ordine pubblico, specie dinnanzi alle panetterie, ora non si vede più un poliziotto in divisa in tutta Gaza. Si sono nascosti, alcuni. Gli alti stanno tutti sepolti sotto due metri di terra, amici miei compresi.
A Jabilia ancora strage di bambini, due sorelline di Haya e Laama Hamdan, di 4 e 10 anni, colpite e uccise da una bomba israeliana mentre guidavano un carretto trainato da un asino, in strada as-Sekka, a Jabalia.
Mohammad Rujailah nostro collaboratore dell'ISM, ha scattato una foto che più di un fermoimmagine, è una storia, è la rivelazione di ciò che tragico viviamo intensamente ogni minuto, contandoci ogni ora, perdendo amici, fratelli, familiari. Carriarmati, caccia, droni, elicotteri apache, il più grande e potente esercito del mondo in feroce attacco contro una popolazione che si muove ancora sui somari come all'epoca di Gesù Cristo.
Secondo Al Mizan, centro per i diritti umani, al momento in cui scrivo sono 55 bambini coinvolti nei bombardamenti, 20 gli uccisi e 40 i gravemente feriti.
Israele ha trasformato gli ospedali e gli obitori palestinesi in fabbriche di angeli,
non rendendosi conto dell'odio che fomenta non solo in Palestina, ma in tutto il mondo.
Le fabbriche degli angeli sono in produzione a ciclo continuo anche questa sera, lo avverto dai fragori delle esplosioni che avverto fuori dalle mie finestre.
Quei corpici smembrati, amputati, e quelle vite potate ancora prima di fiorire, saranno un incubo per tutto il resto della mia vita, e se ho ancora la forza di raccontare delle loro fine, è perchè voglio rendere giustizia a chi non ha più voce, a chi non ha mia avuto un fiato di voce, forse a chi non ha mai avuto orecchie per ascoltare.
Restiamo umani.
Vittorio Arrigoni
attivista per i diritti umani
ilmanifesto
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
31.12.08
Diario da Gaza, mappa dell'inferno
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21.12.08
Italiani brava gente
Forse è per le cose che ha detto Gianfranco Fini il 16 dicembre - la società italiana consentì passivamente alle leggi razziali di Mussolini nel ’38; anche la Chiesa s’adattò, nonostante «luminose eccezioni» - che le parole in Italia si pervertono così facilmente e ciclicamente. Non scottano quando dovrebbero scottare, infuocano quando descrivono fatti accertati. Quel che è normale viene esagerato, quel che è irregolare o illegale vien vissuto e presentato come normalità. Quando nel mondo delle parole si crea sì vasta confusione vuol dire che s’è smarrita la via, che si va in giro come ciechi di notte, che vero e falso si mischiano. Le parole sono un luogo: perdi le coordinate, quando non corrispondono più a nulla. Se i profeti biblici faticano tanto a dirle, se spesso addirittura le fuggono, è perché le vogliono puntuali, attendibili, non manipolabili da chi tende a «proseguire la sua corsa senza voltarsi» (Geremia 8,6).
Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato.
Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non riguardasse anche lui, anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno facili a scrutare i cedimenti presenti. La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la «vocazione all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura, negata ma presente»: sono vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale. Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è perché l’Italia non sa guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando indifferente. I tedeschi, che hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i vocaboli quasi fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per riavvicinarsi alla parola Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati a Volk, popolo, li imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano anche davanti ai termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di guerra contro lo Stato. La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non giustificava, come avviene in guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.
Non così in Italia, dove proprio queste parole - eversione, guerra - s’insediano come ineludibili lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i disastri nati in passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del fascismo né del terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e sedizioso è chi si ribella all’ordine costituzionale, sovvertendolo. Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi ogni giorno ai telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di Pietro, senza che nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese il potere. Di Pietro è confutabile - ogni politico lo è - ma in altre democrazie sarebbe giudicato del tutto regolare. Molto più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per faccia tosta soprattutto gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con le Brigate Rosse durante l’affare Moro.
Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o tra magistratura e politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari poteri dello Stato. Si ignora che tra procure non c'è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui non ci fu guerra tra etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione legale di una procura chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De Magistris (i magistrati di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui dipendono). Il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto ascoltare quel che la procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno nella passività.
Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro scorgono un politico normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità nazionale ma sprezzato, minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi coloro che magari hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa dovesse essergli sottratta. Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale: l’illegale diventa la norma, la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d'Europa: lo denuncia l’appello del 12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul fascismo è, a mio parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su Repubblica, quando descrive la corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle inchieste napoletane o abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di favori banalizzato; il «triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli».
All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos linguistico, il discredito della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che giudici e pm agiscano in autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri problemi. Si vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione qualsiasi denuncia: secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno «scelte dal legislatore (cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei cittadini». Non si sopporta che l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo. La confusione s’estende alla scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che una persona ridotta a stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte, l’esecutivo cancella la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che denunciano lo Stato etico prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella fa questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta e la violazione di una sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il cittadino non ha più influenza.
Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando».
lastampa.it
Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato.
Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non riguardasse anche lui, anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno facili a scrutare i cedimenti presenti. La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la «vocazione all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura, negata ma presente»: sono vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale. Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è perché l’Italia non sa guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando indifferente. I tedeschi, che hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i vocaboli quasi fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per riavvicinarsi alla parola Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati a Volk, popolo, li imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano anche davanti ai termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di guerra contro lo Stato. La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non giustificava, come avviene in guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.
Non così in Italia, dove proprio queste parole - eversione, guerra - s’insediano come ineludibili lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i disastri nati in passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del fascismo né del terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e sedizioso è chi si ribella all’ordine costituzionale, sovvertendolo. Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi ogni giorno ai telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di Pietro, senza che nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese il potere. Di Pietro è confutabile - ogni politico lo è - ma in altre democrazie sarebbe giudicato del tutto regolare. Molto più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per faccia tosta soprattutto gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con le Brigate Rosse durante l’affare Moro.
Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o tra magistratura e politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari poteri dello Stato. Si ignora che tra procure non c'è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui non ci fu guerra tra etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione legale di una procura chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De Magistris (i magistrati di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui dipendono). Il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto ascoltare quel che la procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno nella passività.
Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro scorgono un politico normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità nazionale ma sprezzato, minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi coloro che magari hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa dovesse essergli sottratta. Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale: l’illegale diventa la norma, la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d'Europa: lo denuncia l’appello del 12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul fascismo è, a mio parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su Repubblica, quando descrive la corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle inchieste napoletane o abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di favori banalizzato; il «triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli».
All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos linguistico, il discredito della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che giudici e pm agiscano in autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri problemi. Si vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione qualsiasi denuncia: secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno «scelte dal legislatore (cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei cittadini». Non si sopporta che l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo. La confusione s’estende alla scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che una persona ridotta a stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte, l’esecutivo cancella la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che denunciano lo Stato etico prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella fa questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta e la violazione di una sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il cittadino non ha più influenza.
Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando».
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19.12.08
Letture parallele di un'opera tutt'ora aperta - Ombre marxiane
di Benedetto Vecchi
Due recenti libri collettivi su Karl Marx. Il primo affronta alcuni concetti chiave del filosofo tedesco. Il secondo è invece una critica alle tesi di Jacques Derrida sulla necessità di recuperare Marx, abbandonando però l'idea che esiste una classe destinata a costruire una società non capitalista
All'indomani della decisione del governo statunitense di intervenire nel salvataggio di alcune imprese finanziarie e banche, un gruppo di autorevoli editorialisti e economisti scrisse che la crisi del libero mercato stava facendo tornare di attualità l'opera di Karl Marx, in particolar modo la sua tesi sulla inevitabilità che il capitalismo incappasse ciclicamente in una crisi che metteva in discussione la sua stessa esistenza. Il fatto più sorprendente è che le parole lusinghiere dedicate al filosofo di Treviri venivano da riviste e giornali da sempre paladini di quello stesso libero mercato che stava portando sull'orlo dell'abisso il capitalismo. Se Time, Business week, Economist e Wall Street Journal cercavano tra le pieghe del Capitale o del Manifesto del partito comunista spiegazioni sul perché il migliore dei mondi possibili, cioè il capitalismo, si stava trasformando in un inferno per miliardi di persone voleva dire che la crisi e la recessione mondiale avviata dal «giocattolo» impazzito dei subprime era cosa davvero seria. È stato poi compito dell'attualità inanellare il drammatico rosario di licenziamenti di massa, fallimenti di imprese. Il volto di Marx è stato poi rapidamente tolto dalle copertine di quelle riviste, ma le affermazioni contenuti negli articoli pubblicati sulla rinnovata attualità dell'opera marxiana sono difficili da dimenticare così in fretta.
L'invenzione di una tradizione
Certo è però il fatto che l'eredità teorica di Marx era diventata una faccenda per pochi intimi, per di più litigiosi tra loro. Neppure i movimenti sociali di questi ultimi due decenni hanno guardato con attenzione all'autore del Capitale. Unica eccezione, l'America Latina, dove ci sono importanti e radicali movimenti sociali che continuano a parlare di socialismo. In Europa e negli Stati Uniti Marx è stato infatti consegnato alle soffitte ben prima che crollasse il muro di Berlino, simbolo di una fallimentare esperienza di costruzione del socialismo. Il Sessantotto aveva solo rinviato la rimozione dell'opera marxiana. E quando in Europa, nel pieno della controrivoluzione liberista, si sono manifestati movimenti sociali - dall'ecologismo agli occupanti di case, ai no-global- le tradizioni teoriche e politiche a cui hanno fatto riferimento non contemplavano né Marx, né tantomeno l'esperienza comunista.
L'unico tentativo serio di fare i conti non con Marx, ma con il marxismo risale infatti agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, con la pubblicazione di una «Storia del marxismo» curata da Eric Hobsbawm. Ed è proprio in quella storia che lo storico inglese invitava a pensare ai marxismi, perché molte sono state le scuole di pensiero, i percorsi politici che hanno contraddistinto la ricezione dell'opera marxiana. Ed è quindi una felice sorpresa la pubblicazione di un libro - Lessico marxiano, manifestolibri, pp. 198, euro 19 - che ripercorre alcune parole chiave dell'opera di Marx, dichiarando sin dall'introduzione una scelta di campo: tutti gli autori si rifanno all'operaismo, cioè quelll'innovazione del marxismo avviata da Raniero Panzieri e poi proseguita da studiosi come Mario Tronti, Antonio Negri, Romano Alquati e tanti altri. Ma la sorpresa è che è un libro nato all'interno di uno spazio occupato, l'Esc di Roma, che ha sempre manifestato una forte critica nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio. Eppure, come dichiarano i curatori di questo volume, l'appuntamento con Marx era nell'ordine delle cose. Per verificare se potesse servire alla comprensione del capitalismo, ma anche se potesse fornire strumenti per il loro agire politico.
Nel flusso della storia
Il Marx che esce da questo volume non è tuttavia lo scienziato del capitalismo, né un economista che fornisce ricette per far funzionare un modo di produzione alternativo al capitalismo. Marx è qui considerato un critico dell'economia politica, mentre la sua produzione teorica è ritenuta un'opera aperta alla critica e al superamento laddove se ne presentasse la possibilità. Le parole chiave scelte per rileggere l'autore dei Grundrisse lasciano infatti trasparire sopratutto un'urgenza politica. Il «fulmine da prendere con le mani» a cui alludono gli attivisti di Esc nell'introduzione non è infatti l'eredità marxiana, bensì la realtà capitalistica contemporaneo, la sua continuità con il passato, ma anche e sopratutto le discontinuità che manifesta. Per questo l'attenzione è data, ad esempio, ai concetti di «astrazione», «forza lavoro», «cooperazione», «lavoro produttivo e improduttivo», «classe», «accumulazione originaria», «diritto». Cioè a temi che costituiscono proprio i nodi da sciogliere per una critica al capitalismo che spesso in questo libro è qualificato come cognitivo.
L'accumulazione originaria è infatti sviluppata per parlare di come la globalizzazione mette in evidenza che quel passaggio violento all'origine del capitalismo si rinnova continuamente quando si ridefiniscono le gerarchie e i rapporti sociali tanto nelle realtà nazionali che a livello mondiale. Questo solo introdurre il fatto che le classi sono continuamente scomposte e ricomposte. Ma che solo da un'ottica di classe, e dai conflitti che agisce, si può risucire a comprendere la realtà e pensare la politica per trasformarla.
Non è quindi un caso che vengono ripercorsi i testi di Marx per capire cosa significa forza-lavoro, lavoro produttivo e improduttivo, produzione e riproduzione in un capitalismo dove diventano centrali le capacità generiche della natura umana (il linguaggio, la capacità di fare astrazione, la capacità di sviluppare cooperazione). E di come il diritto, da sempre dispositivo per legittimare la proprietà privata e i rapporti sociali dominanti, arrivi ad occuparsi di diritto d'autore, di brevetti, di marchi affinché proprio quel linguaggio, quella conoscenza, quel sapere e la vita stessa diventino non solo merci, ma che la loro «produzione» sia regolata secondo il principio della scarsità.
L'impossibile filologia
Un libro che non è mosso da nessun intento filologico rispetto l'opera marxiana. I testi di Marx sono infatti letti e commentati per afferrarre la realtà. E che per questo mette in conto di andare «oltre Marx». Un'operazione provocatoria rispetto a chi, invece, aderendo filologicamente ai testi di Marx cerca risposte politiche. O verso chi cerca di salvaguardare la tradizione politica del movimento operaio. Ma provocatoria anche verso chi cerca di innovare l'analisi marxista, colmando i limiti dell'opera marxiana. Il «lessico marxiano» che emerge dall'insieme dei saggi che compongono il volume è da intendere come una cassetta degli attrezzi da usare per la costruzione di un agire politico che si vuol misurare con questo capitalismo. Un volume che propone infine come prioritaria necessità politica la possibilità di aprire un'altra storia, prendendo definitivamente congedo dall'esperienza socialista del Novecento.
ilmanifesto.it
Due recenti libri collettivi su Karl Marx. Il primo affronta alcuni concetti chiave del filosofo tedesco. Il secondo è invece una critica alle tesi di Jacques Derrida sulla necessità di recuperare Marx, abbandonando però l'idea che esiste una classe destinata a costruire una società non capitalista
All'indomani della decisione del governo statunitense di intervenire nel salvataggio di alcune imprese finanziarie e banche, un gruppo di autorevoli editorialisti e economisti scrisse che la crisi del libero mercato stava facendo tornare di attualità l'opera di Karl Marx, in particolar modo la sua tesi sulla inevitabilità che il capitalismo incappasse ciclicamente in una crisi che metteva in discussione la sua stessa esistenza. Il fatto più sorprendente è che le parole lusinghiere dedicate al filosofo di Treviri venivano da riviste e giornali da sempre paladini di quello stesso libero mercato che stava portando sull'orlo dell'abisso il capitalismo. Se Time, Business week, Economist e Wall Street Journal cercavano tra le pieghe del Capitale o del Manifesto del partito comunista spiegazioni sul perché il migliore dei mondi possibili, cioè il capitalismo, si stava trasformando in un inferno per miliardi di persone voleva dire che la crisi e la recessione mondiale avviata dal «giocattolo» impazzito dei subprime era cosa davvero seria. È stato poi compito dell'attualità inanellare il drammatico rosario di licenziamenti di massa, fallimenti di imprese. Il volto di Marx è stato poi rapidamente tolto dalle copertine di quelle riviste, ma le affermazioni contenuti negli articoli pubblicati sulla rinnovata attualità dell'opera marxiana sono difficili da dimenticare così in fretta.
L'invenzione di una tradizione
Certo è però il fatto che l'eredità teorica di Marx era diventata una faccenda per pochi intimi, per di più litigiosi tra loro. Neppure i movimenti sociali di questi ultimi due decenni hanno guardato con attenzione all'autore del Capitale. Unica eccezione, l'America Latina, dove ci sono importanti e radicali movimenti sociali che continuano a parlare di socialismo. In Europa e negli Stati Uniti Marx è stato infatti consegnato alle soffitte ben prima che crollasse il muro di Berlino, simbolo di una fallimentare esperienza di costruzione del socialismo. Il Sessantotto aveva solo rinviato la rimozione dell'opera marxiana. E quando in Europa, nel pieno della controrivoluzione liberista, si sono manifestati movimenti sociali - dall'ecologismo agli occupanti di case, ai no-global- le tradizioni teoriche e politiche a cui hanno fatto riferimento non contemplavano né Marx, né tantomeno l'esperienza comunista.
L'unico tentativo serio di fare i conti non con Marx, ma con il marxismo risale infatti agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, con la pubblicazione di una «Storia del marxismo» curata da Eric Hobsbawm. Ed è proprio in quella storia che lo storico inglese invitava a pensare ai marxismi, perché molte sono state le scuole di pensiero, i percorsi politici che hanno contraddistinto la ricezione dell'opera marxiana. Ed è quindi una felice sorpresa la pubblicazione di un libro - Lessico marxiano, manifestolibri, pp. 198, euro 19 - che ripercorre alcune parole chiave dell'opera di Marx, dichiarando sin dall'introduzione una scelta di campo: tutti gli autori si rifanno all'operaismo, cioè quelll'innovazione del marxismo avviata da Raniero Panzieri e poi proseguita da studiosi come Mario Tronti, Antonio Negri, Romano Alquati e tanti altri. Ma la sorpresa è che è un libro nato all'interno di uno spazio occupato, l'Esc di Roma, che ha sempre manifestato una forte critica nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio. Eppure, come dichiarano i curatori di questo volume, l'appuntamento con Marx era nell'ordine delle cose. Per verificare se potesse servire alla comprensione del capitalismo, ma anche se potesse fornire strumenti per il loro agire politico.
Nel flusso della storia
Il Marx che esce da questo volume non è tuttavia lo scienziato del capitalismo, né un economista che fornisce ricette per far funzionare un modo di produzione alternativo al capitalismo. Marx è qui considerato un critico dell'economia politica, mentre la sua produzione teorica è ritenuta un'opera aperta alla critica e al superamento laddove se ne presentasse la possibilità. Le parole chiave scelte per rileggere l'autore dei Grundrisse lasciano infatti trasparire sopratutto un'urgenza politica. Il «fulmine da prendere con le mani» a cui alludono gli attivisti di Esc nell'introduzione non è infatti l'eredità marxiana, bensì la realtà capitalistica contemporaneo, la sua continuità con il passato, ma anche e sopratutto le discontinuità che manifesta. Per questo l'attenzione è data, ad esempio, ai concetti di «astrazione», «forza lavoro», «cooperazione», «lavoro produttivo e improduttivo», «classe», «accumulazione originaria», «diritto». Cioè a temi che costituiscono proprio i nodi da sciogliere per una critica al capitalismo che spesso in questo libro è qualificato come cognitivo.
L'accumulazione originaria è infatti sviluppata per parlare di come la globalizzazione mette in evidenza che quel passaggio violento all'origine del capitalismo si rinnova continuamente quando si ridefiniscono le gerarchie e i rapporti sociali tanto nelle realtà nazionali che a livello mondiale. Questo solo introdurre il fatto che le classi sono continuamente scomposte e ricomposte. Ma che solo da un'ottica di classe, e dai conflitti che agisce, si può risucire a comprendere la realtà e pensare la politica per trasformarla.
Non è quindi un caso che vengono ripercorsi i testi di Marx per capire cosa significa forza-lavoro, lavoro produttivo e improduttivo, produzione e riproduzione in un capitalismo dove diventano centrali le capacità generiche della natura umana (il linguaggio, la capacità di fare astrazione, la capacità di sviluppare cooperazione). E di come il diritto, da sempre dispositivo per legittimare la proprietà privata e i rapporti sociali dominanti, arrivi ad occuparsi di diritto d'autore, di brevetti, di marchi affinché proprio quel linguaggio, quella conoscenza, quel sapere e la vita stessa diventino non solo merci, ma che la loro «produzione» sia regolata secondo il principio della scarsità.
L'impossibile filologia
Un libro che non è mosso da nessun intento filologico rispetto l'opera marxiana. I testi di Marx sono infatti letti e commentati per afferrarre la realtà. E che per questo mette in conto di andare «oltre Marx». Un'operazione provocatoria rispetto a chi, invece, aderendo filologicamente ai testi di Marx cerca risposte politiche. O verso chi cerca di salvaguardare la tradizione politica del movimento operaio. Ma provocatoria anche verso chi cerca di innovare l'analisi marxista, colmando i limiti dell'opera marxiana. Il «lessico marxiano» che emerge dall'insieme dei saggi che compongono il volume è da intendere come una cassetta degli attrezzi da usare per la costruzione di un agire politico che si vuol misurare con questo capitalismo. Un volume che propone infine come prioritaria necessità politica la possibilità di aprire un'altra storia, prendendo definitivamente congedo dall'esperienza socialista del Novecento.
ilmanifesto.it
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18.12.08
Science assegna il suo 'Oscar' per il 2008 alla cellula adulta che torna bambina
Per il settimanale americano la riprogrammazione cellulare è la scoperta scientifica più significativa dell'anno
di ALESSIA MANFREDI
Cellule adulte che riprogrammate tornano bambine, regredendo fino allo stadio embrionale, con le stesse pluripotenzialità. E' questo per la rivista Science il traguardo scientifico più importante dell'anno, che si aggiudica il riconoscimento di breakthrough of the year.
L'"Oscar 2008", secondo la pubblicazione di riferimento in ambito scientifico, va alla riprogrammazione cellulare per le prospettive che questa scoperta apre per la cura di malattie come l'Alzheimer, il Parkinson, le distrofie. La top ten completa del meglio nei vari ambiti della scienza è stilata in un numero speciale in edicola venerdì, e comprende anche l'osservazione diretta dei pianeti extrasolari e lo sviluppo di nuovi materiali superconduttori. Non mancano le previsioni per l'anno prossimo: neuroscienze, bosone di Higgs e acidificazione degli oceani sono tra i filoni di ricerca da tenere decisamente d'occhio, che riserveranno le maggiori sorprese nel 2009, secondo Robert Coontz che ha curato la classifica.
Le linee cellulari ottenute dalla regressione delle cellule adulte del nostro corpo - come quelle della pelle - in staminali, con le stesse potenzialità di quelle embrionali senza però le complicazioni etiche collegate alla manipolazione dell'embrione, suggeriscono nuove vie per la cura di diverse gravi malattie non ancora sconfitte, che interessano milioni di persone; e porteranno a una maggiore comprensione dei meccanismi che le provocano, necessaria per ogni ulteriore progresso.
"Quella scelta da Science è sicuramente la prospettiva più interessante per le staminali" commenta a Repubblica.it il genetista Edoardo Boncinelli. "Partire da cellule qualsiasi e in laboratorio riuscire a farle regredire a staminali ci dà un potere enorme. La prima volta che questi risultati uscirono erano bellissimi dal punto di vista biologico, ma si invocava una certa cautela. Oggi sono considerati affidabili e hanno un ulteriore vantaggio: dal punto di vista etico non c'è nulla da dire. E' ancora presto per cantare vittoria, ma si tratta di risultati molto importanti, che sono stati ripetuti da diversi ricercatori".
Per Coontz, vice direttore editoriale della rivista americana, "la riprogrammazione cellulare ha aperto praticamente all'improvviso un nuovo campo della biologia e porta con sé la speranza di progressi medici salvavita": per questo merita il titolo di scoperta dell'anno.
Due anni fa, in una serie di esperimenti condotti sui topi, i ricercatori mostrarono che era possibile cancellare la memoria dello sviluppo di una cellula, inserendo quattro geni. Una volta tornate allo stadio embrionale, le cellule potevano essere trasformate in tipi completamente differenti. La notizia entusiasmò la comunità scientifica, perché, se applicabile all'uomo, avrebbe aperto la strada alle applicazioni mediche delle staminali, in alternativa alle tanto discusse embrionali.
Quest'anno i progressi si sono moltiplicati rapidamente. Due équipe di ricerca, in modo indipendente, hanno preso cellule da un paziente malato e le hanno riprogrammate in staminali. Le cellule trasformate sono sopravvissute in laboratorio e si sono divise, a differenza della maggior parte delle cellule adulte che non sopravvivono facilmente in coltura. Alle cellule, poi, è stata fatta assumere una diversa identità, come quella delle cellule maggiormente malate del paziente donatore. Un altro gruppo di ricerca, lavorando su cellule di topo, è riuscito a trasformare un tipo di cellule mature del pancreas, le esocrine, in un tipo completamente diverso: cellule beta.
Progressi che segnano una svolta e che non solo permettono di capire meglio come si sviluppano le malattie, ma aprono la strada allo sviluppo di nuovi farmaci. E che in futuro potrebbero portare a curare pazienti malati con le loro stesse cellule, in versione sana.
repubblica.it
di ALESSIA MANFREDI
Cellule adulte che riprogrammate tornano bambine, regredendo fino allo stadio embrionale, con le stesse pluripotenzialità. E' questo per la rivista Science il traguardo scientifico più importante dell'anno, che si aggiudica il riconoscimento di breakthrough of the year.
L'"Oscar 2008", secondo la pubblicazione di riferimento in ambito scientifico, va alla riprogrammazione cellulare per le prospettive che questa scoperta apre per la cura di malattie come l'Alzheimer, il Parkinson, le distrofie. La top ten completa del meglio nei vari ambiti della scienza è stilata in un numero speciale in edicola venerdì, e comprende anche l'osservazione diretta dei pianeti extrasolari e lo sviluppo di nuovi materiali superconduttori. Non mancano le previsioni per l'anno prossimo: neuroscienze, bosone di Higgs e acidificazione degli oceani sono tra i filoni di ricerca da tenere decisamente d'occhio, che riserveranno le maggiori sorprese nel 2009, secondo Robert Coontz che ha curato la classifica.
Le linee cellulari ottenute dalla regressione delle cellule adulte del nostro corpo - come quelle della pelle - in staminali, con le stesse potenzialità di quelle embrionali senza però le complicazioni etiche collegate alla manipolazione dell'embrione, suggeriscono nuove vie per la cura di diverse gravi malattie non ancora sconfitte, che interessano milioni di persone; e porteranno a una maggiore comprensione dei meccanismi che le provocano, necessaria per ogni ulteriore progresso.
"Quella scelta da Science è sicuramente la prospettiva più interessante per le staminali" commenta a Repubblica.it il genetista Edoardo Boncinelli. "Partire da cellule qualsiasi e in laboratorio riuscire a farle regredire a staminali ci dà un potere enorme. La prima volta che questi risultati uscirono erano bellissimi dal punto di vista biologico, ma si invocava una certa cautela. Oggi sono considerati affidabili e hanno un ulteriore vantaggio: dal punto di vista etico non c'è nulla da dire. E' ancora presto per cantare vittoria, ma si tratta di risultati molto importanti, che sono stati ripetuti da diversi ricercatori".
Per Coontz, vice direttore editoriale della rivista americana, "la riprogrammazione cellulare ha aperto praticamente all'improvviso un nuovo campo della biologia e porta con sé la speranza di progressi medici salvavita": per questo merita il titolo di scoperta dell'anno.
Due anni fa, in una serie di esperimenti condotti sui topi, i ricercatori mostrarono che era possibile cancellare la memoria dello sviluppo di una cellula, inserendo quattro geni. Una volta tornate allo stadio embrionale, le cellule potevano essere trasformate in tipi completamente differenti. La notizia entusiasmò la comunità scientifica, perché, se applicabile all'uomo, avrebbe aperto la strada alle applicazioni mediche delle staminali, in alternativa alle tanto discusse embrionali.
Quest'anno i progressi si sono moltiplicati rapidamente. Due équipe di ricerca, in modo indipendente, hanno preso cellule da un paziente malato e le hanno riprogrammate in staminali. Le cellule trasformate sono sopravvissute in laboratorio e si sono divise, a differenza della maggior parte delle cellule adulte che non sopravvivono facilmente in coltura. Alle cellule, poi, è stata fatta assumere una diversa identità, come quella delle cellule maggiormente malate del paziente donatore. Un altro gruppo di ricerca, lavorando su cellule di topo, è riuscito a trasformare un tipo di cellule mature del pancreas, le esocrine, in un tipo completamente diverso: cellule beta.
Progressi che segnano una svolta e che non solo permettono di capire meglio come si sviluppano le malattie, ma aprono la strada allo sviluppo di nuovi farmaci. E che in futuro potrebbero portare a curare pazienti malati con le loro stesse cellule, in versione sana.
repubblica.it
La casta delle caste
Libro fortunato. Siamo d’accordo. E utile. Ma anche pericoloso, a dire il vero. Per la sua capacità, talvolta, di neutralizzare la protesta più vera.
DI ALESSIO MANNINO
La Voce del Ribelle
Ed è arrivato anche l’aggiornamento al libro-tormentone di questi ultimi due anni. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo hanno aggiunto le ultime notizie alla loro magistrale inchiesta su sprechi e privilegi della politica, la Casta (Rizzoli). I detrattori, in genere gli stessi mandarini sotto accusa, li hanno additati come qualunquisti, quasi come antidemocratici. Ma non è così. “Non si capisce perché l’indignazione di un britannico sia indignazione, e l’indignazione di un italiano sia qualunquismo”1, ha sbottato in tivù lo stesso Stella in risposta al sottosegretario Roberto Castelli, che aveva liquidato al solito modo i dati inoppugnabili enumerati dal giornalista del Corriere della Sera. Il quale, intendiamoci, è un segugio di razza: documentato, ficcante, con la suola consumata sul campo come le migliori penne di una volta. E con il merito indiscutibile di aver messo nero su bianco una tale montagna di scandali e ruberie da giustificare in pieno un sacrosanto disgusto per questi pover’uomini, i politici, dediti al basso saccheggio satrapesco.
Eppure, lasciando stare gli inglesi, imbattibili quanto a senso civico ma poco invidiabili su tanti altri fronti (l’alienazione capitalistica l’hanno inventata loro, mica noi), Stella ha torto e Castelli, benché sia dura ammetterlo, ha ragione. Ma non per i motivi suoi. Non perché denunciare il feudalesimo straccione della politica corrisponda a un insulso e indistinto rifiuto della politica tout court. Solo a lorsignori, difatti, può venire la sfacciataggine di negare che sono proprio loro, coi loro maneggi e carrozzoni clientelari, a incancrenire la storica estraneità degli italiani alla cosa pubblica. No, è per un’altra ragione che ha torto, il vendicatore dei torti di bilancio. Una ragione decisiva. Questa: l’italiano medio, col suo atavico disprezzo misto a ipocrita riverenza per lo Stato, si nutre di un’irritazione facilona, ciclica, pompata interessatamente dai poteri forti attraverso i media, poiché una regoletta antica quanto l’arte di governare dice che scoppi controllati di costernazione popolare sono un ottimo strumento per tenere il guinzaglio al collo della plebe. Mantenendola così insensibile alla stretta dall’alto, che resta ben salda nelle mani dei grandi interessi economici. Che il Quirinale ci costi di più di Buckingham Palace è di sicuro un oltraggio per quell’Italia impoverita che non arriva a fine mese. Ma limitarsi educatamente a chiedere tagli etici quando è l’intero edificio della res publica a costituire un’infamia fondata sul furto di sovranità, equivale a indicare il dito e non guardare la luna. Insomma, ci vogliono mezzi ciechi e spodestati, oltre che derubati.
Antipolitica?
Sebbene possa sembrare un paradosso ai più, questo risentimento da ragioneri contribuisce al qualunquismo come nessun Beppe Grillo potrà mai fare. Anche perché Grillo non è qualunquista: fa politica, altrochè antipolitica. Come definire altrimenti le centinaia di migliaia di persone che al V-Day 1 dell’8 settembre 2007 firmarono per “ripulire” il parlamento dagli indagati, limitarne i mandati e reintrodurre la preferenza elettorale, seguite da altrettante nel V-Day 2 del 25 aprile scorso per abolire l’Ordine dei giornalisti, il finanziamento pubblico all’editoria e la legge Gasparri? Ma tanto bastò all’informazione di regime, in testa il Corriere, per far risuonare il fuoco di fila della Casta sbertucciata fino a un giorno prima, con l’intero arco parlamentare che liquidava il movimento del Vaffanculo come una marmaglia di estremisti, populisti, addirittura terroristi e, immancabilmente, qualunquisti. Uno per tutti, basti ricordare il compagno D’Alema, che, sinceramente protervo come sempre, dichiarava un «fastidio antropologico»2 per quei minus habens scesi in piazza.
Il vero qualunquismo
Il qualunquista vero sta ai piani alti. Più alti delle Camere del Parlamento. Siede dietro le lussuose scrivanie di ciliegio degli editori di giornali e televisioni, ovvero i gruppi industriali e finanziari che finanziano e ricattano gli omuncoli della partitocrazia (i quali sono molto contenti di entrambe le cose: sono palanche e visibilità garantite). Sono i signorotti delle multinazionali, delle banche e delle assicurazioni, cioè i reali detentori delle leve del Potere, quello con la P maiuscola: quell’Idra di interessi poco visibili che condiziona le scelte politiche e la gestione dei beni pubblici in misura incomparabilmente superiore rispetto al voto del gregge, a cui resta il contentino della crocetta elettorale. Sono i più bei nomi dell’imprenditoria e dei salotti bancari a muovere le truppe cammellate dei giornalisti loro dipendenti su un unico obbiettivo: il politicante arraffone. Mettere alla gogna una Casta per garantire la perpetua salvezza delle altre, compresa quella degli scribacchini a libro paga. Ma soprattutto per rendere eternamente al di sopra di ogni contestazione la propria casta: la Casta delle Caste.
Pensiero unico
I giornalisti come Stella, piaccia a loro o meno, scrupolosi e seri quanto si vuole, sono complici di questa operazione. Sono davvero qualunquisti, ma perché evitando di puntare il dito contro l’ingiustizia di fondo, fanno credere al popolo bue che il problema sia soltanto la pensione del deputato. Mentre le prebende stratosferiche e i baracconi per sistemare amici e parenti sono la punta dell’iceberg. Per affondare il quale ci vuole ben altro che un ente in meno o un risparmio in più. Ci vuole un cambiamento culturale, profondo, di sistema. Antropologico. Non devono cambiare solo le leggi, dobbiamo cambiare noi italiani. Piantandola di autoassolverci facendo i conti della portinaia, perché la portinaia dovrebbe stramaledire prima di tutto chi, con le tariffe in perenne aumento, i rincari della spesa, gli affitti impossibili, la benzina come l’oro, fa i gran soldi sulla sua pelle. Non illudersi che sia sufficiente incolpare chi raccoglie le briciole dei finanziamenti elettorali e del posto fisso da Vespa o Santoro.
Tutto per denaro
I soldi sono diventati tutto, siamo schiavi di un pensiero unico: i danè, gli schei, i piccioli. Per far girare la macchina, la loro macchina, dobbiamo trasformare le nostre coscienze in calcolatrici. Dobbiamo ragionare sempre e comunque in termini di ricavi e perdite. Ma per distoglierci da questo orrore, una verità troppo brutta da sopportare, hanno ridotto la politica a una commedia delle parti. In cui mai e poi mai qualcuno si azzarda a mettere in discussione il pensiero unico del mercato, del dio quattrino. La gente si appassiona al teatrino di pupi, e non s’avvede che dietro le quinte la regìa è dei pupari.
È una democrazia mafiosa, la nostra. In cui il gioco delle cupole economiche è educare il popolo a una politica in ostaggio dei partiti, i loro picciotti. L’equazione è facile facile: politica uguale partiti, non si scappa. E chi scappa, Dio lo fulmini: è un pazzo, un paria, un sovversivo. Un qualunquista.
Ed è un pericolo. Perché il corollario prevede che chi non si genuflette alla sacralità della forma-partito è un anti-democratico. Perciò, in quanto tale, perde ogni diritto a dire la sua, e se lo fa andando in piazza, luogo primigenio della democrazia, aggiunge scandalo a scandalo. Il popolo puzza, eccezion fatta per quello che si raccoglie nelle adunate di partito per contarsi e fare a gara a chi ce l’ha più lungo – il consenso.
La politica, in altri termini, va lasciata ai professionisti inquadrati in apparati mafiosi, che oggi giorno, per soprammercato, lo sono ancora di più poiché a decidere tutto, eclissatesi le diatribe ideologiche, rimangono solo i clan personali di questo o quel leader. Solo coloro che si riconoscono nello status quo sono considerati buoni cittadini. Tutti gli altri, se si fanno gli affari loro, che votino o non votino, pazienza: “lasciateci lavorare in pace”, è il messaggio dei mandarini partitocratici. Ma guai ai facinorosi che osino rifiutare questo regime di tessera in cui, come scriveva Panfilo Gentile nel suo ancora attualissimo saggio “Democrazie mafiose” (1969), «solo i conformisti sono cittadini di pieno diritto»3. Morale della favola: se ti impegni politicamente senza i paraocchi dell’appartenenza alla destra e alla sinistra, sei un qualunquista. Se invece ti lagni e sbraiti della destra e della sinistra solo perché costano troppo, va bene, anzi comprati pure l’inchiestona di Stella e indìgnati. Ma fermati lì.
Una democrazia mafiosa, la nostra. In cui il gioco delle cupole economiche è educare il popolo a una politica in ostaggio dei partiti, i loro picciotti.
Pensiero forte
Il qualunquismo è un pensiero debole. Anzi, è il più debole di tutti, perché basato esclusivamente sul denaro. E’ un pensiero contabile, che come in un’azienda, misura la vita comune con criteri economicistici: costi-benefici, efficienza, risultati. Una critica da topi di bilancio a una società che non conosce più ideali ma solo valori, come in Borsa (che non a caso in origine si chiamava, e si chiama ancor oggi, “Borsa Valori”), è fare critica miope. Da quattro soldi. Che il Sistema economico tollera, anzi vuole e perciò sollecita, facendo risuonare la gran cassa della campagna anti-sprechi. Rafforzando nella gente la convinzione che la politica, in fin dei conti, non è diversa da tutto il resto: è una merce, con un suo prezzo e un suo mercato. Questo è il più puro e il più becero qualunquismo, di cui anche un bravissimo Stella è il portato. Al contrario, non lo è il pensiero forte di chi vorrebbe dare un calcio nel sedere a questa cultura bottegaia perfettamente funzionale all’economia e ai profitti di industriali e banchieri. Alcuni dei quali, riuniti nel cosiddetto “salotto buono” italiano, sono non a caso gli editori e i datori di lavoro di Stella. ™
Alessio Mannino - giornalista
Fonte: www.ilribelle.com/
Dicembre 2008 - Anno 1, Numero 3 - Sommario
Commento
È un articolo che condivido solo in piccola parte. Rizzo e Stella fanno il loro lavoro di giornalisti. Ce ne fossero tanti come loro! Mannino scopre l’acqua calda. Dice: “Ci vuole un cambiamento culturale, profondo, di sistema. Antropologico. Non devono cambiare solo le leggi, dobbiamo cambiare noi italiani.” Già, ma come ci si arriva a un tale cambiamento? Certo prendendo coscienza di tutte le cose denunciate nella Casta e anche scritte da Mannino nel suo articolo. E poi? Facciamo la rivoluzione? Si? E con chi, e come? Al momento ce n’è in atto una di destra, per ora non cruenta, ma pur sempre criminale che i calci nel sedere - espressione tipicamente fascista - li dà a noi, poveri italiani. Una di sinistra non è immaginabile non essendoci più neppure la sinistra e, seppure ci fosse, non sarebbe comunque né praticabile né auspicabile, considerando i risultati “storici” di quelle avvenute. Sì, siamo in una democrazia mafiosa, ma che “La gente si appassiona al teatrino di pupi, e non s’avvede che dietro le quinte la regìa è dei pupari” è una convinzione quantomeno discutibile. La gente - orrida espressione spregiativa della cultura di destra per definire le persone con la loro ricca raggiera di rapporti – non si appassiona affatto al teatrino della politica, anzi, non gliene importa proprio niente. Gli italiani, diseducati, questo sì, da anni di disinformazione televisiva sono quanto mai lontani dalla politica, pur sapendo benissimo chi sono i pupi e chi i pupari. Forse proprio per questo quelli che non sono in qualche modo collusi - e sono tanti - vedono con favore fenomeni abbastanza contraddittori come il grillismo o il dipietrismo e, i pochi che leggono e si informano su internet, sono contenti di libri come La casta o fustigatori come Travaglio.
Note:
1) Anno Zero, 13 novembre 2008
2) Festa dell’Unità, intervista di Bianca Berlinguer, 13 settembre 2007
3) Democrazie mafiose, Ponte alle Grazie, 2
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DI ALESSIO MANNINO
La Voce del Ribelle
Ed è arrivato anche l’aggiornamento al libro-tormentone di questi ultimi due anni. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo hanno aggiunto le ultime notizie alla loro magistrale inchiesta su sprechi e privilegi della politica, la Casta (Rizzoli). I detrattori, in genere gli stessi mandarini sotto accusa, li hanno additati come qualunquisti, quasi come antidemocratici. Ma non è così. “Non si capisce perché l’indignazione di un britannico sia indignazione, e l’indignazione di un italiano sia qualunquismo”1, ha sbottato in tivù lo stesso Stella in risposta al sottosegretario Roberto Castelli, che aveva liquidato al solito modo i dati inoppugnabili enumerati dal giornalista del Corriere della Sera. Il quale, intendiamoci, è un segugio di razza: documentato, ficcante, con la suola consumata sul campo come le migliori penne di una volta. E con il merito indiscutibile di aver messo nero su bianco una tale montagna di scandali e ruberie da giustificare in pieno un sacrosanto disgusto per questi pover’uomini, i politici, dediti al basso saccheggio satrapesco.
Eppure, lasciando stare gli inglesi, imbattibili quanto a senso civico ma poco invidiabili su tanti altri fronti (l’alienazione capitalistica l’hanno inventata loro, mica noi), Stella ha torto e Castelli, benché sia dura ammetterlo, ha ragione. Ma non per i motivi suoi. Non perché denunciare il feudalesimo straccione della politica corrisponda a un insulso e indistinto rifiuto della politica tout court. Solo a lorsignori, difatti, può venire la sfacciataggine di negare che sono proprio loro, coi loro maneggi e carrozzoni clientelari, a incancrenire la storica estraneità degli italiani alla cosa pubblica. No, è per un’altra ragione che ha torto, il vendicatore dei torti di bilancio. Una ragione decisiva. Questa: l’italiano medio, col suo atavico disprezzo misto a ipocrita riverenza per lo Stato, si nutre di un’irritazione facilona, ciclica, pompata interessatamente dai poteri forti attraverso i media, poiché una regoletta antica quanto l’arte di governare dice che scoppi controllati di costernazione popolare sono un ottimo strumento per tenere il guinzaglio al collo della plebe. Mantenendola così insensibile alla stretta dall’alto, che resta ben salda nelle mani dei grandi interessi economici. Che il Quirinale ci costi di più di Buckingham Palace è di sicuro un oltraggio per quell’Italia impoverita che non arriva a fine mese. Ma limitarsi educatamente a chiedere tagli etici quando è l’intero edificio della res publica a costituire un’infamia fondata sul furto di sovranità, equivale a indicare il dito e non guardare la luna. Insomma, ci vogliono mezzi ciechi e spodestati, oltre che derubati.
Antipolitica?
Sebbene possa sembrare un paradosso ai più, questo risentimento da ragioneri contribuisce al qualunquismo come nessun Beppe Grillo potrà mai fare. Anche perché Grillo non è qualunquista: fa politica, altrochè antipolitica. Come definire altrimenti le centinaia di migliaia di persone che al V-Day 1 dell’8 settembre 2007 firmarono per “ripulire” il parlamento dagli indagati, limitarne i mandati e reintrodurre la preferenza elettorale, seguite da altrettante nel V-Day 2 del 25 aprile scorso per abolire l’Ordine dei giornalisti, il finanziamento pubblico all’editoria e la legge Gasparri? Ma tanto bastò all’informazione di regime, in testa il Corriere, per far risuonare il fuoco di fila della Casta sbertucciata fino a un giorno prima, con l’intero arco parlamentare che liquidava il movimento del Vaffanculo come una marmaglia di estremisti, populisti, addirittura terroristi e, immancabilmente, qualunquisti. Uno per tutti, basti ricordare il compagno D’Alema, che, sinceramente protervo come sempre, dichiarava un «fastidio antropologico»2 per quei minus habens scesi in piazza.
Il vero qualunquismo
Il qualunquista vero sta ai piani alti. Più alti delle Camere del Parlamento. Siede dietro le lussuose scrivanie di ciliegio degli editori di giornali e televisioni, ovvero i gruppi industriali e finanziari che finanziano e ricattano gli omuncoli della partitocrazia (i quali sono molto contenti di entrambe le cose: sono palanche e visibilità garantite). Sono i signorotti delle multinazionali, delle banche e delle assicurazioni, cioè i reali detentori delle leve del Potere, quello con la P maiuscola: quell’Idra di interessi poco visibili che condiziona le scelte politiche e la gestione dei beni pubblici in misura incomparabilmente superiore rispetto al voto del gregge, a cui resta il contentino della crocetta elettorale. Sono i più bei nomi dell’imprenditoria e dei salotti bancari a muovere le truppe cammellate dei giornalisti loro dipendenti su un unico obbiettivo: il politicante arraffone. Mettere alla gogna una Casta per garantire la perpetua salvezza delle altre, compresa quella degli scribacchini a libro paga. Ma soprattutto per rendere eternamente al di sopra di ogni contestazione la propria casta: la Casta delle Caste.
Pensiero unico
I giornalisti come Stella, piaccia a loro o meno, scrupolosi e seri quanto si vuole, sono complici di questa operazione. Sono davvero qualunquisti, ma perché evitando di puntare il dito contro l’ingiustizia di fondo, fanno credere al popolo bue che il problema sia soltanto la pensione del deputato. Mentre le prebende stratosferiche e i baracconi per sistemare amici e parenti sono la punta dell’iceberg. Per affondare il quale ci vuole ben altro che un ente in meno o un risparmio in più. Ci vuole un cambiamento culturale, profondo, di sistema. Antropologico. Non devono cambiare solo le leggi, dobbiamo cambiare noi italiani. Piantandola di autoassolverci facendo i conti della portinaia, perché la portinaia dovrebbe stramaledire prima di tutto chi, con le tariffe in perenne aumento, i rincari della spesa, gli affitti impossibili, la benzina come l’oro, fa i gran soldi sulla sua pelle. Non illudersi che sia sufficiente incolpare chi raccoglie le briciole dei finanziamenti elettorali e del posto fisso da Vespa o Santoro.
Tutto per denaro
I soldi sono diventati tutto, siamo schiavi di un pensiero unico: i danè, gli schei, i piccioli. Per far girare la macchina, la loro macchina, dobbiamo trasformare le nostre coscienze in calcolatrici. Dobbiamo ragionare sempre e comunque in termini di ricavi e perdite. Ma per distoglierci da questo orrore, una verità troppo brutta da sopportare, hanno ridotto la politica a una commedia delle parti. In cui mai e poi mai qualcuno si azzarda a mettere in discussione il pensiero unico del mercato, del dio quattrino. La gente si appassiona al teatrino di pupi, e non s’avvede che dietro le quinte la regìa è dei pupari.
È una democrazia mafiosa, la nostra. In cui il gioco delle cupole economiche è educare il popolo a una politica in ostaggio dei partiti, i loro picciotti. L’equazione è facile facile: politica uguale partiti, non si scappa. E chi scappa, Dio lo fulmini: è un pazzo, un paria, un sovversivo. Un qualunquista.
Ed è un pericolo. Perché il corollario prevede che chi non si genuflette alla sacralità della forma-partito è un anti-democratico. Perciò, in quanto tale, perde ogni diritto a dire la sua, e se lo fa andando in piazza, luogo primigenio della democrazia, aggiunge scandalo a scandalo. Il popolo puzza, eccezion fatta per quello che si raccoglie nelle adunate di partito per contarsi e fare a gara a chi ce l’ha più lungo – il consenso.
La politica, in altri termini, va lasciata ai professionisti inquadrati in apparati mafiosi, che oggi giorno, per soprammercato, lo sono ancora di più poiché a decidere tutto, eclissatesi le diatribe ideologiche, rimangono solo i clan personali di questo o quel leader. Solo coloro che si riconoscono nello status quo sono considerati buoni cittadini. Tutti gli altri, se si fanno gli affari loro, che votino o non votino, pazienza: “lasciateci lavorare in pace”, è il messaggio dei mandarini partitocratici. Ma guai ai facinorosi che osino rifiutare questo regime di tessera in cui, come scriveva Panfilo Gentile nel suo ancora attualissimo saggio “Democrazie mafiose” (1969), «solo i conformisti sono cittadini di pieno diritto»3. Morale della favola: se ti impegni politicamente senza i paraocchi dell’appartenenza alla destra e alla sinistra, sei un qualunquista. Se invece ti lagni e sbraiti della destra e della sinistra solo perché costano troppo, va bene, anzi comprati pure l’inchiestona di Stella e indìgnati. Ma fermati lì.
Una democrazia mafiosa, la nostra. In cui il gioco delle cupole economiche è educare il popolo a una politica in ostaggio dei partiti, i loro picciotti.
Pensiero forte
Il qualunquismo è un pensiero debole. Anzi, è il più debole di tutti, perché basato esclusivamente sul denaro. E’ un pensiero contabile, che come in un’azienda, misura la vita comune con criteri economicistici: costi-benefici, efficienza, risultati. Una critica da topi di bilancio a una società che non conosce più ideali ma solo valori, come in Borsa (che non a caso in origine si chiamava, e si chiama ancor oggi, “Borsa Valori”), è fare critica miope. Da quattro soldi. Che il Sistema economico tollera, anzi vuole e perciò sollecita, facendo risuonare la gran cassa della campagna anti-sprechi. Rafforzando nella gente la convinzione che la politica, in fin dei conti, non è diversa da tutto il resto: è una merce, con un suo prezzo e un suo mercato. Questo è il più puro e il più becero qualunquismo, di cui anche un bravissimo Stella è il portato. Al contrario, non lo è il pensiero forte di chi vorrebbe dare un calcio nel sedere a questa cultura bottegaia perfettamente funzionale all’economia e ai profitti di industriali e banchieri. Alcuni dei quali, riuniti nel cosiddetto “salotto buono” italiano, sono non a caso gli editori e i datori di lavoro di Stella. ™
Alessio Mannino - giornalista
Fonte: www.ilribelle.com/
Dicembre 2008 - Anno 1, Numero 3 - Sommario
Commento
È un articolo che condivido solo in piccola parte. Rizzo e Stella fanno il loro lavoro di giornalisti. Ce ne fossero tanti come loro! Mannino scopre l’acqua calda. Dice: “Ci vuole un cambiamento culturale, profondo, di sistema. Antropologico. Non devono cambiare solo le leggi, dobbiamo cambiare noi italiani.” Già, ma come ci si arriva a un tale cambiamento? Certo prendendo coscienza di tutte le cose denunciate nella Casta e anche scritte da Mannino nel suo articolo. E poi? Facciamo la rivoluzione? Si? E con chi, e come? Al momento ce n’è in atto una di destra, per ora non cruenta, ma pur sempre criminale che i calci nel sedere - espressione tipicamente fascista - li dà a noi, poveri italiani. Una di sinistra non è immaginabile non essendoci più neppure la sinistra e, seppure ci fosse, non sarebbe comunque né praticabile né auspicabile, considerando i risultati “storici” di quelle avvenute. Sì, siamo in una democrazia mafiosa, ma che “La gente si appassiona al teatrino di pupi, e non s’avvede che dietro le quinte la regìa è dei pupari” è una convinzione quantomeno discutibile. La gente - orrida espressione spregiativa della cultura di destra per definire le persone con la loro ricca raggiera di rapporti – non si appassiona affatto al teatrino della politica, anzi, non gliene importa proprio niente. Gli italiani, diseducati, questo sì, da anni di disinformazione televisiva sono quanto mai lontani dalla politica, pur sapendo benissimo chi sono i pupi e chi i pupari. Forse proprio per questo quelli che non sono in qualche modo collusi - e sono tanti - vedono con favore fenomeni abbastanza contraddittori come il grillismo o il dipietrismo e, i pochi che leggono e si informano su internet, sono contenti di libri come La casta o fustigatori come Travaglio.
Note:
1) Anno Zero, 13 novembre 2008
2) Festa dell’Unità, intervista di Bianca Berlinguer, 13 settembre 2007
3) Democrazie mafiose, Ponte alle Grazie, 2
Per gentile concessione de “La Voce del Ribelle”
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14.12.08
Il clima e la crisi
Barbara Spinelli
C’era una volta una confraternita di volenterosi che pretese di vedere, in Iraq, funghi atomici inesistenti e armi di distruzione di massa introvabili. Lanciarono una guerra, contro queste chimere, spargendo caos nel mondo. È strano, ma oggi sono gli stessi volenterosi a ritenere chimerico il disastro climatico che invece esiste, e inani oltre che costosi i piani di salvataggio della Terra. Tanto più inani in tempi di crisi economica. Il più esplicito è il presidente del Consiglio italiano, che ha dichiarato: «È assurdo parlare di clima quando c’è la crisi: è come se uno con la polmonite pensa a farsi la messa in piega». Si aggiungono gli europei dell’Est, tra cui spicca il capo di Stato ceco: secondo Vaclav Klaus (prossimo presidente del Consiglio europeo) la battaglia climatica è uno «stupido prodotto di lusso». In pericolo non è il clima ma la libertà, minacciata da un’ideologia verde che «spezza la fiducia nello sviluppo spontaneo della società umana». La politica che s’immischia è il comunismo pianificatore che torna, e l’ecologia ne è la reincarnazione. Peggio ancora: la Germania abdica al ruolo guida che ha avuto in questo campo.
L’amministrazione Bush ha guidato anche questa coalizione, come in Iraq: la distruzione del pianeta «non è il prodotto accidentale della sua ideologia».
La distruzione è l’ideologia. Il neo-conservatorismo è un potere che s’esprime dimostrando che puoi trasformare in macerie qualsiasi parte del mondo», scrive George Monbiot sul Guardian, denunciando i «Nuovi Vandali» del clima. La guida dei volenterosi ha cominciato a vacillare, con l’elezione di Obama, ma influenza tuttora gli affiliati. Il loro motto è: «Finché non vediamo la rovina qui, ora, essa non esiste. Magari esisterà per i nostri discendenti ma che importano i discendenti». Ieri avevano visto in Iraq la pistola fumante che non c’era. Oggi il pianeta stesso è smoking gun e non lo vedono.
L’accordo europeo di venerdì ribadisce, per fortuna, l’obiettivo fissato per il 2020: taglio del 20 per cento delle emissioni di diossido di carbonio, aumento del 20 per cento delle energie rinnovabili, miglioramento del 20 per cento dell’efficienza energetica. Ma l’accordo è pieno di concessioni ai riluttanti: Italia, Germania, Polonia sono esentati da vincoli rigidi, come ha spiegato Enrico Deaglio su La Stampa. Tutti sono contenti del vertice europeo perché l’unanimità - quando c’è forte dissenso su cose fondamentali - genera accordi falsi e non sceglie fra le posizioni preservandole dissennatamente tutte. Una parte dell’Europa non reputa la Terra in pericolo, e non è sconfessata. Non scorge minacce ma assurdi capricci: una messa in piega, un lusso da abolire quando occorre stringere la cinta in economia.
Dicono che atteggiamenti simili sono pragmatici, attenti agli interessi nazionali. Nelle stesse vesti si presentò la rivoluzione conservatrice, quando nacque negli Anni 70 e teorizzò il mercato che si riequilibra spontaneamente, senza ingerenze statali o politiche. La bolla finanziaria infrantasi quest’estate ha dimostrato quanto fosse irreale e ideologico questo pragmatismo. Esattamente lo stesso accade con il clima; solo che la bolla, ancora più enorme, è dura a svanire. Il governo italiano è d’altronde affezionato alle bolle, abituato com’è a giocare con l’illusione televisiva. Secondo Berlusconi «la crisi economica è psicologica, fatta di paura anti-consumista». È quanto sostenne nelle elezioni Usa il consigliere di McCain, l’imprenditore Phil Gramm («Questa è una recessione mentale: siamo diventati una nazione di piagnucolosi», disse al Washington Times il 9 luglio 2008). Si è visto che fine ha fatto tanta spocchiosa certezza.
Privo di sapienza pragmatica è anche il senso del tempo, in chi diffida della questione climatica. Dice ancora Berlusconi che «questa non è l’ora dei Don Chisciotte. Abbiamo tempo». Non è vero che l’abbiamo, e lo confermano non solo i rapporti Onu del 2007 ma i dati più recenti. Di qui all’estate 2013, il Polo Nord avrà perso i ghiacciai. E il permafrost in Siberia si scioglie, liberando metano letale. Da mesi ripetiamo: una crisi finanziaria come questa non c’era dal ’29. Johann Hari sull’Independent scrive che lo scioglimento del ghiaccio artico è da 3 milioni di anni che non lo vedevamo.
I riluttanti hanno questo, in comune: sono dirigenti che sprezzano intensamente la politica, che si fanno portavoce delle imprese più influenti, che accentrano lo Stato ma non per rafforzarne davvero le funzioni. Anche per questo non capiscono l’esistenza di un’economia che distrugge senza creare nulla. La lotta contro la crisi, per costoro, non fa tutt’uno con la lotta climatica. È loro ignoto quel che le unisce: le patologie, le comuni opportunità, i peccati di omissione commessi in ambedue i casi dalla politica, così bene illustrati da Jürgen Habermas nell’intervista alla Zeit del 6 novembre, e l’indifferenza ai tempi lunghi, alla posterità. I riluttanti sono aggrappati a paradigmi di un mondo ormai vecchio, in cui non è la politica a imporre il bene pubblico sugli interessi costituiti ma sono questi a comandare. E comandano le industrie più inquinanti, non le più deboli lobby verdi. Se non fosse così, la prospettiva sarebbe assai diversa. Il clima sarebbe esaminato non solo dal punto di vista dei costi, ma dei benefici.
La prospettiva sarebbe quella illustrata magistralmente dall’economista Marzio Galeotto, il 10 dicembre sul sito www.lavoce.info. Chiari apparirebbero i danni evitati dalla riduzione delle emissioni di gas-serra. Basti ricordare la canicola del 2003, che secondo l’Organizzazione mondiale della salute costò 52 mila morti in Europa. O il risparmio di spese sanitarie, ottenibile se le emissioni saranno ridotte del 20 per cento: 51 miliardi di euro (76 con un taglio del 30). L’indipendenza energetica italiana aumenterebbe, con un guadagno di 12,3 miliardi. Quanto all’occupazione, già oggi l’industria europea delle energie rinnovabili impiega più di 400 mila persone, con un giro di affari di 40 miliardi di euro (gli occupati salgono a 2 milioni nel 2020). Investimenti forti in tale settore creerebbero in Italia più di 100 mila occupati in 12 anni.
La crisi presente è un’opportunità, se crescita e energia verde son collegate. È la tesi di Obama, che vuol creare 5 milioni di posti e investire 150 miliardi di dollari nell’uscita dal petrolio: questo bene sempre più caro, raro, politicamente ustionante. Non a caso ha scelto un Nobel della fisica, l’ecologista Steven Chu, come ministro dell’Energia. Gli sforzi si concentreranno sul risparmio nella costruzione e nel riadattamento delle abitazioni (il 40 per cento delle emissioni di diossido di carbonio proviene in America da esse, secondo Al Gore). Sono proprio gli sforzi che Roma abbandona, non certo per pragmatismo ma per cinico tedio. Le misure adottate da Prodi, che agevolavano fiscalmente i lavori domestici di risparmio energetico, sono state abolite.
Finché penseremo che tutte queste crisi sono mentali non faremo nulla, pensando che nulla valga la pena. È un po’ come nella Dolce Vita di Fellini. Nella campagna romana, c’è una famiglia principesca che possiede una villa del ’500 del tutto decaduta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio inerte, stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo stomacato.
È la cinica, accidiosa risposta di un ultimo rampollo aristocratico. Cosa volete che facciamo, per la Terra? I falsi pragmatici la trattano come personale proprietà, che muore con loro. I profeti e veggenti vedono il lungo termine, il pianeta intero, e pensano come gli antichi indiani d’America: «Noi non abbiamo ereditato la terra dai nostri antenati, ma l’abbiamo presa a prestito dai nostri figli».
lastampa.it
C’era una volta una confraternita di volenterosi che pretese di vedere, in Iraq, funghi atomici inesistenti e armi di distruzione di massa introvabili. Lanciarono una guerra, contro queste chimere, spargendo caos nel mondo. È strano, ma oggi sono gli stessi volenterosi a ritenere chimerico il disastro climatico che invece esiste, e inani oltre che costosi i piani di salvataggio della Terra. Tanto più inani in tempi di crisi economica. Il più esplicito è il presidente del Consiglio italiano, che ha dichiarato: «È assurdo parlare di clima quando c’è la crisi: è come se uno con la polmonite pensa a farsi la messa in piega». Si aggiungono gli europei dell’Est, tra cui spicca il capo di Stato ceco: secondo Vaclav Klaus (prossimo presidente del Consiglio europeo) la battaglia climatica è uno «stupido prodotto di lusso». In pericolo non è il clima ma la libertà, minacciata da un’ideologia verde che «spezza la fiducia nello sviluppo spontaneo della società umana». La politica che s’immischia è il comunismo pianificatore che torna, e l’ecologia ne è la reincarnazione. Peggio ancora: la Germania abdica al ruolo guida che ha avuto in questo campo.
L’amministrazione Bush ha guidato anche questa coalizione, come in Iraq: la distruzione del pianeta «non è il prodotto accidentale della sua ideologia».
La distruzione è l’ideologia. Il neo-conservatorismo è un potere che s’esprime dimostrando che puoi trasformare in macerie qualsiasi parte del mondo», scrive George Monbiot sul Guardian, denunciando i «Nuovi Vandali» del clima. La guida dei volenterosi ha cominciato a vacillare, con l’elezione di Obama, ma influenza tuttora gli affiliati. Il loro motto è: «Finché non vediamo la rovina qui, ora, essa non esiste. Magari esisterà per i nostri discendenti ma che importano i discendenti». Ieri avevano visto in Iraq la pistola fumante che non c’era. Oggi il pianeta stesso è smoking gun e non lo vedono.
L’accordo europeo di venerdì ribadisce, per fortuna, l’obiettivo fissato per il 2020: taglio del 20 per cento delle emissioni di diossido di carbonio, aumento del 20 per cento delle energie rinnovabili, miglioramento del 20 per cento dell’efficienza energetica. Ma l’accordo è pieno di concessioni ai riluttanti: Italia, Germania, Polonia sono esentati da vincoli rigidi, come ha spiegato Enrico Deaglio su La Stampa. Tutti sono contenti del vertice europeo perché l’unanimità - quando c’è forte dissenso su cose fondamentali - genera accordi falsi e non sceglie fra le posizioni preservandole dissennatamente tutte. Una parte dell’Europa non reputa la Terra in pericolo, e non è sconfessata. Non scorge minacce ma assurdi capricci: una messa in piega, un lusso da abolire quando occorre stringere la cinta in economia.
Dicono che atteggiamenti simili sono pragmatici, attenti agli interessi nazionali. Nelle stesse vesti si presentò la rivoluzione conservatrice, quando nacque negli Anni 70 e teorizzò il mercato che si riequilibra spontaneamente, senza ingerenze statali o politiche. La bolla finanziaria infrantasi quest’estate ha dimostrato quanto fosse irreale e ideologico questo pragmatismo. Esattamente lo stesso accade con il clima; solo che la bolla, ancora più enorme, è dura a svanire. Il governo italiano è d’altronde affezionato alle bolle, abituato com’è a giocare con l’illusione televisiva. Secondo Berlusconi «la crisi economica è psicologica, fatta di paura anti-consumista». È quanto sostenne nelle elezioni Usa il consigliere di McCain, l’imprenditore Phil Gramm («Questa è una recessione mentale: siamo diventati una nazione di piagnucolosi», disse al Washington Times il 9 luglio 2008). Si è visto che fine ha fatto tanta spocchiosa certezza.
Privo di sapienza pragmatica è anche il senso del tempo, in chi diffida della questione climatica. Dice ancora Berlusconi che «questa non è l’ora dei Don Chisciotte. Abbiamo tempo». Non è vero che l’abbiamo, e lo confermano non solo i rapporti Onu del 2007 ma i dati più recenti. Di qui all’estate 2013, il Polo Nord avrà perso i ghiacciai. E il permafrost in Siberia si scioglie, liberando metano letale. Da mesi ripetiamo: una crisi finanziaria come questa non c’era dal ’29. Johann Hari sull’Independent scrive che lo scioglimento del ghiaccio artico è da 3 milioni di anni che non lo vedevamo.
I riluttanti hanno questo, in comune: sono dirigenti che sprezzano intensamente la politica, che si fanno portavoce delle imprese più influenti, che accentrano lo Stato ma non per rafforzarne davvero le funzioni. Anche per questo non capiscono l’esistenza di un’economia che distrugge senza creare nulla. La lotta contro la crisi, per costoro, non fa tutt’uno con la lotta climatica. È loro ignoto quel che le unisce: le patologie, le comuni opportunità, i peccati di omissione commessi in ambedue i casi dalla politica, così bene illustrati da Jürgen Habermas nell’intervista alla Zeit del 6 novembre, e l’indifferenza ai tempi lunghi, alla posterità. I riluttanti sono aggrappati a paradigmi di un mondo ormai vecchio, in cui non è la politica a imporre il bene pubblico sugli interessi costituiti ma sono questi a comandare. E comandano le industrie più inquinanti, non le più deboli lobby verdi. Se non fosse così, la prospettiva sarebbe assai diversa. Il clima sarebbe esaminato non solo dal punto di vista dei costi, ma dei benefici.
La prospettiva sarebbe quella illustrata magistralmente dall’economista Marzio Galeotto, il 10 dicembre sul sito www.lavoce.info. Chiari apparirebbero i danni evitati dalla riduzione delle emissioni di gas-serra. Basti ricordare la canicola del 2003, che secondo l’Organizzazione mondiale della salute costò 52 mila morti in Europa. O il risparmio di spese sanitarie, ottenibile se le emissioni saranno ridotte del 20 per cento: 51 miliardi di euro (76 con un taglio del 30). L’indipendenza energetica italiana aumenterebbe, con un guadagno di 12,3 miliardi. Quanto all’occupazione, già oggi l’industria europea delle energie rinnovabili impiega più di 400 mila persone, con un giro di affari di 40 miliardi di euro (gli occupati salgono a 2 milioni nel 2020). Investimenti forti in tale settore creerebbero in Italia più di 100 mila occupati in 12 anni.
La crisi presente è un’opportunità, se crescita e energia verde son collegate. È la tesi di Obama, che vuol creare 5 milioni di posti e investire 150 miliardi di dollari nell’uscita dal petrolio: questo bene sempre più caro, raro, politicamente ustionante. Non a caso ha scelto un Nobel della fisica, l’ecologista Steven Chu, come ministro dell’Energia. Gli sforzi si concentreranno sul risparmio nella costruzione e nel riadattamento delle abitazioni (il 40 per cento delle emissioni di diossido di carbonio proviene in America da esse, secondo Al Gore). Sono proprio gli sforzi che Roma abbandona, non certo per pragmatismo ma per cinico tedio. Le misure adottate da Prodi, che agevolavano fiscalmente i lavori domestici di risparmio energetico, sono state abolite.
Finché penseremo che tutte queste crisi sono mentali non faremo nulla, pensando che nulla valga la pena. È un po’ come nella Dolce Vita di Fellini. Nella campagna romana, c’è una famiglia principesca che possiede una villa del ’500 del tutto decaduta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio inerte, stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo stomacato.
È la cinica, accidiosa risposta di un ultimo rampollo aristocratico. Cosa volete che facciamo, per la Terra? I falsi pragmatici la trattano come personale proprietà, che muore con loro. I profeti e veggenti vedono il lungo termine, il pianeta intero, e pensano come gli antichi indiani d’America: «Noi non abbiamo ereditato la terra dai nostri antenati, ma l’abbiamo presa a prestito dai nostri figli».
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12.12.08
I fanatici del popolo - da Putin a Berlusconi, il populismo è globale
di Benedetto Vecchi
«La ragione populista» del filosofo marxista Ernesto Laclau e «Populismo globale» del giornalista italiano Guido Caldiron. Due saggi per aiutare a comprendere una forma politica che ha acquisto forza nella crisi della democrazia e nei punti «alti» dello sviluppo capitalista
Il populismo, ovvero il nodo scorsoio della democrazia contemporanea. A scioglierlo ci provano in molti, da chi lo ritiene un residuo del passato che sarà rimosso dopo avere adeguatamente riformato le istituzioni politiche in termini di semplificazione e di centralità del potere esecutivo rispetto a quelli legislativo e giudiziario. Oppure, come manifestazione politica di quei paesi poco avvezzi alla democrazia. Letture tuttavia non convincenti.
In primo luogo, perché il populismo mostra tutta la sua radicalità politica non nei paesi dove lo sviluppo economico è più lento, come avveniva in passato in America Latina o in alcune realtà asiatiche, dove partiti e leader esplicitamente populisti facevano le loro fortune. La fine del Novecento ha infatti visto forze populiste conquistare sempre più consensi, arrivando a condizionare la vita politica se non a governare nazioni come la Francia, l'Italia, l'Olanda, l'Austria, gli Stati Uniti e la Russia di Vladimir Putin.
Dunque, un fenomeno politico che non è certo un'ingombrante eredità gettata con volgarità sul presente. Piuttosto va considerato come la forma politica che si misura con i problemi posti dalla crisi del neoliberismo e della globalizzazione. Insomma, una risposta innovativa ai conflitti sociali nei cosiddetti «punti alti» dello sviluppo capitalismo: è questa, infatti, la tesi di studiosi e leader politici affascinati dal discorso populisti. Per sgomberare il campo da equivoci va subito detto che il termine «innovativo» non esprime qui un giudizio, ma solo la constatazione che i partiti e i leader populisti riescono a elaborare analisi e proposte politiche più efficaci di altre, sfruttando al meglio i media e le forme di mobilitazione - dalla vecchia radio all'anziana televisione, alla caotica Internet, dagli sms al fascinoso volantinaggio - preposte alla formazione dell'opinione pubblica.
Le fragili identità
A confrontarsi con questo rovello sono due recenti libri che, sebbene siano nati in ambiti disciplinari e con prospettive diverse, sono tra loro complementari. Si tratta di Populismo globale (Manifestolibri, pp. 191, euro 18) e La ragione populista (Laterza, pp. 300, euro 20). Il primo è di Guido Caldiron, un giornalista e studioso da sempre attento alle evoluzioni della destra radicale europea. Il secondo è del filosofo argentino Ernesto Laclau, che ha dedicato molte opere alla comprensione di come funziona la democrazia sin da quando è salito in cattedra a Oxford su segnalazione dello storico Eric Hobsbawm dopo aver precipitosamente abbandonato il suo paese perché minacciato di morte dai gruppi paramilitari di estrema destra.
La complementarietà dei due saggi è data dal fatto che là dove finisce Caldoron inizia l'analisi di Laclau. Populismo globale è, infatti, è una documentata analisi sull'ascesa dei partiti e leader populisti, mentre La ragione populista definisce le coordinate filosofiche entro le quali si muove la cultura politica populista. Caldiron ne cerca le radici, Laclau evidenzia come l'albero è nel frattempo cresciuto. Entrambi, però, iscrivono il populismo nella sfera politica, cancellandone le basi materiali. Infatti, né Caldiron, né Laclau mettono mai in relazione il fatto che il populismo cresce laddove è presente una composizione sociale della forza-lavoro estremamente articolata e dove la precarietà è la condizione necessaria alla messa al lavoro del sapere, il linguaggio, la conoscenza, la capacità di sviluppare una «autonoma» cooperazione sociale. In altri termini, il populismo ha fortuna nei punti alti dello sviluppo capitalistico.
Guido Caldiron parte dall'elezione a presidente di Nicolas Sarkozy e dalla vittoria elettorale del Popolo delle libertà di Silvio Berlusconi. Entrambi sono leader populisti, che hanno saputo intercettare gli umori profondi dei rispettivi popoli, articolandoli in un programma politico con al centro la figura dell'individuo proprietario. Inoltre, tanto Sarkozy che Berlusconi hanno saputo creare un clima mediatico che ha posto con forza nell'agenda politica temi e argomenti che componevano il loro programma politico: l'insicurezza sociale, intesa come paura di una messa in discussione del proprio stile di vita; la presenza di nemici interni alla nazione - in Francia la cultura del Sessantotto e la racaille delle periferia, in Italia uno stato-vampiro e i migranti -. Per Caldiron è tuttavia importante comprendere come i temi dell'agenda populista siano stati quelli dei gruppi di estrema destra per i venti anni che hanno preceduto la fine del Novecento.
In nome del futuro
Ciò che colpisce nella ricostruzione di Caldiron dell'ascesa di Nicolas Sarkozy è la traduzione dei temi propri della «destra radicale» in una politica «per bene» fatta dal presidente francese e di come siano stati sapientemente usati all'interno della crisi dei partiti moderati e della destra francese alimentata dalla globalizzazione neoliberista per un ricambio generazionale e culturale di quegli stessi partiti. Con una novità, che rende il populismo contemporaneo radicalmente diverso da quello Novecentesco: le richieste di ordine e disciplina non vengono motivate in nome di un'armonica comunità originaria minacciata dalla modernità, bensì in nome del futuro.
Il popolo evocato da Sarkozy e da Berlusconi ha fatto esperienza della globalizzazione. È il popolo dove i singoli sono rappresentati come tanti imprenditori di se stessi proprietari di un capitale intellettuale e sociale che deve poter essere sfruttato al meglio senza i limiti posti dallo stato sociale. Della triade della rivoluzione francese preferisce infatti la libertà all'eguaglianza e alla fraternità: una libertà, si badi bene, che ha nel il mercato la sua unità di misura. Per questo motivo chi lo vuole rappresentare parla del futuro invece che del passato. A sostegno di questa lettura Caldiron cita il caso di Pim Fortuyn, il leader della destra populista olandese ucciso alcuni anni fa che non ha mai nascosto la sua omosessualità e che ha invocato la tutela dei diritti umani contro gli «indigeni» musulmani presenti o nati in Olanda. In questa particolare accezione, i diritti umani sono il perimetro di una civiltà che non tollera nessuna diversità. Così, l'accesso alla cittadinanza è quindi necessariamente selettivo.
Assistiamo così a un populismo che impugna l'arma dei diritti umani per tenere fuori i nemici dell'Occidente: per i nemici interni, invece, la «tolleranza zero» non è solo una politica dell'ordine pubblico, ma un marchio di fabbrica che non può essere contraffatto. Tesi presenti, ad esempio, nelle prese di posizione di intellettuali come Alain Finkielkraut, Christopher Hitchens, André Glucksmann che, seppur con un passato di sinistra, sono diventati i più strenui difensori della superiorità occidentale. Un ordine del discorso dilagante dopo l'attacco alle Twin Towers, dove la presidenza di George W. Bush ha fatto esplicitamente riferimento allo scontro di civiltà di Samuel Phillips Huntington per legittimare un politica interna decisamente populista.
Se si rimane però all'atlante della galassia populista proposto da Guido Caldiron si rimane colpiti più dalle differenze che dalle ripetizioni che si incontrano mettendo a confronto l'Europa, gli Stati Uniti, la Russia di Putin o l'Iran del presidente Mahmud Ahmadinejad. E rischia di smarrirsi in esso. Ma è proprio questa grande capacità di adattamento a realtà diverse che contraddistingue il populismo contemporaneo da quello del passato.
Il problema è dunque svelare la visione populista del Politico. Per dirla con le parole del filosofo Ernesto Laclau occorre stabilire la sua ontologia, perché il populismo «costruisce» il popolo, attraverso l'evocazione della sua assenza.
Mutanti e flessibili
Il populismo dunque come paradigma del «Politico», ma anche come un modo di organizzare uno Stato che ha preso congedo sia dalla democrazia rappresentativa che dalle alternative ad essa. È infatti uno stato, quello invocato dai populisti contemporanei, che eleva sì un leader al di sopra degli interessi parziali che confliggono nella società, ma stabilisce l'equivalenza, quindi la commensurabilità di un interesse economico, di uno stile di vita con un altro. Non è un caso che Ernesto Laclau utilizzi in maniera innovativa il concetto gramsciano di egemonia per spiegare la costruzione di un significante che abbia la capacità di rappresentare, superandoli, gli antagonismi e le differenze della realtà sociale.
Il popolo è un significante vuoto che va riempito, stabilendo appunto i criteri che stabiliscono la coesistenza e la commensurabilità tra le tante parzialità che compongono la realtà sociale. I populisti sono i traduttori dei diversi idiomi sociali in un linguaggio comune, quello del popolo.
È noto che nelle pratiche politiche populiste c'è il popolo è rappresentato come una «comunità organica di simili» e che occorre cancellare le divisioni introdotte dagli elementi estranei a quella stessa comunità. I populisti, insomma, sono sempre a caccia di nemici interni. Il discorso populista contemporaneo invece non cancella la eterogeneità e le differenze anche di classe, ma le riconduce appunto alla loro parzialità, che possono esistere solo se espresse in un significante universale messo a punto in una data contingenza. In questo testo di Laclau sono forti gli echi degli studi di filosofi come Jacques Ranciere e Alain Badiou quando si sono confrontati con l'impossibilità di pensare la politica al di fuori di una contingenza. Quella che vede la presa di parola di chi è dotato di una facoltà di linguaggio negata dai dominanti, come sostiene Ranciere; o laddove, secondo Badiou quando scrive sulla Comune di Parigi, si interrompe il corso lineare della storia a causa dell'irruzione del conflitto di classe nella scena pubblica. Laclau, invece, ritiene che c'è contingenza quando l'assenza del popolo viene evocata e presentata dal discorso populista. Il populismo è quindi la forma politica che risponde alla crisi della democrazia.
Occorre quindi guardare la «bestia» in volto senza averne paura. Una bestia che non si ritirerà dalla scena pubblica con la crisi del neoliberismo. Il limite dei due libri sta, però, nella rimozione, se non nell'irrilevanza del nesso tra i laboratori della produzione e la dimensione politica. È infatti in quei laboratori che il populismo, in nome dell'individuo proprietario, altro significante universale che attiene alla ragione populista, ha compiuto la prima operazione, traducendo in termini capitalistici le istanze di libertà e di autodeterminazione espresse dalla forza-lavoro. Una traduzione che gli ha dato forza, fino a condizionare l'agenda politica non solo di una nazione, ma di tutto il capitalismo contemporaneo indipendentemente da chi esercita il potere dell'esecutivo.
ilmanifesto.it
«La ragione populista» del filosofo marxista Ernesto Laclau e «Populismo globale» del giornalista italiano Guido Caldiron. Due saggi per aiutare a comprendere una forma politica che ha acquisto forza nella crisi della democrazia e nei punti «alti» dello sviluppo capitalista
Il populismo, ovvero il nodo scorsoio della democrazia contemporanea. A scioglierlo ci provano in molti, da chi lo ritiene un residuo del passato che sarà rimosso dopo avere adeguatamente riformato le istituzioni politiche in termini di semplificazione e di centralità del potere esecutivo rispetto a quelli legislativo e giudiziario. Oppure, come manifestazione politica di quei paesi poco avvezzi alla democrazia. Letture tuttavia non convincenti.
In primo luogo, perché il populismo mostra tutta la sua radicalità politica non nei paesi dove lo sviluppo economico è più lento, come avveniva in passato in America Latina o in alcune realtà asiatiche, dove partiti e leader esplicitamente populisti facevano le loro fortune. La fine del Novecento ha infatti visto forze populiste conquistare sempre più consensi, arrivando a condizionare la vita politica se non a governare nazioni come la Francia, l'Italia, l'Olanda, l'Austria, gli Stati Uniti e la Russia di Vladimir Putin.
Dunque, un fenomeno politico che non è certo un'ingombrante eredità gettata con volgarità sul presente. Piuttosto va considerato come la forma politica che si misura con i problemi posti dalla crisi del neoliberismo e della globalizzazione. Insomma, una risposta innovativa ai conflitti sociali nei cosiddetti «punti alti» dello sviluppo capitalismo: è questa, infatti, la tesi di studiosi e leader politici affascinati dal discorso populisti. Per sgomberare il campo da equivoci va subito detto che il termine «innovativo» non esprime qui un giudizio, ma solo la constatazione che i partiti e i leader populisti riescono a elaborare analisi e proposte politiche più efficaci di altre, sfruttando al meglio i media e le forme di mobilitazione - dalla vecchia radio all'anziana televisione, alla caotica Internet, dagli sms al fascinoso volantinaggio - preposte alla formazione dell'opinione pubblica.
Le fragili identità
A confrontarsi con questo rovello sono due recenti libri che, sebbene siano nati in ambiti disciplinari e con prospettive diverse, sono tra loro complementari. Si tratta di Populismo globale (Manifestolibri, pp. 191, euro 18) e La ragione populista (Laterza, pp. 300, euro 20). Il primo è di Guido Caldiron, un giornalista e studioso da sempre attento alle evoluzioni della destra radicale europea. Il secondo è del filosofo argentino Ernesto Laclau, che ha dedicato molte opere alla comprensione di come funziona la democrazia sin da quando è salito in cattedra a Oxford su segnalazione dello storico Eric Hobsbawm dopo aver precipitosamente abbandonato il suo paese perché minacciato di morte dai gruppi paramilitari di estrema destra.
La complementarietà dei due saggi è data dal fatto che là dove finisce Caldoron inizia l'analisi di Laclau. Populismo globale è, infatti, è una documentata analisi sull'ascesa dei partiti e leader populisti, mentre La ragione populista definisce le coordinate filosofiche entro le quali si muove la cultura politica populista. Caldiron ne cerca le radici, Laclau evidenzia come l'albero è nel frattempo cresciuto. Entrambi, però, iscrivono il populismo nella sfera politica, cancellandone le basi materiali. Infatti, né Caldiron, né Laclau mettono mai in relazione il fatto che il populismo cresce laddove è presente una composizione sociale della forza-lavoro estremamente articolata e dove la precarietà è la condizione necessaria alla messa al lavoro del sapere, il linguaggio, la conoscenza, la capacità di sviluppare una «autonoma» cooperazione sociale. In altri termini, il populismo ha fortuna nei punti alti dello sviluppo capitalistico.
Guido Caldiron parte dall'elezione a presidente di Nicolas Sarkozy e dalla vittoria elettorale del Popolo delle libertà di Silvio Berlusconi. Entrambi sono leader populisti, che hanno saputo intercettare gli umori profondi dei rispettivi popoli, articolandoli in un programma politico con al centro la figura dell'individuo proprietario. Inoltre, tanto Sarkozy che Berlusconi hanno saputo creare un clima mediatico che ha posto con forza nell'agenda politica temi e argomenti che componevano il loro programma politico: l'insicurezza sociale, intesa come paura di una messa in discussione del proprio stile di vita; la presenza di nemici interni alla nazione - in Francia la cultura del Sessantotto e la racaille delle periferia, in Italia uno stato-vampiro e i migranti -. Per Caldiron è tuttavia importante comprendere come i temi dell'agenda populista siano stati quelli dei gruppi di estrema destra per i venti anni che hanno preceduto la fine del Novecento.
In nome del futuro
Ciò che colpisce nella ricostruzione di Caldiron dell'ascesa di Nicolas Sarkozy è la traduzione dei temi propri della «destra radicale» in una politica «per bene» fatta dal presidente francese e di come siano stati sapientemente usati all'interno della crisi dei partiti moderati e della destra francese alimentata dalla globalizzazione neoliberista per un ricambio generazionale e culturale di quegli stessi partiti. Con una novità, che rende il populismo contemporaneo radicalmente diverso da quello Novecentesco: le richieste di ordine e disciplina non vengono motivate in nome di un'armonica comunità originaria minacciata dalla modernità, bensì in nome del futuro.
Il popolo evocato da Sarkozy e da Berlusconi ha fatto esperienza della globalizzazione. È il popolo dove i singoli sono rappresentati come tanti imprenditori di se stessi proprietari di un capitale intellettuale e sociale che deve poter essere sfruttato al meglio senza i limiti posti dallo stato sociale. Della triade della rivoluzione francese preferisce infatti la libertà all'eguaglianza e alla fraternità: una libertà, si badi bene, che ha nel il mercato la sua unità di misura. Per questo motivo chi lo vuole rappresentare parla del futuro invece che del passato. A sostegno di questa lettura Caldiron cita il caso di Pim Fortuyn, il leader della destra populista olandese ucciso alcuni anni fa che non ha mai nascosto la sua omosessualità e che ha invocato la tutela dei diritti umani contro gli «indigeni» musulmani presenti o nati in Olanda. In questa particolare accezione, i diritti umani sono il perimetro di una civiltà che non tollera nessuna diversità. Così, l'accesso alla cittadinanza è quindi necessariamente selettivo.
Assistiamo così a un populismo che impugna l'arma dei diritti umani per tenere fuori i nemici dell'Occidente: per i nemici interni, invece, la «tolleranza zero» non è solo una politica dell'ordine pubblico, ma un marchio di fabbrica che non può essere contraffatto. Tesi presenti, ad esempio, nelle prese di posizione di intellettuali come Alain Finkielkraut, Christopher Hitchens, André Glucksmann che, seppur con un passato di sinistra, sono diventati i più strenui difensori della superiorità occidentale. Un ordine del discorso dilagante dopo l'attacco alle Twin Towers, dove la presidenza di George W. Bush ha fatto esplicitamente riferimento allo scontro di civiltà di Samuel Phillips Huntington per legittimare un politica interna decisamente populista.
Se si rimane però all'atlante della galassia populista proposto da Guido Caldiron si rimane colpiti più dalle differenze che dalle ripetizioni che si incontrano mettendo a confronto l'Europa, gli Stati Uniti, la Russia di Putin o l'Iran del presidente Mahmud Ahmadinejad. E rischia di smarrirsi in esso. Ma è proprio questa grande capacità di adattamento a realtà diverse che contraddistingue il populismo contemporaneo da quello del passato.
Il problema è dunque svelare la visione populista del Politico. Per dirla con le parole del filosofo Ernesto Laclau occorre stabilire la sua ontologia, perché il populismo «costruisce» il popolo, attraverso l'evocazione della sua assenza.
Mutanti e flessibili
Il populismo dunque come paradigma del «Politico», ma anche come un modo di organizzare uno Stato che ha preso congedo sia dalla democrazia rappresentativa che dalle alternative ad essa. È infatti uno stato, quello invocato dai populisti contemporanei, che eleva sì un leader al di sopra degli interessi parziali che confliggono nella società, ma stabilisce l'equivalenza, quindi la commensurabilità di un interesse economico, di uno stile di vita con un altro. Non è un caso che Ernesto Laclau utilizzi in maniera innovativa il concetto gramsciano di egemonia per spiegare la costruzione di un significante che abbia la capacità di rappresentare, superandoli, gli antagonismi e le differenze della realtà sociale.
Il popolo è un significante vuoto che va riempito, stabilendo appunto i criteri che stabiliscono la coesistenza e la commensurabilità tra le tante parzialità che compongono la realtà sociale. I populisti sono i traduttori dei diversi idiomi sociali in un linguaggio comune, quello del popolo.
È noto che nelle pratiche politiche populiste c'è il popolo è rappresentato come una «comunità organica di simili» e che occorre cancellare le divisioni introdotte dagli elementi estranei a quella stessa comunità. I populisti, insomma, sono sempre a caccia di nemici interni. Il discorso populista contemporaneo invece non cancella la eterogeneità e le differenze anche di classe, ma le riconduce appunto alla loro parzialità, che possono esistere solo se espresse in un significante universale messo a punto in una data contingenza. In questo testo di Laclau sono forti gli echi degli studi di filosofi come Jacques Ranciere e Alain Badiou quando si sono confrontati con l'impossibilità di pensare la politica al di fuori di una contingenza. Quella che vede la presa di parola di chi è dotato di una facoltà di linguaggio negata dai dominanti, come sostiene Ranciere; o laddove, secondo Badiou quando scrive sulla Comune di Parigi, si interrompe il corso lineare della storia a causa dell'irruzione del conflitto di classe nella scena pubblica. Laclau, invece, ritiene che c'è contingenza quando l'assenza del popolo viene evocata e presentata dal discorso populista. Il populismo è quindi la forma politica che risponde alla crisi della democrazia.
Occorre quindi guardare la «bestia» in volto senza averne paura. Una bestia che non si ritirerà dalla scena pubblica con la crisi del neoliberismo. Il limite dei due libri sta, però, nella rimozione, se non nell'irrilevanza del nesso tra i laboratori della produzione e la dimensione politica. È infatti in quei laboratori che il populismo, in nome dell'individuo proprietario, altro significante universale che attiene alla ragione populista, ha compiuto la prima operazione, traducendo in termini capitalistici le istanze di libertà e di autodeterminazione espresse dalla forza-lavoro. Una traduzione che gli ha dato forza, fino a condizionare l'agenda politica non solo di una nazione, ma di tutto il capitalismo contemporaneo indipendentemente da chi esercita il potere dell'esecutivo.
ilmanifesto.it
Gelmini: "Quante bugie! Nessun dietrofront sul maestro unico"
La verità del ministro: «La sinistra mistifica e dice le solite bugie»
RAFFAELLO MASCI
La Gelmini ha incassato il colpo dell’Onda e ora deve fare marcia indietro. Così dicono di lei, signora ministro. Cosa replica?
«Siamo di fronte ad una ingegneria della mistificazione. Voglio essere chiara subito: il maestro unico resta. Chiaro? Anzi: resta “solo” il maestro unico. Il modulo dei due maestri su tre classi è morto e sepolto per sempre».
E chi è invece che mistifica?
«La sinistra. E’ veramente pazzesco: mi hanno fatto una guerra su questo, l’hanno persa e ora si inventano che io, pressata dai loro scioperi e dalle loro proteste, sono tornata sui miei passi con la coda tra le gambe. Ma scherziamo?».
Ministro, ma qualche cosa è cambiato o no? Adesso si parla di maestro unico come «opzione». Non è stato sempre così.
«Vede? Siete caduti anche voi nella rete della disinformazione. E’ stato sempre così, invece. Tale e quale da sei mesi, da quando queste cose le ho scritte nel piano programmatico. Andatelo a rileggere». Allora facciamo come ai quiz televisivi: una domanda per volta. Le famiglie e le scuole possono o no fare delle opzioni sul maestro unico? «No. Il maestro è sempre unico».
Allora su cosa possono farle?
«Sull’orario scolastico».
Si spieghi, prego.
«Un docente ha un orario di lavoro di 22 ore. Se si sceglie di adottare l’orario di 24 ore settimanali, quella classe avrà un maestro unico, più due ore fatte da quelli di materie specialistiche, come religione o inglese, per esempio. Idem se si opta per le 27 ore».
«Se poi però si sale alle 30 ore o addirittura al tempo pieno di 40 ore, è detto esplicitamente che i maestri sono due.
«Già, ma sono due nel senso che uno fa un certo numero di ore e quando ha finito arriva l’altro. Non c’è compresenza, non c’è modulo. Prima lavora uno poi lavora l’altro».
Senta, ministro, ma perché potendo scegliere una scuola a tempio pieno, o con un orario più generoso, una famiglia dovrebbe decidere di tenersi il «modello base» da 24 ore?
«Queste sono scelte educative che ogni famiglia fa autonomamente. La scuola deve solo offrire la possibilità di aderire a più modelli». Ma se in una classe si alternano due docenti, il maestro unico salta? «Uno sarà il maestro prevalente. Ma il “modulo” come è stato concepito fino ad oggi non c’è più».
Non c’era stato un parere della commissione Istruzione della Camera perché alle famiglie venisse data la possibilità di scegliere tra maestro unico e modulo?
«No. Mai. La commissione aveva suggerito di fornire alle famiglie la possibilità di poter optare tra diverse formule di orario, e questo suggerimento noi l’abbiamo recepito. Ma che c’entra tutto questo con il passo indietro sul maestro unico?».
E’ una mistificazione anche il fatto che ha stoppato la riforma delle superiori di un altro anno?
«Non ho fermato nessuna riforma. Tant’è che procederò nelle prossime settimane a varare i provvedimenti relativi anche a questo segmento dell’istruzione».
E che cosa ha fatto, allora, dato che ne ha rimandato l’attuazione al 2010?
«Ho deciso di dedicare più tempo ad una campagna di informazione presso le scuole e le famiglie, sul carattere e sulle novità di questa riforma varata dai miei due diretti predecessori, Moratti e Fioroni. Una campagna in questo senso partirà all’inizio dell’anno nuovo. Poi ci sono ancora alcuni pareri da acquisire, alcune decisioni da tradurre in provvedimenti normativi. Una cosa è fare le cose nei tempi giusti, altro è dare uno stop. Giusto?».
lastampa.it
RAFFAELLO MASCI
La Gelmini ha incassato il colpo dell’Onda e ora deve fare marcia indietro. Così dicono di lei, signora ministro. Cosa replica?
«Siamo di fronte ad una ingegneria della mistificazione. Voglio essere chiara subito: il maestro unico resta. Chiaro? Anzi: resta “solo” il maestro unico. Il modulo dei due maestri su tre classi è morto e sepolto per sempre».
E chi è invece che mistifica?
«La sinistra. E’ veramente pazzesco: mi hanno fatto una guerra su questo, l’hanno persa e ora si inventano che io, pressata dai loro scioperi e dalle loro proteste, sono tornata sui miei passi con la coda tra le gambe. Ma scherziamo?».
Ministro, ma qualche cosa è cambiato o no? Adesso si parla di maestro unico come «opzione». Non è stato sempre così.
«Vede? Siete caduti anche voi nella rete della disinformazione. E’ stato sempre così, invece. Tale e quale da sei mesi, da quando queste cose le ho scritte nel piano programmatico. Andatelo a rileggere». Allora facciamo come ai quiz televisivi: una domanda per volta. Le famiglie e le scuole possono o no fare delle opzioni sul maestro unico? «No. Il maestro è sempre unico».
Allora su cosa possono farle?
«Sull’orario scolastico».
Si spieghi, prego.
«Un docente ha un orario di lavoro di 22 ore. Se si sceglie di adottare l’orario di 24 ore settimanali, quella classe avrà un maestro unico, più due ore fatte da quelli di materie specialistiche, come religione o inglese, per esempio. Idem se si opta per le 27 ore».
«Se poi però si sale alle 30 ore o addirittura al tempo pieno di 40 ore, è detto esplicitamente che i maestri sono due.
«Già, ma sono due nel senso che uno fa un certo numero di ore e quando ha finito arriva l’altro. Non c’è compresenza, non c’è modulo. Prima lavora uno poi lavora l’altro».
Senta, ministro, ma perché potendo scegliere una scuola a tempio pieno, o con un orario più generoso, una famiglia dovrebbe decidere di tenersi il «modello base» da 24 ore?
«Queste sono scelte educative che ogni famiglia fa autonomamente. La scuola deve solo offrire la possibilità di aderire a più modelli». Ma se in una classe si alternano due docenti, il maestro unico salta? «Uno sarà il maestro prevalente. Ma il “modulo” come è stato concepito fino ad oggi non c’è più».
Non c’era stato un parere della commissione Istruzione della Camera perché alle famiglie venisse data la possibilità di scegliere tra maestro unico e modulo?
«No. Mai. La commissione aveva suggerito di fornire alle famiglie la possibilità di poter optare tra diverse formule di orario, e questo suggerimento noi l’abbiamo recepito. Ma che c’entra tutto questo con il passo indietro sul maestro unico?».
E’ una mistificazione anche il fatto che ha stoppato la riforma delle superiori di un altro anno?
«Non ho fermato nessuna riforma. Tant’è che procederò nelle prossime settimane a varare i provvedimenti relativi anche a questo segmento dell’istruzione».
E che cosa ha fatto, allora, dato che ne ha rimandato l’attuazione al 2010?
«Ho deciso di dedicare più tempo ad una campagna di informazione presso le scuole e le famiglie, sul carattere e sulle novità di questa riforma varata dai miei due diretti predecessori, Moratti e Fioroni. Una campagna in questo senso partirà all’inizio dell’anno nuovo. Poi ci sono ancora alcuni pareri da acquisire, alcune decisioni da tradurre in provvedimenti normativi. Una cosa è fare le cose nei tempi giusti, altro è dare uno stop. Giusto?».
lastampa.it
11.12.08
L'Italia degli «atenei inutili» - In 33 nemmeno una matricola
Le spese per il personale sono passate in cinque anni da 5,7 a 8 miliardi
Il caso limite di Celano, sui monti della Marsica: un corso di ingegneria agroindustriale con 7 prof per 17 ragazzi
Zero, zero, zero, zero, zero... È tutta lì, la fotografia della follia dell'Università italiana. Nella ripetizione per 33 volte, nella casella «immatricolati» di altrettanti «atenei» distaccati, del numero «0». Neppure un nuovo iscritto. Manco uno. Prova provata che la decisione megalomane e cocciuta di volere a tutti i costi almeno un corso di laurea sotto il campanile era totalmente sballata. Il dato, che conferma le denunce più allarmate, è contenuto nel Rapporto annuale 2008 sul nostro sistema universitario.
Il rapporto (i cui dati sono del 2007, qua e là aggiornati fino alla primavera scorsa) viene presentato oggi da Mariastella Gelmini. E possiamo scommettere che accenderà un dibattito infuocato. Perché delle due l'una: o queste cifre sono corrette (e se è così in molti casi serve un lanciafiamme) o lo sono solo in parte. E in questo caso il quadro sarebbe paradossalmente ancora più grave. Ogni numero del documento, infatti, risulta ufficialmente fornito alla banca dati del Miur dagli stessi atenei. Il rapporto, si capisce, offre una carrellata su un sacco di cose. Dice che gli studenti stranieri sono al massimo il 7,1% (a Trieste) e si inabissano allo 0,1 a Messina. Riconosce che la spesa media per ogni giovane iscritto negli atenei statali è di 8.032 euro contro i 15.028 che vengono spesi in Austria o i 23.137 in Svizzera. Spiega che siamo «al terzo posto al mondo, e addirittura al primo in Europa, per accessibilità, cioè per il numero di università (e relativi studenti) che si trovano tra le prime 500 università», ma che al contrario scivoliamo al 30˚ «per Flagship, ovvero per la qualità delle primissime università». Denuncia che le spese per il personale sono passate dal 2001 al 2006 da 5 miliardi e 764 milioni di euro a quasi 8 miliardi. Annota che l'età media dei docenti si è inesorabilmente alzata ancora.
LE CLASSIFICHE Riporta le classifiche mondiali elaborate dalla Quacquarelli Symonds, secondo le quali abbiamo solamente 10 università nelle prime 200 d'Europa (contro 47 del Regno Unito, 37 della Germania, 19 della Francia o 12 dell'Olanda, che ha un quarto dei nostri abitanti) e per di più queste, ad eccezione del Politecnico di Milano, di Padova e della Federico II di Napoli, perdono nel 2008 nuove posizioni rispetto alla già scoraggiante hit-parade dell'anno precedente. I numeri più impressionanti, però, sono forse quelli che dimostrano l'assurdità della moltiplicazione di «città universitarie». Cioè di paesotti, borghi e contrade a volte microscopici che hanno fortissimamente voluto qualcosa che potesse definirsi «universitario» come simbolo di riscatto o di promozione sociale alla pari di uno svincolo autostradale o di una circonvallazione. Una mania ridicolizzata dal costituzionalista Augusto Barbera con una battuta irresistibile: «Sogno di trovare all'ingresso dei paesi il cartello "comune de-universitarizzato"».
Un esempio per tutti? Poggiardo, seimila anime tra Maglie e Santa Cesarea Terme, in provincia di Lecce, dove il sindaco Silvio Astore non si è dato pace finché non ha avuto un distaccamento della Lum, Libera università mediterranea: «Il nostro paese è oramai una meravigliosa realtà accademica d'eccellenza e concorre a pieno titolo a un rilancio culturale del tessuto socioeconomico del territorio». Dice dunque il Rapporto annuale del ministero, liquidando questi «napoleonismi» campanilistici, che su 239 «città universitarie» inserite nel «catalogo» (anche se i conti non tornano con altri studi, come quello di Salvatore Casillo, Sabato Aliberti e Vincenzo Moretti, tre docenti salernitani autori mesi fa di un censimento che aveva contato 251 comuni che ospitavano almeno un corso di laurea) molte esistono ormai solo sulla carta. E dopo essere appassite in una manciata di anni, risultano somigliare a certi Enti Inutili che si trascinano dietro pendenze varie che ne ostacolano l'immediata soppressione.
SENZA STUDENTI Numeri ufficiali alla mano, 42 «atenei» hanno meno di cinquanta immatricolati, 20 ne hanno meno di venti (Moncrivello, Bisceglie e Pescopagano 12, Caltagirone e Andria 11, Figline Valdarno 5, Trani uno solo) e trentatré, come dicevamo all'inizio, non hanno più un solo studente che si sia aggiunto agli iscritti precedenti. Iscritti che in rari casi erano abbastanza numerosi (esempio: 480 ad Acireale), ma nella grande maggioranza dei casi erano già talmente pochi da fare impallidire chi si era incaponito sulla voglia di aprire una sede che potesse dirsi «universitaria». Venticinque studenti in totale al corso di «Tecniche erboristiche» a Bivona (dove non ci sono mense né pensionati né postazioni Internet né laboratori né biblioteche), 41 a Sanluri, che coi suoi 8.519 abitanti è il capoluogo della provincia sarda di Medio Campidano, 11 nell'emiliana Varzi, 4 a Corigliano Calabro e nella siciliana Vittoria. E poi un solo sopravvissuto a Spoleto, Città della Pieve, San Casciano in Val di Pesa... Al di là di questo e quel caso singolo, più o meno tragico o ridicolo, è un po' tutto il sistema da riformare. Lo dice, ad esempio, il presidente della Provincia di Agrigento Eugenio D'Orsi. Il quale, in crisi coi conti, ha sparato a zero sul modo in cui è stato costruito il polo universitario agrigentino, legato a quello di Palermo, dicendo che è del tutto «superfluo avere ben 17 corsi di laurea uno dei quali addirittura con un solo studente». Tanto più che un docente portato a insegnare nella valle dei Templi costa quasi il triplo più che nella città di santa Rosalia.
«MODELLO CELANO» - Al «modello Celano» è stata dedicata qualche settimana fa un'inchiesta del Messaggero. Che si è chiesto che senso avesse mettere su, in un «borgo montano sperduta nel nulla » con le aule affacciate sui monti della Marsica, un corso di laurea in Ingegneria Agro-Industriale. Corso partito quest'anno con 17 matricole e 7 professori. Uno ogni due studenti. Il tutto finanziato («Noi non ci rimettiamo un euro», ci tiene a spiegare il rettore dell'Università dell'Aquila Ferdinando di Orio) da un Consorzio voluto dal Comune, banche e alcune aziende locali. Il record però, probabilmente, è di Sorgono, un paese sardo che coi suoi 1.949 abitanti è meno popolato di certi palazzoni popolari nelle periferie delle metropoli. Senza una facoltà proprio non riusciva a stare. Adesso c'è un corso di laurea in Informatica. Se dovesse non essere sufficiente (nessun immatricolato nuovo, ma i vecchi iscritti sono 38: wow!), il panorama nazionale è in grado di suggerire un mucchio di corsi alternativi. Tra le migliaia e migliaia già offerti ai più fantasiosi studenti italiani, almeno alcuni meritano una segnalazione: «Scienze e Tecnologie del Fitness e dei Prodotti della Salute», «Scienze del Fiore e del Verde», «Etologia degli Animali d'Affezione»...
Gian Antonio Stella
corriere.it
Il caso limite di Celano, sui monti della Marsica: un corso di ingegneria agroindustriale con 7 prof per 17 ragazzi
Zero, zero, zero, zero, zero... È tutta lì, la fotografia della follia dell'Università italiana. Nella ripetizione per 33 volte, nella casella «immatricolati» di altrettanti «atenei» distaccati, del numero «0». Neppure un nuovo iscritto. Manco uno. Prova provata che la decisione megalomane e cocciuta di volere a tutti i costi almeno un corso di laurea sotto il campanile era totalmente sballata. Il dato, che conferma le denunce più allarmate, è contenuto nel Rapporto annuale 2008 sul nostro sistema universitario.
Il rapporto (i cui dati sono del 2007, qua e là aggiornati fino alla primavera scorsa) viene presentato oggi da Mariastella Gelmini. E possiamo scommettere che accenderà un dibattito infuocato. Perché delle due l'una: o queste cifre sono corrette (e se è così in molti casi serve un lanciafiamme) o lo sono solo in parte. E in questo caso il quadro sarebbe paradossalmente ancora più grave. Ogni numero del documento, infatti, risulta ufficialmente fornito alla banca dati del Miur dagli stessi atenei. Il rapporto, si capisce, offre una carrellata su un sacco di cose. Dice che gli studenti stranieri sono al massimo il 7,1% (a Trieste) e si inabissano allo 0,1 a Messina. Riconosce che la spesa media per ogni giovane iscritto negli atenei statali è di 8.032 euro contro i 15.028 che vengono spesi in Austria o i 23.137 in Svizzera. Spiega che siamo «al terzo posto al mondo, e addirittura al primo in Europa, per accessibilità, cioè per il numero di università (e relativi studenti) che si trovano tra le prime 500 università», ma che al contrario scivoliamo al 30˚ «per Flagship, ovvero per la qualità delle primissime università». Denuncia che le spese per il personale sono passate dal 2001 al 2006 da 5 miliardi e 764 milioni di euro a quasi 8 miliardi. Annota che l'età media dei docenti si è inesorabilmente alzata ancora.
LE CLASSIFICHE Riporta le classifiche mondiali elaborate dalla Quacquarelli Symonds, secondo le quali abbiamo solamente 10 università nelle prime 200 d'Europa (contro 47 del Regno Unito, 37 della Germania, 19 della Francia o 12 dell'Olanda, che ha un quarto dei nostri abitanti) e per di più queste, ad eccezione del Politecnico di Milano, di Padova e della Federico II di Napoli, perdono nel 2008 nuove posizioni rispetto alla già scoraggiante hit-parade dell'anno precedente. I numeri più impressionanti, però, sono forse quelli che dimostrano l'assurdità della moltiplicazione di «città universitarie». Cioè di paesotti, borghi e contrade a volte microscopici che hanno fortissimamente voluto qualcosa che potesse definirsi «universitario» come simbolo di riscatto o di promozione sociale alla pari di uno svincolo autostradale o di una circonvallazione. Una mania ridicolizzata dal costituzionalista Augusto Barbera con una battuta irresistibile: «Sogno di trovare all'ingresso dei paesi il cartello "comune de-universitarizzato"».
Un esempio per tutti? Poggiardo, seimila anime tra Maglie e Santa Cesarea Terme, in provincia di Lecce, dove il sindaco Silvio Astore non si è dato pace finché non ha avuto un distaccamento della Lum, Libera università mediterranea: «Il nostro paese è oramai una meravigliosa realtà accademica d'eccellenza e concorre a pieno titolo a un rilancio culturale del tessuto socioeconomico del territorio». Dice dunque il Rapporto annuale del ministero, liquidando questi «napoleonismi» campanilistici, che su 239 «città universitarie» inserite nel «catalogo» (anche se i conti non tornano con altri studi, come quello di Salvatore Casillo, Sabato Aliberti e Vincenzo Moretti, tre docenti salernitani autori mesi fa di un censimento che aveva contato 251 comuni che ospitavano almeno un corso di laurea) molte esistono ormai solo sulla carta. E dopo essere appassite in una manciata di anni, risultano somigliare a certi Enti Inutili che si trascinano dietro pendenze varie che ne ostacolano l'immediata soppressione.
SENZA STUDENTI Numeri ufficiali alla mano, 42 «atenei» hanno meno di cinquanta immatricolati, 20 ne hanno meno di venti (Moncrivello, Bisceglie e Pescopagano 12, Caltagirone e Andria 11, Figline Valdarno 5, Trani uno solo) e trentatré, come dicevamo all'inizio, non hanno più un solo studente che si sia aggiunto agli iscritti precedenti. Iscritti che in rari casi erano abbastanza numerosi (esempio: 480 ad Acireale), ma nella grande maggioranza dei casi erano già talmente pochi da fare impallidire chi si era incaponito sulla voglia di aprire una sede che potesse dirsi «universitaria». Venticinque studenti in totale al corso di «Tecniche erboristiche» a Bivona (dove non ci sono mense né pensionati né postazioni Internet né laboratori né biblioteche), 41 a Sanluri, che coi suoi 8.519 abitanti è il capoluogo della provincia sarda di Medio Campidano, 11 nell'emiliana Varzi, 4 a Corigliano Calabro e nella siciliana Vittoria. E poi un solo sopravvissuto a Spoleto, Città della Pieve, San Casciano in Val di Pesa... Al di là di questo e quel caso singolo, più o meno tragico o ridicolo, è un po' tutto il sistema da riformare. Lo dice, ad esempio, il presidente della Provincia di Agrigento Eugenio D'Orsi. Il quale, in crisi coi conti, ha sparato a zero sul modo in cui è stato costruito il polo universitario agrigentino, legato a quello di Palermo, dicendo che è del tutto «superfluo avere ben 17 corsi di laurea uno dei quali addirittura con un solo studente». Tanto più che un docente portato a insegnare nella valle dei Templi costa quasi il triplo più che nella città di santa Rosalia.
«MODELLO CELANO» - Al «modello Celano» è stata dedicata qualche settimana fa un'inchiesta del Messaggero. Che si è chiesto che senso avesse mettere su, in un «borgo montano sperduta nel nulla » con le aule affacciate sui monti della Marsica, un corso di laurea in Ingegneria Agro-Industriale. Corso partito quest'anno con 17 matricole e 7 professori. Uno ogni due studenti. Il tutto finanziato («Noi non ci rimettiamo un euro», ci tiene a spiegare il rettore dell'Università dell'Aquila Ferdinando di Orio) da un Consorzio voluto dal Comune, banche e alcune aziende locali. Il record però, probabilmente, è di Sorgono, un paese sardo che coi suoi 1.949 abitanti è meno popolato di certi palazzoni popolari nelle periferie delle metropoli. Senza una facoltà proprio non riusciva a stare. Adesso c'è un corso di laurea in Informatica. Se dovesse non essere sufficiente (nessun immatricolato nuovo, ma i vecchi iscritti sono 38: wow!), il panorama nazionale è in grado di suggerire un mucchio di corsi alternativi. Tra le migliaia e migliaia già offerti ai più fantasiosi studenti italiani, almeno alcuni meritano una segnalazione: «Scienze e Tecnologie del Fitness e dei Prodotti della Salute», «Scienze del Fiore e del Verde», «Etologia degli Animali d'Affezione»...
Gian Antonio Stella
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L'ONDA MEDIATICA Intervista al sociologo Adam Arvidsson: «Internet fondamentale per la comunicazione tra gli studenti»
Alessandro Delfanti
Come si fa a disgiungere l'Onda, e più in generale i movimenti sociali degli anni 2000, dall'uso del web? Sarebbe come pensare al maggio francese senza i manifesti serigrafati o le scritte sui muri. Da Indymedia ai blog degli studenti in mobilitazione, siamo ormai abituati a leggere e produrre notizie e punti di vista, e a discutere con gli altri su Internet. Nel corso degli ultimi anni articoli, libri, ricerche sul ruolo della rete nei nuovi movimenti si sono sprecati. Ma sono i media a determinare i movimenti? Che ruolo hanno quindi i blog, Facebook, YouTube e gli altri media collaborativi, cioè quelli che chiunque può produrre gratuitamente dal computer di casa? Lo abbiamo chiesto ad Adam Arvidsson, un sociologo che da Copenhagen è arrivato da poco alla Statale di Milano. Arvidsson si occupa di media digitali e comunicazione ma anche del ruolo dei brand nella cultura dei consumi.
La protesta corre sulla rete?
I media che troviamo sul web non sono altro che i media che sono entrati nella pratica quotidiana della nostra generazione, quindi usare Facebook non è diverso che usare il telefono: il tempo del feticismo della rete è passato. Non penso che l'uso di Internet cambi le dinamiche della protesta. Ovviamente è utile per mobilitare e diffondere informazioni in modo più efficiente del classico volantinaggio, ma non causa cambiamenti radicali.
Ci sono anche tentativi di creare brand della protesta. Cosa ne pensi?
C'è l'esempio di Anna Adamolo (anagramma di Onda anomala, la «ministra onda» inventata per diffondersi virilmente nella rete: http://annaadamolo.noblogs.org, ndr), un tentativo di brandizzazione che non ha avuto grosso successo probabilmente perché l'Onda era già partita e aveva già attirato l'attenzione dei mass media. San Precario o Serpica Naro erano tentativi di produrre un brand politico, cioè creare una comunità di interpretazione prima, che poi poteva creare un movimento diffuso nella società. Non è facile definire cosa sia un brand ma forse potremmo dire che è il tentativo di costruire un movimento virtuale che anticipa un movimento reale. Il brand funziona quando c'è la necessità di generare una comunità politica, per esempio un gruppo di lavoratori precari dentro le industrie creative che non ha un'identità collettiva precostituita. In quel caso il marchio la costruisce a livello culturale, dopodiché i lavoratori possono riempirlo di contenuti pratici. Nel caso dell'Onda invece si parte da un'esperienza vissuta che si fa movimento e si dà un nome.
Il web è strumento dei movimenti sociali o può crearli?
Gli strumenti della rete sono un media che può essere usato per creare forme di socialità determinate dagli utenti. Vari media possono dare luogo a forme di socialità diverse: Facebook crea non solo una rete ma una rete fatta da conoscenze dormienti che possono essere attivate in certi momenti. Il media però contribuisce a determinare la socialità creata comunque dagli utenti. Probabilmente nelle proteste dell'Onda sono stati molto più importanti i cellulari, che pero vengono visti come un media vecchio. Eppure diverse ricerche hanno studiato il loro ruolo, per esempio l'uso degli sms per dirigere manifestazioni. Se ci pensate, le manifestazioni dell'Onda non sono molto diverse da quelle del '77 o del '68. Le tecniche usate dal movimento sono le stesse, e questo vuol dire che probabilmente l'infrastruttura mediatica ha avuto un'influenza molto piccola. Non lo dico per criticare l'Onda, ma solo per sottolineare che non bisognerebbe rivolgere tutta l'attenzione solo sul livello mediatico, che forse non è la caratteristica principale di questo movimento. (www.totem.to)
ilmanifesto.it
Alessandro Delfanti
Come si fa a disgiungere l'Onda, e più in generale i movimenti sociali degli anni 2000, dall'uso del web? Sarebbe come pensare al maggio francese senza i manifesti serigrafati o le scritte sui muri. Da Indymedia ai blog degli studenti in mobilitazione, siamo ormai abituati a leggere e produrre notizie e punti di vista, e a discutere con gli altri su Internet. Nel corso degli ultimi anni articoli, libri, ricerche sul ruolo della rete nei nuovi movimenti si sono sprecati. Ma sono i media a determinare i movimenti? Che ruolo hanno quindi i blog, Facebook, YouTube e gli altri media collaborativi, cioè quelli che chiunque può produrre gratuitamente dal computer di casa? Lo abbiamo chiesto ad Adam Arvidsson, un sociologo che da Copenhagen è arrivato da poco alla Statale di Milano. Arvidsson si occupa di media digitali e comunicazione ma anche del ruolo dei brand nella cultura dei consumi.
La protesta corre sulla rete?
I media che troviamo sul web non sono altro che i media che sono entrati nella pratica quotidiana della nostra generazione, quindi usare Facebook non è diverso che usare il telefono: il tempo del feticismo della rete è passato. Non penso che l'uso di Internet cambi le dinamiche della protesta. Ovviamente è utile per mobilitare e diffondere informazioni in modo più efficiente del classico volantinaggio, ma non causa cambiamenti radicali.
Ci sono anche tentativi di creare brand della protesta. Cosa ne pensi?
C'è l'esempio di Anna Adamolo (anagramma di Onda anomala, la «ministra onda» inventata per diffondersi virilmente nella rete: http://annaadamolo.noblogs.org, ndr), un tentativo di brandizzazione che non ha avuto grosso successo probabilmente perché l'Onda era già partita e aveva già attirato l'attenzione dei mass media. San Precario o Serpica Naro erano tentativi di produrre un brand politico, cioè creare una comunità di interpretazione prima, che poi poteva creare un movimento diffuso nella società. Non è facile definire cosa sia un brand ma forse potremmo dire che è il tentativo di costruire un movimento virtuale che anticipa un movimento reale. Il brand funziona quando c'è la necessità di generare una comunità politica, per esempio un gruppo di lavoratori precari dentro le industrie creative che non ha un'identità collettiva precostituita. In quel caso il marchio la costruisce a livello culturale, dopodiché i lavoratori possono riempirlo di contenuti pratici. Nel caso dell'Onda invece si parte da un'esperienza vissuta che si fa movimento e si dà un nome.
Il web è strumento dei movimenti sociali o può crearli?
Gli strumenti della rete sono un media che può essere usato per creare forme di socialità determinate dagli utenti. Vari media possono dare luogo a forme di socialità diverse: Facebook crea non solo una rete ma una rete fatta da conoscenze dormienti che possono essere attivate in certi momenti. Il media però contribuisce a determinare la socialità creata comunque dagli utenti. Probabilmente nelle proteste dell'Onda sono stati molto più importanti i cellulari, che pero vengono visti come un media vecchio. Eppure diverse ricerche hanno studiato il loro ruolo, per esempio l'uso degli sms per dirigere manifestazioni. Se ci pensate, le manifestazioni dell'Onda non sono molto diverse da quelle del '77 o del '68. Le tecniche usate dal movimento sono le stesse, e questo vuol dire che probabilmente l'infrastruttura mediatica ha avuto un'influenza molto piccola. Non lo dico per criticare l'Onda, ma solo per sottolineare che non bisognerebbe rivolgere tutta l'attenzione solo sul livello mediatico, che forse non è la caratteristica principale di questo movimento. (www.totem.to)
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28.11.08
Giorno per giorno ascoltando la musica dei miti
Enrico Comba
I cento anni compiuti da Claude Lévi-Strauss rappresentano lo straordinario traguardo di una delle figure più rappresentative della cultura europea del Novecento, ma costituiscono anche un singolare paradosso: il paradosso di uno studioso che rischia di sopravvivere alla sua stessa fama. Oggi è considerato un autore difficile, intricato, ma soprattutto superato dalle mode culturali, che hanno decretato l'oblio dello strutturalismo, visto ormai da molti come eredità di un'epoca tramontata. Eppure Lévi-Strauss è l'autore di un'opera come Tristi Tropici, un libro di riflessioni sulla ricerca etnografica e sull'incontro fra culture diverse, che ha emozionato intere generazioni di lettori e ha contribuito a forgiare numerose carriere di giovani antropologi. La motivazione di questa scarsa presa sul pubblico contemporaneo va probabilmente cercata nel fatto che l'antropologia è cambiata profondamente nell'arco di tempo che va dalla metà del Novecento ad oggi. L'antropologia al momento attuale vanta migliaia di professionisti, distribuiti in ogni nazione del mondo, la maggior parte dei quali ha spostato i propri interessi di studio e di ricerca dalle popolazioni indigene dei continenti extra-europei, che costituirono il principale polo di attrazione delle ricerche nella prima metà del Novecento, a temi più legati alle società contemporanee: le migrazioni, la globalizzazione, le trasformazioni socio-economiche, i conflitti e le negoziazioni del potere, le politiche identitarie. Problemi, certo, di rilevante interesse, che aiutano a comprendere il mondo in cui viviamo e le sue dinamiche, ma che hanno anche avuto l'effetto di creare un gergo a volte poco comprensibile per i non specialisti, e soprattutto di confinare ai margini del discorso antropologico la realtà dei popoli indigeni.
Questi piccoli gruppi umani, che ancora sopravvivono in alcune regioni del mondo, tentando disperatamente di difendere il proprio diritto a essere diversi e a non farsi inglobare e travolgere dai processi di modernizzazione, sono stati relegati ai margini dagli stessi antropologi contemporanei, un po' come i Guaranì nel bellissimo film La terra degli uomini rossi di Marco Bechis, accampati sul bordo di una strada.
E tuttavia proprio queste sono le culture di cui Lévi-Strauss ha sempre rivendicato il ruolo cruciale per lo sviluppo di un sapere antropologico e all'analisi delle quali ha dedicato i suoi principali sforzi di studioso e di teorico.
Una umanità sconosciuta
La sua monumentale opera sulle mitologie dei popoli indigeni americani, i quattro volumi delle Mitologiche, più altre opere uscite successivamente, può scoraggiare il lettore non specialista per la quantità di pagine e per il percorso intricato che l'autore compie, analizzando centinaia di racconti mitici diversi. Da questi lavori, però, emergono due aspetti rilevanti. Innanzitutto, la dignità intellettuale delle creazioni mitiche dei popoli americani, che viene così posta sullo stesso piano delle grandi produzioni intellettuali del mondo antico o delle civiltà orientali. In secondo luogo, la passione dell'autore per questo mondo apparentemente lontano e inconsueto, a cui egli ha dedicato i suoi ultimi cinquant'anni di lavoro, immergendosi giorno per giorno in un universo di storie e di avventure fantastiche, assaporando la «musica che è nei miti».
Nei suoi primi lavori sulla mitologia, Lévi-Strauss ha posto l'accento soprattutto sul metodo strutturale: le sue analisi, egli afferma, ci fanno scorgere come dietro all'apparente varietà e confusione dei racconti più disparati si celano meccanismi rigorosi di trasformazione, che ci permettono di vedere nei miti un processo grazie al quale è possibile passare da una versione all'altra, applicando un certo numero di operazioni logiche. Diversi critici hanno appuntato le proprie osservazioni sull'aspetto eccessivamente astratto dell'opera, che non si preoccupa tanto dei miti e del loro contenuto, quanto di mettere in luce una serie di meccanismi generali del pensiero umano. È un'accusa in parte fondata, ma che trascura il fatto che se si leggono i volumi mitologici dell'autore, e non solo l'introduzione metodologica, ci si trova immersi e affascinati dalle storie sul giaguaro signore del fuoco, o sull'origine dei maiali selvatici e del tabacco, dal ruolo del fuoco come intermediario tra uomo e animale così come tra cielo e terra, tra il sole e la luna.
Si scopre allora che i miti ci dicono in realtà molte cose, ci fanno scoprire un'umanità sconosciuta che è al tempo stesso molto lontana e molto vicina a noi, un'umanità che non avremmo mai conosciuto se autori come Lévi-Strauss non ci avessero accompagnato alla sua scoperta, suscitando la nostra ammirazione.
Non si può non restare impressionati nel leggere il testo della prima lezione tenuta dall'antropologo francese al Collège de France, nel 1960, davanti a un pubblico composto dal fior fiore dell'intellettualità parigina (opportunamente riproposto in questi giorni da Einaudi, con il titolo Elogio dell'antropologia). Dopo avere presentato il contenuto essenziale degli studi antropologici, Lévi-Strauss richiama l'attenzione degli ascoltatori sui lontani popoli indigeni che, a migliaia di chilometri, conducono la loro vita lottando quotidianamente per la propria sopravvivenza, fisica e culturale.
Questi piccoli popoli, sparsi per il mondo e minacciati continuamente dalle forze devastanti della modernizzazione, sono i detentori di un «povero sapere» che costituisce tuttavia l'essenza dell'antropologia. Nel momento stesso in cui Lévi-Strauss consacra la propria carriera entrando a far parte di una delle più prestigiose istituzioni accademiche del suo paese, si presenta al pubblico non tanto come un interprete delle culture umane o un esploratore dei processi mentali, quanto piuttosto come l'«allievo e il testimone» di lontani popoli sperduti, nei confronti dei quali dichiara apertamente di aver contratto un debito di riconoscenza inestinguibile.
Celebrando il «secolo di Lévi-Strauss» dovremmo quindi accogliere il monito del grande studioso a non farsi trascinare dalle trappole della modernizzazione, a guardare con occhio critico e disincantato al lato oscuro della globalizzazione, che cancella le forme più deboli e più radicali di diversità culturale, e a prestare ascolto a quegli sparuti popoli indigeni, che hanno attirato l'interesse e l'ammirazione del grande antropologo francese e dai quali possiamo ancora apprendere il significato più profondo dell'espressione «essere umano».
ilmanifesto.it
I cento anni compiuti da Claude Lévi-Strauss rappresentano lo straordinario traguardo di una delle figure più rappresentative della cultura europea del Novecento, ma costituiscono anche un singolare paradosso: il paradosso di uno studioso che rischia di sopravvivere alla sua stessa fama. Oggi è considerato un autore difficile, intricato, ma soprattutto superato dalle mode culturali, che hanno decretato l'oblio dello strutturalismo, visto ormai da molti come eredità di un'epoca tramontata. Eppure Lévi-Strauss è l'autore di un'opera come Tristi Tropici, un libro di riflessioni sulla ricerca etnografica e sull'incontro fra culture diverse, che ha emozionato intere generazioni di lettori e ha contribuito a forgiare numerose carriere di giovani antropologi. La motivazione di questa scarsa presa sul pubblico contemporaneo va probabilmente cercata nel fatto che l'antropologia è cambiata profondamente nell'arco di tempo che va dalla metà del Novecento ad oggi. L'antropologia al momento attuale vanta migliaia di professionisti, distribuiti in ogni nazione del mondo, la maggior parte dei quali ha spostato i propri interessi di studio e di ricerca dalle popolazioni indigene dei continenti extra-europei, che costituirono il principale polo di attrazione delle ricerche nella prima metà del Novecento, a temi più legati alle società contemporanee: le migrazioni, la globalizzazione, le trasformazioni socio-economiche, i conflitti e le negoziazioni del potere, le politiche identitarie. Problemi, certo, di rilevante interesse, che aiutano a comprendere il mondo in cui viviamo e le sue dinamiche, ma che hanno anche avuto l'effetto di creare un gergo a volte poco comprensibile per i non specialisti, e soprattutto di confinare ai margini del discorso antropologico la realtà dei popoli indigeni.
Questi piccoli gruppi umani, che ancora sopravvivono in alcune regioni del mondo, tentando disperatamente di difendere il proprio diritto a essere diversi e a non farsi inglobare e travolgere dai processi di modernizzazione, sono stati relegati ai margini dagli stessi antropologi contemporanei, un po' come i Guaranì nel bellissimo film La terra degli uomini rossi di Marco Bechis, accampati sul bordo di una strada.
E tuttavia proprio queste sono le culture di cui Lévi-Strauss ha sempre rivendicato il ruolo cruciale per lo sviluppo di un sapere antropologico e all'analisi delle quali ha dedicato i suoi principali sforzi di studioso e di teorico.
Una umanità sconosciuta
La sua monumentale opera sulle mitologie dei popoli indigeni americani, i quattro volumi delle Mitologiche, più altre opere uscite successivamente, può scoraggiare il lettore non specialista per la quantità di pagine e per il percorso intricato che l'autore compie, analizzando centinaia di racconti mitici diversi. Da questi lavori, però, emergono due aspetti rilevanti. Innanzitutto, la dignità intellettuale delle creazioni mitiche dei popoli americani, che viene così posta sullo stesso piano delle grandi produzioni intellettuali del mondo antico o delle civiltà orientali. In secondo luogo, la passione dell'autore per questo mondo apparentemente lontano e inconsueto, a cui egli ha dedicato i suoi ultimi cinquant'anni di lavoro, immergendosi giorno per giorno in un universo di storie e di avventure fantastiche, assaporando la «musica che è nei miti».
Nei suoi primi lavori sulla mitologia, Lévi-Strauss ha posto l'accento soprattutto sul metodo strutturale: le sue analisi, egli afferma, ci fanno scorgere come dietro all'apparente varietà e confusione dei racconti più disparati si celano meccanismi rigorosi di trasformazione, che ci permettono di vedere nei miti un processo grazie al quale è possibile passare da una versione all'altra, applicando un certo numero di operazioni logiche. Diversi critici hanno appuntato le proprie osservazioni sull'aspetto eccessivamente astratto dell'opera, che non si preoccupa tanto dei miti e del loro contenuto, quanto di mettere in luce una serie di meccanismi generali del pensiero umano. È un'accusa in parte fondata, ma che trascura il fatto che se si leggono i volumi mitologici dell'autore, e non solo l'introduzione metodologica, ci si trova immersi e affascinati dalle storie sul giaguaro signore del fuoco, o sull'origine dei maiali selvatici e del tabacco, dal ruolo del fuoco come intermediario tra uomo e animale così come tra cielo e terra, tra il sole e la luna.
Si scopre allora che i miti ci dicono in realtà molte cose, ci fanno scoprire un'umanità sconosciuta che è al tempo stesso molto lontana e molto vicina a noi, un'umanità che non avremmo mai conosciuto se autori come Lévi-Strauss non ci avessero accompagnato alla sua scoperta, suscitando la nostra ammirazione.
Non si può non restare impressionati nel leggere il testo della prima lezione tenuta dall'antropologo francese al Collège de France, nel 1960, davanti a un pubblico composto dal fior fiore dell'intellettualità parigina (opportunamente riproposto in questi giorni da Einaudi, con il titolo Elogio dell'antropologia). Dopo avere presentato il contenuto essenziale degli studi antropologici, Lévi-Strauss richiama l'attenzione degli ascoltatori sui lontani popoli indigeni che, a migliaia di chilometri, conducono la loro vita lottando quotidianamente per la propria sopravvivenza, fisica e culturale.
Questi piccoli popoli, sparsi per il mondo e minacciati continuamente dalle forze devastanti della modernizzazione, sono i detentori di un «povero sapere» che costituisce tuttavia l'essenza dell'antropologia. Nel momento stesso in cui Lévi-Strauss consacra la propria carriera entrando a far parte di una delle più prestigiose istituzioni accademiche del suo paese, si presenta al pubblico non tanto come un interprete delle culture umane o un esploratore dei processi mentali, quanto piuttosto come l'«allievo e il testimone» di lontani popoli sperduti, nei confronti dei quali dichiara apertamente di aver contratto un debito di riconoscenza inestinguibile.
Celebrando il «secolo di Lévi-Strauss» dovremmo quindi accogliere il monito del grande studioso a non farsi trascinare dalle trappole della modernizzazione, a guardare con occhio critico e disincantato al lato oscuro della globalizzazione, che cancella le forme più deboli e più radicali di diversità culturale, e a prestare ascolto a quegli sparuti popoli indigeni, che hanno attirato l'interesse e l'ammirazione del grande antropologo francese e dai quali possiamo ancora apprendere il significato più profondo dell'espressione «essere umano».
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Il secolo di Lévi-Strauss - Il suo strutturalismo salva l'antropologia
Oggi compie cent'anni il più grande antropologo vivente, «allievo e testimone» di lontani popoli sperduti. Si è battuto perché l'antropologia ottenesse uno spazio epistemologico non riducibile a quello della storia
Francesco Remotti
Che lo si voglia o no, le celebrazioni di Lévi-Strauss che in questi giorni fioriscono sui mezzi di comunicazione, finiscono con l'essere un tentativo di valutazione di un'eredità: al di là della sua «inattualità» e della sua solitudine, che cosa è vivo del lavoro di Lévi-Strauss, che cosa è recuperabile, e che cosa invece si può o si deve tralasciare? A sentire per radio le dichiarazioni di alcuni antropologi (come per esempio Marc Augé) o leggerne i commenti sui quotidiani (come quello di Enrico Comba, qui accanto), si ha l'impressione che ciò che non è più proponibile sia proprio il nucleo metodologico della sua antropologia, cioè il suo strutturalismo. In effetti, sono talmente tanti, ricchi e profondi gli aspetti del pensiero di Lévi-Strauss da recuperare e riproporre, che si sarebbe indotti ad abbandonare al suo destino storico, come una sorta di relitto, proprio ciò su cui Lévi-Strauss ha giocato la credibilità scientifica della sua antropologia. Ebbene, nello spazio che mi è concesso, intendo compiere un'operazione di recupero dello strutturalismo di Lévi-Strauss (la parte più «inattuale» del suo lavoro). Per giungere a ciò, occorre ricordare in primo luogo la critica di Lévi-Strauss alle varie forme di storicismo, che vincola le potenzialità dell'antropologia alla considerazione esclusiva dei rapporti storici e al privilegiamento di società influenti o di civiltà storicamente dominanti. Contro lo storicismo, Lévi-Strauss ha sostenuto per l'antropologia la possibilità di stabilire connessioni di intelligibilità tra fenomeni e forme culturali anche lontani nel tempo e nello spazio e comunque a prescindere dall'esistenza di relazioni storiche. Fin dall'inizio del suo strutturalismo, Lévi-Strauss ha rivendicato la legittimità di un'analisi che ponga in connessione, per esempio, l'arte dei Kwakiutl della costa americana di nord-ovest con quella dei Maori della Nuova Zelanda. Ciò non significa negare l'importanza delle relazioni storiche là dove si sono verificate; significa invece ottenere per l'antropologia uno spazio epistemologico non riducibile a quello della storia.
Vale la pena a questo punto ricordare che è tipico dello strutturalismo di Lévi-Strauss rifiutare di far coincidere il concetto di struttura con quello di sistema locale, storicamente condizionato: la struttura viene invece intesa come l'insieme delle possibilità di connessione che collegano un sistema locale con una molteplicità di altri sistemi. Questo fascio di connettibilità è ciò che Lévi-Strauss ha più volte chiamato «gruppo di trasformazioni». La struttura, la fonte di intelligibilità antropologica, non è dunque in un sistema particolare, ma è fuori dai sistemi: ovvero per capire un sistema (un fenomeno, una forma) occorre uscirne, conoscere altri sistemi altrettanto particolari e porli in connessione tra loro, farli dialogare. La struttura perciò non è una realtà storicamente data: è invece il fascio di possibilità di cui i sistemi concreti e storici non sono altro che realizzazioni particolari. L'antropologia ha il compito di ricostruire questo quadro più ampio, non lasciandosi intrappolare dalla logica dei sistemi particolari. Per raggiungere questo obiettivo e per garantirsi una connettibilità strutturale più sicura e veloce, lo strutturalismo di Lévi-Strauss ha compiuto due passi: un lavoro di forte astrazione dei fenomeni e la chiusura del numero delle possibilità, passi che oggi gli antropologi non si sentono di compiere, o perlomeno non sempre e non del tutto. E allora il problema si pone in questi termini: con il suo strutturalismo Lévi-Strauss ha indicato una via di salvezza per l'antropologia, un modo per sfuggire alla morsa della profezia di Frederic William Maitland (1899): «ben presto l'antropologia dovrà scegliere di essere storia o di non essere niente». La soluzione di Lévi-Strauss è di praticare un'antropologia come sapere trasversale, un sapere che pone in comunicazione forme diverse di intendere famiglie, matrimoni, politica, arte, umanità.
Il compito di risalire la corrente
Oggi, queste forme ci appaiono assai meno nitide: si presentano ai nostri occhi come tentativi, abbozzi, brandelli di umanità, modelli appannati, sporchi, frantumati e che si situano in un orizzonte di possibilità più vago e indeterminato. In queste condizioni, è comunque proponibile la connettibilità transculturale? È lecito pensare ancora a un'antropologia come sapere trasversale, anche se si tratta di una trasversalità faticosa, rallentata da ostacoli e dal peso dell'esperienza vissuta dei soggetti che vi partecipano? Per chi scrive, la risposta è sì, se si vuole che l'antropologia sopravviva come sapere accademico e nel contempo come una sorta di paradigma per le nostre società interconnesse, per le quali la convivenza si gioca appunto sulla capacità e sulla disponibilità non solo a capire gli altri, ma a capire noi stessi attraverso e grazie agli altri, anche gli altri più lontani e miserevoli, i rifiuti della storia, come appunto direbbe Lévi-Strauss, quelle «periferie dell'umanità» (Marshall Sahlins), pattumiere e fogne «ai margini del mondo capitalistico e industriale» (Eric Wolf) frequentate dagli antropologi. Qui non si tratta semplicemente di possibilità «altre», da capire nella loro pura diversità. Si tratta invece di quelle forme di umanità che la nostra civiltà ha calpestato: la loro miseria e la loro marginalità, il loro stesso scomparire parlano non soltanto di loro; parlano di noi, si connettono a noi, facendoci vedere - secondo una celebre frase di Tristi Tropici - la «nostra sozzura gettata sul volto dell'umanità». Ma, oltre la denuncia di queste nefandezze, l'insegnamento di Lévi-Strauss si traduce in un atteggiamento che qualifica ulteriormente la ricerca antropologica: è un andare à rebours, un ricercare forme di umanità prima dello scempio e dello sfacelo, perché sarà pur vero che da sempre le società si sono ibridate e trasformate (Jean-Loup Amselle), ma ciò non deve farci dimenticare che il cataclisma antropologico contemporaneo non ha analoghi nella storia e che l'antropologia - se vuole salvaguardare la sua missione - ha il compito di risalire la corrente e, con il suo sapere etnologico, di conservare la memoria delle forme di umanità che abbiamo distrutto per sempre.
ilmanifesto.it
Francesco Remotti
Che lo si voglia o no, le celebrazioni di Lévi-Strauss che in questi giorni fioriscono sui mezzi di comunicazione, finiscono con l'essere un tentativo di valutazione di un'eredità: al di là della sua «inattualità» e della sua solitudine, che cosa è vivo del lavoro di Lévi-Strauss, che cosa è recuperabile, e che cosa invece si può o si deve tralasciare? A sentire per radio le dichiarazioni di alcuni antropologi (come per esempio Marc Augé) o leggerne i commenti sui quotidiani (come quello di Enrico Comba, qui accanto), si ha l'impressione che ciò che non è più proponibile sia proprio il nucleo metodologico della sua antropologia, cioè il suo strutturalismo. In effetti, sono talmente tanti, ricchi e profondi gli aspetti del pensiero di Lévi-Strauss da recuperare e riproporre, che si sarebbe indotti ad abbandonare al suo destino storico, come una sorta di relitto, proprio ciò su cui Lévi-Strauss ha giocato la credibilità scientifica della sua antropologia. Ebbene, nello spazio che mi è concesso, intendo compiere un'operazione di recupero dello strutturalismo di Lévi-Strauss (la parte più «inattuale» del suo lavoro). Per giungere a ciò, occorre ricordare in primo luogo la critica di Lévi-Strauss alle varie forme di storicismo, che vincola le potenzialità dell'antropologia alla considerazione esclusiva dei rapporti storici e al privilegiamento di società influenti o di civiltà storicamente dominanti. Contro lo storicismo, Lévi-Strauss ha sostenuto per l'antropologia la possibilità di stabilire connessioni di intelligibilità tra fenomeni e forme culturali anche lontani nel tempo e nello spazio e comunque a prescindere dall'esistenza di relazioni storiche. Fin dall'inizio del suo strutturalismo, Lévi-Strauss ha rivendicato la legittimità di un'analisi che ponga in connessione, per esempio, l'arte dei Kwakiutl della costa americana di nord-ovest con quella dei Maori della Nuova Zelanda. Ciò non significa negare l'importanza delle relazioni storiche là dove si sono verificate; significa invece ottenere per l'antropologia uno spazio epistemologico non riducibile a quello della storia.
Vale la pena a questo punto ricordare che è tipico dello strutturalismo di Lévi-Strauss rifiutare di far coincidere il concetto di struttura con quello di sistema locale, storicamente condizionato: la struttura viene invece intesa come l'insieme delle possibilità di connessione che collegano un sistema locale con una molteplicità di altri sistemi. Questo fascio di connettibilità è ciò che Lévi-Strauss ha più volte chiamato «gruppo di trasformazioni». La struttura, la fonte di intelligibilità antropologica, non è dunque in un sistema particolare, ma è fuori dai sistemi: ovvero per capire un sistema (un fenomeno, una forma) occorre uscirne, conoscere altri sistemi altrettanto particolari e porli in connessione tra loro, farli dialogare. La struttura perciò non è una realtà storicamente data: è invece il fascio di possibilità di cui i sistemi concreti e storici non sono altro che realizzazioni particolari. L'antropologia ha il compito di ricostruire questo quadro più ampio, non lasciandosi intrappolare dalla logica dei sistemi particolari. Per raggiungere questo obiettivo e per garantirsi una connettibilità strutturale più sicura e veloce, lo strutturalismo di Lévi-Strauss ha compiuto due passi: un lavoro di forte astrazione dei fenomeni e la chiusura del numero delle possibilità, passi che oggi gli antropologi non si sentono di compiere, o perlomeno non sempre e non del tutto. E allora il problema si pone in questi termini: con il suo strutturalismo Lévi-Strauss ha indicato una via di salvezza per l'antropologia, un modo per sfuggire alla morsa della profezia di Frederic William Maitland (1899): «ben presto l'antropologia dovrà scegliere di essere storia o di non essere niente». La soluzione di Lévi-Strauss è di praticare un'antropologia come sapere trasversale, un sapere che pone in comunicazione forme diverse di intendere famiglie, matrimoni, politica, arte, umanità.
Il compito di risalire la corrente
Oggi, queste forme ci appaiono assai meno nitide: si presentano ai nostri occhi come tentativi, abbozzi, brandelli di umanità, modelli appannati, sporchi, frantumati e che si situano in un orizzonte di possibilità più vago e indeterminato. In queste condizioni, è comunque proponibile la connettibilità transculturale? È lecito pensare ancora a un'antropologia come sapere trasversale, anche se si tratta di una trasversalità faticosa, rallentata da ostacoli e dal peso dell'esperienza vissuta dei soggetti che vi partecipano? Per chi scrive, la risposta è sì, se si vuole che l'antropologia sopravviva come sapere accademico e nel contempo come una sorta di paradigma per le nostre società interconnesse, per le quali la convivenza si gioca appunto sulla capacità e sulla disponibilità non solo a capire gli altri, ma a capire noi stessi attraverso e grazie agli altri, anche gli altri più lontani e miserevoli, i rifiuti della storia, come appunto direbbe Lévi-Strauss, quelle «periferie dell'umanità» (Marshall Sahlins), pattumiere e fogne «ai margini del mondo capitalistico e industriale» (Eric Wolf) frequentate dagli antropologi. Qui non si tratta semplicemente di possibilità «altre», da capire nella loro pura diversità. Si tratta invece di quelle forme di umanità che la nostra civiltà ha calpestato: la loro miseria e la loro marginalità, il loro stesso scomparire parlano non soltanto di loro; parlano di noi, si connettono a noi, facendoci vedere - secondo una celebre frase di Tristi Tropici - la «nostra sozzura gettata sul volto dell'umanità». Ma, oltre la denuncia di queste nefandezze, l'insegnamento di Lévi-Strauss si traduce in un atteggiamento che qualifica ulteriormente la ricerca antropologica: è un andare à rebours, un ricercare forme di umanità prima dello scempio e dello sfacelo, perché sarà pur vero che da sempre le società si sono ibridate e trasformate (Jean-Loup Amselle), ma ciò non deve farci dimenticare che il cataclisma antropologico contemporaneo non ha analoghi nella storia e che l'antropologia - se vuole salvaguardare la sua missione - ha il compito di risalire la corrente e, con il suo sapere etnologico, di conservare la memoria delle forme di umanità che abbiamo distrutto per sempre.
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27.11.08
I maestri del fare
L'ULTIMO LAVORO DELLO STUDIOSO RICHARD SENNETT
L'«Uomo artigiano», il nuovo libro dello studioso statunitense. Ritorna allo scoperto una figura del lavoro considerata estinta. Ma che ha i contorni postmoderni dei produttori del sistema operativo Linux
Benedetto Vecchi
Se l'«uomo flessibile» si concludeva con un capitolo che prendeva di mira il «lavoro in team», ritenendolo l'ultima frontiera del controllo e della «corrosione del carattere» della forza-lavoro, la nuova opera sull'Uomo artigiano di Richard Sennett propone la figura dell'artigiano per rispondere all'alienazione che caratterizza l'organizzazione del lavoro nel «capitalismo flessibile» (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp. 320, euro 25). Lo studioso statunitense non crede, infatti, che il lavoro in team e il just in time consentono, come invece sostengono invece i loro cantori, la ricomposizione delle mansioni, chiudendo così l'era della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ritiene, al contrario, che la produzione di massa, indipendentemente da come è organizzata, sia fondata sulla separazione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare. Per Richard Sennett un lavoro scandito dalla ricomposizione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare va cercato nella vasta comunità di programmatori «open source, giungendo alla conclusione che sono questi produttori di software la contemporanea incarnazione della figura dell'artigiano.
Gli animali di Hannah Arendt
È da questa convinzione che è partito un progetto di studio che dovrebbe fornire una radiografia nitida e un'analisi altrettanto puntuale sulle forme di azione sociale che caratterizzano appunto il capitalismo flessibile. La pubblicazione de L'uomo artigiano è dunque da considerare il primo di tre saggi sulle strutture dell'azione sociale, sebbene Richard Sennett non indulge mai a una griglia d'analisi funzionalista, né è molto interessato a evidenziare le ambivalenze di alcuni processi sociali, come invece amava fare uno dei decani della sociologia statunitense, Robert K. Merton, che ha dedicato all'artigiano uno dei capitoli della sua opera maggiore, Teoria e struttura sociale. Ed è con il consueto stile elegante e tuttavia circostanziato che Sennett prende le distanze dal funzionalismo e alla teorie di Merton. Il suo obiettivo è di sottolineare come alcune forme del lavoro o di vita della società preindustriali non siano scomparse, ma come un fiume carsico stiano riemergendo, presentando tuttavia caratteristiche diverse dal passato.
In apertura di questo volume, all'interno di un capitolo che oscilla tra autobiografia e ricostruzione del clima culturale di un paese che prendeva faticosamente le distanze dal maccartismo, l'autore ricapitola la sua formazione intellettuale, individuando in Hannah Arendt la studiosa che più di altri influenzò la sua decisione di continuare sulla strada della ricerca sociale, cercando di coniugare la necessaria aderenza al principio di realtà a forte spinta etica. Sennett scrive di come fu colpito da Vita activa, il saggio dove Hannah Arendt ridimensiona il ruolo del lavoro nella società, considerando la politica l'attività principe dell'animale umano. E di come egli giovane studente con il sogno di lavorare alla formazione di una «buona società» cominciò a riflettere attorno alla distinzione tra animal laborans e homo faber proposta dalla filosofa tedesca per sottolineare il fatto che mentre l'animal laborans produce i mezzi per la riproduzione della specie, domandandosi tutt'al più come produrli, l'homo faber nello svolgere il proprio lavoro si pone la domanda del perché lo stia svolgendo.
In entrambi i casi, c'era una priorità fare rispetto al pensare, della necessità rispetto alla libertà. La denuncia del lavoro come attività degradata dell'essere umano avanzata da Hannah Arendt nulla aveva a che fare con la critica al lavoro salariato di marxiana memoria. Ma non era per questo motivo che non convinceva e non convince tuttora Sennett, che la considera segnata da dicotomie (il fare e il pensare, ad esempio) che nel lavoro invece convivono in un equilibrio scandito da un'altra dicotomia, quella tra autorità e autonomia. Ed è da allora che lo studioso statunitense ha cominciato a cercare di definire quale sia il posto occupato dal lavoro nella società contemporanea, cercando proprio nell'artigiano la figura che supera le dicotomie che hanno accompagnato, teoricamente e socialmente, la categoria del lavoro.
I demiurghi del presente
L'artigiano, infatti, per rimanere alla Vita activa di Hannah Arendt, risponde sia alla domanda del come svolgere lavoro, ma anche il perché svolgerlo, attraverso una maestria nel fare che consegna agli artigiani una sorta di missione civilizzatrice anche quando sono stati relegati ai margini della vita pubblica. Nel lavoro artigiano, infatti, non c'è solo abilità tecnica, attenzione alla qualità del manufatto da produrre, ma anche e soprattutto una cura delle relazioni sociali che accomuna sia il maestro che il discepolo; oppure la centralità del valore d'uso del manufatto rispetto al valore di scambio. Sebbene Richard Sennett sottolinei come l'artigiano non costituisca la semplice permanenza di una forma arcaica di lavoro nelle società contemporanee, il suo libro va considerato non solo come una critica dell'analisi di Hannah Arendt, ma anche come la sofistica e suggestiva proposta dei demiourgoi (così venivano chiamati gli artigiani nell'antica Grecia) come figura salvifica dall'alienazione e dall'anomia dell'attuale organizzazione produttiva capitalistica.
È il lavoro concreto che si contrappone al lavoro astratto, tanto per usare categorie marxiane. Ma anche l'incarnazione in una stessa persona o esperienza sociale di una ricomposizione di quei frammenti che la divisione del lavoro scandisce in termini di efficienza e produttività. La maestria tecnica di cui scrive Sennett è quindi da intendere come una pratica culturale che individua la soluzione dei problemi all'insegna di un «fare di qualità». Ma anche la cura con cui i maestri artigiani trasmettevano il mestiere all'epoca delle corporazioni medievali da intendere come una socializzazione del virtuosismo sviluppato dal singolo. È quindi il primato della qualità; ma anche di un «sapere semantico» che viene trasmesso sia per via orale che attraverso l'apprendimento per imitazione. Fattori che vanno a comporre una «coscienza materiale», che attraverso la manipolazione dei materiali, la presenza, in quanto garanzia del marchio d'autore, e l'antromorfismo impresso ai materiali stessi costituiscono le componenti di un'autonomia del lavoratore, ma anche l'esercizio dell'autorità da parte del «maestro» all'interno dei laboratori artigianali. Una gerarchia, dove il binomio tra autorità e autonomia convive in una organizzazione produttiva che ha come referente non il mercato, ma un committente talvolta capriccioso talvolta generoso mecenate. E sono una vera chicca le pagine de L'uomo artigiano che raccontano come i liutai Stradivari e Guarneri, l'orafo e scultore Cellini abbiano manifestato i medesimi sentimenti contraddittori rispetto la trasmissione delle loro abilità o il rapporto di amore e odio con i committenti, dai quali dipendevano per il pagamento del loro lavoro.
Il virtuosismo di Linux
Nessuna nostalgia, vale la pena ripetere, per il passato, quanto la convinzione che l'ordine dei problemi che gli artigiani hanno dovuto affrontare costituiscono il background strutturale del capitalismo «flessibile». In primo luogo, il superamento dell'organizzazione tayloristica del lavoro dettata dalla necessità, così recita la vulgata dominante, di reagire a una feroce competizione attraverso la migliore qualità delle merci prodotte e da una continua innovazione tecnologica, organizzativa e di prodotto. Elementi, tutti, che possono essere risolti appunto dalla riproposizione di quella poiesis che caratterizza il lavoro artigiano. Questo non significa tuttavia l'azzeramento o la rinuncia al sistema di macchine, ne tantomeno la riproposizione del piccolo laboratorio come dimensione ottimale per la produzione della ricchezza. L'artigiano a cui pensa Sennett è infatti l'uomo o la donna che sa usare con maestria le tecnologie digitali, ma che considera la qualità, l'innovazione e le cooperazione sociale come valori assoluti. Da qui l'individuazione nei programmatori del sistema operativo Linux come gli artigiani di cui ha necessità il capitalismo postfordista.
La proposta di Sennett va quindi presa sul serio, perché meglio di tanti altri studiosi critici della capitalismo contemporaneo, ritiene che il sapere, l'innovazione sono espressione di un'intelligenza collettiva che accidentalmente può essere meglio interpretata da un singolo o da una «comunità virtuale», come appunto quella dei programmatori di Linux. Dunque la consapevolezza politica di un «riformista radicale» che nel capitalismo l'autorità sul lavoro non debba cancellare l'autonomia dei lavoratori nel decidere la one best way, definita, a differenza di quanto accadeva nell'impresa fordista, di volta in volta proprio da quella cooperazione sociale dove la gerarchia è flessibile e nella quale l'autorità è dalla dalla maestria in un «fare intelligente» ma collettivo. Una tesi molto più aderente a un principio di realtà di quanti ancora propongono il lavoro di fabbrica come paradigmatico per comprendere il capitalismo flessibile. Non accorgendosi così che proprio al lavoro operaio vengono richieste attitudini tipiche dell'uomo artigiano proposto da Richard Sennett.
ilmanifesto.it
L'«Uomo artigiano», il nuovo libro dello studioso statunitense. Ritorna allo scoperto una figura del lavoro considerata estinta. Ma che ha i contorni postmoderni dei produttori del sistema operativo Linux
Benedetto Vecchi
Se l'«uomo flessibile» si concludeva con un capitolo che prendeva di mira il «lavoro in team», ritenendolo l'ultima frontiera del controllo e della «corrosione del carattere» della forza-lavoro, la nuova opera sull'Uomo artigiano di Richard Sennett propone la figura dell'artigiano per rispondere all'alienazione che caratterizza l'organizzazione del lavoro nel «capitalismo flessibile» (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp. 320, euro 25). Lo studioso statunitense non crede, infatti, che il lavoro in team e il just in time consentono, come invece sostengono invece i loro cantori, la ricomposizione delle mansioni, chiudendo così l'era della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ritiene, al contrario, che la produzione di massa, indipendentemente da come è organizzata, sia fondata sulla separazione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare. Per Richard Sennett un lavoro scandito dalla ricomposizione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare va cercato nella vasta comunità di programmatori «open source, giungendo alla conclusione che sono questi produttori di software la contemporanea incarnazione della figura dell'artigiano.
Gli animali di Hannah Arendt
È da questa convinzione che è partito un progetto di studio che dovrebbe fornire una radiografia nitida e un'analisi altrettanto puntuale sulle forme di azione sociale che caratterizzano appunto il capitalismo flessibile. La pubblicazione de L'uomo artigiano è dunque da considerare il primo di tre saggi sulle strutture dell'azione sociale, sebbene Richard Sennett non indulge mai a una griglia d'analisi funzionalista, né è molto interessato a evidenziare le ambivalenze di alcuni processi sociali, come invece amava fare uno dei decani della sociologia statunitense, Robert K. Merton, che ha dedicato all'artigiano uno dei capitoli della sua opera maggiore, Teoria e struttura sociale. Ed è con il consueto stile elegante e tuttavia circostanziato che Sennett prende le distanze dal funzionalismo e alla teorie di Merton. Il suo obiettivo è di sottolineare come alcune forme del lavoro o di vita della società preindustriali non siano scomparse, ma come un fiume carsico stiano riemergendo, presentando tuttavia caratteristiche diverse dal passato.
In apertura di questo volume, all'interno di un capitolo che oscilla tra autobiografia e ricostruzione del clima culturale di un paese che prendeva faticosamente le distanze dal maccartismo, l'autore ricapitola la sua formazione intellettuale, individuando in Hannah Arendt la studiosa che più di altri influenzò la sua decisione di continuare sulla strada della ricerca sociale, cercando di coniugare la necessaria aderenza al principio di realtà a forte spinta etica. Sennett scrive di come fu colpito da Vita activa, il saggio dove Hannah Arendt ridimensiona il ruolo del lavoro nella società, considerando la politica l'attività principe dell'animale umano. E di come egli giovane studente con il sogno di lavorare alla formazione di una «buona società» cominciò a riflettere attorno alla distinzione tra animal laborans e homo faber proposta dalla filosofa tedesca per sottolineare il fatto che mentre l'animal laborans produce i mezzi per la riproduzione della specie, domandandosi tutt'al più come produrli, l'homo faber nello svolgere il proprio lavoro si pone la domanda del perché lo stia svolgendo.
In entrambi i casi, c'era una priorità fare rispetto al pensare, della necessità rispetto alla libertà. La denuncia del lavoro come attività degradata dell'essere umano avanzata da Hannah Arendt nulla aveva a che fare con la critica al lavoro salariato di marxiana memoria. Ma non era per questo motivo che non convinceva e non convince tuttora Sennett, che la considera segnata da dicotomie (il fare e il pensare, ad esempio) che nel lavoro invece convivono in un equilibrio scandito da un'altra dicotomia, quella tra autorità e autonomia. Ed è da allora che lo studioso statunitense ha cominciato a cercare di definire quale sia il posto occupato dal lavoro nella società contemporanea, cercando proprio nell'artigiano la figura che supera le dicotomie che hanno accompagnato, teoricamente e socialmente, la categoria del lavoro.
I demiurghi del presente
L'artigiano, infatti, per rimanere alla Vita activa di Hannah Arendt, risponde sia alla domanda del come svolgere lavoro, ma anche il perché svolgerlo, attraverso una maestria nel fare che consegna agli artigiani una sorta di missione civilizzatrice anche quando sono stati relegati ai margini della vita pubblica. Nel lavoro artigiano, infatti, non c'è solo abilità tecnica, attenzione alla qualità del manufatto da produrre, ma anche e soprattutto una cura delle relazioni sociali che accomuna sia il maestro che il discepolo; oppure la centralità del valore d'uso del manufatto rispetto al valore di scambio. Sebbene Richard Sennett sottolinei come l'artigiano non costituisca la semplice permanenza di una forma arcaica di lavoro nelle società contemporanee, il suo libro va considerato non solo come una critica dell'analisi di Hannah Arendt, ma anche come la sofistica e suggestiva proposta dei demiourgoi (così venivano chiamati gli artigiani nell'antica Grecia) come figura salvifica dall'alienazione e dall'anomia dell'attuale organizzazione produttiva capitalistica.
È il lavoro concreto che si contrappone al lavoro astratto, tanto per usare categorie marxiane. Ma anche l'incarnazione in una stessa persona o esperienza sociale di una ricomposizione di quei frammenti che la divisione del lavoro scandisce in termini di efficienza e produttività. La maestria tecnica di cui scrive Sennett è quindi da intendere come una pratica culturale che individua la soluzione dei problemi all'insegna di un «fare di qualità». Ma anche la cura con cui i maestri artigiani trasmettevano il mestiere all'epoca delle corporazioni medievali da intendere come una socializzazione del virtuosismo sviluppato dal singolo. È quindi il primato della qualità; ma anche di un «sapere semantico» che viene trasmesso sia per via orale che attraverso l'apprendimento per imitazione. Fattori che vanno a comporre una «coscienza materiale», che attraverso la manipolazione dei materiali, la presenza, in quanto garanzia del marchio d'autore, e l'antromorfismo impresso ai materiali stessi costituiscono le componenti di un'autonomia del lavoratore, ma anche l'esercizio dell'autorità da parte del «maestro» all'interno dei laboratori artigianali. Una gerarchia, dove il binomio tra autorità e autonomia convive in una organizzazione produttiva che ha come referente non il mercato, ma un committente talvolta capriccioso talvolta generoso mecenate. E sono una vera chicca le pagine de L'uomo artigiano che raccontano come i liutai Stradivari e Guarneri, l'orafo e scultore Cellini abbiano manifestato i medesimi sentimenti contraddittori rispetto la trasmissione delle loro abilità o il rapporto di amore e odio con i committenti, dai quali dipendevano per il pagamento del loro lavoro.
Il virtuosismo di Linux
Nessuna nostalgia, vale la pena ripetere, per il passato, quanto la convinzione che l'ordine dei problemi che gli artigiani hanno dovuto affrontare costituiscono il background strutturale del capitalismo «flessibile». In primo luogo, il superamento dell'organizzazione tayloristica del lavoro dettata dalla necessità, così recita la vulgata dominante, di reagire a una feroce competizione attraverso la migliore qualità delle merci prodotte e da una continua innovazione tecnologica, organizzativa e di prodotto. Elementi, tutti, che possono essere risolti appunto dalla riproposizione di quella poiesis che caratterizza il lavoro artigiano. Questo non significa tuttavia l'azzeramento o la rinuncia al sistema di macchine, ne tantomeno la riproposizione del piccolo laboratorio come dimensione ottimale per la produzione della ricchezza. L'artigiano a cui pensa Sennett è infatti l'uomo o la donna che sa usare con maestria le tecnologie digitali, ma che considera la qualità, l'innovazione e le cooperazione sociale come valori assoluti. Da qui l'individuazione nei programmatori del sistema operativo Linux come gli artigiani di cui ha necessità il capitalismo postfordista.
La proposta di Sennett va quindi presa sul serio, perché meglio di tanti altri studiosi critici della capitalismo contemporaneo, ritiene che il sapere, l'innovazione sono espressione di un'intelligenza collettiva che accidentalmente può essere meglio interpretata da un singolo o da una «comunità virtuale», come appunto quella dei programmatori di Linux. Dunque la consapevolezza politica di un «riformista radicale» che nel capitalismo l'autorità sul lavoro non debba cancellare l'autonomia dei lavoratori nel decidere la one best way, definita, a differenza di quanto accadeva nell'impresa fordista, di volta in volta proprio da quella cooperazione sociale dove la gerarchia è flessibile e nella quale l'autorità è dalla dalla maestria in un «fare intelligente» ma collettivo. Una tesi molto più aderente a un principio di realtà di quanti ancora propongono il lavoro di fabbrica come paradigmatico per comprendere il capitalismo flessibile. Non accorgendosi così che proprio al lavoro operaio vengono richieste attitudini tipiche dell'uomo artigiano proposto da Richard Sennett.
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25.11.08
Il declino del conflitto
di Giuseppe De Rita
In un cupo soliloquio della Tosca, Scarpia esprime con volgare voluttà il concetto che «ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso».
È un concetto che gli amanti dell'opera lirica recitano spesso, anche se sempre più raramente lo mettono in opera.Ma è un concetto però cui restano affezionati i teorici e i militanti del conflitto sociale e politico, sempre convinti che la storia e il potere si conquistano facendo rivoluzioni o almeno esercitando la forza. E anche quando, com'è attualmente, la forza e le rivoluzioni sono solo mediatiche e virtuali, l'ispirazione resta la stessa: il conflitto innanzitutto.
Chi osservi invece le cose italiane di questi ultimi tempi scopre che di conflitto ce n'è poco: non ce n'è in fabbrica e nei campi come retoricamente si è spesso declamato; non ce n'è negli uffici pubblici, visto che neppure l'aggressività brunettiana è riuscita a far scattare rivolte anche minimali; non ce n'è in tutto il vasto settore dei servizi alle imprese e alle persone, ormai segnato da professioni (dal pubblicitario alla badante) che sono strutturalmente negate alla mobilitazione collettiva, figurarsi al conflitto. Può spiacere a qualcuno, ma l’attuale composizione sociale non presenta grandi componenti conflittuali.
Si potrà dire che l'affermazione è contraddetta dalle recenti agitazioni di piazza degli studenti e dai recenti scioperi del trasporto aereo; ma credo che un po' tutti abbiano avvertito la loro carica altamente corporativa e la loro incapacità di creare valenza generale e mobilitazione politica. Come potenziali minacce conflittuali sono stati «lasciati cadere»; e non solo dalle sedi del relativo potere decisionale, ma anche dalle sedi tradizionalmente di lotta e potenzialmente di alleanza (il sindacato, ad esempio). Tutto quindi è tornato nell'ordine.
Nell'ordine. Che significa oggi questo termine? In superficie sta a significare che abbiamo più voglia di istituzioni funzionanti che voglia di trasformarle, riformarle, rivoluzionarle. Vince il pragmatismo del quotidiano, non un’idea di futuro migliore; può esser triste ammetterlo, ma tutto ciò porta a una bassa popolarità anche del riformismo, del resto da sempre visto solo come alternativa pacata al conflitto, non come ideologia autonoma e autopropellente.
Resta allora il «mellifluo consenso». È probabile che alla parte più combattiva della nostra classe dirigente venga un attacco di bile di fronte a tale locuzione, magari nel sospetto che essa riveli una più o meno cosciente berlusconiana strategia di dittatura morbida. Ma nei fatti dobbiamo verificare che oggi il consenso si conquista facendo ricorso a emozioni blande e non violente; e anche quando si scende in piazza, le emozioni devono restare blande, come sono quelle dei megaraduni, dei tour elettorali, dei girotondi, delle false primarie, dove tutto è mellifluo, anche se a lungo andare falso, non affidabile.
Perché, come ha acutamente notato Natalino Irti, viviamo un tempo in cui non c'è più rappresentanza (di interessi, di bisogni, di opzioni collettive) ma «rappresentatività esistenziale», di messa in comune di emozioni e sentimenti individuali coltivati nella dimensione dell'esistenza, senza passioni e spessori di essenza. Non a caso, limitando la riflessione al puro campo politico, hanno oggi più successo le formazioni che si rifanno al disagio esistenziale (il leghismo, il dipietrismo) che quelle che devono (per necessitata ampia consistenza) far riferimento alla rappresentanza di interessi, bisogni e opzioni di carattere collettivo, più che ai turbamenti o ai rinserramenti esistenziali.
Non c'è allora da far conto sull'illusione che torni il conflitto, grande oggetto del desiderio. Più utile sarebbe un impegno a ricostruire contenuti e strumenti della rappresentanza. E bisogna farlo sia nelle strutture del sociale come in quelle della politica, rompendo quell’autoconservazione corporativa che purtroppo le sta distruggendo, nel piccolo dell'associazionismo non profit come nel grande della dinamica partitica.
corriere.it
In un cupo soliloquio della Tosca, Scarpia esprime con volgare voluttà il concetto che «ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso».
È un concetto che gli amanti dell'opera lirica recitano spesso, anche se sempre più raramente lo mettono in opera.Ma è un concetto però cui restano affezionati i teorici e i militanti del conflitto sociale e politico, sempre convinti che la storia e il potere si conquistano facendo rivoluzioni o almeno esercitando la forza. E anche quando, com'è attualmente, la forza e le rivoluzioni sono solo mediatiche e virtuali, l'ispirazione resta la stessa: il conflitto innanzitutto.
Chi osservi invece le cose italiane di questi ultimi tempi scopre che di conflitto ce n'è poco: non ce n'è in fabbrica e nei campi come retoricamente si è spesso declamato; non ce n'è negli uffici pubblici, visto che neppure l'aggressività brunettiana è riuscita a far scattare rivolte anche minimali; non ce n'è in tutto il vasto settore dei servizi alle imprese e alle persone, ormai segnato da professioni (dal pubblicitario alla badante) che sono strutturalmente negate alla mobilitazione collettiva, figurarsi al conflitto. Può spiacere a qualcuno, ma l’attuale composizione sociale non presenta grandi componenti conflittuali.
Si potrà dire che l'affermazione è contraddetta dalle recenti agitazioni di piazza degli studenti e dai recenti scioperi del trasporto aereo; ma credo che un po' tutti abbiano avvertito la loro carica altamente corporativa e la loro incapacità di creare valenza generale e mobilitazione politica. Come potenziali minacce conflittuali sono stati «lasciati cadere»; e non solo dalle sedi del relativo potere decisionale, ma anche dalle sedi tradizionalmente di lotta e potenzialmente di alleanza (il sindacato, ad esempio). Tutto quindi è tornato nell'ordine.
Nell'ordine. Che significa oggi questo termine? In superficie sta a significare che abbiamo più voglia di istituzioni funzionanti che voglia di trasformarle, riformarle, rivoluzionarle. Vince il pragmatismo del quotidiano, non un’idea di futuro migliore; può esser triste ammetterlo, ma tutto ciò porta a una bassa popolarità anche del riformismo, del resto da sempre visto solo come alternativa pacata al conflitto, non come ideologia autonoma e autopropellente.
Resta allora il «mellifluo consenso». È probabile che alla parte più combattiva della nostra classe dirigente venga un attacco di bile di fronte a tale locuzione, magari nel sospetto che essa riveli una più o meno cosciente berlusconiana strategia di dittatura morbida. Ma nei fatti dobbiamo verificare che oggi il consenso si conquista facendo ricorso a emozioni blande e non violente; e anche quando si scende in piazza, le emozioni devono restare blande, come sono quelle dei megaraduni, dei tour elettorali, dei girotondi, delle false primarie, dove tutto è mellifluo, anche se a lungo andare falso, non affidabile.
Perché, come ha acutamente notato Natalino Irti, viviamo un tempo in cui non c'è più rappresentanza (di interessi, di bisogni, di opzioni collettive) ma «rappresentatività esistenziale», di messa in comune di emozioni e sentimenti individuali coltivati nella dimensione dell'esistenza, senza passioni e spessori di essenza. Non a caso, limitando la riflessione al puro campo politico, hanno oggi più successo le formazioni che si rifanno al disagio esistenziale (il leghismo, il dipietrismo) che quelle che devono (per necessitata ampia consistenza) far riferimento alla rappresentanza di interessi, bisogni e opzioni di carattere collettivo, più che ai turbamenti o ai rinserramenti esistenziali.
Non c'è allora da far conto sull'illusione che torni il conflitto, grande oggetto del desiderio. Più utile sarebbe un impegno a ricostruire contenuti e strumenti della rappresentanza. E bisogna farlo sia nelle strutture del sociale come in quelle della politica, rompendo quell’autoconservazione corporativa che purtroppo le sta distruggendo, nel piccolo dell'associazionismo non profit come nel grande della dinamica partitica.
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