11.10.08

Il popolo è sovrano e il mercato non vuole

Campagna presidenziale e crisi inanziaria sono simili: i cittadini devono combattere per avere più democrazia

di Noam Chomsky (linguista, scrittore di numerosi saggi politici, insegnante di linguistica al Mit di Boston).

La fine della campagna per le elezioni presidenziali statunitensi e il crollo dei mercati finanziari si sovrappongono, offrendo una rara occasione per riflettere sul sistema politico e su quello economico. Non tutti si saranno appassionati alla campagna elettorale, ma quasi tutti sono in ansia per il pignoramento di un milione di case e si preoccupano dei posti di lavoro, dei risparmi e della sanità. Le cause immediate della crisi attuale possono essere fatte risalire allo scoppio della bolla immobiliare favorita dall’allora presidente della Federal reserve, Alan Greenspan, che negli anni di Bush stimolò l’economia sostenendo i consumi con il debito e i prestiti dall’estero. Ma le radici sono più profonde. Nascono dal trionfo della liberalizzazione finanziaria degli ultimi trent’anni, in cui si è cercato di svincolare il più possibile i mercati da regole pubbliche. Gli stessi settori che hanno ottenuto profitti smisurati grazie alla liberalizzazione, oggi invocano un intervento dello stato per salvare le istituzioni finanziarie. Interventi del genere sono tipici del capitalismo di stato, anche se questi sono di un’entità insolita. Quindici anni fa uno studio degli economisti Winfried Ruigrok e Rob van Tulder mostrava che almeno venti delle più importanti aziende del mondo non sarebbero sopravvissute senza l’aiuto dei governi, e che molte delle altre avevano guadagnato imponendo allo stato di “socializzare le perdite”. In una democrazia ben funzionante, la campagna elettorale affronterebbe questi temi, esplorando le radici e le soluzioni, e offrendo a chi subisce le conseguenze della crisi gli strumenti per riacquistare il controllo della situazione. Il compito delle istituzioni finanziarie è correre dei rischi e, se sono gestite bene, fare in modo che le loro eventuali perdite siano sempre coperte. L’accento va messo su “le loro”. Secondo le regole del capitalismo di stato, invece, il mondo finanziario non deve preoccuparsi dei costi esterni nel caso in cui le sue scelte portino a una crisi finanziaria (cosa che avviene regolarmente).

Un partito, due fazioni
La liberalizzazione finanziaria ha effetti che vanno ben oltre l’economia. È noto da tempo che rappresenta un’arma molto potente contro la democrazia. Il libero movimento dei capitali crea quello che qualcuno ha chiamato un parlamento virtuale di investitori e prestatori, che analizzano i programmi dei governi e votano contro se li considerano irrazionali, cioè se fanno gli interessi degli elettori invece che quelli di una forte concentrazione di potere privato. Chi investe e chi presta può votare attraverso la fuga di capitali, gli attacchi alle valute e altri strumenti finanziari. È una delle ragioni per cui il sistema di Bretton Woods, istituito da Stati Uniti e Gran Bretagna dopo la seconda guerra mondiale, prevedeva dei controlli sui capitali e regolamentava le valute. John Maynard Keynes riteneva che il risultato più importante di Bretton Woods fosse l’acquisizione, da parte dei governi, del diritto di limitare i movimenti di capitale. Invece nella fase neoliberista che si è aperta negli anni settanta dopo l’abolizione di quel sistema, il tesoro americano considera il libero movimento dei capitali come un diritto fondamentale. L’ovvia conseguenza di questa idea di libertà assoluta dei capitali è che la democrazia si è ridotta. Si è reso dunque necessario controllare ed emarginare in qualche modo l’opinione pubblica, un processo particolarmente evidente nelle società fondate sul business come gli Stati Uniti. Il fatto che le elezioni siano gestite come una kermesse da parte delle società di pubbliche relazioni ne è un esempio lampante. “La politica è l’ombra gettata sulla società dal grande capitale”, scriveva John Dewey, il più grande filosofo sociale americano del novecento, e tale resterà finché il potere sarà in mano al “business privato, attraverso il controllo privato delle banche, della terra e dell’industria, rafforzato dalla diretta influenza su giornali, agenzie di stampa e altri strumenti di pubblicità e propaganda”. Gli Stati Uniti, in effetti, sono un sistema a partito unico, il partito del business, con due fazioni, repubblicani e democratici. Tra le due fazioni ci sono delle differenze reali. Nel suo studio Unequal democracy: the political economy of the new gilded age, Larry M. Bartels spiega che negli ultimi sessant’anni “il reddito reale delle famiglie del ceto medio è cresciuto a velocità doppia durante le amministrazioni democratiche rispetto a quelle repubblicane, mentre il reddito reale da lavoro delle famiglie povere è cresciuto a velocità sei volte superiore”. Le differenze si vedono anche in queste elezioni. Gli elettori dovrebbero tenerne conto, ma senza farsi illusioni sui partiti, e riconoscendo che sempre, nel corso dei secoli, la legislazione progressista e lo stato sociale sono stati il frutto di lotte popolari e non sono piovuti dall’alto. Queste lotte seguono un ciclo di successi e sconfitte. Devono essere portate avanti ogni giorno e non solo ogni quattro anni, sempre con l’obiettivo di dar vita a una società davvero aperta e democratica, dal seggio elettorale al posto di lavoro.

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