Un sincero moto di simpatia e di umana solidarietà va oggi, senza se e senza ma, a Barbara Berlusconi, che l’altro giorno ha discusso la sua tesi e conseguito la sua laurea (110 e lode, senza nemmeno un telefonata di Denis Verdini, Carboni o Dell’Utri). Certo, una laurea triennale in filosofia, diciamo che non siamo proprio ad Harvard. Certo, una laurea all’università di Don Verzé, un po’ come se voi vi laureaste all’università di proprietà di vostro zio. Ma pazienza, onore al merito. E già che parliamo di merito, non trascurerei quello di sopportare un tanto ingombrante padre, che riesce, persino nel giorno della laurea della figlia, ad occupare la scena, farsi da solo i complimenti (“merito dei genitori”, ha detto: forse la povera Barbara passava di lì per caso) e dare il suo quotidiano spettacolino. La simpatia per Barbara nasce dal fatto che probabilmente non si merita di passare alla storia come un qualunque figlio di Saddam Hussein o di Ceausescu, ma – ahilei – ci sta andando molto vicina. Nel consegnarle bacio accademico e pergamena, infatti, Don Verzé (quello che vuol far vivere Berlusconi fino a 150 anni, quando si dice nemico del popolo…) le offre addirittura una cattedra. Di più: partendo dalla tesi di Barbara Berlusconi, il prete privato del Conducator vorrebbe addirittura fondare una facoltà di economia di cui lei diverrebbe automaticamente docente. Come dire, dalla tesi alla cattedra in un nanosecondo: Barbara faccia almeno ciao ciao con la manina a tutti i precari dell’Università che da anni si dannano l’anima per diventare di ruolo pur avendo vinto fior di concorsi, o almeno faccia le corna come il Gassman de Il sorpasso. Bene ha fatto Roberta De Monticelli, che in quella stessa università è docente, a lamentarsi: dalle altre decine di docenti, invece, è venuto solo silenzio, non risulta che nella vecchia Romania di Ceasusescu, e nel povero Iraq di Saddam si facesse carriera con le critiche.
Sia come sia, archiviati i giusti auguri a Barbara per una carriera che parte da zero (buona questa, eh!), va detto che le ultime giornate di Silviescu non sono state niente male. Prima è intervenuto alla cerimonia di laurea in una specie di università dei puffi (privata, brianzola e telematica) così, tanto per insultare Rosy Bindi. E’ lo stesso prestigioso ateneo che si pubblicizza con la faccia di Sgarbi e dove la cattedra di Storia Contemporanea è retta da Marcello Dell’Utri (forse Frank Tre Dita aveva un impegno). Poi è comparso tra le guglie del Duomo di Milano a ritirare un premio conferitogli dai suoi dipendenti (il presidente della provincia di Milano e altri buontemponi che lo chiamano “statista”), presente don Prezzemolo Verzé e altri componenti della nomenklatura del regime. Come al solito ha fatto un bel gesto: ha promesso soldi per il restauro del Duomo. Non soldi suoi, naturalmente, ma soldi nostri (“fondi pubblici”). Poi se n’è andato tutto tirato a lucido e ringalluzzito, seguito da famigli e sodali (essendogli morti “da eroi” gli stallieri) che con immensa cafoneria hanno lasciato la platea prima dell’esibizione dell’artista vero (Charles Aznavour). Infine è andato al raduno del Milan, dove ha promesso incredibili progressi tecnico-tattici dovuti soprattutto all’innesto di un difensore greco comprato ai saldi estivi. Il tutto senza curarsi dei tifosi inviperiti che lo contestavano fischiandolo e ingiuriandolo in tutti i modi. La tre giorni di Silviescu pare conclusa, ma noi fans non disperiamo: altre apparizioni pubbliche – ora che i sondaggi lo danno in picchiata – ci delizieranno nei prossimi giorni. Chissà, un’apparizione della Madonna direttamente in una filiale Mediolanum, oppure qualche improvvisa guarigione inspiegabile (sarà presente don Verzé), o ancora l’inaugurazione di una sua statua a cavallo. Povero re – cantavano un tempo Fo e Jannacci. E povero anche il cavallo. Ah bé, sì bé!
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
22.7.10
La cattedra di Barbara Ceausescu
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20.7.10
Don Verzé: il Cavaliere? Un dono di Dio all' Italia
[L'articolo, sul Corriere, è del 6 novembre 2009. Torna d'attualità perché don Verzé ha ribadito, sulle guglie del Duomo di Milano, che Berlusconi "è stato mandato dalla divina provvidenza". Stesse parole usate, a suo tempo, dal Papa Pio XI e dall'arcivescovo di Milano cardinale Ildefonso Schuster per Benito Mussolini]
di Aldo Cazzullo
«Voci enfatizzate su di lui. E poi è un uomo, non un santo» Castro è un grand' uomo. Così prepotente, così simpatico. Mi faceva portare l' olio del mio Veneto e il Recioto Da Gheddafi andai prima di tutti. Spuntò da una carovana di cammelli, tutto vestito di bianco: sembrava un profeta
«In questi giorni sono arrabbiato». Per quale motivo, don Verzé? «La sentenza europea che vieta il crocifisso è una cosa orrenda. Uno sputo su tutto quel che di grande ha fatto l' Europa. Disconosce le nostre origini. Viola la nostra storia. Mi pare di sentire il corpo di Giovanni Paolo II che si rotola nella cassa. Mi pare di vederlo, ormai consumato, che viene fuori, uno stinco su quell' altro, a impugnare un bastone...». Che fare? «Reagire. A Natale, anziché l' albero, erigiamo una croce. Spero lo faccia anche il Santo Padre, in piazza San Pietro. Mi offro di portargliela io: una grande croce di 25 metri». Nell' attesa del Papa, lei l' altra mattina ha visto Berlusconi. «Abbiamo rievocato i nostri precedenti incontri. La prima volta ci vedemmo in ospedale, al San Pio X. Erano i primi Anni 70, lui era un giovane imprenditore. Ed era malato seriamente. Io gli parlai: "Lei guarirà e farà grandi cose". Nel ' 94, al tempo della sua discesa in campo, gli dissi che lui era una benedizione per il Paese, un dono di Dio all' Italia». E non ha cambiato idea? «No. Una volta un contestatore mi si è avvicinato, puntandomi il pugno sotto il mento, e mi ha chiesto se la pensavo ancora così su Berlusconi. Gli ho risposto di sì. L' hanno portato via prima che mi colpisse». Con Berlusconi avete parlato anche degli scandali estivi? «Certo. Mi ha assicurato che lui non ha fatto quel che dicono. E io gli credo: non l' ha fatto. Ho visto tante cose nella vita, ma mai una vergogna simile. Sono state enfatizzate supposizioni, voci. E se anche se fossero verità, dovremmo vergognarci e tenerle nel cuore. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. E di peccati ne commettiamo tutti. Eppure vedo molti peccatori tirare molte, troppe pietre». Non sono soltanto voci. Tutto ha avuto inizio con il divorzio chiesto da Veronica Berlusconi. «Conosco bene anche lei. Non voglio giudicare. Berlusconi è un uomo, non un santo; anche se io in ogni uomo vedo la santità. Gesù non ha detto: siate puri, siate giusti. Ha detto: amatevi l' un l' altro come io ho amato voi. L' Italia è un Paese profondamente cristiano, un Paese meraviglioso, ma sta perdendo il rispetto per se stesso pur di rovistare nella rogna, sta dissacrando e calpestando i suoi valori in un drammatico vuoto di cultura. E il peggio della nostra cultura sono alcuni magistrati». Che c' entrano i magistrati? «La giustizia in Italia sembra una spada di Damocle pendente sulla testa di chiunque. Purtroppo alcuni magistrati non hanno il senso della giustizia. Un dubbio per loro è sufficiente per giudicare. E giudicano». Be' , è il loro mestiere. «Ma, pur di giudicare, inventano. È quel che mi dice Berlusconi: "Don Luigi, lei non ha idea di cosa sono capaci di inventarsi sul mio conto..."». Lei ha buoni rapporti anche a sinistra. Ad esempio con il presidente della Regione Puglia Vendola. «Un uomo che cerca la verità. La gente giudica dalle apparenze, dall' orecchino. Che mi importa dell' orecchino! Io guardo il meglio dell' uomo. Ne ho parlato con Berlusconi, che ha per Vendola molta simpatia e stima. Qui sta la sua superiorità: cerca le intelligenze, anche nell' opposizione». Cacciari, sindaco di Venezia, lascia la politica. «Meglio. Così torna a casa, all' università del San Raffaele. Mi ha detto: "Don Luigi, non volevo rifare il sindaco...". Invece rientra da Venezia arricchito. Cacciari è un' intelligenza superiore. Gli ho detto: "Tu Massimo tocchi il cielo con un dito, e un giorno lo bucherai"». Bersani? «Non lo conosco. Conosco D' Alema, gli ho fatto sapere che prego per lui. Mi ha risposto che ne ha molto bisogno». Presidente del Pd diventerà forse Rosy Bindi, di cui lei non è grande estimatore. «Per me la Bindi è stata una disgrazia. Si è comportata in modo cattivissimo, per impedirmi di avere un ospedale a Roma. Ma io la amo lo stesso. Se venisse qui al San Raffaele bisognosa di cure, mi farei in quattro». Con il cardinal Martini avete scritto un libro. «Gli ho appena telefonato, per chiedere la sua benedizione. Lui per me è san Carlo Borromeo vivente, a causa della sua sofferenza. Uno dei grandi personaggi che hanno segnato la mia vita e quella di Milano, e andrebbero riscoperti». Quali personaggi? «Don Calabria, di cui sono stato segretario. Padre Gemelli, di cui ero il pupillo. Mario Missiroli, che nel 1959 scrisse un fondo in cui antevedeva il San Raffaele; e non c' era ancora neppure il terreno. Pietro Bucalossi, il mio nemico mortale. Diceva: "Se don Verzé farà il suo ospedale, distruggerà tutti i nostri!"». Gli altri personaggi da riscoprire? «Schuster. Antonio Greppi, di cui non parlate mai. Virgilio Ferrari, il padre della metropolitana milanese. Ferdinando Innocenti, che assumeva e dava uno stipendio ai ragazzi cerebrolesi. Craxi. Montini: cuore lombardo, mente vaticana; mi ha fatto soffrire, ma mi ha insegnato a essere un prete libero. Fuori da Milano: Andreotti. Ricordo quando gli dissi che volevo fare un ospedale in Sicilia ma temevo la mafia. Mi rispose: la mafia un tempo si poteva controllare, ora non più. Infatti... E poi Fidel Castro». Castro? «Grand' uomo. Così prepotente, così simpatico. Mi faceva portare l' olio del mio Veneto e il Recioto. Dieci bottiglie: una la apriva in Consiglio dei ministri, le altre nove se le beveva lui. Ore e ore a parlare di tutto. Un carisma che ritrovo solo in Gheddafi». Gheddafi? «Ci sono andato prima di tutti, anche di Berlusconi. Serviva il permesso della Cia, e l' ho avuto. Arrivo in Libia passando dalla Tunisia. Appuntamento in un palazzo che pare quello di Serse: marmi, sete dorate; ma lui non c' è. Uomini armati mi portano su una camionetta nel deserto. Lui spunta da una carovana di cammelli. Tutto vestito di bianco, senza le bardature che mette adesso: pareva un profeta. Era terrorizzato dai satelliti americani: mi raccontò che sua figlia era morta sotto il bombardamento per proteggere lui. Volevo portare il San Raffaele in Libia; accettò. Ma tutto si fermò subito dopo, quando Gheddafi fu ferito alle gambe in un attentato, ordito da tribù ostili». Questa non si è mai sentita. «Infatti non è un episodio conosciuto. Ma è vero. Per fortuna non ci siamo fermati. Oggi il San Raffaele è a Gerusalemme. In Afghanistan. In Iraq, a Ur, dentro la fortezza americana, dove nascerà un centro di ricerca intitolato ad Abramo. In India curiamo i tibetani del Dalai Lama a Daramsala. Siamo in Nigeria e in Uganda, a Kampala, dove è sempre primavera e i malati anziché in corsia preferiscono stare sul prato; la notte piove, ma al mattino il sole è subito caldo. In Colombia abbiamo una nave-ospedale, in Brasile abbiamo appena costruito il nostro sesto centro, che sta sradicando la lebbra nella regione di Barra. E sa chi l' ha pagato? Berlusconi». Dal San Raffaele viene anche il viceministro Fazio. Non sta facendo un po' di confusione sull' influenza? «Fazio non è un politico. E' un grande ricercatore. Io faccio fatica quando mi occupo di politica, e Fazio è come me. Ma sull' influenza ha ragione: è più la paura del rischio. L' importante è non sovraffollare gli ospedali». Perché ha rotto con Cl? «Io non ho rotto. Ho distinto. Sono amico di Formigoni, uomo di statura, cui ogni tanto do qualche consiglio. Sono stato grande amico di Giussani. L' ho curato per dieci anni, l' ho tenuto qui sino all' ultimo, gli portavo in camera Berlusconi. Si adoravano. Berlusconi si sedeva sul suo letto, si abbracciavano, si baciavano. Giussani aveva molte idee. Ora i suoi successori sono liberi di fare secondo la loro mentalità. Qui dentro però è San Raffaele; non è Cl. Facciamo come i gesuiti con i cappuccini: ognuno padrone a casa propria. Noi abbiamo una dottrina che non è quella di Cl. Facciamo scienza e cultura, grazie a un' università che è libera, non ecclesiastica. Odio che si adoperi Gesù Cristo per fare soldi». Cosa pensa di Umberto Veronesi? «È un grande amico mio. Io sono una persona libera. Non ho mai avuto uno stipendio. I soldi che raccolgo sono per il San Raffaele, i ricercatori, gli ammalati, l' università. Il mio socio di maggioranza è Cristo. Ogni volta che lo chiamo, lui risponde». C' è ancora Imperator, il suo cavallo? «Certo. Galoppa. E vince».
Le origini
Luigi Maria Verzé nasce ad Illasi (Verona) nel 1920. Si laurea in Lettere e Filosofia a Milano nel ' 47 e l' anno dopo viene ordinato sacerdote e fonda il primo Centro di addestramento professionale per ragazzi A Milano Nel ' 51 fonda in via Pusiano un nuovo Centro di addestramento anche per handicappati e nel ' 58 l' Associazione centro assistenza ospedaliera S. Romanello (ora Associazione Monte Tabor) dedicata ad anziani e bambini. Nel ' 69 realizza e inaugura a Milano l' ospedale San Raffaele. Iscritto all' Ordine dei giornalisti, è inoltre direttore del mensile di medicina, cultura e scienze umane Kos
L' ospedale San Raffaele
Don Luigi Verzé è alla guida dell' ospedale San Raffaele dal 1969, anno in cui a cavallo tra Segrate e Milano fondò il primo nucleo ospedaliero
In questi 40 anni l' ospedale creato dal prete imprenditore è diventato un colosso, e dall' istituto di ricerca è generato anche un polo universitario. L' istituto beneficia dell' accredito dal 1999 e nel 2007, anno dell' ultimo bilancio disponibile, i ricavi erano prossimi ai 17 milioni di euro, con utili di circa 400 mila euro. A Finraf, la finanziaria che controlla il polo ospedaliero, fanno capo diverse società attive, per lo più, nel settore sanitario
di Aldo Cazzullo
«Voci enfatizzate su di lui. E poi è un uomo, non un santo» Castro è un grand' uomo. Così prepotente, così simpatico. Mi faceva portare l' olio del mio Veneto e il Recioto Da Gheddafi andai prima di tutti. Spuntò da una carovana di cammelli, tutto vestito di bianco: sembrava un profeta
«In questi giorni sono arrabbiato». Per quale motivo, don Verzé? «La sentenza europea che vieta il crocifisso è una cosa orrenda. Uno sputo su tutto quel che di grande ha fatto l' Europa. Disconosce le nostre origini. Viola la nostra storia. Mi pare di sentire il corpo di Giovanni Paolo II che si rotola nella cassa. Mi pare di vederlo, ormai consumato, che viene fuori, uno stinco su quell' altro, a impugnare un bastone...». Che fare? «Reagire. A Natale, anziché l' albero, erigiamo una croce. Spero lo faccia anche il Santo Padre, in piazza San Pietro. Mi offro di portargliela io: una grande croce di 25 metri». Nell' attesa del Papa, lei l' altra mattina ha visto Berlusconi. «Abbiamo rievocato i nostri precedenti incontri. La prima volta ci vedemmo in ospedale, al San Pio X. Erano i primi Anni 70, lui era un giovane imprenditore. Ed era malato seriamente. Io gli parlai: "Lei guarirà e farà grandi cose". Nel ' 94, al tempo della sua discesa in campo, gli dissi che lui era una benedizione per il Paese, un dono di Dio all' Italia». E non ha cambiato idea? «No. Una volta un contestatore mi si è avvicinato, puntandomi il pugno sotto il mento, e mi ha chiesto se la pensavo ancora così su Berlusconi. Gli ho risposto di sì. L' hanno portato via prima che mi colpisse». Con Berlusconi avete parlato anche degli scandali estivi? «Certo. Mi ha assicurato che lui non ha fatto quel che dicono. E io gli credo: non l' ha fatto. Ho visto tante cose nella vita, ma mai una vergogna simile. Sono state enfatizzate supposizioni, voci. E se anche se fossero verità, dovremmo vergognarci e tenerle nel cuore. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. E di peccati ne commettiamo tutti. Eppure vedo molti peccatori tirare molte, troppe pietre». Non sono soltanto voci. Tutto ha avuto inizio con il divorzio chiesto da Veronica Berlusconi. «Conosco bene anche lei. Non voglio giudicare. Berlusconi è un uomo, non un santo; anche se io in ogni uomo vedo la santità. Gesù non ha detto: siate puri, siate giusti. Ha detto: amatevi l' un l' altro come io ho amato voi. L' Italia è un Paese profondamente cristiano, un Paese meraviglioso, ma sta perdendo il rispetto per se stesso pur di rovistare nella rogna, sta dissacrando e calpestando i suoi valori in un drammatico vuoto di cultura. E il peggio della nostra cultura sono alcuni magistrati». Che c' entrano i magistrati? «La giustizia in Italia sembra una spada di Damocle pendente sulla testa di chiunque. Purtroppo alcuni magistrati non hanno il senso della giustizia. Un dubbio per loro è sufficiente per giudicare. E giudicano». Be' , è il loro mestiere. «Ma, pur di giudicare, inventano. È quel che mi dice Berlusconi: "Don Luigi, lei non ha idea di cosa sono capaci di inventarsi sul mio conto..."». Lei ha buoni rapporti anche a sinistra. Ad esempio con il presidente della Regione Puglia Vendola. «Un uomo che cerca la verità. La gente giudica dalle apparenze, dall' orecchino. Che mi importa dell' orecchino! Io guardo il meglio dell' uomo. Ne ho parlato con Berlusconi, che ha per Vendola molta simpatia e stima. Qui sta la sua superiorità: cerca le intelligenze, anche nell' opposizione». Cacciari, sindaco di Venezia, lascia la politica. «Meglio. Così torna a casa, all' università del San Raffaele. Mi ha detto: "Don Luigi, non volevo rifare il sindaco...". Invece rientra da Venezia arricchito. Cacciari è un' intelligenza superiore. Gli ho detto: "Tu Massimo tocchi il cielo con un dito, e un giorno lo bucherai"». Bersani? «Non lo conosco. Conosco D' Alema, gli ho fatto sapere che prego per lui. Mi ha risposto che ne ha molto bisogno». Presidente del Pd diventerà forse Rosy Bindi, di cui lei non è grande estimatore. «Per me la Bindi è stata una disgrazia. Si è comportata in modo cattivissimo, per impedirmi di avere un ospedale a Roma. Ma io la amo lo stesso. Se venisse qui al San Raffaele bisognosa di cure, mi farei in quattro». Con il cardinal Martini avete scritto un libro. «Gli ho appena telefonato, per chiedere la sua benedizione. Lui per me è san Carlo Borromeo vivente, a causa della sua sofferenza. Uno dei grandi personaggi che hanno segnato la mia vita e quella di Milano, e andrebbero riscoperti». Quali personaggi? «Don Calabria, di cui sono stato segretario. Padre Gemelli, di cui ero il pupillo. Mario Missiroli, che nel 1959 scrisse un fondo in cui antevedeva il San Raffaele; e non c' era ancora neppure il terreno. Pietro Bucalossi, il mio nemico mortale. Diceva: "Se don Verzé farà il suo ospedale, distruggerà tutti i nostri!"». Gli altri personaggi da riscoprire? «Schuster. Antonio Greppi, di cui non parlate mai. Virgilio Ferrari, il padre della metropolitana milanese. Ferdinando Innocenti, che assumeva e dava uno stipendio ai ragazzi cerebrolesi. Craxi. Montini: cuore lombardo, mente vaticana; mi ha fatto soffrire, ma mi ha insegnato a essere un prete libero. Fuori da Milano: Andreotti. Ricordo quando gli dissi che volevo fare un ospedale in Sicilia ma temevo la mafia. Mi rispose: la mafia un tempo si poteva controllare, ora non più. Infatti... E poi Fidel Castro». Castro? «Grand' uomo. Così prepotente, così simpatico. Mi faceva portare l' olio del mio Veneto e il Recioto. Dieci bottiglie: una la apriva in Consiglio dei ministri, le altre nove se le beveva lui. Ore e ore a parlare di tutto. Un carisma che ritrovo solo in Gheddafi». Gheddafi? «Ci sono andato prima di tutti, anche di Berlusconi. Serviva il permesso della Cia, e l' ho avuto. Arrivo in Libia passando dalla Tunisia. Appuntamento in un palazzo che pare quello di Serse: marmi, sete dorate; ma lui non c' è. Uomini armati mi portano su una camionetta nel deserto. Lui spunta da una carovana di cammelli. Tutto vestito di bianco, senza le bardature che mette adesso: pareva un profeta. Era terrorizzato dai satelliti americani: mi raccontò che sua figlia era morta sotto il bombardamento per proteggere lui. Volevo portare il San Raffaele in Libia; accettò. Ma tutto si fermò subito dopo, quando Gheddafi fu ferito alle gambe in un attentato, ordito da tribù ostili». Questa non si è mai sentita. «Infatti non è un episodio conosciuto. Ma è vero. Per fortuna non ci siamo fermati. Oggi il San Raffaele è a Gerusalemme. In Afghanistan. In Iraq, a Ur, dentro la fortezza americana, dove nascerà un centro di ricerca intitolato ad Abramo. In India curiamo i tibetani del Dalai Lama a Daramsala. Siamo in Nigeria e in Uganda, a Kampala, dove è sempre primavera e i malati anziché in corsia preferiscono stare sul prato; la notte piove, ma al mattino il sole è subito caldo. In Colombia abbiamo una nave-ospedale, in Brasile abbiamo appena costruito il nostro sesto centro, che sta sradicando la lebbra nella regione di Barra. E sa chi l' ha pagato? Berlusconi». Dal San Raffaele viene anche il viceministro Fazio. Non sta facendo un po' di confusione sull' influenza? «Fazio non è un politico. E' un grande ricercatore. Io faccio fatica quando mi occupo di politica, e Fazio è come me. Ma sull' influenza ha ragione: è più la paura del rischio. L' importante è non sovraffollare gli ospedali». Perché ha rotto con Cl? «Io non ho rotto. Ho distinto. Sono amico di Formigoni, uomo di statura, cui ogni tanto do qualche consiglio. Sono stato grande amico di Giussani. L' ho curato per dieci anni, l' ho tenuto qui sino all' ultimo, gli portavo in camera Berlusconi. Si adoravano. Berlusconi si sedeva sul suo letto, si abbracciavano, si baciavano. Giussani aveva molte idee. Ora i suoi successori sono liberi di fare secondo la loro mentalità. Qui dentro però è San Raffaele; non è Cl. Facciamo come i gesuiti con i cappuccini: ognuno padrone a casa propria. Noi abbiamo una dottrina che non è quella di Cl. Facciamo scienza e cultura, grazie a un' università che è libera, non ecclesiastica. Odio che si adoperi Gesù Cristo per fare soldi». Cosa pensa di Umberto Veronesi? «È un grande amico mio. Io sono una persona libera. Non ho mai avuto uno stipendio. I soldi che raccolgo sono per il San Raffaele, i ricercatori, gli ammalati, l' università. Il mio socio di maggioranza è Cristo. Ogni volta che lo chiamo, lui risponde». C' è ancora Imperator, il suo cavallo? «Certo. Galoppa. E vince».
Le origini
Luigi Maria Verzé nasce ad Illasi (Verona) nel 1920. Si laurea in Lettere e Filosofia a Milano nel ' 47 e l' anno dopo viene ordinato sacerdote e fonda il primo Centro di addestramento professionale per ragazzi A Milano Nel ' 51 fonda in via Pusiano un nuovo Centro di addestramento anche per handicappati e nel ' 58 l' Associazione centro assistenza ospedaliera S. Romanello (ora Associazione Monte Tabor) dedicata ad anziani e bambini. Nel ' 69 realizza e inaugura a Milano l' ospedale San Raffaele. Iscritto all' Ordine dei giornalisti, è inoltre direttore del mensile di medicina, cultura e scienze umane Kos
L' ospedale San Raffaele
Don Luigi Verzé è alla guida dell' ospedale San Raffaele dal 1969, anno in cui a cavallo tra Segrate e Milano fondò il primo nucleo ospedaliero
In questi 40 anni l' ospedale creato dal prete imprenditore è diventato un colosso, e dall' istituto di ricerca è generato anche un polo universitario. L' istituto beneficia dell' accredito dal 1999 e nel 2007, anno dell' ultimo bilancio disponibile, i ricavi erano prossimi ai 17 milioni di euro, con utili di circa 400 mila euro. A Finraf, la finanziaria che controlla il polo ospedaliero, fanno capo diverse società attive, per lo più, nel settore sanitario
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16.7.10
Un Cesare arrogante
di Rinaldo Gianola
Anna Finocchiaro usa la passione politica e parole indignate per denunciare al Senato la manovra d’estate della cricca di governo mentre sui banchi della maggioranza si scherza, si dileggia. Il senatore del Pd Paolo Nerozzi parla della gravità dei licenziamenti della Fiat a Mirafiori e a Pomigliano, chiede l’intervento del ministro Sacconi. In cambio ottiene dalla destra risa di scherno e un “finalmente” quando parla della sanzione ingiustificata contro un delegato Fiom.
Sono solo due episodi, tra i tanti, di una giornata politica che conferma l’arroganza di una maggioranza di governo che trascina le assemblee parlamentari ai livelli indegni e volgari consoni alla gang della P3, ai Cosentino, ai Verdini, ai Dell’Utri, al magistrato Alfonso Marra di cui ieri il Csm ha chiesto il trasferimento d’urgenza dal Tribunale di Milano per incompatibilità ambientale. Scorrendo le immagini di una giornata come quella di ieri c’è da chiedersi che cosa dobbiamo ancora vedere e subire, quale può essere il livello di sopportazione dei cittadini, del mondo del lavoro, dei sindacati, delle imprese responsabili e non asservite, davanti a comportamenti «vergognosi e ignobili», come denuncia solitario il parlamentare Passoni.
Non siamo ancora arrivati alla fine di questa tragedia nazionale? L’azione del governo si misura tra i diktat e le banali battute di Tremonti, «la fiducia porta fiducia» ha sentenziato ieri, mentre Regioni e comuni confermano l’opposizione alla manovra, mentre il governatore della Banca d’Italia esprime qualche dubbio sui possibili risultati, mentre le famiglie italiane si impoveriscono e gli operai, al solito, sono quelli che stanno peggio. La stangata d’estate colpisce le donne, le lavoratrici statali che andranno in pensione più tardi, penalizza i giovani che un lavoro dignitoso e la pensione non li vedranno mai con questi chiari di luna, pesa sulle amministrazioni e le comunità locali. E tutto si tiene in questa Italia berlusconiana, arrogante e proterva: dalla manovra di Tremonti fino ai licenziamenti della Fiat, c’è una linea chiara che punta colpire e a penalizzare i ceti più deboli, le famiglie, i lavoratori che non abbassano la testa nemmeno davanti a Marchionne.
Ora Berlusconi, il Cesare della P3, vuole una manifestazione di piazza perché ha bisogno di un bagno di folla, ammesso che ci riesca, per portare l’ultima spallata, quella per vietare le intercettazioni, per fermare l’informazione libera. In un paese normale, dove la dialettica democratica e parlamentare fosse davvero rispettata, anche il voto sulla manovra correttiva dei conti pubblici avrebbe potuto essere l’occasione per un confronto duro ma costruttivo e leale. Nessuno, nemmeno l’opposizione, avrebbe messo in discussione la necessità degli interventi, ma certo sarebbe stato necessario calibrarli più equamente. Invece si stangano i soliti e si salvano i furbetti padani che non pagano le multe per le quote latte. Al solito il problema è Silvio, anzi Cesare, e la sua credibilità, le sue ombre passate, la sua dipendenza da amici vecchi e nuovi. Perché come insegna la Storia se la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto, allora figuriamoci Cesare....
Anna Finocchiaro usa la passione politica e parole indignate per denunciare al Senato la manovra d’estate della cricca di governo mentre sui banchi della maggioranza si scherza, si dileggia. Il senatore del Pd Paolo Nerozzi parla della gravità dei licenziamenti della Fiat a Mirafiori e a Pomigliano, chiede l’intervento del ministro Sacconi. In cambio ottiene dalla destra risa di scherno e un “finalmente” quando parla della sanzione ingiustificata contro un delegato Fiom.
Sono solo due episodi, tra i tanti, di una giornata politica che conferma l’arroganza di una maggioranza di governo che trascina le assemblee parlamentari ai livelli indegni e volgari consoni alla gang della P3, ai Cosentino, ai Verdini, ai Dell’Utri, al magistrato Alfonso Marra di cui ieri il Csm ha chiesto il trasferimento d’urgenza dal Tribunale di Milano per incompatibilità ambientale. Scorrendo le immagini di una giornata come quella di ieri c’è da chiedersi che cosa dobbiamo ancora vedere e subire, quale può essere il livello di sopportazione dei cittadini, del mondo del lavoro, dei sindacati, delle imprese responsabili e non asservite, davanti a comportamenti «vergognosi e ignobili», come denuncia solitario il parlamentare Passoni.
Non siamo ancora arrivati alla fine di questa tragedia nazionale? L’azione del governo si misura tra i diktat e le banali battute di Tremonti, «la fiducia porta fiducia» ha sentenziato ieri, mentre Regioni e comuni confermano l’opposizione alla manovra, mentre il governatore della Banca d’Italia esprime qualche dubbio sui possibili risultati, mentre le famiglie italiane si impoveriscono e gli operai, al solito, sono quelli che stanno peggio. La stangata d’estate colpisce le donne, le lavoratrici statali che andranno in pensione più tardi, penalizza i giovani che un lavoro dignitoso e la pensione non li vedranno mai con questi chiari di luna, pesa sulle amministrazioni e le comunità locali. E tutto si tiene in questa Italia berlusconiana, arrogante e proterva: dalla manovra di Tremonti fino ai licenziamenti della Fiat, c’è una linea chiara che punta colpire e a penalizzare i ceti più deboli, le famiglie, i lavoratori che non abbassano la testa nemmeno davanti a Marchionne.
Ora Berlusconi, il Cesare della P3, vuole una manifestazione di piazza perché ha bisogno di un bagno di folla, ammesso che ci riesca, per portare l’ultima spallata, quella per vietare le intercettazioni, per fermare l’informazione libera. In un paese normale, dove la dialettica democratica e parlamentare fosse davvero rispettata, anche il voto sulla manovra correttiva dei conti pubblici avrebbe potuto essere l’occasione per un confronto duro ma costruttivo e leale. Nessuno, nemmeno l’opposizione, avrebbe messo in discussione la necessità degli interventi, ma certo sarebbe stato necessario calibrarli più equamente. Invece si stangano i soliti e si salvano i furbetti padani che non pagano le multe per le quote latte. Al solito il problema è Silvio, anzi Cesare, e la sua credibilità, le sue ombre passate, la sua dipendenza da amici vecchi e nuovi. Perché come insegna la Storia se la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto, allora figuriamoci Cesare....
15.7.10
L’innominabile
Marco travaglio
Tempo fa un borghese Piccolo Piccolo che fu addirittura sceneggiatore del Caimano di Moretti ha severamente ammonito sull’Unità il popolo della sinistra a diffidare di chi non è di sinistra, in particolare del sottoscritto: io avrei l’“ossessione professionale dei processi, in particolare quelli di Berlusconi”, e per giunta oso talvolta “deriderlo” chiamandolo financo “Al Tappone” e impedisco così alla sinistra di combatterlo e sconfiggerlo “politicamente”. Alla larga, dunque. Se fosse un caso isolato, transeat. Ma sono sedici anni che plotoni di teste fini della sinistra raccomandano di lasciar perdere il Berlusconi imputato (“giustizialismo e antiberlusconismo fanno il gioco di Berlusconi”) per concentrarsi sul B. politico, magari “di destra”. Evidentemente sono convinti che esista un B. politico, e – le risate – che B. sia di destra.
Montanelli, che conosceva bene B. e soprattutto conosceva bene la destra, disse un giorno che “Berlusconi non ha idee: ha solo interessi”. Interessi giudiziari e finanziari, appunto, che poi sono le ragioni sociali della sua “discesa in campo” e della sua permanenza in politica. Ora che sta crollando tutto proprio per i processi a B. e ai suoi cari (non certo per l’opposizione inesistente del centrosinistra inesistente al B. politico inesistente), sarei curioso di conoscere l’illuminato parere di questo trust di cervelli che da sedici anni finge di non vedere il movente giudiziario, anzi antigiudiziario, della carriera politica di B. Purtroppo è una curiosità vana, perché lorsignori ora tacciono, per non dover ammettere di aver preso (e fatto prendere a un sacco di gente) una leggendaria cantonata. Fa eccezione Polito El Drito che, alla nomina di Brancher a ministro di Nonsisachè per sottrarlo al processo, è caduto dal pero e s’è domandato sul Riformatorio “dove ho sbagliato?”, confessando di “aver passato buona parte dell’età adulta a sostenere che il berlusconismo non è un fenomeno criminale ma politico” e “non va demonizzato”. Meglio tardi che mai.
Per il resto, è avvincente lo spettacolo di questi professionisti dell’abbaglio che continuano a spaccare il capello in quattro pur di non ammettere di non aver capito una mazza. In questi giorni sono scatenati nel chiedere, dopo quelle di Scajola e Brancher, le dimissioni di Verdini e – i più coraggiosi – di Dell’Utri (e solo dopo che le han chieste i terribili finiani). Come se, mondato da quelle presenze ingombranti, l’entourage di B. diventasse il coro dell’Antoniano. Come se, asportando qualche cucchiaino di sterco, la Cloaca delle Libertà diventasse un campo di gigli profumati.
Forza ragazzi, ancora uno sforzo. Provate a rispondere a qualche domandina semplice semplice. Chi stava nella P2 assieme a Carboni? Chi ha comprato la villa in Sardegna di Carboni? Chi era socio di Carboni nella mega-speculazione di Olbia2? Chi è stato gomito a gomito per 40 anni con Dell’Utri, appena giudicato mafioso dalla Corte d’Appello di Palermo? Per conto di chi pagava le tangenti Brancher? Per conto di chi Previti comprava giudici e sentenze a Roma? Chi ha imposto Verdini coordinatore del Pdl? Chi ha nominato sottosegretario Cosentino e chi l’ha difeso finora, nonostante il mandato di cattura per camorra, anzi proprio per questo? Qual è l’imputato eccellente milanese che aveva interesse alla nomina di un giudice amico della P3 a presidente della Corte d’Appello di Milano? Per conto di chi la P3 dei Carboni, Verdini e Dell’Utri tentava di pilotare la sentenza della Consulta sul lodo Al Fano e una causa fiscale della Mondadori? Chi è l’utilizzatore finale di minorenni che fu coperto da un altro membro della P3, quel Martino che l’estate scorsa giurò di aver assistito all’incontro fra il papi e il padre di Noemi davanti a Craxi all’hotel Raphael?
Vi do un aiutino, anzi due. Le risposte non riguardano mai vicende politiche, ma giudiziarie. E ricominciano tutte per B. e finiscono tutte in “oni”. E fanno tutte rima – parlando con pardon – con dimissioni.
Tempo fa un borghese Piccolo Piccolo che fu addirittura sceneggiatore del Caimano di Moretti ha severamente ammonito sull’Unità il popolo della sinistra a diffidare di chi non è di sinistra, in particolare del sottoscritto: io avrei l’“ossessione professionale dei processi, in particolare quelli di Berlusconi”, e per giunta oso talvolta “deriderlo” chiamandolo financo “Al Tappone” e impedisco così alla sinistra di combatterlo e sconfiggerlo “politicamente”. Alla larga, dunque. Se fosse un caso isolato, transeat. Ma sono sedici anni che plotoni di teste fini della sinistra raccomandano di lasciar perdere il Berlusconi imputato (“giustizialismo e antiberlusconismo fanno il gioco di Berlusconi”) per concentrarsi sul B. politico, magari “di destra”. Evidentemente sono convinti che esista un B. politico, e – le risate – che B. sia di destra.
Montanelli, che conosceva bene B. e soprattutto conosceva bene la destra, disse un giorno che “Berlusconi non ha idee: ha solo interessi”. Interessi giudiziari e finanziari, appunto, che poi sono le ragioni sociali della sua “discesa in campo” e della sua permanenza in politica. Ora che sta crollando tutto proprio per i processi a B. e ai suoi cari (non certo per l’opposizione inesistente del centrosinistra inesistente al B. politico inesistente), sarei curioso di conoscere l’illuminato parere di questo trust di cervelli che da sedici anni finge di non vedere il movente giudiziario, anzi antigiudiziario, della carriera politica di B. Purtroppo è una curiosità vana, perché lorsignori ora tacciono, per non dover ammettere di aver preso (e fatto prendere a un sacco di gente) una leggendaria cantonata. Fa eccezione Polito El Drito che, alla nomina di Brancher a ministro di Nonsisachè per sottrarlo al processo, è caduto dal pero e s’è domandato sul Riformatorio “dove ho sbagliato?”, confessando di “aver passato buona parte dell’età adulta a sostenere che il berlusconismo non è un fenomeno criminale ma politico” e “non va demonizzato”. Meglio tardi che mai.
Per il resto, è avvincente lo spettacolo di questi professionisti dell’abbaglio che continuano a spaccare il capello in quattro pur di non ammettere di non aver capito una mazza. In questi giorni sono scatenati nel chiedere, dopo quelle di Scajola e Brancher, le dimissioni di Verdini e – i più coraggiosi – di Dell’Utri (e solo dopo che le han chieste i terribili finiani). Come se, mondato da quelle presenze ingombranti, l’entourage di B. diventasse il coro dell’Antoniano. Come se, asportando qualche cucchiaino di sterco, la Cloaca delle Libertà diventasse un campo di gigli profumati.
Forza ragazzi, ancora uno sforzo. Provate a rispondere a qualche domandina semplice semplice. Chi stava nella P2 assieme a Carboni? Chi ha comprato la villa in Sardegna di Carboni? Chi era socio di Carboni nella mega-speculazione di Olbia2? Chi è stato gomito a gomito per 40 anni con Dell’Utri, appena giudicato mafioso dalla Corte d’Appello di Palermo? Per conto di chi pagava le tangenti Brancher? Per conto di chi Previti comprava giudici e sentenze a Roma? Chi ha imposto Verdini coordinatore del Pdl? Chi ha nominato sottosegretario Cosentino e chi l’ha difeso finora, nonostante il mandato di cattura per camorra, anzi proprio per questo? Qual è l’imputato eccellente milanese che aveva interesse alla nomina di un giudice amico della P3 a presidente della Corte d’Appello di Milano? Per conto di chi la P3 dei Carboni, Verdini e Dell’Utri tentava di pilotare la sentenza della Consulta sul lodo Al Fano e una causa fiscale della Mondadori? Chi è l’utilizzatore finale di minorenni che fu coperto da un altro membro della P3, quel Martino che l’estate scorsa giurò di aver assistito all’incontro fra il papi e il padre di Noemi davanti a Craxi all’hotel Raphael?
Vi do un aiutino, anzi due. Le risposte non riguardano mai vicende politiche, ma giudiziarie. E ricominciano tutte per B. e finiscono tutte in “oni”. E fanno tutte rima – parlando con pardon – con dimissioni.
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13.7.10
Le metastasi del Potere
di MASSIMO GIANNINI
"La magistratura è un cancro da estirpare", sostiene da mesi il presidente del Consiglio, nella furia iconoclasta che lo spinge ad abbattere i simboli e le istituzioni repubblicane. Finge di non vedere la doppia metastasi che gli sta crescendo attorno, e che sta lentamente ma inesorabilmente divorando il suo governo. C'è una metastasi giudiziaria, che ormai mina alle fondamenta il sistema di potere che lui stesso ha costruito negli anni.
L'iscrizione di Dell'Utri e Cosentino nel registro degli indagati, per associazione a delinquere e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, è per ora soltanto un'ipotesi investigativa. Ma è più che sufficiente a completare un quadro agghiacciante del rapporto tra politica e malaffare nell'epoca berlusconiana.
Le inchieste che si moltiplicano, da Milano a Roma, da Firenze a Napoli, da Perugia a Palermo, scoperchiano un verminaio che travolge a vario titolo gli uomini più "strategici" e più vicini al premier. Guido Bertolaso, ras della Protezione Civile, signore delle Emergenze e vicerè dei Grandi Eventi, finito nel tritacarne dell'inchiesta sul G8, che nel triangolo Balducci-Anemone-Fusi ha svelato un micidiale meccanismo di corruzione sistemica e di arricchimento personale. Claudio Scajola, feudatario ex democristiano e plenipotenziario del Nord-Ovest, dimesso da ministro per aver lucrato (a suo dire inconsapevolmente) un appartamento dalla stessa banda al lavoro tra La Maddalena e L'Aquila. Aldo Brancher, storico tenutario dei rapporti con la Lega, dimesso da ministro dopo aver tentato di approfittare della nomina per sottrarsi al processo che lo vede imputato per la vicenda Antonveneta-Bnl. Denis Verdini, potentissimo coordinatore del Pdl, invischiato in diversi filoni d'inchiesta: prima gli appalti del G8, adesso anche le cene organizzate con i compagni di merende per spartire gli affari, condizionare i giudici della Consulta chiamati a decidere sul lodo Alfano, fabbricare falsi dossier ai danni degli avversari dentro il Popolo delle Libertà. Nicola Cosentino, vicerè azzurro della Campania e accusato di concorso esterno in associazione camorristica, ora coinvolto anche nell'inchiesta sul killeraggio morale ai danni del presidente della Regione. Marcello dell'Utri, sovrano di Publitalia e delle Due Sicile, padre fondatore di Forza Italia e garante degli equilibri con Cosa Nostra (secondo la Corte d'Appello, sicuramente fino al 1993), a sua volta finito nell'inchiesta sull'eolico (insieme al governatore della Sardegna Ugo Cappellacci) in quanto ospite di casa Verdini per le cene con i magistrati alla Antonio Martone o i faccendieri alla Flavio Carboni.
Ci sarà tempo per verificare la fondatezza delle accuse formulate nei confronti dell'inner circle berlusconiano. Ma una cosa è già chiara, fin da ora. Quella che sta venendo fuori dal complesso panorama indiziario è molto più che una banalissima "cricca", che si riuniva per pagare qualche mazzetta e condividere qualche affaruccio di sotto-governo. Quello che si delinea è un vero e proprio "sistema di potere" a fini privatistici, che chiama in causa non qualche sparuta mela marcia, non qualche episodico mariuolo. Ma piuttosto, verrebbe da dire, "tutti gli uomini del presidente". E proprio per questo, quello che si delinea è un vero e proprio "metodo di governo" della cosa pubblica, nel quale politica e affari si mescolano nella violazione sistematica della legge e del mercato. Una fabbrica che genera illecito, attraverso la distribuzione di tangenti e lo scambio di favori. E che conserva potere, attraverso il controllo delle candidature a livello nazionale e locale e il pilotaggio delle nomine dei capi degli uffici giudiziari. Una fabbrica che produce fango, attraverso i dossier falsi (meglio se a sfondo sessuale) commissionati per distruggere avversari interni ed esterni, com'è capitato a suo tempo al direttore di "Avvenire" Dino Boffo, e come capita adesso al governatore della Campania Stefano Caldoro. E man mano che emergono nuovi, inquietanti spezzoni di queste inchieste, si capisce anche il perché Berlusconi abbia bisogno di un provvedimento come quello sulle intercettazioni, con il quale può anche cedere su alcuni punti che riguardano la procedibilità delle indagini, ma non su quelli che riguardano il diritto di cronaca. La legge-bavaglio serve esattamente a questo: non far conoscere agli italiani le malefatte di una "casta" che, come sostengono a ragione alcuni pm, somiglia sempre di più a un'associazione a delinquere.
Questa ragnatela di illegalità è sempre più diffusa, sempre più pervasiva. Non è incistata "nel" sistema. È "il" Sistema. E i suoi fili, con tutta evidenza, sono intrecciati in ciascuna delle varie indagini che le diverse procure stanno portando avanti. Il procuratore antimafia Pietro Grasso ha parlato di "favori tra reti criminali". Qualcuno ha evocato una nuova "Loggia P3", che agisce con pratiche non diverse, e altrettanto pericolose, della vecchia massoneria deviata di Licio Gelli. È una definizione convincente, al di là delle suggestioni giornalistiche. E comunque sufficiente a far pensare, a questo punto, che una "questione morale" esista davvero. E che interroghi direttamente il governo, e personalmente il presidente del Consiglio. Fino a quando può ignorare questa metastasi? Fino a quando può blindare e a difendere gli uomini che la incarnano? Fino a quando può illudersi che la cura sia l'ovvio passo indietro di un ministro impossibile come Brancher o quello di un modesto assessore regionale come Sica? Per questo la metastasi è ormai anche politica. Il Pdl è dilaniato da una faida violenta tra bande rivali. Il premier è accerchiato da ogni parte. Non solo Fini sulla giustizia e Tremonti sulla manovra. I Dell'Utri e i Cosentino, i Verdini e gli Scajola, gli si agitano intorno come spettri. Allegorie della sua ossessione giudiziaria, ma anche della sua concezione politica. In alto il Sovrano Assoluto, in basso il suo Popolo. In mezzo la sua Corte. Che ne mutua tutti i vizi, ne riproduce tutte le nefandezze. Così non può reggere. E non reggerà.
"La magistratura è un cancro da estirpare", sostiene da mesi il presidente del Consiglio, nella furia iconoclasta che lo spinge ad abbattere i simboli e le istituzioni repubblicane. Finge di non vedere la doppia metastasi che gli sta crescendo attorno, e che sta lentamente ma inesorabilmente divorando il suo governo. C'è una metastasi giudiziaria, che ormai mina alle fondamenta il sistema di potere che lui stesso ha costruito negli anni.
L'iscrizione di Dell'Utri e Cosentino nel registro degli indagati, per associazione a delinquere e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, è per ora soltanto un'ipotesi investigativa. Ma è più che sufficiente a completare un quadro agghiacciante del rapporto tra politica e malaffare nell'epoca berlusconiana.
Le inchieste che si moltiplicano, da Milano a Roma, da Firenze a Napoli, da Perugia a Palermo, scoperchiano un verminaio che travolge a vario titolo gli uomini più "strategici" e più vicini al premier. Guido Bertolaso, ras della Protezione Civile, signore delle Emergenze e vicerè dei Grandi Eventi, finito nel tritacarne dell'inchiesta sul G8, che nel triangolo Balducci-Anemone-Fusi ha svelato un micidiale meccanismo di corruzione sistemica e di arricchimento personale. Claudio Scajola, feudatario ex democristiano e plenipotenziario del Nord-Ovest, dimesso da ministro per aver lucrato (a suo dire inconsapevolmente) un appartamento dalla stessa banda al lavoro tra La Maddalena e L'Aquila. Aldo Brancher, storico tenutario dei rapporti con la Lega, dimesso da ministro dopo aver tentato di approfittare della nomina per sottrarsi al processo che lo vede imputato per la vicenda Antonveneta-Bnl. Denis Verdini, potentissimo coordinatore del Pdl, invischiato in diversi filoni d'inchiesta: prima gli appalti del G8, adesso anche le cene organizzate con i compagni di merende per spartire gli affari, condizionare i giudici della Consulta chiamati a decidere sul lodo Alfano, fabbricare falsi dossier ai danni degli avversari dentro il Popolo delle Libertà. Nicola Cosentino, vicerè azzurro della Campania e accusato di concorso esterno in associazione camorristica, ora coinvolto anche nell'inchiesta sul killeraggio morale ai danni del presidente della Regione. Marcello dell'Utri, sovrano di Publitalia e delle Due Sicile, padre fondatore di Forza Italia e garante degli equilibri con Cosa Nostra (secondo la Corte d'Appello, sicuramente fino al 1993), a sua volta finito nell'inchiesta sull'eolico (insieme al governatore della Sardegna Ugo Cappellacci) in quanto ospite di casa Verdini per le cene con i magistrati alla Antonio Martone o i faccendieri alla Flavio Carboni.
Ci sarà tempo per verificare la fondatezza delle accuse formulate nei confronti dell'inner circle berlusconiano. Ma una cosa è già chiara, fin da ora. Quella che sta venendo fuori dal complesso panorama indiziario è molto più che una banalissima "cricca", che si riuniva per pagare qualche mazzetta e condividere qualche affaruccio di sotto-governo. Quello che si delinea è un vero e proprio "sistema di potere" a fini privatistici, che chiama in causa non qualche sparuta mela marcia, non qualche episodico mariuolo. Ma piuttosto, verrebbe da dire, "tutti gli uomini del presidente". E proprio per questo, quello che si delinea è un vero e proprio "metodo di governo" della cosa pubblica, nel quale politica e affari si mescolano nella violazione sistematica della legge e del mercato. Una fabbrica che genera illecito, attraverso la distribuzione di tangenti e lo scambio di favori. E che conserva potere, attraverso il controllo delle candidature a livello nazionale e locale e il pilotaggio delle nomine dei capi degli uffici giudiziari. Una fabbrica che produce fango, attraverso i dossier falsi (meglio se a sfondo sessuale) commissionati per distruggere avversari interni ed esterni, com'è capitato a suo tempo al direttore di "Avvenire" Dino Boffo, e come capita adesso al governatore della Campania Stefano Caldoro. E man mano che emergono nuovi, inquietanti spezzoni di queste inchieste, si capisce anche il perché Berlusconi abbia bisogno di un provvedimento come quello sulle intercettazioni, con il quale può anche cedere su alcuni punti che riguardano la procedibilità delle indagini, ma non su quelli che riguardano il diritto di cronaca. La legge-bavaglio serve esattamente a questo: non far conoscere agli italiani le malefatte di una "casta" che, come sostengono a ragione alcuni pm, somiglia sempre di più a un'associazione a delinquere.
Questa ragnatela di illegalità è sempre più diffusa, sempre più pervasiva. Non è incistata "nel" sistema. È "il" Sistema. E i suoi fili, con tutta evidenza, sono intrecciati in ciascuna delle varie indagini che le diverse procure stanno portando avanti. Il procuratore antimafia Pietro Grasso ha parlato di "favori tra reti criminali". Qualcuno ha evocato una nuova "Loggia P3", che agisce con pratiche non diverse, e altrettanto pericolose, della vecchia massoneria deviata di Licio Gelli. È una definizione convincente, al di là delle suggestioni giornalistiche. E comunque sufficiente a far pensare, a questo punto, che una "questione morale" esista davvero. E che interroghi direttamente il governo, e personalmente il presidente del Consiglio. Fino a quando può ignorare questa metastasi? Fino a quando può blindare e a difendere gli uomini che la incarnano? Fino a quando può illudersi che la cura sia l'ovvio passo indietro di un ministro impossibile come Brancher o quello di un modesto assessore regionale come Sica? Per questo la metastasi è ormai anche politica. Il Pdl è dilaniato da una faida violenta tra bande rivali. Il premier è accerchiato da ogni parte. Non solo Fini sulla giustizia e Tremonti sulla manovra. I Dell'Utri e i Cosentino, i Verdini e gli Scajola, gli si agitano intorno come spettri. Allegorie della sua ossessione giudiziaria, ma anche della sua concezione politica. In alto il Sovrano Assoluto, in basso il suo Popolo. In mezzo la sua Corte. Che ne mutua tutti i vizi, ne riproduce tutte le nefandezze. Così non può reggere. E non reggerà.
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Quei commenti da Bar Sport
Aldo Grasso
Alla Rai sono da tempo abituati a suonarsela e a contarsela da soli; eppure, questa volta, sarà difficile negare il mezzo disastro della spedizione dei Mondiali in Sudafrica. Con tutta quella gente in allegra trasferta, alla faccia della crisi! Stiamo parlando di telecronache, commenti, notti «mondiali», non di ascolti: roba da filodrammatica, non degna di un Servizio pubblico.
Stiamo parlando dei commenti di Salvatore Bagni, uno che sa tutto di calcio ma che è completamente privo di autorevolezza: le sue osservazioni sono quelle tipiche che si sentono in un qualsiasi Bar Sport della riviera romagnola, le sue contraddizioni si manifestano più veloci di una ripartenza, e certe sue espressioni appaiono degne del rosso diretto (un conto è dire «forza d’inerzia», un conto è dire «finerzia », cioè inattività, passività, tutto il contrario di quello che sta succedendo in campo: «l’inerzia del gioco è ora passata a favore della Spagna »).
Non che i commenti di Fulvio Collovati o Beppe Dossena (l’unico ex torinista con l’aria antipatica) fossero migliori, anzi (domanda interessante: chi l’ha scelti e con quali criteri?). Speriamo solo che i criteri con cui è stata decisa la spedizione sudafricana non siano i soliti vigenti in Rai, cioè politici: però qualcuno dovrebbe dirci cosa ci facevano a Johannesburg Ubaldo Righetti, Carlo Longhi, Daniele Tombolini, Sandro Mazzola, Serse Cosmi e gli irreparabili Marino Bartoletti e Ivan Zazzaroni.
Le liti quotidiane fra Tombolini e Collovati restano fra le cose più stomachevoli che la Rai ha saputo regalarci. Stiamo parlando, ovviamente, anche del triste teatrino inscenato ogni sera a piazza di Siena tra Bisteccone Galeazzi e Maurizio Costanzo. Solo il rispetto per l’età ci impedisce di infierire e accodarci allo stuolo dei maramaldi. Però ci piace sottolineare che in Svizzera hanno trasmesso tutto le partite del Mondiale commentandole sobriamente da studio.
Alla Rai sono da tempo abituati a suonarsela e a contarsela da soli; eppure, questa volta, sarà difficile negare il mezzo disastro della spedizione dei Mondiali in Sudafrica. Con tutta quella gente in allegra trasferta, alla faccia della crisi! Stiamo parlando di telecronache, commenti, notti «mondiali», non di ascolti: roba da filodrammatica, non degna di un Servizio pubblico.
Stiamo parlando dei commenti di Salvatore Bagni, uno che sa tutto di calcio ma che è completamente privo di autorevolezza: le sue osservazioni sono quelle tipiche che si sentono in un qualsiasi Bar Sport della riviera romagnola, le sue contraddizioni si manifestano più veloci di una ripartenza, e certe sue espressioni appaiono degne del rosso diretto (un conto è dire «forza d’inerzia», un conto è dire «finerzia », cioè inattività, passività, tutto il contrario di quello che sta succedendo in campo: «l’inerzia del gioco è ora passata a favore della Spagna »).
Non che i commenti di Fulvio Collovati o Beppe Dossena (l’unico ex torinista con l’aria antipatica) fossero migliori, anzi (domanda interessante: chi l’ha scelti e con quali criteri?). Speriamo solo che i criteri con cui è stata decisa la spedizione sudafricana non siano i soliti vigenti in Rai, cioè politici: però qualcuno dovrebbe dirci cosa ci facevano a Johannesburg Ubaldo Righetti, Carlo Longhi, Daniele Tombolini, Sandro Mazzola, Serse Cosmi e gli irreparabili Marino Bartoletti e Ivan Zazzaroni.
Le liti quotidiane fra Tombolini e Collovati restano fra le cose più stomachevoli che la Rai ha saputo regalarci. Stiamo parlando, ovviamente, anche del triste teatrino inscenato ogni sera a piazza di Siena tra Bisteccone Galeazzi e Maurizio Costanzo. Solo il rispetto per l’età ci impedisce di infierire e accodarci allo stuolo dei maramaldi. Però ci piace sottolineare che in Svizzera hanno trasmesso tutto le partite del Mondiale commentandole sobriamente da studio.
11.7.10
La Francia contro i suoi re
Nei film più neri di Claude Chabrol, sono personaggi di infima origine - una governante analfabeta, una postina, una spogliarellista, un maestro alla deriva - a scombussolare d’un tratto i finti equilibri dell’alta borghesia precipitandola nell’orrore o nella morte. Nel Buio nella mente, la governante analfabeta Sophie governa perfettamente la villa, ma l’umiliazione l’ha come prosciugata e i suoi sogni li sfama trangugiando cioccolata e Tv. I tenutari della villa sono serviti con la massima meticolosità fino al momento in cui ogni cosa barcolla e si rovescia: il padrone frana nella soggezione; il servo insorge e si fa padrone dell’universo. L’ignorante-analfabeta ha come un occhio in più; il colto e ricco borghese si scopre cieco. Non ha visto che la storia, quando i rapporti di potere s’immiseriscono, sono i domestici a farla.
È quello che sta succedendo in Francia, con lo scandalo Bettencourt. Un maggiordomo trattato senza rispetto registra in segreto le conversazioni private della padrona, e porta alla luce storie abiette di corruzione politica e di evasione fiscale. Una contabile-governante, anch’essa maltrattata e licenziata, decide di rivelare alla polizia e ai giornalisti le bustarelle molto voluminose che Liliane Bettencourt, multimiliardaria ereditiera dell’Oréal, distribuiva a deputati e ministri. La repubblica monarchica trema, i clandestini intrecci tra politica e affari vengono smascherati. Lasciando la magione a Neuilly-sur-Seine, il maggiordomo Pascal riferisce di «un’atmosfera divenuta malsana».
Claire, la contabile, racconta l’arroganza dell’amante di Liliane, François-Marie Banier, e del suo manager finanziario Patrice de Maistre. Come in un classico film noir, i reietti riscrivono la trama.
Un’alta borghesia che si arrocca e si squilibra, uno Stato che domina a tal punto l’economia da servirsene senza scrupolo, un’osmosi tra servizio del pubblico e servizio del privato che caratterizza le élite (il passaggio assicurato da un ambito all’altro si chiama pantouflage), la rivolta infine della gente comune, delle petites gens: sono tutti elementi di una storia molto francese, costellata di ricchezze spudoratamente dissimulate e di conseguenti regicidi. Ma tante sono le somiglianze con quello che accade altrove, in Italia o in Grecia, e ovunque si assiste allo stesso spettacolo: una crisi economica che rende improvvisamente intollerabili la disuguaglianza di ricchezze e quella di fronte alla legge, una classe dirigente che difende i privilegi acquisiti reclamando l’impunità, una stampa e una magistratura che diventano essenziali garanti delle uguaglianze da restaurare e del diritto di sapere. Gérard Davet, su Le Monde, scrive che per i piccoli, gli emarginati, il giornalista è qualcuno che «parla in loro nome».
Yves Mény, che per sette anni è stato presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze e ha scritto libri fondamentali sulla corruzione e il populismo, scorge in quel che sta avvenendo un tratto particolarmente latino, oltre che francese. Tipicamente francese è il cumulo dei mandati: il parlamentare che mantiene un mandato locale è una pratica corrente. Tipicamente francese è anche la vicenda del ministro del Lavoro Eric Woerth: tesoriere del partito quando era ministro del Bilancio e ancor oggi, è sospettato di aver coperto l’evasione fiscale di Liliane Bettencourt e di aver ottenuto dalla padrona dell’Oréal somme illegali per il candidato presidenziale Sarkozy nel 2007. Ma la lunga permanenza in Italia spinge Mény a andare più a fondo, a vedere una più vasta e ramificata cultura dell’illegalità nell’Europa latina, fatta di criminosi conflitti d’interesse, di classi politiche incapaci di correggersi, di scarse difese immunitarie.
Nei paesi anglosassoni la separazione tra politica e affari è forse ancor meno netta, ma proprio per questo si escogitano antidoti che non si trovano in paesi come la Francia o l’Italia. È significativo, ad esempio, che non esista in francese (e nemmeno in italiano) il termine accountability: la cultura del render conto, dunque della legalità, che deve animare chi dirige il paese e senza la quale è impossibile si instauri fiducia fra cittadini e Stato, fra piccoli e grandi, fra meno abbienti e grandi fortune. Mény ricorda il ruolo essenziale che nelle democrazie funzionanti svolgono i due poteri di controllo e vigilanza che sono la stampa e la magistratura, l’opinione pubblica non disinformata e il rispetto non selettivo della legge. Le sentinelle che aiutano a sorvegliare sono chiamate nei paesi anglosassoni i whistleblower, letteralmente coloro che, dall’interno di un’azienda o una struttura di potere, suonano l’allarme in caso di trasgressioni ai vertici. La funzione ha precisi statuti e garanzie in America del Nord.
In tempi di crisi democratica grave la funzione del whistleblower fa riferimento all’opinione pubblica, attraverso i giornali che l’informano e la educano se possibile alla vigilanza. È il motivo per cui è contro la stampa indipendente che si scatena il risentimento di classi politiche o imprenditoriali assetate di impunità e esenzioni: perché il potere che essa impersona, se esercitato con spirito di indipendenza, è del tutto diverso dal potere dei governi, dei politici, dei partiti. Nel mirino del potere politico francese, in queste settimane, è un giornale online, Mediapart, diretto da un giornalista di investigazione che per anni ha lavorato a Le Monde, Edwy Plenel. Plenel già indispose enormemente Mitterrand, a metà degli Anni 80. Per aver indagato sul ruolo del Presidente socialista nello scandalo di Greenpeace (una nave dell’organizzazione diretta a Mururoa venne affondata con la dinamite dai servizi segreti francesi, nel 1985, causando la morte di un fotografo portoghese). Ora il suo giornale online è accusato di fascismo, di populismo, di speculare sulla crisi della democrazia, addirittura di affossarla.
Quel che colpisce è il timore reverenziale che molti illuminati hanno verso le pratiche occulte e la corruzione di una parte del potere francese. Anche qui, come in Italia, virtuoso è chi chiude possibilmente tutti e due gli occhi, chi invoca toni bassi e silenzio, chi preserva equilibri considerati troppo fragili per essere scossi, chi se la prende più con le sentinelle che suonano l’allarme che con i trasgressori. Centristi classici come Michel Rocard a sinistra e Simone Weil a destra hanno scritto un editoriale indignato su Le Monde, il 4 luglio, prendendosela con la stampa che denigra, denuncia, minaccia addirittura la repubblica asservendola e umiliandola. Analisi fini e approfondite le fanno alcuni isolati e la magistratura: è stato il tribunale di Parigi, l’1 luglio, a difendere la pubblicazione su Mediapart delle registrazioni del maggiordomo, statuendo che esistono casi «di interesse pubblico che mettono in primo piano il diritto all’informazione, e in secondo piano il diritto alla privacy».
Yves Mény sostiene che marasmi simili sono possibili perché nell’Europa latina è la cultura cattolica a dominare. La cultura cattolica assolve, stabilisce regole severe, ma non mette in moto né sconvolge la coscienza. Il politico o l’amministratore non possiedono un proprio intimo codice etico: solo il codice penale può fermarli, se la magistratura ha la necessaria indipendenza, e questo diminuisce drasticamente le difese immunitarie dalla malattia della corruzione. Solo verso l’elettore il politico si sente responsabile, ed è il suffragio universale a decidere della buona o cattiva reputazione del leader. È così che l’atmosfera nei palazzi di Francia diventa malsana, indignando i reietti di Chabrol e spingendo cittadini, giornalisti, magistrati a «fare Stato» al posto di chi lo sgoverna.
È quello che sta succedendo in Francia, con lo scandalo Bettencourt. Un maggiordomo trattato senza rispetto registra in segreto le conversazioni private della padrona, e porta alla luce storie abiette di corruzione politica e di evasione fiscale. Una contabile-governante, anch’essa maltrattata e licenziata, decide di rivelare alla polizia e ai giornalisti le bustarelle molto voluminose che Liliane Bettencourt, multimiliardaria ereditiera dell’Oréal, distribuiva a deputati e ministri. La repubblica monarchica trema, i clandestini intrecci tra politica e affari vengono smascherati. Lasciando la magione a Neuilly-sur-Seine, il maggiordomo Pascal riferisce di «un’atmosfera divenuta malsana».
Claire, la contabile, racconta l’arroganza dell’amante di Liliane, François-Marie Banier, e del suo manager finanziario Patrice de Maistre. Come in un classico film noir, i reietti riscrivono la trama.
Un’alta borghesia che si arrocca e si squilibra, uno Stato che domina a tal punto l’economia da servirsene senza scrupolo, un’osmosi tra servizio del pubblico e servizio del privato che caratterizza le élite (il passaggio assicurato da un ambito all’altro si chiama pantouflage), la rivolta infine della gente comune, delle petites gens: sono tutti elementi di una storia molto francese, costellata di ricchezze spudoratamente dissimulate e di conseguenti regicidi. Ma tante sono le somiglianze con quello che accade altrove, in Italia o in Grecia, e ovunque si assiste allo stesso spettacolo: una crisi economica che rende improvvisamente intollerabili la disuguaglianza di ricchezze e quella di fronte alla legge, una classe dirigente che difende i privilegi acquisiti reclamando l’impunità, una stampa e una magistratura che diventano essenziali garanti delle uguaglianze da restaurare e del diritto di sapere. Gérard Davet, su Le Monde, scrive che per i piccoli, gli emarginati, il giornalista è qualcuno che «parla in loro nome».
Yves Mény, che per sette anni è stato presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze e ha scritto libri fondamentali sulla corruzione e il populismo, scorge in quel che sta avvenendo un tratto particolarmente latino, oltre che francese. Tipicamente francese è il cumulo dei mandati: il parlamentare che mantiene un mandato locale è una pratica corrente. Tipicamente francese è anche la vicenda del ministro del Lavoro Eric Woerth: tesoriere del partito quando era ministro del Bilancio e ancor oggi, è sospettato di aver coperto l’evasione fiscale di Liliane Bettencourt e di aver ottenuto dalla padrona dell’Oréal somme illegali per il candidato presidenziale Sarkozy nel 2007. Ma la lunga permanenza in Italia spinge Mény a andare più a fondo, a vedere una più vasta e ramificata cultura dell’illegalità nell’Europa latina, fatta di criminosi conflitti d’interesse, di classi politiche incapaci di correggersi, di scarse difese immunitarie.
Nei paesi anglosassoni la separazione tra politica e affari è forse ancor meno netta, ma proprio per questo si escogitano antidoti che non si trovano in paesi come la Francia o l’Italia. È significativo, ad esempio, che non esista in francese (e nemmeno in italiano) il termine accountability: la cultura del render conto, dunque della legalità, che deve animare chi dirige il paese e senza la quale è impossibile si instauri fiducia fra cittadini e Stato, fra piccoli e grandi, fra meno abbienti e grandi fortune. Mény ricorda il ruolo essenziale che nelle democrazie funzionanti svolgono i due poteri di controllo e vigilanza che sono la stampa e la magistratura, l’opinione pubblica non disinformata e il rispetto non selettivo della legge. Le sentinelle che aiutano a sorvegliare sono chiamate nei paesi anglosassoni i whistleblower, letteralmente coloro che, dall’interno di un’azienda o una struttura di potere, suonano l’allarme in caso di trasgressioni ai vertici. La funzione ha precisi statuti e garanzie in America del Nord.
In tempi di crisi democratica grave la funzione del whistleblower fa riferimento all’opinione pubblica, attraverso i giornali che l’informano e la educano se possibile alla vigilanza. È il motivo per cui è contro la stampa indipendente che si scatena il risentimento di classi politiche o imprenditoriali assetate di impunità e esenzioni: perché il potere che essa impersona, se esercitato con spirito di indipendenza, è del tutto diverso dal potere dei governi, dei politici, dei partiti. Nel mirino del potere politico francese, in queste settimane, è un giornale online, Mediapart, diretto da un giornalista di investigazione che per anni ha lavorato a Le Monde, Edwy Plenel. Plenel già indispose enormemente Mitterrand, a metà degli Anni 80. Per aver indagato sul ruolo del Presidente socialista nello scandalo di Greenpeace (una nave dell’organizzazione diretta a Mururoa venne affondata con la dinamite dai servizi segreti francesi, nel 1985, causando la morte di un fotografo portoghese). Ora il suo giornale online è accusato di fascismo, di populismo, di speculare sulla crisi della democrazia, addirittura di affossarla.
Quel che colpisce è il timore reverenziale che molti illuminati hanno verso le pratiche occulte e la corruzione di una parte del potere francese. Anche qui, come in Italia, virtuoso è chi chiude possibilmente tutti e due gli occhi, chi invoca toni bassi e silenzio, chi preserva equilibri considerati troppo fragili per essere scossi, chi se la prende più con le sentinelle che suonano l’allarme che con i trasgressori. Centristi classici come Michel Rocard a sinistra e Simone Weil a destra hanno scritto un editoriale indignato su Le Monde, il 4 luglio, prendendosela con la stampa che denigra, denuncia, minaccia addirittura la repubblica asservendola e umiliandola. Analisi fini e approfondite le fanno alcuni isolati e la magistratura: è stato il tribunale di Parigi, l’1 luglio, a difendere la pubblicazione su Mediapart delle registrazioni del maggiordomo, statuendo che esistono casi «di interesse pubblico che mettono in primo piano il diritto all’informazione, e in secondo piano il diritto alla privacy».
Yves Mény sostiene che marasmi simili sono possibili perché nell’Europa latina è la cultura cattolica a dominare. La cultura cattolica assolve, stabilisce regole severe, ma non mette in moto né sconvolge la coscienza. Il politico o l’amministratore non possiedono un proprio intimo codice etico: solo il codice penale può fermarli, se la magistratura ha la necessaria indipendenza, e questo diminuisce drasticamente le difese immunitarie dalla malattia della corruzione. Solo verso l’elettore il politico si sente responsabile, ed è il suffragio universale a decidere della buona o cattiva reputazione del leader. È così che l’atmosfera nei palazzi di Francia diventa malsana, indignando i reietti di Chabrol e spingendo cittadini, giornalisti, magistrati a «fare Stato» al posto di chi lo sgoverna.
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9.7.10
Non è un paese per Internet. In cinque anni dieci leggi contro la Rete
Proposte che puntano ad equiparare i blog ai giornali. Il decreto che ha strozzato la diffusione delle connessioni nel nostro paese. Il disegno di legge che voleva punire con 12 anni di carcere a chi “incita alla violenza” su Internet. Non ultima, la proposta (ancora sul piatto) di una multa fino a 12mila euro per i blog che non pubblicano rettifiche così come sono obbligate a fare le testate giornalistiche.
Sono in tutto dieci, e in soli cinque anni, le leggi e proposte di legge italiane contro Internet. Per ora (quasi) nessuna di questa è passata, ma un’attività tanto intensa è simbolo di una volontà politica chiara: la rete, strumento del futuro, è luogo sconosciuto alla classe politica; Internet, in quanto spazio di libertà, è temuto da i governi di ogni colore.
Nel giorno della protesta italiana contro il bavaglio, su ilfattoquotidiano.it abbiamo deciso di ripercorrere tutte le leggi e proposte di legge italiane che in questi anni hanno messo nel mirino Internet.
1) DECRETO PISANU (luglio 2005)
Nel Decreto Pisanu è contenuta la prima norma anti-Internet, quella che finora ha avuto gli effetti più duraturi e catastrofici. All’indomani degli attentati nella metropolitana di Londra del luglio 2005, il governo Berlusconi appena sconfitto alle regionali approvò un pacchetto anti-terrorismo che portava la firma dell’allora ministro dell’interno Beppe Pisanu. Il decreto, oltre a misure contro le libertà personali il linea “per la lotta al terrorismo”, introdusse anche una norma sulle “comunicazioni digitali” unica nei paesi democratici.
La Pisanu dispone che ogni comunicazione online deve essere tracciabile al fine di scovare eventuali terroristi. A cinque anni di distanza nessun Bin Laden è stato arrestato ma intanto nelle strade delle nostre città, non sono disponibili connessioni, sia pubbliche che private, liberamente accessibili.
Facciamo un esempio. In quasi tutti i bar d’Europa e d’America, così come nei parchi pubblici, nelle stazioni e negli areoporti, è pressocchè sempre disponibile una connessione a Internet offerta dai gestori degli esercizi, da aziende private o da enti pubblici. In Italia, invece, se prendiamo un treno, aspettiamo in areoporto, ci sediamo su una panchina in piazza, troviamo solo reti protette. Se andiamo fare colazione in un qualsiasi bar, non solo non troviamo alcuna rete alle quali collegarci, ma neanche un computer scalcinato dove controllare la posta elettronica. Il nostro barista, infatti, per farci navigare, dovrebbe:
a) Chiedere un’autorizzazione alla questura;
b) Chiedere ad ogni cliente che vuole accedere a Internet un documento di identità e registrarne i dati anagrafici;
c) Acquistare ed aggiornare un software complesso e costoso che registria ogni operazione su Internet dei clienti;
d) Conservare per due anni un archivio con i dati delle navigazioni avvenute sui computer.
Ogni navigazione, appunto, deve essere tracciabile. Perciò molti operatori commerciali o pubblici, grandi e piccoli, in questi anni hanno preferito non offrire un servizio di Wi-Fi gratuito piuttosto che rimanere sciacciati dalla burocrazia e da costi aggiuntivi. Paradossalmente qualche progetto pubblico è riuscito ad eludere questa norma, come ha fatto la provincia di Roma che per i collegamenti a “Roma Wireless” permette di navigare associando il proprio indirizzo Ip temporaneo alla Sim del cellulare (alla quale a sua volta è associato il nostro documento di identità).
Il risultato del Decreto Pisanu è sotto gli occhi di tutti: in Italia ci sono pochissime connessioni Wi-Fi e i cittadini che hanno bisogno di Internet per strada possono solo contare sui loro eventuali smart-phone (a pagamento). Non a caso il presidente Agcom Corrado Calabrò ha dichiarato solo qualche giorno fa che la rete dati “mobile” è prossima al collasso.
Il Decreto, che doveva rimanere in vigore solo un anno (e che successivamente è stato disconosciuto dallo stesso Pisanu) è arrivato fino a noi con proroghe annuali (nei cosiddetti “decreti milleproroghe”) e questo senza alcun dibattito pubblico riguardo la sua utilità e nonostante numerose campagne per la sua abolizione da parte della blogsfera.
2) LEGGE FRANCO-LEVI (ottobre 2007)
Il primo disegno di legge contro i blog e siti Internet arriva invece con il governo Prodi nell’ottobre 2007 per mano dell’allora sottosegretario alla presidenza del consiglio Ricardo Franco-Levi. L’obiettivo è lo stesso che si dimostrerà essere una vera e propria ossessione per la classe politica: equiparare blog e siti Internet a testate giornalistiche. La Franco-Levi in particolare punta a ridefinire le caratteristiche di “mezzo di informazione”, “prodotto editoriale” e “attività editoriale”. Con la legge “prodotto editoriale” diventerebbe “qualsiasi prodotto contraddistinto da finalità di informazione, di formazione, di divulgazione, di intrattenimento, che sia destinato alla pubblicazione, quali che siail mezzo con il quale esso viene diffuso”. Con questa ampia definizione siti di news, pagine Facebook, blog, forum, social network sarebbero ricaduti nella tipologia di “prodotto editoriale”. E tutti avrebbero dovuto iscriversi ad un apposito registro di “operatori della comunicazione”, nominare un direttore di testata e adempiere agli obblighi di legge.
La proposta osteggiata dalla websfera e da alcuni esponenti politici (tra questi qualcuno che precedentemente l’aveva firmata) venne sbeffeggiata anche dalla stampa estera: nel Regno Unito The Times parlò di “Un assalto geriatrico ai blogger italiani”. Viste le polemiche, la legge venne poi accantonata.
3) COMMA PECORELLA (settembre 2009)
Anche Gaetano Pecorella, negli anni settanta militante di Potere Operaio e poi diventato legale di Silvio Berlusconi, ha dato il suo contributo alla legislazione anti-Internet. Nel settembre 2009 Pecorella presentò alla commissione giustizia della Camera un comma all’articolo 1 della legge sulla stampa risalente al 1948. Così come la Franco-Levi obiettivo dell’uomo di fiducia di Berlusconi era applicare l’intera disciplina sulla stampa anche “ai siti Internet aventi natura editoriale”. La proposta non è mai giunta al dibattito parlamentare.
4) LEGGE BARBARESCHI (gennaio 2009)
Luca Barbareschi, il deputato-attore-produttore (scoperto a copiare nella sua trasmissione su La7 le battute di Spinoza.it senza citare la fonte) è paradossalmente autore di una legge per la ferrea tutela del diritto d’autore su Internet. “Disposizioni concernenti la diffusione telematica delle opere dell’ingegno” questo il titolo della sua proposta. L’obiettivo era quello di portare anche in Italia la dottrina Sarkozy che punta a coinvolgere i provider (che per la direttiva europea sul commercio elettronico sono tenuti alla neutralità) nella repressione delle pirateria online. Nella visione del deputato Pdl, la Siae dovrebbe avere un ruolo primario nell’indicare ai fornitori di servizi quali contenuti oscurare o rendere inaccessibili. La legge per ora non ha avuto fortuna.
5) EMENDAMENTO D’ALIA (febbraio 2009)
Giampiero D’Alia, senatore da Messina pressoché sconosciuto alle cronache politiche, è invece noto per il famigerato emendamento al Pacchetto Sicurezza che porta il suo nome. L’emendamento intendeva conseguire la “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”. Il progetto di D’Alia era quello di affidare al ministero dell’Interno (e non alla magistratura) il compito di valutare ipotesi di “apologia di reato” o “istigazione a delinquere” commesse via Internet dando facoltà allo stesso ministro di chiudere d’imperio siti web ritenuti pericolosi. Il tema naturalmente risultatava molto scivoloso e si prestava facilmente ad abusi. IlFattoQuotidiano.it, per esempio, ha annunciato “disobbedienza civile” se dovesse passare la Legge Bavaglio. Con l’emendamento D’Alia il Ministero dell’Interno avrebbe potuto chiudere il nostro sito con una semplice comunicazione. Dopo un’ennesima alzata di scudi della Rete e di una parte della politica, l’emendamento D’Alia venne abrogato da un contro-emendamento del senatore del Pdl Roberto Cassinelli.
6) LEGGE CARLUCCI (febbraio 2009)
Anche l’onorevole Gabriella Carlucci, passata dalla conduzione di Portobello agli scranni di Forza Italia, ha voluto presentare la sua proposta contro la rete. L’ex show-girl intendeva trasformare Internet in un “territorio della libertà dei diritti e dei doveri”. E per fare questo aveva approntato delle norme con le quali si intendeva abolire “l’anonimato su Internet”, imporre ancora una volta “tutte le norme relative alla Stampa” alla Rete, e introdurre forme di responsabilità dei fornitori dei contenuti pubblicati dagli utenti. La legge è ancora oggi a prendere polvere in parlamento.
7) PROPOSTA LAURO (gennaio 2010)
Dopo l’aggressione dello psicolabile Massimo Tartaglia a Silvio Berlusconi in Piazza Duomo dello scorso dicembre, la politica italiana si scatenò in una vera e propria campagna di odio nei confronti di Internet. Il presidente del Senato Renato Schifani dichiarò: “Facebook è più pericoloso dei gruppi degli anni settanta” e le televisioni del premier si scatenarono: “Bisogna chiudere questi siti come Facebook” urlò Barbara D’Urso nella sua trasmissione del pomeriggio. Un campagna d’odio forse non casuale: proprio una settimana prima dell’aggressione, a Roma si era svolto il partecipatissimo No Berlusconi Day nato proprio su Facebook.
In quei giorni il senatore Pdl Raffaele Lauro prese la palla al balzo: insieme ad altri colleghi presentò una proposta di legge che aveva l’obiettivo di rivedere il codice penale e “portare da 3 a 12” gli anni di carcere “per chi avvalendosi di mezzi di comunicazione telematica incita a delinquere”. Passata l’emozione del momento, la proposta è ora in sonno alla commissione Giustizia del Senato
DECRETO ROMANI (gennaio 2010)
Anche contro le web-tv e i video-blog si è provato a mettere i bastoni tra le ruote. Il decreto Romani, ha denunciato l’opposizione, doveva solo recepire una direttiva europea me “è stato trasformato dal governo in una riforma radicale della nostra normativa sui media” e senza alcun passaggio parlamentare. Il Romani, in una prima versione, tendeva ad equiparare tutti i siti che trasmettono contenuti video a dei canali televisivi, penalizzando così anche le dirette streaming. Dopo l’ennesima mobilitazione (60 blogger si ritrovarono scalzi davanti all’ambasciata americana a Roma gridando: “Obama, salva Internet in Italia”), il decreto è stato modificato: sono stati esclusi da tali obblighi: “siti Internet tradizionali come i blog, i motori di ricerca, versioni elettroniche di quotidiani e riviste, giochi online” e comunque tutti i servizi che “non risultano in concorrenza con la radiodiffusione televisiva”. Nonostante ciò, secondo alcuni blogger, per questioni di carattere interpretativo il decreto potrebbe causare dei problemi a chi fa informazione video su Internet.
9) CODICE MARONI (dicembre 2009 – in corso)
Oltre alla già citata proposta Lauro, la vicenda di piazza Duomo ha lasciato un’altra scia velenosa. All’indomani dell’aggressione di Tartaglia, il ministro Maroni (lo stesso ministro “pirata” che si era conquistato le simpatia della rete perché ha più volte ammesso di “scaricare musica da Internet”) si dichiarò pronto a varare un decreto governativo per fermare la violenza sul web. Obiettivo dell’esecutivo sembrava lo stesso del vecchio emendamento D’Alia: dare al governo il potere di chiudere siti Internet ritenuti “pericoli” o “incitanti all’odio”. Dopo l’ennesima levata di scudi del mondo della rete e di buona parte dell’opposizione, Maroni ha poi virato verso un “codice di auto-regolamentazione” da far sottoscrivere ai provider e fornitori dei servizi. Questi dovrebbero impegnarsi in prima persona a minacciare via mail gli utenti avvertendoli eventualmente che un contenuto da loro pubblicato potrebbe risultare “malevolo” o “inopportuno” (in base a quanto stabilito dal codice stesso). Gli utenti sarebbero quindi invitati a provvedere alla rimozione, altrimenti il contenuto potrebbe essere rimosso dal provider o segnalato alle autorità competenti. Dopo la denuncia del Fatto Quotidiano, il codice sembra per ora messo da parte, anche perché provider e fornitori di servizi rivendicano la loro “neutralità” sui contenuti che attraversano le loro infrastrutture.
10) BAVAGLIO-ALFANO (2008 – in corso)
La legge sulle Intercettazioni in approvazione alla Camera sulla quale tanto si è speso Silvio Berlusconi, contiene anche una misura anti-blog. Certo, la legge di per sé è un “bavaglio alla stampa” e, tanto più oggi, oggetto di un’ampia mobilitazione della società civile, del mondo dell’informazione, dei cittadini. Ma il famigerato “comma 29” della legge sulle intercettazioni si occupa anche di “siti informatici”. Facendo riferimento ad una casistica amplissima (“siti informatici” appunto) la legge impone che “le dichiarazioni o le rettifiche” così come avviene sui giornali “vengano pubblicate entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”. Pena, una multa che può arrivare a 12mial euro. Qualsiasi pagina web, dovrebbe insomma sottostare all’obbligo di rettifica. Secondo molti, la norma non tiene conto della natura “amatoriale” della quasi totalità dei siti, e impone una misura che rischia di soffocare la rete nelle maglie di un imposizione alla quale possono adempiere solo imprese editoriali.
Queste sono le dieci proposte nate in questi anni per ridurre la libertà della rete. Se (quasi) nessuna per ora è passata, lo si deve alle mobilitazioni puntualmente messe in atto da cittadini, giornali e blogger, compresi coloro che negli anni hanno denunciato ogni pericolo e stortura: tra i tanti, l’avvocato Guido Scorza così come i blogger Claudio Messora, Massimo Mantellini, Stefano Quintarelli, Sergio Maistriello. Importante anche l’azione di informazione e coinvolgimento su questi argomenti del blog di Beppe Grillo e di testate online come Punto Informatico. Anche alcuni politici si sono fatti sentire: Antonio Di Pietro e altri parlamentari dell’Italia dei valori, il senatore Vincenzo Vita del Partito Democratico e, con i suoi distinguo, l’onorevole Roberto Cassinelli del Popolo delle libertà, si sono sempre spesi a tutela e a difesa della rete.
Sarebbe ormai il caso che la crescita e la salvaguardia della rete Internet venissero prese in carico da settori sempre più ampi della politica e dell’opinione pubblica. Forse non è follia sperare che un giorno non troppo lontano il parlamento italiano possa approvare una legge pro-Internet che rafforzi l’infrastruttura nella direzione della banda larga, tuteli la libertà degli utenti, dia possibilità di collegarsi ovunque e, come già successo in Islanda e Finlandia, dichiari Internet un diritto fondamentale dell’individuo.
Sono in tutto dieci, e in soli cinque anni, le leggi e proposte di legge italiane contro Internet. Per ora (quasi) nessuna di questa è passata, ma un’attività tanto intensa è simbolo di una volontà politica chiara: la rete, strumento del futuro, è luogo sconosciuto alla classe politica; Internet, in quanto spazio di libertà, è temuto da i governi di ogni colore.
Nel giorno della protesta italiana contro il bavaglio, su ilfattoquotidiano.it abbiamo deciso di ripercorrere tutte le leggi e proposte di legge italiane che in questi anni hanno messo nel mirino Internet.
1) DECRETO PISANU (luglio 2005)
Nel Decreto Pisanu è contenuta la prima norma anti-Internet, quella che finora ha avuto gli effetti più duraturi e catastrofici. All’indomani degli attentati nella metropolitana di Londra del luglio 2005, il governo Berlusconi appena sconfitto alle regionali approvò un pacchetto anti-terrorismo che portava la firma dell’allora ministro dell’interno Beppe Pisanu. Il decreto, oltre a misure contro le libertà personali il linea “per la lotta al terrorismo”, introdusse anche una norma sulle “comunicazioni digitali” unica nei paesi democratici.
La Pisanu dispone che ogni comunicazione online deve essere tracciabile al fine di scovare eventuali terroristi. A cinque anni di distanza nessun Bin Laden è stato arrestato ma intanto nelle strade delle nostre città, non sono disponibili connessioni, sia pubbliche che private, liberamente accessibili.
Facciamo un esempio. In quasi tutti i bar d’Europa e d’America, così come nei parchi pubblici, nelle stazioni e negli areoporti, è pressocchè sempre disponibile una connessione a Internet offerta dai gestori degli esercizi, da aziende private o da enti pubblici. In Italia, invece, se prendiamo un treno, aspettiamo in areoporto, ci sediamo su una panchina in piazza, troviamo solo reti protette. Se andiamo fare colazione in un qualsiasi bar, non solo non troviamo alcuna rete alle quali collegarci, ma neanche un computer scalcinato dove controllare la posta elettronica. Il nostro barista, infatti, per farci navigare, dovrebbe:
a) Chiedere un’autorizzazione alla questura;
b) Chiedere ad ogni cliente che vuole accedere a Internet un documento di identità e registrarne i dati anagrafici;
c) Acquistare ed aggiornare un software complesso e costoso che registria ogni operazione su Internet dei clienti;
d) Conservare per due anni un archivio con i dati delle navigazioni avvenute sui computer.
Ogni navigazione, appunto, deve essere tracciabile. Perciò molti operatori commerciali o pubblici, grandi e piccoli, in questi anni hanno preferito non offrire un servizio di Wi-Fi gratuito piuttosto che rimanere sciacciati dalla burocrazia e da costi aggiuntivi. Paradossalmente qualche progetto pubblico è riuscito ad eludere questa norma, come ha fatto la provincia di Roma che per i collegamenti a “Roma Wireless” permette di navigare associando il proprio indirizzo Ip temporaneo alla Sim del cellulare (alla quale a sua volta è associato il nostro documento di identità).
Il risultato del Decreto Pisanu è sotto gli occhi di tutti: in Italia ci sono pochissime connessioni Wi-Fi e i cittadini che hanno bisogno di Internet per strada possono solo contare sui loro eventuali smart-phone (a pagamento). Non a caso il presidente Agcom Corrado Calabrò ha dichiarato solo qualche giorno fa che la rete dati “mobile” è prossima al collasso.
Il Decreto, che doveva rimanere in vigore solo un anno (e che successivamente è stato disconosciuto dallo stesso Pisanu) è arrivato fino a noi con proroghe annuali (nei cosiddetti “decreti milleproroghe”) e questo senza alcun dibattito pubblico riguardo la sua utilità e nonostante numerose campagne per la sua abolizione da parte della blogsfera.
2) LEGGE FRANCO-LEVI (ottobre 2007)
Il primo disegno di legge contro i blog e siti Internet arriva invece con il governo Prodi nell’ottobre 2007 per mano dell’allora sottosegretario alla presidenza del consiglio Ricardo Franco-Levi. L’obiettivo è lo stesso che si dimostrerà essere una vera e propria ossessione per la classe politica: equiparare blog e siti Internet a testate giornalistiche. La Franco-Levi in particolare punta a ridefinire le caratteristiche di “mezzo di informazione”, “prodotto editoriale” e “attività editoriale”. Con la legge “prodotto editoriale” diventerebbe “qualsiasi prodotto contraddistinto da finalità di informazione, di formazione, di divulgazione, di intrattenimento, che sia destinato alla pubblicazione, quali che siail mezzo con il quale esso viene diffuso”. Con questa ampia definizione siti di news, pagine Facebook, blog, forum, social network sarebbero ricaduti nella tipologia di “prodotto editoriale”. E tutti avrebbero dovuto iscriversi ad un apposito registro di “operatori della comunicazione”, nominare un direttore di testata e adempiere agli obblighi di legge.
La proposta osteggiata dalla websfera e da alcuni esponenti politici (tra questi qualcuno che precedentemente l’aveva firmata) venne sbeffeggiata anche dalla stampa estera: nel Regno Unito The Times parlò di “Un assalto geriatrico ai blogger italiani”. Viste le polemiche, la legge venne poi accantonata.
3) COMMA PECORELLA (settembre 2009)
Anche Gaetano Pecorella, negli anni settanta militante di Potere Operaio e poi diventato legale di Silvio Berlusconi, ha dato il suo contributo alla legislazione anti-Internet. Nel settembre 2009 Pecorella presentò alla commissione giustizia della Camera un comma all’articolo 1 della legge sulla stampa risalente al 1948. Così come la Franco-Levi obiettivo dell’uomo di fiducia di Berlusconi era applicare l’intera disciplina sulla stampa anche “ai siti Internet aventi natura editoriale”. La proposta non è mai giunta al dibattito parlamentare.
4) LEGGE BARBARESCHI (gennaio 2009)
Luca Barbareschi, il deputato-attore-produttore (scoperto a copiare nella sua trasmissione su La7 le battute di Spinoza.it senza citare la fonte) è paradossalmente autore di una legge per la ferrea tutela del diritto d’autore su Internet. “Disposizioni concernenti la diffusione telematica delle opere dell’ingegno” questo il titolo della sua proposta. L’obiettivo era quello di portare anche in Italia la dottrina Sarkozy che punta a coinvolgere i provider (che per la direttiva europea sul commercio elettronico sono tenuti alla neutralità) nella repressione delle pirateria online. Nella visione del deputato Pdl, la Siae dovrebbe avere un ruolo primario nell’indicare ai fornitori di servizi quali contenuti oscurare o rendere inaccessibili. La legge per ora non ha avuto fortuna.
5) EMENDAMENTO D’ALIA (febbraio 2009)
Giampiero D’Alia, senatore da Messina pressoché sconosciuto alle cronache politiche, è invece noto per il famigerato emendamento al Pacchetto Sicurezza che porta il suo nome. L’emendamento intendeva conseguire la “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”. Il progetto di D’Alia era quello di affidare al ministero dell’Interno (e non alla magistratura) il compito di valutare ipotesi di “apologia di reato” o “istigazione a delinquere” commesse via Internet dando facoltà allo stesso ministro di chiudere d’imperio siti web ritenuti pericolosi. Il tema naturalmente risultatava molto scivoloso e si prestava facilmente ad abusi. IlFattoQuotidiano.it, per esempio, ha annunciato “disobbedienza civile” se dovesse passare la Legge Bavaglio. Con l’emendamento D’Alia il Ministero dell’Interno avrebbe potuto chiudere il nostro sito con una semplice comunicazione. Dopo un’ennesima alzata di scudi della Rete e di una parte della politica, l’emendamento D’Alia venne abrogato da un contro-emendamento del senatore del Pdl Roberto Cassinelli.
6) LEGGE CARLUCCI (febbraio 2009)
Anche l’onorevole Gabriella Carlucci, passata dalla conduzione di Portobello agli scranni di Forza Italia, ha voluto presentare la sua proposta contro la rete. L’ex show-girl intendeva trasformare Internet in un “territorio della libertà dei diritti e dei doveri”. E per fare questo aveva approntato delle norme con le quali si intendeva abolire “l’anonimato su Internet”, imporre ancora una volta “tutte le norme relative alla Stampa” alla Rete, e introdurre forme di responsabilità dei fornitori dei contenuti pubblicati dagli utenti. La legge è ancora oggi a prendere polvere in parlamento.
7) PROPOSTA LAURO (gennaio 2010)
Dopo l’aggressione dello psicolabile Massimo Tartaglia a Silvio Berlusconi in Piazza Duomo dello scorso dicembre, la politica italiana si scatenò in una vera e propria campagna di odio nei confronti di Internet. Il presidente del Senato Renato Schifani dichiarò: “Facebook è più pericoloso dei gruppi degli anni settanta” e le televisioni del premier si scatenarono: “Bisogna chiudere questi siti come Facebook” urlò Barbara D’Urso nella sua trasmissione del pomeriggio. Un campagna d’odio forse non casuale: proprio una settimana prima dell’aggressione, a Roma si era svolto il partecipatissimo No Berlusconi Day nato proprio su Facebook.
In quei giorni il senatore Pdl Raffaele Lauro prese la palla al balzo: insieme ad altri colleghi presentò una proposta di legge che aveva l’obiettivo di rivedere il codice penale e “portare da 3 a 12” gli anni di carcere “per chi avvalendosi di mezzi di comunicazione telematica incita a delinquere”. Passata l’emozione del momento, la proposta è ora in sonno alla commissione Giustizia del Senato
DECRETO ROMANI (gennaio 2010)
Anche contro le web-tv e i video-blog si è provato a mettere i bastoni tra le ruote. Il decreto Romani, ha denunciato l’opposizione, doveva solo recepire una direttiva europea me “è stato trasformato dal governo in una riforma radicale della nostra normativa sui media” e senza alcun passaggio parlamentare. Il Romani, in una prima versione, tendeva ad equiparare tutti i siti che trasmettono contenuti video a dei canali televisivi, penalizzando così anche le dirette streaming. Dopo l’ennesima mobilitazione (60 blogger si ritrovarono scalzi davanti all’ambasciata americana a Roma gridando: “Obama, salva Internet in Italia”), il decreto è stato modificato: sono stati esclusi da tali obblighi: “siti Internet tradizionali come i blog, i motori di ricerca, versioni elettroniche di quotidiani e riviste, giochi online” e comunque tutti i servizi che “non risultano in concorrenza con la radiodiffusione televisiva”. Nonostante ciò, secondo alcuni blogger, per questioni di carattere interpretativo il decreto potrebbe causare dei problemi a chi fa informazione video su Internet.
9) CODICE MARONI (dicembre 2009 – in corso)
Oltre alla già citata proposta Lauro, la vicenda di piazza Duomo ha lasciato un’altra scia velenosa. All’indomani dell’aggressione di Tartaglia, il ministro Maroni (lo stesso ministro “pirata” che si era conquistato le simpatia della rete perché ha più volte ammesso di “scaricare musica da Internet”) si dichiarò pronto a varare un decreto governativo per fermare la violenza sul web. Obiettivo dell’esecutivo sembrava lo stesso del vecchio emendamento D’Alia: dare al governo il potere di chiudere siti Internet ritenuti “pericoli” o “incitanti all’odio”. Dopo l’ennesima levata di scudi del mondo della rete e di buona parte dell’opposizione, Maroni ha poi virato verso un “codice di auto-regolamentazione” da far sottoscrivere ai provider e fornitori dei servizi. Questi dovrebbero impegnarsi in prima persona a minacciare via mail gli utenti avvertendoli eventualmente che un contenuto da loro pubblicato potrebbe risultare “malevolo” o “inopportuno” (in base a quanto stabilito dal codice stesso). Gli utenti sarebbero quindi invitati a provvedere alla rimozione, altrimenti il contenuto potrebbe essere rimosso dal provider o segnalato alle autorità competenti. Dopo la denuncia del Fatto Quotidiano, il codice sembra per ora messo da parte, anche perché provider e fornitori di servizi rivendicano la loro “neutralità” sui contenuti che attraversano le loro infrastrutture.
10) BAVAGLIO-ALFANO (2008 – in corso)
La legge sulle Intercettazioni in approvazione alla Camera sulla quale tanto si è speso Silvio Berlusconi, contiene anche una misura anti-blog. Certo, la legge di per sé è un “bavaglio alla stampa” e, tanto più oggi, oggetto di un’ampia mobilitazione della società civile, del mondo dell’informazione, dei cittadini. Ma il famigerato “comma 29” della legge sulle intercettazioni si occupa anche di “siti informatici”. Facendo riferimento ad una casistica amplissima (“siti informatici” appunto) la legge impone che “le dichiarazioni o le rettifiche” così come avviene sui giornali “vengano pubblicate entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”. Pena, una multa che può arrivare a 12mial euro. Qualsiasi pagina web, dovrebbe insomma sottostare all’obbligo di rettifica. Secondo molti, la norma non tiene conto della natura “amatoriale” della quasi totalità dei siti, e impone una misura che rischia di soffocare la rete nelle maglie di un imposizione alla quale possono adempiere solo imprese editoriali.
Queste sono le dieci proposte nate in questi anni per ridurre la libertà della rete. Se (quasi) nessuna per ora è passata, lo si deve alle mobilitazioni puntualmente messe in atto da cittadini, giornali e blogger, compresi coloro che negli anni hanno denunciato ogni pericolo e stortura: tra i tanti, l’avvocato Guido Scorza così come i blogger Claudio Messora, Massimo Mantellini, Stefano Quintarelli, Sergio Maistriello. Importante anche l’azione di informazione e coinvolgimento su questi argomenti del blog di Beppe Grillo e di testate online come Punto Informatico. Anche alcuni politici si sono fatti sentire: Antonio Di Pietro e altri parlamentari dell’Italia dei valori, il senatore Vincenzo Vita del Partito Democratico e, con i suoi distinguo, l’onorevole Roberto Cassinelli del Popolo delle libertà, si sono sempre spesi a tutela e a difesa della rete.
Sarebbe ormai il caso che la crescita e la salvaguardia della rete Internet venissero prese in carico da settori sempre più ampi della politica e dell’opinione pubblica. Forse non è follia sperare che un giorno non troppo lontano il parlamento italiano possa approvare una legge pro-Internet che rafforzi l’infrastruttura nella direzione della banda larga, tuteli la libertà degli utenti, dia possibilità di collegarsi ovunque e, come già successo in Islanda e Finlandia, dichiari Internet un diritto fondamentale dell’individuo.
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