I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
30.12.10
La biblioteca arriva a casa. Libri consultabili sul pc grazie a una piattaforma online
di Diletta Parlangeli
Una biblioteca pubblica aperta a tutte le ore. E i libri si prendono in prestito e si consultano direttamente sul pc di casa. E’ un’innovazione resa possibile dalla piattaforma digitale Media Library Online, che raggruppa già mille biblioteche in quattro regioni: Lombardia capofila, Emilia Romagna, Toscana e Umbria. L’obiettivo è di coinvolgere nel 2011 altre due regioni e 500 biblioteche.
Chi di solito va in biblioteca, ora potrà accedere al catalogo da qualsiasi computer o da un supporto mobile. Con una username e una password fornite dall’ente sarà possibile non solo verificare la disponibilità fisica di testi, cd, dvd o giornali, ma anche consultare gratis il materiale digitale. Una volta sul sito, la pagina è simile a quella di un qualsiasi motore di ricerca, con la possibilità di selezionare i prodotti per editore, distributore, lingua, paese e altro. Un servizio analogo esisteva già negli Stati Uniti e ora da qualche mese è disponibile in Italia.
La piattaforma è stata prodotta da Horizons Unlimited, che ha collaborato con il Consorzio sistema bibliotecario nord-ovest di Milano. Per ora gli ebook a disposizione sono 29mila: la maggior parte delle opere è costituita da classici e materiale non più coperto da diritti d’autore. Media Library Online dispone poi di 16mila album: “Per adesso è disponibile soprattuto musica classica, jazz, world music, e tutti i generi etnici”, dice Giulio Blasi, amministratore delegato di Horizons Unlimited. “La Lombardia è la regione con la maggiore penetrazione del servizio. Che è piuttosto diffuso anche nel comune di Piacenza e la provincia di Reggio Emilia”. Contatti sono stati presi per coinvolgere anche le biblioteche della Capitale.
Per gli utenti il servizio è gratuito. I costi sono a carico delle biblioteche. “Per noi è un business – spiega Blasi – e comunque le biblioteche, creando delle reti, possono avere dalla piattaforma dei vantaggi a medio periodo. Si abbattono i costi del prestito fisico, che va dai 3 ai 6 euro, e le spese di magazzino e trasporto”. I libri elettronici saranno sempre disponibili per gli utenti? “Dipende dal numero di licenze acquisite dalle biblioteche – continua l’ad – Le risorse possono essere messe a disposizione in streaming, cioè l’utente accede, legge e poi chiude. Oppure in download a tempo e in questo caso, proprio come in un prestito fisico, non saranno consultabili da più persone contemporaneamente”.
19.12.10
Libri sempre più social
É abbastanza evidente che la lettura è un processo individuale e solitario. Fa parte del gioco di immersione che il nostro rapporto con il testo ci regala: mentre leggiamo entriamo compleamente nel mondo che ci sta raccontando l'autore e la nostra immaginazione lo ricrea quasi con pari merito. É questa una delle ragioni per cui molti di noi soffrono passando dal libro al film: per dirla con l'efficace boutade di Gaspar Torriero, «Quando esci dal cinema e dici"era meglio il libro", in realtà intendi "era meglio il film che mi sono fatto io"».
Questo rapporto intimo con la storia che leggiamo difficilmente verrà messo in discussione dalla lettura digitale, anche se qualche piccola intrusione della «lettura degli altri» nel nostro spazio già c'è. I possessori di Kindle, infatti, possono vedere nel libro appena comprato quali sono i passaggi che gli altri lettori hanno trovato significativi e sottolineato. Si tratta di una funzione chiamata social highlights, che può essere disattivata. Ma che molte persone amano e che rappresenta una frattura interessante con le nostre abitudini passate: come notava tempo fa il New York Times, praticamente si tratta di un intervento dei lettori nell post-produzione del libro. L'articolo non è recentissimo ma merita ancora attenzione: E-Readers' Collective.
Poi però, intorno al gesto totalmente personale della lettura, molti di noi costruiscono un livello complementare di esperienza: è quello che accade quando dopo aver letto un libro ne parliamo con gli amici o lo consigliamo a qualcuno. In questo caso dopo averla vissuta, condividiamo con altri l'esperienza di lettura. É questo layer che sta diventando sempre più centrale con i libri digitali. Da un lato perchè le tecnologie oggi ci consentono di condividere le nostre impressioni in modo molto potente e su una scala molto ampia. Dall'altro perchè con l'aumento della complessità che questa transizione sta portando, le esperienze degli altri lettori diventano una necessità di sistema.
Questo è il punto probabilmente più complicato da comprendere, perchè tocca diversi aspetti e raccorda diverse linee su cui il cambiamento sta agendo. Con l'aumento delle vendite in digitale dei libri fisici, e con la crescita degli ebook, lo «spazio sugli scaffali» tenderà a diminuire. La passeggiata tra i libri fisici, in libreria, era uno dei metodi strategici per farc conoscere i libri. Li vedevamo, leggevamo la quarta di copertina, le prime pagine, ci facevamo un'idea. Con il numero sempre crescente di titoli disponibili negli store digitali, invece, il nostro modo più efficace per muoverci nella complessità e per accedere ai titoli è farlo attraverso le esperienze degli altri. Vedere cosa hanno comprato, che impressione ne hanno avuto, eccetera.
Questo livello di informazione, racconta Mike Shatzkin in un lungo post, è il punto su cui tutti si stanno impegnando per costruire l'esperienza di acquisto degli ebook, con strategie differenti. Nessuno ha ancora una soluzione definitiva, e probabilmente ne emergeranno diverse per diverse esigenze, ma di sicuro è su questa linea che si combatte una delle battaglie più importanti per costruire l'accesso ai libri. L'analisi di Shatzkin, che parte dalle sue preferenze personali, si intitola: How will you win at ebook retailing?.
Ma sempre in tema di abitudini che cambiano (come è stato per la musica, anche il passaggio del libro al digitale potrebbe modificare radicalmente le nostre abitudini di consumo) ci sono altri fronti che potrebbero aprirsi e continuare a stupirci. Uno di questi è raccontato in un lungo articolo di Terry Jones che parte da un titolo dirompente: «il futuro dei libri è scrivibile».
Jones analizza alcune tendenze cui internet ci ha abituato, portandoci a pubblicare pezzi di informazione sempre più piccoli, in modo sempre più facile e con contenuti sempre più personali. E poi si chiede come queste tre tendenze potrebbero influire sul futuro del libro. «I libri hanno tipicamente una loro coerenza interna», scrive Jones, «ma se le difficoltà per gli editori continuano ad aumentare e i sistemi per vendere i libri evolvono, potremmo assistere al frazionamento del pacchetto libro per ragioni economiche. In fondo nella storia abbiamo avuto i romanzi pubblicati a puntate. Perchè non potrebbe essere così nel digitale?» E questo porta a spingere il ragionamento anche oltre. Leggi tu stesso: The future of publishing is writable.
É chiaro che siamo su un orizzonte di congetture e di scenario. Stiamo appena vivendo i primi anni di una fase completamente nuova e possiamo solo intuire dove ci porterà. Tuttavia, se per editori e autori c'è da fare molta attenzione e cercare di essere sempre pronti a sperimentare, per i lettori si profila una bella avventura. Saranno le loro scelte a determinare cosa funziona e cosa invece non va bene. Quale cambiamento è lì per restare e quale invece è destinato ad essere abrogato perchè non piace ad un numero sufficiente di persone.
E sarà interessante stare a vedere cosa succede.
18.12.10
Hacker di tutto il mondo unitevi
Così la politica 2.0 sfida il potere
Da WikiLeaks a Piratebay cresce in nome della libertà d'informazione il popolo dei radicali online. Ma tra siti sabotati e beffe telematiche è davvero iniziata la cyberguerra?
di GABRIELE ROMAGNOLI
Va bene: Mark Zuckerberg è il personaggio dell'anno, Julian Assange quello del momento, l'informazione è soltanto su Internet, la rivoluzione si fa via Twitter, il social network è vivo, il political network lotta insieme a noi. Stop. Reload. È davvero così? Siamo alle soglie di una trasformazione epocale? All'annuncio della politica 2.0 come forma dilagante e presto unica di aggregazione, motivazione e infine di affermazione?
Ci sono indizi. E dubbi. Sono successe cose. E altre sono state solo immaginate (e si sa che l'immaginazione non è un territorio della politica). Ci sono autorevoli paladini della teoria. E altrettanto autorevoli avversari. Perfino i primi pentiti, voltagabbana o come volete chiamarli. Autorevoli pure quelli. Bisogna quindi procedere con ordine.
Anzitutto, spegnere gli abbaglianti. Intesi come quei fari per le allodole da cui il mondo mediatico si lascia accecare. La soggezione dell'informazione tradizionale rispetto a quella via Internet, a tutto ciò che circola in Internet, è imbarazzante, soprattutto negli effetti. La demonizzazione della realtà virtuale ha un solo gradino più basso: la sua idealizzazione. "Ha conosciuto l'assassino su Facebook!!!" fa il paio con "Liberata da una petizione online!!!". La stessa frenesia con cui si sono dragate le conseguenze dei social network si applica ora al cosiddetto political network. Già si è appurato che non è esistita una rivoluzione via Twitter in Iran o in Moldavia (a essere precisi,
non è proprio successa una rivoluzione, ma questo è un dettaglio). Non significa che non ci siano molti segnali del possibile. E che non siano globali.
Molto spesso vengono messi in un calderone, perché più sono gli ingredienti e più è probabile che qualcosa cuocia. Ecco allora la blogger cubana e quello cinese come esempi di resistenza che, bloccata nelle forme tradizionali e negli spazi di realtà, si afferma con i nuovi media e le vie del virtuale, riprecipitando laddove era stata bandita. Ecco il partito dei pirati in Svezia, il movimento che denuncia i brogli elettorali in Kenya. E WikiLeaks, ovviamente. E Anonymous, la piattaforma non delineata da cui è stata lanciata l'operazione Payvabck, la ritorsione contro i siti delle aziende che avevano tagliato fuori la "banda Assange". Il Courrier international ha sancito che "La cyberguerra è cominciata". Ma si tratta di realtà molto diverse, che non sono accomunabili e neppure lo vorrebbero, ma a cui viene riconosciuta una parentela.
L'Observer li ha messi insieme sotto l'etichetta di "radicali del web". Fin dalla partenza è evidente il pregiudizio, l'inestirpabile concezione della stampa tradizionale: chi agisce in quell'altrove è un hacker, un elemento dalla sessualità ambigua, dal pensiero liquido, anche a causa di agenti allucinogeni, probabilmente. Ma è vero: esiste una piattaforma mobile che si muove su Internet. Che cosa fa? Politica? In un certo senso. Quale? Fa opposizione. Denuda il re e qualche volta anche il giullare del re. Usa il mezzo per entrare nel sistema. Azzera il tempo. Ci abbiamo messo trent'anni per leggere sui nastri della Casa Bianca quel che il presidente Richard Nixon pensava degli italiani ("Non hanno la testa avvitata sul collo"). Con WikiLeaks sarebbero passati sì e no trenta giorni. Si disseminano le informazioni e le informazioni sono potere. Ma chi le raccoglie, chi le indirizza? Esiste davvero una forma di aggregazione nel web che faccia da base per un futuro politico diverso?
Questo è il dubbio. Già il social network crea uno pseudo rapporto. Hai davvero 1.000 amici se li hai su Facebook? Allo stesso modo: c'è vera adesione su Internet? La facilità del "contatto", della "partecipazione" non li rende altro da sé, pallide ombre? Faccio spesso questo esempio: prendete un qualsiasi sondaggio sul web, anche uno di quelli pubblicati dal sito di questo giornale. Tipo: quale priorità dovrebbe avere un prossimo governo? La legge elettorale, la riforma delle pensioni, le privatizzazioni, non so? Ecco: circa un 5% ogni volta vota "non so". Non è gente colta alla sprovvista per strada da un intervistatore tv, è pubblico avvertito, che naviga, che ha cliccato su quel particolare sondaggio, lo ha scelto per poter dire: non so. Più facile è intervenire più tutti lo fanno, anche per dire nulla.
I blog, i forum, sono diventati quasi supplichevoli: DI' LA TUA! Ma è questo digitare un qualsiasi parere la base di un reale intervento sulla scena politica? La fatica di una lettera è superiore a quella di una email, andare in piazza a protestare enormemente più sfiancante che battere qualche tasto. Ma nulla accade veramente se dal web non precipita là fuori. Si sono create nuove figure guida della decostruzione è vero, ma anche quelle lasciano dubbi. Il blogger più globalmente riconosciuto d'Italia è Beppe Grillo, ha anche organizzato manifestazioni e fatto eleggere rappresentanti, forse prepara un'autentica discesa in campo. Ma finora la sua forza è solo critica, è solo "vaffa" e "dagli allo psiconano". È la forza della denuncia, legittima e sacrosanta, tanto più quando attacca banche e società, che l'opposizione politica mai nomina, ma non lascia intravedere costruzioni alternative. L'aggregazione avviene in negativo, mai in positivo. Anche per Assange e WikiLeaks vale lo stesso limite: denudare il re può essere un primo passo, ma qual è il sistema alternativo a questa zozza monarchia? Per non chiedersi: Assange sopravviverebbe al "wikileaking" di se stesso?
Ci sono pensatori come Malcolm Gladwell, sempre alla ricerca dei "punti di svolta" della storia, che negano sia ancora arrivato quello in cui il web reinventa l'attivismo sociale. Ha scritto sul New Yorker che si corre il rischio di confondere gli strumenti con le idee e, soprattutto, che nessun movimento può progredire senza una gerarchia. Il network, per sua definizione, non ce l'ha. Basta leggere il documento redatto da "Anonymous". Rifiuta addirittura la definizione di "gruppo", è soltanto un "incontro" di "cittadini medi Internet", dove Internet è inteso come luogo transnazionale che accoglie questa massa fluida senza nome né volto, aggregata intorno a un singolo progetto. Ecco il punto: come si può determinare una strategia se non c'è un processo decisionale? Fa notare Gladwell, anche provocatoriamente se si vuole, che "Al Qaeda è diventata meno efficace da quando si è slabbrata la struttura gerarchica". E Al Qaeda è fluida, è un metodo, ma almeno ha degli obiettivi comuni precisati e concordati alla base.
Il political network non li ha ancora individuati se non in quel ripetuto processo di smascheramento di un potere che, siamo onesti, conosciamo già nella sua nefandezza senza bisogno di vederlo in faccia. Non avevamo bisogno del rilascio dei nastri per sapere che a Nixon facevano ribrezzo gli ebrei (se non lo finanziavano), né di WikiLeaks per convincerci che Gheddafi è disturbato. Aumenta la sfera di libertà, si dice. Jaron Lanier, pioniere della libertà virtuale, scrive che "il web è stato inondato da una fiumana di tecnologie, dietro cui c'è un'ideologia che promuove una libertà radicale, ma paradossalmente si tratta di una libertà riservata più alle macchine che alle persone". E Tom Steinberg, fondatore di "My Society" ammette: "Se dovessi fare una campagna elettorale e avessi cento da spendere lo investirei tutto in tv e volantini. Internet non serve a far cambiare idea alla gente, ma solo a rafforzarla in quel che già pensa e a farle fare qualcosa per realizzarlo, tipo finanziare un candidato". È quel che ha fatto Obama sul web: non ha convinto nessun incerto o ex repubblicano, ma si è fatto dare soldi da chi era convinto democratico. Conscio che alla fine in democrazia non vince il migliore, ma il più ricco. Anche grazie al web. E questa per ora è la sola rivoluzione possibile via Internet: finanziare l'alternativa, foss'anche un tranquillo signore con idee moderate vestite di nuovo come era ed è Barack Obama.
15.12.10
Grazie, Veltroni e Di Pietro!
E cosí, dopo settimane di inutili e ingenue speranze, il governo Berlusconi ha ottenuto la fiducia della Camera per 314 voti a 311. E, per aggiungere le beffe al danno, l’ha ottenuta con due voti determinanti di due membri che appartenevano all’opposizione: Massimo Calearo al Partito Democratico, e Domenico Scilipoti all’Italia dei Valori.
La candidatura del primo nelle liste del Pd fu una delle storiche pensate di Walter Veltroni. D’altronde, uno dei motivi per cui la legge elettorale attualmente in vigore fu denominata porcellum, era appunto che permetteva e permette porcate di questo genere. E Veltroni la sfruttò appieno, imponendo come candidati personaggi improponibili per vari motivi, da Marianna Madia (ex fidanzata del figlio di Napolitano) a Calearo (impreditore di destra), appunto.
Non era necessario essere dei politologi professionisti, per accorgersi dell’assurdità di queste candidature. Bastava anche essere dei dilettanti, entrati nel partito «nuovo» di Veltroni da poche settimane, com’ero io all’epoca. Appena viste queste «novità», me la battei dal partito a gambe levate, prima delle elezioni del 2008. E nelle urne molti altri mostrarono di non aver gradito i «ma anche» di Veltroni, e non abboccarono al richiamo delle sue sirene.
In seguito, entrambe le pietre dello scandalo veltroniano hanno dato prova di sè. Il 22 ottobre 2009 la Madia non andò a votare alla Camera, insieme ad altri ventidue deputati Pd, contro lo scudo fiscale: provvedimento che passò con un margine di venti voti. E ieri Calearo ha votato la fiducia al governo, passata appunto con un margine di tre voti.
Quanto alla candidatura di Scilipoti nell’Idv, non è meno imbarazzante per Di Pietro di quella di Calearo per Veltroni. In questo caso si tratta infatti di un truffatore, condannato in secondo grado a 200.000 euro di multa e al pignoramento di vari immobili per debiti non pagati. E si tratta anche di un ciarlatano, che pur vivendo nel terzo millennio non si vergogna di propagandare e professare la sedicente medicina «alternativa» e l’omeopatia.
Naturalmente, è inutile prendersela con miracolati come Calearo e Scilipoti, che si sono semplicemente comportati da ciò che erano e sono sempre rimasti. La colpa non è loro, ma di Veltroni e Di Pietro. E poichè, se i due leader avessero scelto i loro candidati con un po’ più di intelligenza e di onestà, ieri il governo Berlusconi sarebbe stato sfiduciato per 313 voti a 312, non sarebbe il caso che traessero le conseguenze e si dimettessero dal Parlamento per vergogna?
11.12.10
Why WikiLeaks Is Good for America
A truly free press — one unfettered by concerns of nationalism — is apparently a terrifying problem for elected governments and tyrannies alike.
It shouldn’t be.
In the past week, after publishing secret U.S. diplomatic cables, secret-spilling site WikiLeaks has been hit with denial-of-service attacks on its servers by unknown parties; its backup hosting provider, Amazon, booted WikiLeaks off its hosting service; and PayPal has suspended its donation-collecting account, damaging WikiLeaks’ ability to raise funds. MasterCard announced Monday it was blocking credit card payments to WikiLeaks, saying the site was engaged in illegal activities, despite the fact it has never been charged with a crime.
Meanwhile, U.S. politicians have ramped up the rhetoric against the nonprofit, calling for the arrest and prosecution and even assassination of its most visible spokesman, Julian Assange. Questions about whether current laws are adequate to prosecute him have prompted lawmakers to propose amending the espionage statute to bring Assange to heel or even to declare WikiLeaks a terrorist organization.
WikiLeaks is not perfect, and we have highlighted many of its shortcomings on this website. Nevertheless, it’s time to make a clear statement about the value of the site and take sides:
WikiLeaks stands to improve our democracy, not weaken it.
The greatest threat we face right now from WikiLeaks is not the information it has spilled and may spill in the future, but the reactionary response to it that’s building in the United States that promises to repudiate the rule of law and our free speech traditions, if left unchecked.
Secrecy is routinely posited as a critical component for effective governance, a premise that’s so widely accepted that even some journalists, whose job is to reveal the secret workings of governments, have declared WikiLeaks’ efforts to be out of bounds.
Transparency, and its value, look very different inside the corridors of power than outside. On the campaign trail, Barack Obama vowed to roll back the secrecy apparatus that had been dramatically expanded under his predecessor, but his administration has largely abandoned those promises and instead doubled-down on secrecy.
One of the core complaints against WikiLeaks is a lack of accountability. It has set up shop in multiple countries with liberal press protections in an apparent bid to stand above the law. It owes allegiance to no one government, and its interests do not align neatly with authorities’. Compare this, for example, to what happened when the U.S. government pressured The New York Times in 2004 to drop its story about warrantless wiretapping on grounds that it would harm national security. The paper withheld the story for a year-and-a-half.
WikiLeaks’ role is not the same as the press’, since it does not always endeavor to vet information prior to publication. But it operates within what one might call the media ecosystem, feeding publications with original documents that are found nowhere else and insulating them against pressures from governments seeking to suppress information.
Instead of encouraging online service providers to blacklist sites and writing new espionage laws that would further criminalize the publication of government secrets, we should regard WikiLeaks as subject to the same first amendment rights that protect The New York Times. And as a society, we should embrace the site as an expression of the fundamental freedom that is at the core of our Bill of Rights, not react like Chinese corporations that are happy to censor information on behalf of their government to curry favor.
WikiLeaks does not automatically bring radical transparency in its wake. Sites like WikiLeaks work because sources, more often than not pricked by conscience, come forward with information in the public interest. WikiLeaks is a distributor of this information, if an extraordinarily prolific one. It helps guarantee the information won’t be hidden by editors and publishers who are afraid of lawsuits or the government.
WikiLeaks has beaten back the attacks against it with the help of hundreds of mirror sites that will keep its content available, despite the best efforts of opponents. Blocking WikiLeaks, even if it were possible, could never be effective.
A government’s best and only defense against damaging spills is to act justly and fairly. By seeking to quell WikiLeaks, its U.S. political opponents are only priming the pump for more embarrassing revelations down the road.
7.12.10
Apocalittici e integrati (del WEB). Dai sentimenti alle informazioni ecco la nuova vita sulla rete
MAURIZIO FERRARIS (La Repubblica)
"Le persone più giovani oramai fanno sempre più fatica a distinguere tra reale e virtuale"
Dopotutto non è un caso se la sede dei server di WikiLeaks sia un rifugio antiatomico dimesso nel centro di Stoccolma. La guerra fredda è finita, ed è stata sostituita da una guerra di documenti, perché, come scriveva negli anni trenta Ernst Jünger, «la guida della guerra non è là dove è visibile il soldato adorno dei contrassegni allusivi al ceto cavalleresco, ma là dove, in sembianza poco appariscente è chino sulle sue carte topografiche, fra il ronzio dei telefoni e il gracchiare delle radio da campo». La tempesta documentale scatenata da WikiLeaks sarebbe stata impossibile senza due fattori che hanno intrinsecamente a che fare con i poteri della scrittura: da una parte, il Web, ossia la rete in cui i documenti vengono diffusi; dall'altra, il mondo della carta stampata, che ne assicura la selezione e, per così dire, la canonizzazione.
In questo senso, si tratta della punta emersa di un iceberg, quella che in questo momento è sotto i riflettori, ma la vera domanda riguarda la natura, i rischi e le risorse di questa esplosione della scrittura (di documenti in senso largo, dalle immagini ai video) che non ha equivalenti nella storia umana.
Abbiamo provato a ragionarne con Urs Gasser, direttore del Berkman Center for Internet and Society all'Università di Harvard, Juan Carlos De Martin, condirettore del Centro NEXA su Internet e Società del Politecnico di Torino, Barry Smith, direttore del National Center For Ontologic Research della Università di Buffalo, Bernard Stiegler, direttore dell'Institut de recherche et d'innovation del Centre Georges Pompidou, John Naughton, autore di A Brief History of the Future: the Origins of the Internet, considerato il miglior libro su Internet, e Pierre Musso, che ha la cattedra di "Modellizzazione degli immaginari, innovazione e creazione" sostenuta da Télécom Paris-Tech e dalla Università di Rennes.
Ferraris. Kevin Kelly, co-fondatore di Wired, in un libro uscito da poche settimane What Technology Wants, ha sostenuto che il Web va concepito non tanto come uno strumento passivo, ma come un organismo che persegue in autonomia i propri fini.
Insomma, che è la tecnica che comanda, non l'uomo. La prima domanda che uno si può porre è se le cose siano mai andate altrimenti. In fondo, anche la ruota e il fuoco (per non parlare della clava) hanno dominato l'evoluzione dell'umanità molto più di quanto non ne siano stati dominati.
De Martin. Anch'io credo che sia sempre stato così: la tecnica ha sempre determinato l'umanità. In proposito sottolineo, però, un aspetto importante che caratterizza sia i computer sia il Web: sono entrambe invenzioni piattaforma, cioè senza un uso fissato a priori. Un coltello, una lampadina, un'automobile permettono di fare una cosa soltanto e in tal senso ci servono e ci condizionano allo stesso tempo.
Un computer, invece, fa ciò che noi desideriamo che faccia. Anche usi mai pensati in precedenza. In altre parole, sia i computer sia il Web sono intrinsecamente generativi.
Stiegler. In questo senso, l'irruzione del Web nella nostra vita è paragonabile all'irruzione della scrittura nella vita quotidiana dei Greci all'epoca di Socrate. E come la scrittura secondo Socrate il Web è un pharmakon, cioè, insieme, un veleno e un rimedio.
Musso. Questo spiega le reazioni di rigetto. Con ogni innovazione tecnologica c'è uno scontro tra immaginari ambivalenti: da una parte, le promesse di libertà, di progresso e di comunicazione e, dall'altra, la minaccia di alienazione, di controllo o di regressione. Queste visioni contrapposte definiscono gli usi potenziali e contribuiscono a socializzare l'innovazione. Non solo la scrittura, ogni tecnica è un pharmakon, Zeus e Prometeo, Faust e Frankenstein abitano la relazione che l'Occidente ha con la tecnologia. Il Web non fa eccezione a questa dialettica del tecnomessianismo e del tecno-catastrofismo.
De Martin. In proposito, trovo però fortemente irritante l'atteggiamento di una parte consistente della classe dirigente italiana che è passata, senza soluzione di continuità, dal dire che il Web era una moda passeggera a dire che il Web ci rende stupidi. A ben vedere, non è diverso dal dire che la scrittura è una moda passeggera, o che rende stupidi. Ma, come la storia insegna, non è andata così, e molto probabilmente sarà lo stesso per il Web.
Naughton. Certo. E non siamo che all'inizio. Il Web si è diffuso nel 1993, da allora sono passati solo 17 anni. Siamo nella stessa posizione dei cittadini di Magonza nel 1472, 17 anni dopo che a Magonza era stata stampata la prima Bibbia di Gutenberg. Non avevano la minima idea di come quella tecnologia avrebbe cambiato il mondo. Quello che al momento appare evidente è che il fenomeno della pubblicazione, che un tempo stava al centro, oggi ha luogo nella periferia. Il vero problema di questa nuova scrittura è semmai quanto possa sopravvivere: non ne abbiamo idea, e anzi abbiamo moltissime prove di quanto facilmente possa svanire.
Stiegler. La cosa più importante, nel Web, è che combina il "real time", che sembrava la caratteristica e il destino delle tecnologie derivate dall'informatica, e che è così vicino alla pulsione, e il tempo differito della scrittura, che è anche il tempo dell'azione ritardata, della critica, della sublimazione. Ragione e passione, per esprimersi un po' sommariamente, si intrecciano nel Web.
Ferraris. A questo proposito, non si può dimenticare quanto la vita affettiva delle persone sia mediata dal Web. Anche qui, gli apocalittici, o semplicemente i nostalgici, sostengono che queste relazioni sono tendenzialmente inautentiche, ma non si vede perché: dopotutto, la passione di Werther era essenzialmente epistolare, eppure difficilmente la si potrebbe definire "inautentica".
Gasser. Le nostre ricerche sull'uso di Internet da parte dei bambini o di persone talmente giovani da non potersi immaginare una vita senza Google o Wikipedia mostrano che fra offline e online c'è un confine sempre più incerto. I nativi dell'epoca digitale non distinguono fra il mondo reale e il cyberspazio- Internet è semplicemente una parte integrata della loro vita. Inoltre, delle indagini rivelano che gente che ha molte relazioni in rete, anche offline tende a comunicare più di gente che non ha contatti online.
Entrambe le osservazioni suggeriscono che non ci sia una divisione netta fra le relazioni in rete e quelle nella realtà, né dunque un "gap di autenticità". Rimane comunque una questione interessante - e aperta - come le norme della comunicazione evolvano nello spazio digitale e come influiscano sulla qualità delle relazioni, siano queste online o offline.
Ferraris. Più che dell'autenticità, quella di cui si sente la mancanza è la solitudine, o meglio una certa irresponsabilità, perché in effetti la nostra esperienza è di essere perennemente assediati dalla scrittura, da richieste di risposta che generano altrettante responsabilità.
Smith. Quanto all'assedio della scrittura, la maggior parte delle persone, ne sono certo, hanno ancora pace. Quelli che non hanno pace - come noi - sono vittime di un accidente storico: siamo nati in un frangente in cui i benefici delle forme potenziate di collaborazione permesse da Internet non sono ancora stati controbilanciati dalle nuove misure che saranno create in futuro per diminuire i loro effetti negativi.
Ferraris. Temo però che ci sia un aspetto negativo difficile da controbilanciare. Chi si mette in tasca un telefonino non solo accede a un sistema di connessione totale, ma anche si mette volontariamente in una rete di mobilitazione totale, in cui il lavoro (e dunque anche lo sfruttamento) invade ogni sfera della vita: abbiamo il Web sottomano, ma siamo anche in mano al Web. E questo è un problema rispetto al quale non vedo rimedi semplici, certo non un qualche luddismo o astensionismo rispetto al Web.
Stiegler. Bisogna trovare dei modi di organizzazione e delle regole pratiche (delle terapeutiche e delle tecniche del sé, come diceva Foucault) che, in particolare, permettano di rendere efficaci gli scambi e di lavorare in modo cooperativo. Per me il Web è lo spazio di quelle che chiamo "cooperative del sapere", è così che me ne servo in continuazione, e ne posso solo essere felice.
Certo talvolta ci sono degli effetti nocivi, ma questo vale per tutto ciò rispetto a cui non si è riusciti a organizzare una terapia - e ogni pharmakon necessita di una terapia. In questo senso, il futuro del Web dipende essenzialmente da noi. Dipende dalla nostra capacità di rimettere in causa le nostre idee, sorte quando il pharmakon era diverso (era la scrittura su carta), e dunque era diversa la terapia, senza dimenticarle, ma trasformandole in vista del pharmakon, il Web, e grazie ad esso, senza restarne ingabbiati.
“Aumenta la nostra possibilità di cooperare con gli altri, rendendo efficaci gli scambi”
LE VOCI
PIERRE MUSSO Ha la cattedra di "Modellizzazione degli immaginari"
URS GASSER Direttore del Berkman center di Harvard ha scritto "Born Digital"
JUAN CARLOS DE MARTIN Condirettore del centro NEXA su Internet al Politecnico di Torino
BERNARD STIEGLER Direttore dell'Istituto di ricerche e di innovazione del Centre Pompidou
BARRY SMITH Direttore del dipartimento di Ontologia all'Università di Buffalo
JOHN NAUGHTON Ha scritto "A brief history of the future: the origins of the Internet"
De Kerckhove e WikiLeaks "Assange, artista del Web"
«È un momento epocale nel passaggio verso la democrazia della trasparenza. Assange è un artista». Un artista? «Sì, perché come i grandi maestri rinascimentali ha saputo imprimere il suo marchio a un’epoca, alla nuova rivoluzione sociale: ha scosso il mondo dal conformismo utile ai potenti». Derrick de Kerckhove, il più prestigioso massmediologo in circolazione, classe 1944, irrompe con l’entusiasmo di un ragazzino nell’aula magna della Fiera del Levante, sciarpona rossa al collo, capelli bianchi al vento, gli occhi azzurrissimi più guizzanti che mai. De Kerckhove parla a valanga un po’ in inglese, un po’ in francese, un po’ in italiano, e ora ci mette anche il tedesco: «Mi sento uno schlaues kopfchen, una testa che gira a mille. Momenti come questo mi danno la spinta, una scossa di adrenalina, mi rimettono in circolo l’energia per intraprendere un sacco di ricerche e di iniziative». Sta per tenere una conferenza su "Potere e sfera pubblica nell’era delle reti" che sarà, neanche a dirlo, applauditissima da un pubblico di ragazzi allegri e grintosi come lui.
Professore, il suo entusiasmo è comprensibile ma lo sa che Assange è un ricercato internazionale, sospettato di servire una Cia dentro la Cia o chissà quale altra potenza, e che tutti si chiedono da chi sia finanziato e manipolato anche perché di trasparenza, proprio il suo vessillo, ne garantisce assai poca?
«A costo di sembrare ingenuo, invece credo a quel che leggo, cioè che Assange e i suoi proseliti abbiano dato vita a una fondazione nonprofit, si siano autofinanziati per tirar fuori dai computer del Dipartimento di Stato quei file, e che lo abbiano fatto per gusto di sfida, per amore della democrazia e magari perché ce l’hanno con l’America. Dobbiamo dargli torto?»
Veda un po’ lei...
«L’America è diventata il tempio del conformismo. Io sono stato ricercatore per due anni a Washington alla Library of Congress dopo l’11 settembre, e quando insinuavo qualche dubbio, per esempio mostravo studi scientifici che dimostravano che era impossibile far crollare le torri "solo" con gli aerei senza cariche esplosive alla base, o rilevavo timidamente che solo l’aereo della famiglia Bin Laden aveva potuto uscire dagli Stati Uniti quando lo spazio aereo venne chiuso, venivo guardato come un marziano, la gente cambiava marciapiede».
Ma proprio quest’odio antiamericano non potrebbe averlo indotto a confezionare un gigantesco falso?
«Tutto questo un hoax, un bidone? Allora Assange è ancora più artista. No, secondo me i file sono veri. Non sto dicendo che siano vere le cose che contengono, anzi: che Abu Mazen fosse stato messo al corrente dell’intenzione israeliana di bombardare Gaza nel 2008 lo hanno smentito i palestinesi, che la Corea del Nord condividesse la potenza nucleare con l’Iran lo ha smentito Ahmadinejad, che l’ordine di spiare Ban Kimoon l’avesse dato la Clinton l’ha smentito la Cia che ha detto: macché, era un’idea nostra. Eppure, nella testa dei diplomatici americani queste idee hanno circolato, ed è una giusta operazione di trasparenza far sapere al mondo che persone così importanti erano convinte di tutte queste fesserie. Lo dissero con singolare concomitanza nel 1918 il presidente americano Woodrow Wilson e il neoministro degli Esteri sovietico Lev Trozki: finché ci sarà la diplomazia segreta non ci sarà la democrazia. Finalmente, forse, quasi un secolo dopo ci siamo».
Assange sostiene di essere in pericolo di vita…
«Ma no, che senso avrebbe ucciderlo? Certo, colpirebbero un simbolo, ma sarebbe come uccidere Obama».
Obama?
«Voglio dire che la rivolta popolare e anche militare contro un fatto di tale gravità sarebbe tale da vanificarne qualsiasi valenza rivoluzionaria, anarchica o di chissà che diavolo di genere. Assange potrebbe andare in prigione, questo sì, come è successo a più riprese per tanti hacker del passato, da Kevin Mitnick, il più famoso di tutti che si è fatto sei anni, a Robert Stallman, quello che salutava dicendo "happy hacking". Siamo realisti: piuttosto il vero pericolo lo sa qual è? Che tutta questa ventata di democrazia porti dietro di sé la restaurazione di un ordine che non riesco a definire altro che fascista, in cui le libertà vengono mortificate, la trasparenza annullata».
Una reazione fascista, lei dice, per mettere a tacere le tante verità scomode?
«Certo, e allora il conformismo, che oggi dilaga e che WikiLeaks cerca di superare, tornerebbe ad essere lo standard di vita. Questo è il rischio, però se questo scenario dovesse verificarsi, bisogna chiedersi cosa succederebbe ancora dopo, quale sarebbe la reazione alla reazione: bene, il passo ulteriore sarebbe una vera rivoluzione sul modello francese. Vede? Non conviene a nessuno tornare indietro. Per questo dico che la svolta di Assange è irreversibile. Poi volevo ricordare che stavolta hanno fatto il botto, ma non è certo l’unico scoop di WikiLeaks, che esiste da anni e ha rivelato la corruzione in Kenia, il doppio gioco del Pakistan, i traffici di oppio in Afghanistan, le vessazioni a Guantanamo, le torture di Abu Graib, tutte cose non smentite». Ma a parte gli aspetti politici, dal punto di vista scientifico, massmediologico, cosa le suggerisce l’esperienza WikiLeaks?
«Beh, è sicuramente un trionfo di Internet e della natura di trasparenza che ha insita. Una forza tale da contrapporsi ormai a quella dei governi o delle grandi banche, tutte entità che risultano infatti spiazzate di fronte a un’operazione mediatica come questa. Certo, serve la maturità delle popolazioni perché non prendano per oro colato tutto quello che va in rete, e qui resta fondamentale il ruolo dei giornali che riordinano le notizie, le gerarchizzano, evitano che si trasformino in micce accese. Però l’interesse con cui questa storia è stata presa dall’opinione pubblica indica che c’è un desiderio inespresso di verità, o almeno di spiegazioni, quali sono sistematicamente mancate in tutti i grandi scandali e le grandi crisi, dalle Savings & Loan alla vicenda LewinskiClinton, per non dire di tutti i casi più recenti e ben più gravi. Non vorrei ricordare ancora l’11 settembre...»
E secondo lei questa maturità c’è? Tanti parlano piuttosto di componente voyeristica, di gossip...
«Intanto c’è una componente informativa formidabile, pensi ai recenti disordini in Iran documentati solo via Twitter. Il web garantisce una trasparenza democratica contro qualsiasi abuso. Ma va preso con intelligenza. Assomiglia alla Bibbia come numero di sedicenti verità rivelate e codificate, ma come la Bibbia non dice tutte cose vere. Voyerismo? Il mio maestro McLuhan diceva: verrà il momento in cui metà del mondo sarà impegnata a spiare cosa fa l’altra metà. E non c’era ancora Internet. Capito che capacità profetica? Una certa ingenuità alla Pinocchio che guarda incuriosito il prato di monete, è insita nell’uomo e inevitabile. Diciamo che stiamo vivendo Pinocchio 2.0 e rischiamo di finire nella pancia della balena mediatica».
Proviamo a riassumere: bisogna stare attenti a non smettere di crescere, e usare costruttivamente i nuovi strumenti mediatici...
«C’è un cambiamento strutturale, antropologico, dello stesso essere umano. Un tempo si cresceva in silenzio, si studiava, ci si migliorava, come diceva Victor Hugo eravamo noi stessi "la forza che va avanti". Oggi, quello che conta è l’intelligenza connettiva, per lavorare insieme ma anche per sviluppare passioni e sentimenti, possibilmente solidali. La connettività, come dice Pierre Levy, "è un incontro sinergico dei singoli soggetti per raggiungere un obiettivo". Insomma, l’identità è la tua capacità di relazionarti in un network. Tutto cominciò con la diffusione dell’elettricità, poi arrivò il telefono, infine Internet e il cerchio si è chiuso».
Torniamo con i piedi per terra. Come finirà l’avventura di Assange?
«Sono veramente curioso, come tutto il mondo del resto, di vedere le prossime notizie sensazionali che promette, a partire da quelle sulle banche. Inutile dire che vorrei leggere qualcosa sull’11 settembre. Ma in generale, direi che l'opera di Assange segna un punto di non ritorno delle democrazie: non potrà più esistere una diplomazia segreta e incontrollata, e questo si deve a Internet. Tutto questo è utile perché il pianeta deve sviluppare qualche forma di attenzione più vigile, più mobile, accettare meno le versioni di convenienza. Per formare gli anticorpi servirebbe un antibioticobomba, ma anche queste dosi omeopatiche sono sicuramente giuste».
5.12.10
Umberto Eco e l'Italia a 150 anni. I poveri della tv e i ricchi del web
«L'identità italiana dei prossimi 150 anni?». Umberto Eco sorride nel suo salone, all'ombra del Castello Sforzesco di Milano, davanti all'impossibile domanda. È tornato da poco da Parigi, alla riunione di redazione del quotidiano gauchiste «Liberation» gli han chiesto come sempre de "les Italiens", e ha provato a rispondere «occhio piuttosto ai movimenti culturali che politici, occhio alle università».
E a pochi giorni dal 150º compleanno del paese, provando a guardare a quali idee uniranno – o divideranno come presagisce nel suo romanzo Il cimitero di Praga – le prossime generazioni, il pioniere della semiologia azzarda «Giudica da televisione e internet. La tv ha fatto bene ai poveri e male ai ricchi. Internet male ai poveri e bene ai ricchi».
Sembra un paradosso dritto dai tempi de «Apocalittici e integrati», il saggio di Eco che diede alla cultura di massa dignità di "cultura", fece incavolare ermellini e parrucconi del 1964, animando oggi 7580 siti sul web: «La televisione diede un linguaggio ai poveri, la lingua nazionale italiana. Può darsi che la parlassero con i tic di Mike Bongiorno ma comunque la impararono. La classe colta, i ricchi dico per ironia, magari invece abbandonarono la lettura di Marcel Proust e de La ricerca del tempo perduto, per quiz e varietà. L'esatto contrario con il web. I poveri, chi non ha gli strumenti di cultura del nuovo sapere, rischia di perdersi nell'oceano di informazione della rete, finendo nei siti dei complottisti, dei populisti. Non imparano nuove informazioni, ma si intossicano di menzogne. I ricchi, i colti, possono scrivere una tesi di esegesi bliblica cliccando su una tastiera».
Si chiama "digital divide", la barriera culturale prodotta dal web e potrebbe essere questo il ponte levatorio del nuovo Castello del potere nel prossimo secolo e mezzo nazionale. Un compleanno che Eco festeggia con moderato entusiasmo, «Il paese mi sembra avere perduto energia morale, forza. È come se fosse narcotizzato. Io sono stanco di vedere la nostra identità maltrattata all'estero dagli analisti.
Ancora due o tre anni fa ci compativano, "poveracci vi siete ridotti male", adesso quasi si incavolano "perché non reagite?" come se le identità, il consenso nazionale, fossero facili schemi da ribaltare». E prima di arrivare alla sua, preoccupata, vista sull'Italia 2010- 2011, Eco torna agli anni della fondazione, ai mito del Risorgimento.
«Gli Stati Uniti hanno avuto una guerra civile, e tragica, ma già col romanzo di Margaret Mitchell del 1936, e tre anni dopo con il filmone, Via col Vento prodotto da Selznick, provarono a darsi una visione unitaria, nazionale, dove yankee e confederati potessero darsi conto reciprocamente delle ragioni. Esercizio per noi italiani impossibile. Non solo ci siamo divisi tra guelfi e ghibellini, ma poi tra bianchi e neri, in un caleidoscopio perenne di fazioni e gruppi. Che non ci ha dato serenità politica».
Per Eco è la cultura ad avere unito il paese, prima che politica e istituzioni ci provassero con alterne fortune: «Abbiamo una tradizione comunale di faide. Se oggi quella lacerazione è incarnata al Nord dalla Lega, non dimenticare che al Sud sono sempre rimaste attive spinte autonomistiche, separatiste, in Sicilia, in Sardegna. Il mito del Risorgimento, contestato o no, è contrapposto a un mito del regno Borbonico, che non ho mai condiviso. Per dirla tutta, se oggi c'è la monnezza in strada a Napoli è per il retaggio peggiore di quella tradizione.
E, con freddezza storica, dobbiamo ammettere che i piemontesi» – e qui Eco parla da piemontese doc, come il senatore Chevalley del Gattopardo – «fecero un sacco di cavolate, repressero dove dovevano riformare, ma credo che alla fine l'Italia unita sia un paese, e una comunità, migliore di quella che avremmo ereditato da Granducati di Toscana e Borboni. Sarebbe bene che Nord e Sud accettassero questa morale».
Per capire però il Dna profondo degli italiani a 150 anni, Eco chiama a un precoce sforzo globale. Considera il nostro paese «la prima nazione globale», quando ancora al posto del computer si usavano incunaboli. «La nostra identità è cosmopolita. In politica perché ogni castello chiamava lo straniero ad allearsi contro il castello contiguo. E in cultura perché la capacità "globale" dei nostri classici, ha fatto loro perdere italianità.
I francesi tendono ad annetterseli, considerano francesi Leonardo e Modigliani, gli spagnoli apprezzano un italiano come cugino, gli inglesi e i tedeschi guardano ai valori umanistici, come se Dante fosse compatriota di Shakespeare e Goethe e Machiavelli di Hegel. Se l'italiano è, e resta, esterofilo, gli stranieri tendono a assumerlo come un internazionale cosmopolita. Io sono arrivato in America più spesso invitato dagli istituti di cultura francese che da quelli di italianistica...».
Come ce la siamo cavata però per secoli, arrivando oggi malgrado tutto a essere la seconda industria d'Europa e una delle prime nel mondo, pur con un paese povero di risorse e di unità politica? «Perché ce la caviamo, siamo abituati a tenere duro, a creare, inventare, il Rinascimento è invenzione, il boom economico degli anni 60 invenzione. Sai da dove viene la parola kitsch secondo alcune etimologie? Da sketch, gli schizzi alla buona che gli artisti di strada vendevano ai turisti gentlemen inglesi del passato. Già allora riciclavamo le glorie, un marketing alla buona».
E oggi? Fabio Fazio ha chiesto a Eco, protagonista delle avanguardie alla Gruppo '63, collaboratore di «Espresso» e «Manifesto», se l'aggettivo "disperato" usato dal Sole per recensire il suo ultimo romanzo fosse azzeccato e la risposta, in tv, come qui, è la stessa: «Invecchiando ci si fa pessimisti. La sinistra aveva la carta Prodi e l'ha bruciata per due volte, proprio per quelle faide di fazione ancestrali. E la destra ha un leader che rappresenta tanti italiani nei loro tic e desideri, dà l'illusione di stare nella modernità, ma poi non ha riformato il paese. Ci vorrebbe un Comitato di salute pubblica, un governo unitario che lavorasse sui problemi, ma non vedo una classe politica, o un'opinione pubblica, capace di generarlo».
Disperazione o pessimismo non allontanano Umberto Eco dal lavoro: «I giovani li leggo, Ammaniti, Nove, la Avallone, sono bravi. Al cinema invece vado poco, solo i classici. Quando è rinata la rivista "Alfabeta" ho chiesto che venissero costituiti dei comitati di giovani laureati a Bologna, a Torino, a Roma, per dare la possibilità a tanti giovanissimi pieni di ingegno e senso critico. Ma il fatto politico più nuovo è passato dalla tv, il Vieni via con me di Fabio Fazio e Roberto Saviano. Oltre le ideologie del Novecento, m'è sembrato un modo di guardare al di là della politica, al di là dei partiti, cercando la cultura che ci unisca». È stato, per Eco, il regalo di compleanno all'Italia, nel compleanno numero 150.
3.12.10
I migliori libri 2010 dell'Economist parlano della Cina e dell'America di Obama
In cima alla lista dei libri di politica e attualità, è l'America al tempo di Obama.
"Game Change: Obama and the Clintons, Mc Cain and Palin, and the Race of a Lifetime", scritto da due giornalisti americani, John Heilemann and Mark Halperin. La lettura è definita "scioccante" e "compulsiva", in particolare per quanto riguarda Hillary Clinton e John McCain. La campagna presidenziale 2008 emerge come "porno politico di alta qualità".
"The Bridge: The Life and Rise of Barack Obama", di David Remnik è una biografia del presidente Usa, ben scritta e ricca di nuovi dettagli sulla sua vita.
C'è anche l'America della guerra al terrorismo ereditata da George W. Bush. "The Watchers: The Rise of America's Surveillance State", di Shane Harris, racconta dell'ascesa dello stato di polizia negli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001.
Sulla Cina, l'altro grande protagonista della politica mondiale, L'Economist ha scelto due titoli. "The Party: The Secret World of China's Communist Rulers" di Richard Mc Gregor (ex capo dell'ufficio di Pechino del Financial Times), racconta il mondo segreto del partito comunista cinese e sostiene che il potere si basa su un sistema che rende la corruzione quasi inevitabile.
In "Country Driving: A Journey Through China from Farm to Factory", il giornalista americano Peter Hessler si mette dietro al volante di un'auto per esplorare come la Cina sta cambiando.
Uno sguardo alla Gran Bretagna alle prese con i costi dei baby boomers è "The Pinch: How the Baby Boomers Took Their Children's Future—and Why They Should Give it Back". La generazione che ha "rubato il futuro ai propri figli" dovrebbe ridarglielo. L'autore è David Willetts, ministro per l'Università e la Scienza di David Cameron, che l'Economist definisce uno dei pochi "pensatori profondi" dei Tories.
Tra le biografie e memorie, spicca "The Hare with Amber Eyes: A Hidden Inheritance" di Edmund de Waal. Si tratta, secondo il settimanale, di "uno studio magico di come gli oggetti sono manipolati, usati e poi passati di mano in mano", scritto da un ceramista britannico che ha ereditato 264 miniature giapponesi. Il titolo si riferisce a una di queste miniaure, la lepre con gli occhi d'ambra.
Nel paragrafo dedicato ai libri di storia, in primo piano la rivalità tra Occidente e Cina. "Why the West Rules—For Now: The Patterns of History and What They Reveal About the Future". Ian Morris, storico britannico alla Stanford University, spiega perché l'Occidente domina, per ora, e sostiene che i dibattiti sull'ascesa della Cina e il declino dell'Occidente saranno alla fine marginali perché la natura si ritorcerà contro la società umana.
Sempre con l'attenzione rivolta alle relazioni tra Est e Ovest, "Pearl Buck in China: Journey to the Good Earth", di Hilary Spurling, narra come gli scritti della prima donna americana vincitrice del Nobel per la letteratura abbiano contributo a lenire le tormentate relazioni tra l'Occidente e la Cina nella prima parte del 20.mo secolo. Ancora sulla Cina, la storia della grande carestia di Mao, "Mao's Great Famine: The History of China's Most Devastating Catastrophe, 1958-1962", di Frank Dikötter.
Ma c'è anche il sogno sovietico degli Anni Cinquanta: "Red Plenty: Industry! Progress! Abundance! Inside the Fifties' Soviet Dream". Francis Spufford racconta perché la pianificazione centralizzata dell'Unione Sovietica fu un fallimento.
Originale e certamente adatto come regalo di Natale, "A History of the World in 100 Objects", una storia del mondo attraverso cento oggetti raccontata elegantemente da Neil MacGregor, direttore del British Museum.
Sul fronte dell'economia, c'è quello che per il settimanale britannico è uno dei migliori libri sulla recente crisi, "The Big Short: Inside the Doomsday Machine", di Michael Lewis.
Contro tutti quelli che propendono per il pessimismo della ragione, nella sezione scienza e tecnologia, l'Economist segnala "The Rational Optimist: How Prosperity Evolves". Matt Ridley, noto autore di scienza, sfida chi vede nero e sostiene che il mondo non può sfamare 9 miliardi di bocche, che l'Africa è destinata a fallire e che il pianeta va verso il disastro climatico.
Toni più lievi e addirittura spensierati nel paragrafo dedicato a cultura, società e viaggi. Si scivola sull'onda del surf leggendo "Sweetness and Blood: How Surfing Spread from Hawaii and California to the Rest of the World, With Some Unexpected Results". Michael Scott Moore racconta come il surf si è diffuso dalle Hawaii e dalla California al resto del mondo, con "risultati inaspettati".
Nella narrativa, non poteva mancare "Freedom", il nuovo romanzo di Jonathan Franzen, l'autore di "Le Correzioni". E' la storia di una famiglia del Midwest che rappresenta il ceto medio dell'America contemporanea. Per l'Economist, un moderno "Paradiso perduto".
L'Economist ha scelto anche un romanzo ambientato a Roma, "The Imperfectionists", di Tom Rachman, che racconta vicissitudini e drammi di un grande quotidiano internazionale americano in crisi, non troppo lontano dall'International Herald Tribune, basato a Parigi, dove l'autore lavorava.
Due premi Nobel nei libri di poesia, "Human chain" del poeta nordirlandese Seamus Heaney e "White Egrets: Poems" del poeta santaluciano Derek Walcott.
L'Economist propone a parte una rassegna dei libri scritti dai suoi giornalisti "quando non erano in ufficio". Spiega di farlo su richiesta dei lettori, poiché abitualmente non fa recensioni di libri scritti dal suo staff o dagli ex che hanno lasciato il giornale da meno di cinque anni.
Nella lista di dodici titoli compaiono due libri sull'Italia. Il primo è "Forza, Italia: Come Ripartire dopo Berlusconi"di Bill Emmott, un saggio che – spiega l'Economist - "analizza la lotta tra ‘l'Italia buona' e ‘l'Italia cattiva' e dice come può vincere quella buona. Il secondo saggio, "Into the Heart of the Mafia: A Journey Through the Italian South", di David Lane (corrispondente dall'Italia per la finanza ), descrive come l'influenza della mafia nell'Italia del Sud è stata rafforzata dalla globalizzazione.
Da segnalare infine il libro degli "ismi" di John Andrews, "The Economist Book of Isms: From Abolitionism to Zoroastrianism"; una guida all'economia, "The Little Book of Economics: How the Economy Works in the Real World", di Greg Ip; e una guida agli hedge fund, "The Economist Guide to Hedge Funds: What They Are, What They Do, Their Risks, Their Advantages" di Philip Coggan.