Barbara Spinelli (La Repubblica) 
Proprio nel momento in cui prometteva il «linguaggio sovversivo  della verità», il nuovo presidente del Consiglio ha riscritto a modo  suo, storcendolo non poco, il mito di David e Golia. Lo voleva usare  come parabola delle larghe intese e della pacificazione, quando è una  storia di guerra astuta e cruenta. Ha evocato la rinuncia alle armi del  fanciullo-pastore. Quasi quest’ultimo prefigurasse un Cristo (falso,  peraltro) che porge la guancia all’avversario e per questo rifiuta  l’elmo di bronzo, la corazza, la spada – cui non è abituato – portando  con sé solo cinque ciottoli lisci e la fionda.
In realtà David li porta per uccidere Golia, non per schivare il duello.  Golia, il gigante filisteo alto sei cubiti e un palmo, cadrà a terrà  ferito dal primo ciottolo. Il colpo finale, la decapitazione, il giovane  pastore l’assesta con la spada, che sguaina dal fodero dell’avversario  atterrato. L’atto fa di lui il pretendente al trono di Saul.
Chi ha visto il dipinto di Caravaggio ricorderà la resa dei conti,  l’inorridita testa amputata di Golia, che ancora grida. Difficilmente  gli verranno in mente le grandi intese magnificate da Letta alle Camere,  l’era delle contrapposizioni finite, un intero ventennio di abusi di  potere rimosso. Golia non è spodestato (Machiavelli direbbe non è  spento): anzi, con lui si vuole difendere la Repubblica dalle avversità.  È un Golia riabilitato, perfino premiato. Brandisce addirittura la  spada, sull’Imu, per mostrare chi comanda in città. Nell’Antico  Testamento, il gigante non è in predicato di divenire senatore a vita, o  peggio presidente della Convenzione che ridisegnerà il regno e la sua  costituzione. E Letta non è, come nel libro di Samuele, il temerario  ragazzo che si getta nell’agone per «allontanare la vergogna da  Israele»: indifferente ai fratelli che, impauriti, l’accusano di «boria e  malizia », trascinato dalla fede. Nessuna boria né malizia, in Letta  che apre le porte a Golia. Ma la fede qual è, dov’è? Quale convinzione  forte lo spinge a esautorare il Parlamento — e i cittadini rappresentati  — affidando a un organo parallelo e separato la rifondazione della  politica, della Costituzione, della giustizia? Come può pensare, se non  in una logica di compromissione più che di compromesso, di assegnare la  regia della nuova Bicamerale nientemeno che a Golia?
La fede, Letta la possiede su punti tutt’altro che irrilevanti. Fede in  un’altra Europa, unita in una Federazione dove non dominino gli Stati  più potenti: Monti non osò, non credendoci. Fede in politiche che  riducano diseguaglianze e impoverimento creati dalle terapie anti-crisi.  Due ministri, Emma Bonino e Fabrizio Saccomanni, sono competenti e  determinati in ambedue i campi, soprattutto quello europeo.
È il linguaggio di verità sul patto con Berlusconi che manca. Gli  italiani (compresi gli 11,5 milioni che si sono astenuti, per  rassegnazione o rabbia) hanno condannato vent’anni e più di politica  offesa da tornaconti partitocratici. Sono stati ignorati: la politica  sarà rimaneggiata non dai loro rappresentanti ma da pochi cosiddetti  saggi, di nuovo, che pretendono di sapere più degli altri per potere più  degli altri.
Sarà verità sovversiva, dice Letta, e invece siamo tuttora immersi in  quella che è stata chiamata – da quando Bush iniziò la guerra in Iraq –  l’era della post-verità: degli eufemismi che imbelliscono i fatti, dei  vocaboli contrari a quel che intendono. Ne citiamo solo due: la  parola riforma, sinonimo ormai di tagli ai servizi pubblici;  la responsabilità, per cui la compromissione è necessità naturale che  esclude ogni alternativa. Giustamente, ieri, Ezio Mauro ha scritto:  «L’abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo  di salute pubblica» non è vittoria della politica.
Non è vera questa storia della necessità: il patto Pd-Pdl, e l’eventuale  elevazione di Berlusconi a Padre Costituente o senatore a vita (in  sostanza: a futuro capo di Stato) non sono necessità, ma scelte  discrezionali. Per questo abbiamo evocato la post-verità di Bush jr:  l’offensiva in Iraq fu presentata come guerra di necessità, quando era  di scelta. L’Europa acefala ne uscì a pezzi, la Nato si rivelò arnese di  Washington. Speriamo che Bonino ne prenda atto: europeismo e atlantismo  non sono più la stessa cosa.
Napolitano ci ha ammoniti severamente, il 24 aprile: «Confido che tutti  cooperino – e quando dico tutti mi riferisco anche in particolare ai  mezzi di informazione – a favorire il massimo di distensione piuttosto  che il rinfocolare vecchie tensioni». Mi permetto di difendere non solo  il diritto, ma l’utilità del rinfocolamento. Che altro opporre alla  riaccesa torcia del berlusconismo, se non la fiamma della critica, del  No. La democrazia è compromessa, l’etica della responsabilità abusata,  quando dall’agenda Pd scompare, grazie ai 101 traditori di Prodi, ogni  accenno al conflitto di interessi e al dominio berlusconiano sulle tv.
Solo la disputa tra idee contrarie, solo l’Uno che si apre al due, può  un po’ riavvicinare i cittadini allo Stato, alla politica. Solo se i  media ridiventano quarto potere, libero da doveri di «cooperare»; se i  partiti stessi smettono la perversa fratellanza con lo Stato. Solo se  nasce, negli uni e negli altri, quella che Fabrizio Barca chiama  «mobilitazione cognitiva»: la diatriba diffusa, non riservata a cerchie,  cricche, attorno a conoscenze e pareri contrastanti. Salvatore Settis  lo ricorda, nell’intervista al Secolo XIX di domenica: 30.000  associazioni cittadine, oggi, rappresentano 5-6 milioni di persone. Non  son poche. Il potere negativo del sovrano popolare non muore.
Proprio in questi giorni abbiamo avuto una prova, decisiva, dell’utilità  della non-cooperazione con la ragion di Stato. Ne ha riferito Paul  Krugman, in un articolo che dichiara defunta, almeno nelle accademie,  l’Austerità (Repubblica, 27 aprile). È un dogma cui l’Europa è appesa da anni: se non cresciamo  economicamente, è solo perché gli Stati sono troppo indebitati. A  sfatare l’assioma: tre economisti non ortodossi dell’università di  Massachusetts- Amherst (i professori Michael Ash e Robert Pollin, lo  studente di dottorato Thomas Herndon) che hanno scoperto errori di  computer (l’errore Excel)
commessi nel 2010 dai due economisti di Harvard, Kenneth Rogoff e Carmen  Reinhart. Il dogma («i Paesi che si indebitano oltre il 90 per cento  del Pil non possono crescere») è in pezzi.
Non si tratta solo di un errore Excel ma di un’ideologia, che mescola  abilmente economia, politica, democrazia oligarchica: Krugman smaschera  il «diffuso desiderio di trasformare l’economia in un racconto morale,  in una parabola sugli eccessi e le loro conseguenze. Abbiamo vissuto al  di sopra dei nostri mezzi, narra il racconto, e adesso ne paghiamo  l’inevitabile prezzo. Gli economisti possono spiegare ad nauseam che  tale interpretazione è errata, e che se oggi abbiamo una disoccupazione  di massa non è perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso  spendiamo troppo poco, e che questo problema potrebbe e dovrebbe essere  risolto. Tutto inutile: molti nutrono la viscerale convinzione che  abbiamo commesso un peccato e che dobbiamo cercare di redimerci  attraverso la sofferenza».
Così torniamo al governo necessario di Letta. Se le dispute e le  tensioni vengono tacitate, sarà difficile sperimentare nuove vie,  istituzionali e anche economiche. Cosa dice il ministro Saccomanni  dell’errore Excel e della deduzione di Krugman («Ciò che il più ricco 1 per cento della  popolazione desidera, diventa ciò che la scienza economica ci dice che  dobbiamo fare »)? Se l’agenda Monti non è rimessa in questione, se non  si mobilitano conoscenze alternative, come superare la crisi? Se non  credo nell’evidenza dei fatti scoperchiata dagli economisti dissidenti –  si domanda alla fine Krugman – «Cosa sto facendo della mia vita»?
 
 
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