30.9.15

Scomode verità che non vogliamo vedere

Franco Bifo Berardi (il manifesto)

C'è vita a sinistra. Per il 5 o anche il 10% forse c’è vita. Per una svolta sociale e politica del mondo non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile. Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato

L’organismo della sini­stra è assai poco vitale, ma com­pren­si­bil­mente non vuole dir­selo e nem­meno sen­tir­selo dire. E se pro­vas­simo ad affron­tare la que­stione da un punto di vista un po’ meno pre­ve­di­bile? Se comin­cias­simo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.

Per­ché que­sta è la verità: non c’è vita, se mai c’è soprav­vi­venza eroica ma sten­tata di un vasto numero di asso­cia­zioni e orga­ni­smi di base che cer­cano di garan­tire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.

Se comin­cias­simo col dirci la verità che dal tronco della sini­stra del Nove­cento non sboc­cerà più alcun fiore, forse allora riu­sci­remmo a vedere la realtà pre­sente in maniera più rea­li­stica e forse anche a imma­gi­nare una via d’uscita per il pros­simo futuro.

Se sini­stra vuol dire una for­ma­zione capace di rag­giun­gere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a suf­fi­cienza. Gra­zie alla demo­gra­fia, gra­zie all’ampiezza dei ran­ghi degli ultra-sessantenni pos­siamo ancora spe­rare di costi­tuire una for­ma­zione che mandi in par­la­mento qual­che depu­tato prima di esau­rirsi per estin­zione pros­sima della gene­ra­zione che si formò negli anni della democrazia.

Ma se sini­stra vuol dire una forza capace di imma­gi­nare una svolta nella sto­ria sociale eco­no­mica e poli­tica del mondo, una forza capace di attrarre le ener­gie della gene­ra­zione pre­ca­ria e con­net­tiva, se sini­stra vuol dire una forza capace di rove­sciare il rap­porto di forze che il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato ha impo­sto all’umanità — allora è meglio non rac­con­tarci bugie pie­tose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.

I con­tri­buti che ho letto sul mani­fe­sto sono più o meno apprez­za­bili, alcuni mi sono pia­ciuti molto. Ma non ne ho tratto la per­ce­zione che qual­cuno voglia vedere quel che sta acca­dendo e che acca­drà, e soprat­tutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.

La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola demo­cra­zia non cor­ri­sponde nulla.

Per­ché dovrei ancora pren­dere sul serio la demo­cra­zia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occor­reva l’esperienza greca, per sapere che la demo­cra­zia non è più una strada per­cor­ri­bile. Basta ricor­darsi del refe­ren­dum ita­lico con­tro la pri­va­tiz­za­zione dell’acqua, i suoi risul­tati trion­fali, e i suoi effetti pra­ti­ca­mente nulli sulla realtà eco­no­mica e politica.

E allora, se la demo­cra­zia non è una strada per­cor­ri­bile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che tal­volta nella vita (e nella sto­ria) è oppor­tuno par­tire da un’ammissione di impo­tenza. Non posso, non pos­siamo farci niente.

Cioè, fermi un attimo. Due cose dob­biamo farle, e se volete chia­marle sini­stra allora sì, ci vuole la sinistra.

La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.

Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni l’Unione euro­pea, ormai entrata in una situa­zione di scol­la­mento poli­tico, di odii incro­ciati, di pre­da­zione colo­niale, finirà nel peg­giore dei modi: a destra. Pos­siamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbat­tere la dit­ta­tura finan­zia­ria euro­pea è la destra?

Dovremmo dirlo, per­ché que­sto è quello che sta già acca­dendo, e le con­se­guenze saranno vio­lente, san­gui­nose, cata­stro­fi­che dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dob­biamo allora smet­tere i gio­chi già gio­cati cento volte per met­terci in ascolto dell’onda che arriva.

Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni gli effetti del col­lasso finan­zia­rio del 2008 mol­ti­pli­cati per gli effetti del col­lasso cinese di que­sti mesi pro­durrà una reces­sione glo­bale. Pos­siamo pre­ve­dere che la cre­scita non tor­nerà per­ché non è più pos­si­bile, non è più neces­sa­ria, non è più com­pa­ti­bile con la soprav­vi­venza del pia­neta, e ogni ten­ta­tivo di rilan­ciare la cre­scita coin­cide con deva­sta­zione ambien­tale e sociale.

La decre­scita non è una stra­te­gia, un pro­getto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si tra­duce in un’aggressione siste­ma­tica con­tro il sala­rio, e con­tro le con­di­zioni di vita delle popo­la­zioni. E si tra­duce in una guerra civile pla­ne­ta­ria che solo Fran­ce­sco I ha avuto il corag­gio di chia­mare col suo nome: guerra mondiale.

La seconda cosa da fare è: imma­gi­nare.

Imma­gi­nare una via d’uscita dall’inferno par­tendo dal punto cen­trale su cui l’inferno pog­gia: la super­sti­zione che si chiama cre­scita, la super­sti­zione che si chiama lavoro sala­riato. Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un punto: pre­di­cano la cre­scita in un momento sto­rico in cui non è più né auspi­ca­bile né pos­si­bile, e soprat­tutto è ine­si­stente per la sem­plice ragione che non abbiamo biso­gno di pro­durre una massa più vasta di merci, ma abbiamo biso­gno di redi­stri­buire la ric­chezza esistente.

Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un secondo punto: lavo­rare di più, aumen­tare l’occupazione e con­tem­po­ra­nea­mente aumen­tare la pro­dut­ti­vità. Non c’è nes­suna pos­si­bi­lità che que­ste poli­ti­che abbiano suc­cesso. Al con­tra­rio la disoc­cu­pa­zione è desti­nata ad aumen­tare, poi­ché la tec­no­lo­gia sta pro­du­cendo in maniera mas­sic­cia la prima gene­ra­zione di automi intel­li­genti. Da cinquant’anni la sini­stra ha scelto di difen­dere l’occupazione, il posto di lavoro e la com­po­si­zione esi­stente del lavoro. Era la strada sba­gliata già negli anni ’70, diventò una strada cata­stro­fica negli anni ’80. Era una strada che ha por­tato i lavo­ra­tori alla scon­fitta, alla soli­tu­dine, alla guerra di tutti con­tro tutti.

Per­ché dovremmo difen­dere la sini­stra visto che è stata pro­prio la sini­stra a por­tare i lavo­ra­tori nel vicolo cieco in cui si tro­vano oggi?

Di lavoro, sem­pli­ce­mente, ce n’è sem­pre meno biso­gno, e qual­cuno deve comin­ciare a ragio­nare in ter­mini di ridu­zione dra­stica e gene­ra­liz­zata del tempo di lavoro. Qual­cuno deve riven­di­care la pos­si­bi­lità di libe­rare una fra­zione sem­pre più ampia del tempo sociale per desti­narlo alla cura l’educazione e alla gioia.

So bene che non si tratta di un pro­getto per domani o per dopo­do­mani. Negli ultimi quarant’anni la sini­stra ha con­si­de­rato la tec­no­lo­gia come un nemico da cui pro­teg­gersi, si tratta invece di riven­di­care la potenza della tec­no­lo­gia come fat­tore di libe­ra­zione, e si tratta di tra­sfor­mare le aspet­ta­tive sociali, libe­rando la cul­tura sociale dalle super­sti­zioni che la sini­stra ha con­tri­buito a formare.

Quanto tempo ci occorre? Baste­ranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guar­dare, visto che nulla pos­siamo fare. Guar­dare cosa? La cata­strofe che è ormai in corso e che nes­suno può fer­mare. Stiamo a guar­dare il pro­cesso di finale disgre­ga­zione dell’Unione euro­pea, la vit­to­ria delle destre in molti paesi euro­pei, il peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita della società. Sono pro­cessi scritti nella mate­riale com­po­si­zione del pre­sente, e nel rap­porto di forza tra le classi.

Ma natu­ral­mente non si può stare a guar­dare, per­ché si tratta anche di sopravvivere.

Ecco un pro­getto straor­di­na­ria­mente impor­tante: soprav­vi­vere col­let­ti­va­mente, sobria­mente, ai mar­gini, in attesa. Riflet­tendo, imma­gi­nando, e dif­fon­dendo la coscienza di una pos­si­bi­lità che è iscritta nel sapere col­let­tivo, e per il momento non si can­cella: la pos­si­bi­lità di fare del sapere la leva per libe­rarci dallo sfruttamento.

Atten­dere il mat­tino come una talpa.

22.9.15

L’Europa aspetta Godot, ma Annibale è alle porte

L’Europa aspetta Godot, ma Annibale è alle porte

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[Carta di Laura Canali]
Ci attendiamo che gli Usa garantiscano la sicurezza del Vecchio Continente. Washington però ormai guarda al Pacifico, mentre ai nostri confini ci sono due crisi che non possiamo più ignorare.
Nella storia dei popoli esistono periodi caratterizzati da mutamenti tanto rapidi, radicali e continuati che il cambiamento cessa di essere l’eccezione e la stabilità la regola.

Diviene vero il contrario: il cambiamento si fa regola e la stabilità è degradata a eccezione, in una cornice in cui la storia appare destinata a travolgere nella sua inarrestabile, tumultuosa avanzata chiunque non riesca a mantenere il suo ritmo rimanendo sempre sulla cresta dell’onda.

È quanto sta avvenendo in questo momento. Dopo un lungo periodo di apparente immobilità, propiziata da un confronto bipolare tra due blocchi apparentemente avversari ma che in realtà si aiutavano l’un l’altro a mantenere salda la condivisione del mondo, il vaso di Pandora si rivela di nuovo palesemente aperto, lasciando via libera ad ambizioni e rivalità che per lungo tempo noi abbiamo sottovalutato e che solo ora appaiono in tutta la loro evidente estrema pericolosità.

In questo contesto l’Unione Europea, fiera sino a ieri delle due generazioni di pace dopo millenni di guerra che essa giustamente considera come la migliore e la più valida delle sue conquiste, si rende improvvisamente conto di come la storia abbia l’abitudine di rimescolare le carte in continuazione e di come nessuna conquista possa essere considerata duratura se non le si dedicano tutta la cura e i sacrifici che essa richiede.

In periodi tesi come quello attuale dobbiamo in primo luogo essere sinceri con noi stessi e pronti a riconoscere e a correggere le nostre colpe se e quando qualcosa va male. In effetti, in questo momento alcuni fra i maggiori difetti della nostra incompleta costruzione comunitaria si stanno impietosamente evidenziando.

In materia di pace abbiamo infatti seguito due politiche tra loro nettamente contrastanti. La prima era una politica declamatoria e irenica che esaltava la pace come lo stato di natura ideale che ci permetteva di esprimere al meglio tutti i valori in cui credevamo. La seconda era invece la politica della realtà, quella fatta dalle grandi e piccole decisioni di tutti i giorni. Una politica che in tutti gli Stati membri della Unione è stata orientata per anni a lesinare proprio su quelle spese per la sicurezza che costituivano il sacrificio indispensabile per il mantenimento e la corretta manutenzione della nuova pax europea.

La speranza rimaneva sempre quella di poter scaricare su altri la parte del fardello comune che ci spettava. Prima sul Grande Fratello d’oltre Atlantico, poi, quando è divenuto chiaro che dal tradizionale legame bilaterale anche egli voleva soltanto prendere e non era più disposto a dare, sugli altri Stati dell’Unione. Fra i fratelli europei si è innescata così una vera e propria corsa al ribasso in cui hanno sempre prevalso gli aspetti del più bieco degli egoismi.

Come risultato ci ritroviamo adesso con il fuoco alle frontiere. Bruciano i campi dei nostri vicini e ciò significa che è molto facile che il fuoco si estenda rapidamente anche alle nostre culture. Ricordate l’espressione romana Hannibal ad ianuas!, “Annibale è alle porte”? Beh, questa volta Annibale è veramente di nuovo alle nostre porte; per di più bussa contemporaneamente a Nordest e a Sud. Alcune crisi ancora non si profilano con chiarezza come minacce ma come tali potrebbero evidenziarsi da un momento all’altro, magari senza preavviso e con estrema virulenza.

In una situazione del genere – alle frontiere orientali una Russia divenuta rapidamente tanto ostile da ritenere necessario ricordarci quasi quotidianamente che lei è una delle due grandi potenze nucleari del mondo; alle frontiere meridionali un islam dilaniato da un contrasto fra sciiti e sunniti sempre più sanguinoso e che non riesce a mantenere sotto controllo schegge impazzite di fanatici capaci di esprimere soltanto paura ed odio – ci si aspetterebbe dall’Unione Europea una reazione concordata rapida ed efficace.

In altri momenti critici della sua storia ciò è avvenuto. Questa capacità dell’Europa di riuscire ad andare avanti soltanto all’ultimo minuto utile ci aveva fatto ironizzare sulla strana peculiarità di una istituzione che si rivelava in grado di dare il meglio soltanto in momenti di consolidata frustrazione e di angosciosa paura. Adesso invece l’Ue non accenna a muoversi e a fare il salto di qualità che sarebbe indispensabile. La sua inerzia esalta addirittura, per contrasto, il dinamismo della Lega Araba che in questi ultimi tempi si è dimostrata capace, se non altro, di non nascondersi i problemi e di assumere decisioni che sino a ieri sarebbero sembrate impossibili.

Sembra quasi che fra Lega Araba e Unione Europea i ruoli siano ora completamente invertiti rispetto a 15/20 anni fa, allorché era il Sud Mediterraneo a crogiolarsi in un immobilismo suicida mentre il Nord ancora appariva pieno di vitalità. Paesi vecchi e di vecchi? Declino biologico, oltre che declino storico? Di sicuro c’è parecchio di questo, anche se l’invecchiamento dei nostri paesi non riesce a giustificare da solo né la loro inerzia né la rapidità del loro discesa.

In tale contesto è deleterio che noi continuiamo – come innamorati traditi che non vogliono accettare la separazione definitiva e confidano nell’impossibile ritorno dell’amata – ad aspettare che gli Usa riprendano il ruolo guida che erano stati capaci di esprimere nell’ambito del legame transatlantico per più di cinquant’anni e ci costringano loro a prendere quelle decisioni che per ora sembriamo non essere capaci di prendere da soli.

Aspettiamo così un Godot che non verrà mai, ora che l’era del Pacifico ha definitivamente preso il posto di quella dell’Atlantico. Più aspettiamo senza agire più ci indeboliamo, innescando un rapporto causa-effetto destinato a rendere ancora più improbabile un eventuale ritorno che comporterebbe anche l’obbligo di supplire alle nostre carenze.

Forse per noi è anche meglio che il nostro Godot non sia orientato a tornare:  la politica statunitense degli ultimi anni, esaminata in ottica europea, ha reso pericolosissimo il nostro rapporto con il mondo arabo, difficile quello con l’Iran e angosciante quello con la Russia. Da chiedersi inoltre cosa potrebbe succedere domani ove al posto di un presidente ragionevole per quanto debole come Obama dovesse essere eletto un esaltato repubblicano, magari del Tea Party!

Di pari passo con l’attesa quasi messianica del ritorno Usa in Europa va la fiducia che ancora continuiamo a concedere a scatola quasi chiusa al Patto Atlantico e alla Nato. Rifiutiamo di accorgerci che essi sono scaduti da strumento politico principe dell’Occidente dotato di un adeguato ed efficace braccio armato a semplice serbatoio di forze militari fra loro compatibili, cui si attinge sulla base di logiche spesso leonine e discutibili. Basti pensare ai casi della Georgia e dell’Ucraina, in cui la Nato a cuor leggero ha contribuito a creare gravi crisi che non ha avuto poi la capacità di affrontare efficacemente.

Nonostante ciò, continuiamo a confidare per la nostra difesa collettiva in un’organizzazione datata che avrebbe bisogno di una revisione tanto radicale da essere quasi una ricostruzione su basi differenti e che rischia di essere paralizzata – o male indirizzata nel momento del bisogno – da logiche a noi estranee.

C’è da chiedersi se ciò non avvenga perché questa situazione consente ai complessi militar-industriali europei di continuare a crogiolarsi nella loro inefficienza, perpetuando l’assurdo di Forze armate che mantengono sotto le armi più di un milione e mezzo di persone e dispongono di un bilancio pari al 40% di quello Usa ma rimangono ben lontane dall’esprimere le prestazioni che da tali numeri sarebbe logico pretendere.

La quadratura di questo cerchio consisterebbe, come già detto, nell’edificazione di un vero e proprio strumento europeo di difesa. Ciò dal punto di vista politico ci darebbe il vantaggio di poter essere completamente autonomi nelle decisioni concernenti la nostra sicurezza, mentre da quello economico ci permetterebbe di fruire di indubbie economie di scala. L’operatività delle nostre forze ne sarebbe inoltre considerevolmente esaltata. Cosa aspettiamo allora per fare questo passo decisivo e indispensabile?

Quando si trattò di unificare la moneta sapemmo procedere rapidamente e bene. Perché esitiamo ora che è chiaramente giunto il momento in cui la ritardata unificazione dei nostri strumenti di difesa ci pone di fronte a rischi che non è esagerato considerare inaccettabili?

Annibale, giunto alle porte di Roma, si limitò a un gesto simbolico: lanciò una lancia oltre le mura serviane prima di ritirarsi verso Capua. Fu una fortuna per Roma, rimasta sguarnita e quindi non adeguatamente difesa. Ma non sempre nella storia fortune del genere si ripetono!

Per approfondire: Dopo Parigi, che guerra fa

L’autore di questo articolo è Generale della riserva dell’Esercito. Già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato, Ue e Ueo. Consigliere scientifico di Limes.

20.9.15

Tutto quello che c’è da sapere sulle elezioni in Grecia

internazionale.it
Dopo mesi di serrati negoziati tra la Grecia e i suoi creditori internazionali, il nuovo primo ministro Alexis Tsipras – già uscente – è stato costretto ad accettare le durissime condizioni di un nuovo piano di salvataggio triennale da 85 miliardi di euro.
Con il paese sull’orlo della bancarotta, il 14 agosto il parlamento di Atene ha approvato il terzo accordo per il salvataggio in cinque anni. Quasi un terzo dei 149 parlamentari di Syriza, il partito di sinistra di Tsipras, si è rifiutato di sostenerlo e il primo ministro, di 41 anni, si è dimesso, aprendo così la strada alle quinte elezioni politiche in sei anni.
Come siamo arrivati a questo punto?
La Grecia è stata obbligata a chiedere aiuti internazionali nel 2010 quando si è trovata sull’orlo del fallimento, appena nove anni dopo essere entrata nell’euro.
La Grecia ha ricevuto più di trecento miliardi di euro in aiuti internazionali. Ma questi sono stati concessi a condizioni molto severe, con un programma d’austerità che ha comportato pesanti tagli al bilancio e un’impennata delle tasse.
L’economia della Grecia si è inabissata: il pil è sceso del 25 per cento dal 2010. La disoccupazione riguarda circa il 26 per cento della forza lavoro (che in maggioranza non riceve sussidi), gli stipendi sono calati del 38 per cento e le pensioni del 45 per cento. Circa il 18 per cento della popolazione non ha soldi sufficienti per mangiare e il 32 per cento vive sotto la soglia di povertà.
Visto che la maggior parte dei fondi di salvataggio è stata usata per pagare i debiti del paese, non è stato investito quasi niente per il rilancio economico. E, soprattutto, il debito greco oggi è quasi il doppio della produzione economica annuale del paese, cioè il 180 per cento del pil.
Alle elezioni di gennaio, gli elettori greci, stremati, hanno finito per perdere la pazienza con i partiti tradizionalmente al potere. Promettendo di stracciare gli accordi sugli aiuti responsabili della “crisi umanitaria”, Syriza ha ottenuto una clamorosa vittoria.
Quali sono le questioni principali e qual è lo scenario più probabile?
Due mesi fa Tsipras godeva di grande popolarità, con un tasso di consensi del 70 per cento, dato che era l’unico primo ministro greco ad avere perlomeno provato a opporsi ai piani dei creditori della Grecia. I sondaggi mostrano che oggi, tra le persone di età compresa tra i 18 e i 44 anni che hanno contribuito a portarlo al potere, il sostegno a Syriza è crollato.
Buona parte del 62 per cento dei greci che nel referendum di luglio hanno votato contro il nuovo salvataggio sono scontenti del partito perché ha finito per accettare un accordo che aveva promesso di rigettare.

Cruciale per l’esito delle elezioni di domenica sarà il comportamento di questi elettori di Syriza delusi. Alcuni sembrano attratti dalla sinistra ancor più radicale, alcuni persino dal partito di estrema destra Alba dorata (il più popolare per le persone tra i 18 e i 24 anni).
Ma in molti sembrano anche disposti a fidarsi dell’offerta di “ritorno alla stabilità” proposta dal leader di Nea dimokratia, Vangelis Meimarakis. I sondaggi suggeriscono che il vantaggio di Syriza su Nea dimokratia si sia, come minimo, sensibilmente ridotto. Secondo alcuni, i due partiti sono praticamente testa a testa.
I principali partiti politici
Dalla caduta del regime dei colonnelli nel 1974, le elezioni in Grecia sono state dominate da due partiti politici: Nea dimokratia, di centrodestra, e il Partito socialista, Pasok. Dal 1981 in poi, alle elezioni politiche i due partiti hanno sempre ottenuto, in totale, l’84 per cento dei voti. Tutto è cambiato con il crollo dell’economia greca e i piani di salvataggio che ne sono seguiti. Nelle tre tornate elettorali che si sono svolte a partire dal maggio 2012, il risultato complessivo dei due partiti è stato rispettivamente del 32, 42 e 32,5 per cento.
Al contrario, il sostegno nei confronti dei partiti più piccoli è cresciuto. Prima delle elezioni del maggio 2012 il sostegno per Alba dorata era inferiore allo 0,5 per cento, mentre da allora è sempre stato superiore al 5 per cento.
I partiti e le coalizioni che si presentano alle elezioni di domenica 20 settembre sono 19. Ecco i partiti che hanno le maggiori possibilità di entrare nel prossimo parlamento greco.
Come funzioneranno le elezioni?
Sono circa 9,8 milioni i greci che hanno diritto di voto e ai partiti serve almeno il 3 per cento dei voti per entrare in parlamento con un mandato di quattro anni.
Il parlamento greco ha trecento seggi: 250 deputati sono eletti con un meccanismo proporzionale, mentre gli altri 50 sono automaticamente assegnati al partito che conquista il maggior numero di voti.
I deputati sono eletti a partire dalle liste di candidati di 56 circoscrizioni geografiche. Gli elettori di Atene, dove vive metà della popolazione nazionale, eleggono 58 dei trecento deputati.
La quota di voti necessaria per una maggioranza assoluta di 151 seggi dipenderà da come sarà distribuito il risultato generale tra i partiti: se tutti i partiti ottenessero seggi in parlamento, il 40 per cento dei voti potrebbe significare una vittoria netta. Se invece molti voti si disperdessero tra i partiti più piccoli, che non riescono a superare lo sbarramento del 3 per cento, la quota necessaria per la maggioranza dei seggi si abbasserà.
Anche se in Grecia esiste l’obbligo di votare, non viene fatto rispettare. L’affluenza è scesa notevolmente nell’ultimo decennio. Negli anni ottanta era costantemente sopra l’80 per cento. Nei dieci anni fino al 2005 l’affluenza media è scesa al 75 per cento. Nelle ultime elezioni di gennaio è stata inferiore al 64 per cento.
Nel caso in cui nessun partito ottenga la maggioranza assoluta, il presidente Prokopis Pavlopoulos darebbe al leader del partito principale il mandato di formare una coalizione. Se ciò non fosse possibile, il cosiddetto mandato esplorativo andrebbe al secondo partito e poi al terzo.
Secondo i sondaggi, nessun partito sarebbe in grado di ottenere seggi sufficienti da poter formare da solo un governo di maggioranza. Entrambi i favoriti, Nea dimokratia e Syriza, avrebbero bisogno di formare una coalizione con uno o più partiti per poter governare. Pasok, To potami e l’Unione dei centristi sarebbero i candidati più probabili a entrare in una coalizione del genere.
Un’altra possibilità è una coalizione tra Nea dimokratia e Syriza, anche se Tsipras non è molto favorevole all’ipotesi.

16.9.15

È italiana la super stampante 3D: "Sfornerà case a basso costo"

È italiana la super stampante 3D: "Sfornerà case a basso costo"

È italiana la super stampante 3D: "Sfornerà case a basso costo"
Viaggio nella fabbrica di Ravenna dove c'è la macchina più grande del pianeta: dodici metri per sette. Gli esemplari di questo tipo costano sempre meno, sono alla portata di tutti e facili da usare. "Ora stiamo provando a mescolare terra e paglia per vedere se ne esce qualcosa di abitabile"
 
 

La stampante, una strana torre metallica che ricorda i ponteggi dei palazzi, si chiama Delta e verrà presentata al mondo alla prossima Maker Faire di Roma a metà ottobre. È stata realizzata da un team di giovani guidati da un meraviglioso artigiano di 55 anni: si chiama Massimo Moretti, ha passato una vita a fare prodotti, dice, "le aziende venivano da me, mi dicevano cosa volevano realizzare e io facevo tutto, dal disegno al prodotto, spesso costruendo pure le macchine".

"Ecco la stampande 3D più grande del mondo: farà case low cost"


Il Centro Sviluppo Progetti di Moretti ancora esiste, ma la storia è cambiata quando ha scoperto le stampanti 3D, la manifattura additiva, ovvero la possibilità di realizzare un oggetto non tagliando o segando qualcosa, ma invece aggiungendo materiale. E se ne è innamorato. Le stampanti 3D non sono un fatto recente: è recente il loro boom, dovuto al fatto che costano sempre meno, a volte meno di mille euro, e che sono alla portata di tutti perché sono facili da usare. La prima stampante 3D di Massimo Moretti infatti, attorno al 2000, gli costò più di 40 mila euro: "Erano tutti i miei risparmi, ma ne valeva la pena. Era una Zeta Corp ed era grande come un congelatore orizzontale. La volevo non solo per stamparci oggetti ma per smontarla, capire come era stata costruita e farmene una tutta mia". I risparmi però finirono prima che Moretti potesse sviluppare un software che la facesse funzionare.

Finché, verso il 2005, accade un piccolo miracolo: un professore universitario britannico, Adrian Bowyer, realizza una stampante 3D che tutti possono rifarsi a casa (e in grado di stamparsi i pezzi necessari per montarne una nuova). Si chiama RepRap e tutte le informazioni per farla funzionare sono in rete, disponibili per tutti, gratis. Open Source, che bella parola. Quando la notizia della RepRap arriva in Romagna, Moretti festeggia: "Hanno cambiato il mondo, loro sì, sono stati dei santi". Moretti si convince che presto la stampa 3D sarà lo standard della manifattura, servirà agli artigiani ma anche agli ingegneri. Stampare case, il suo pallino. A km zero.

Moretti non è il primo ad aver immaginato che una casa possa essere stampata in 3D: curiosamente ma non troppo, visto la nostra tradizione artigiana e meccanica, già Enrico Dini, a Pisa, nel 2011 si era costruito una macchina  -  la D-Shape  -  che ha fatto il giro del mondo. Dini era partito per stampare case sulla luna, usando la polvere del nostro satellite, e si è poi specializzato nello stampare bellissime barriere coralline artificiali.

Ma torniamo a Moretti che tre anni fa mette su un team di "laureati disoccupati" con il compito di inventare una stampante 3D adatta al sogno di edilizia popolare. "C'era il problema dell'estrusore, cioé di come far funzionare il meccanismo dal quale esce il materiale da stampare". Moretti si accorge che quello che ha in mente lui in natura già c'è: lo fanno le vespe vasaie. Chiama la società Wasp, e con un inglese maccheronico decide che quelle quattro lettere non sono solo la traduzione di "vespa" ma stanno per "World Advanced Saving Project", che è come dire "siamo in missione per salvare il mondo". Non sarà troppo? "In un certo senso sì, e infatti ci prendiamo in giro da soli, ma in realtà ci crediamo davvero".

In cosa credono? Nel fatto che farsi una vera casa debba poter essere un diritto per tutti. E quindi tutta la ricerca del suo team la indirizza verso la possibilità di stampare uno strano miscuglio di argilla e paglia. "È più difficile che con il cemento, ma funziona". Lo vedremo presto, in Sardegna, nel Sulcis, dove è appena arrivata una stampante che presto inizierà a miscelare terra e paglia per vedere se ne esce una casa abitabile.

Per arrivare al risultato di oggi Moretti ha investito un sacco di soldi, tutto quello che ha guadagnato con la vendita di stampanti più piccole. Tecnologicamente sono dei gioiellini, le Wasp. E sono state usate per fare di tutto, non solo i giocattolini di plastica che vedete di solito uscire dalle stampanti 3D. "Qualche mese fa abbiamo consegnato a Pompei delle copie dei loro famosi calchi. Ce le avevano chieste per poterle mandare nel mondo, lasciando gli originali al sicuro". È il nuovo Made in Italy.

1.9.15

Facebook: quando credendo di parlare con altri, comunichiamo solo con noi stessi

Pino Corrias (Il Fatto Quotidiano)

Nel tempo in cui si va globalizzando tutto, compresa la disperazione dei migranti che ci parlano attraverso il loro corpo, la loro allarmante invadenza fisica, il re della più grande rivoluzione immateriale e antisociale, Mark Zuckerberg, festeggia con un miliardo di persone connesse in un solo giorno, il rumore di fondo che ci avvolge (ci scalda, ci illude) e che noi chiamiamo comunicazione interattiva, equivocandone il suo sostanziale silenzio passivo. Perché credendo di parlare agli altri, stiamo in realtà parlando con noi stessi. In una collettiva regressione infantile, verso quei giochi che giocavamo da soli, ma facendo le voci di tutti i personaggi in campo.

Facebook è un kinderheim planetario. Dentro al quale la benestante moltitudine del pianeta – quella che in questo momento non sta morendo di fame, di sete, di aids, non sta per annegare su un barcone, non si sta scannando nella macelleria di una qualche lurida guerra santa – non ha assolutamente nulla da dire, ma lo dice almeno una dozzina di volte al giorno.

Lo fa postando nella propria pagina il piatto di patatine che sta per mangiare. La bevanda colorata che ha di fronte. Il bel tramonto ad ampio schermo e il brufolo stretto nel dettaglio. Lo fa scrivendo resoconti non richiesti di vacanze andate in malora e di diete da ultimare. Di amori finiti male. Di un film da vedere, di un ristorante vegano da evitare. Di un video imperdibile dove un tizio da qualche parte in America ha appena sterminato la famiglia e ora finalmente sta per suicidarsi, appena dopo la pubblicità.

La forma che in Facebook diventa sostanza, illude chi digita i messaggi che stia per davvero comunicando qualcosa a qualcuno, ma non è quasi mai vero. Il più delle volte sta solo facendo a se stesso il resoconto millimetrico della propria solitudine. E sta usando gli altri come pretesto. Sta semplicemente dicendo allo specchio “Io sono qui”. E dicendolo dieci volte al giorno, vuole convincersi di esistere per davvero almeno in quello specchio, grazie a quella scia digitale che lo avvolge di luce. Per poi cercare il coraggio di farsi la seconda domanda, quella cruciale: “C’è qualcuno in ascolto?”

Domanda che non ha quasi mai una vera risposta, anche quando ne raccoglie cento oppure mille. Perché se chi manda una voce in rete la manda a se stesso, altrettanto fa chi risponde, quasi sempre parlando d’altro, accontentandosi di cogliere uno spunto per imprimere una nuova direzione al discorso, la sua.

Un tempo mi impressionavano i primi viaggiatori di treni e metropolitane che non alzavano mai lo sguardo verso il vicino, ma concentravano tutta la loro attenzione sulla superficie dei cellulari e dei computer che li rifornivano di immagini, suoni e compagnia. Erano sparpagliati qui e là nei vagoni, in mezzo a qualche giovane donna che inspiegabilmente leggeva ancora un libro di carta e a qualche filippino che parlava (in diretta, live) con la persona in carne e ossa che gli stava accanto. Oggi il paesaggio è uniforme, quelle giovani donne con i libri sono scomparse, i filippini sono anche loro connessi, intorno solo teste reclinate in sequenza sui bagliori dello schermo degli smartphone, nessuno che si azzardi ad alzarla.

Lo stesso accade sempre più spesso – fateci caso – al ristorante, al semaforo, dove coppie di amici o fidanzati navigano ognuno per contro proprio, insieme solo nella forma, ma separati nella sostanza. Ognuno dentro un mondo lontanissimo, il proprio.

Ma l’immaterialità che ci avvolge non è e non sarà senza conseguenze. Ci sta rendendo sempre più fragili – più stupidi e specialmente più spaesati – come lo sono quei turisti d’agenzia o da crociera che credendo di viaggiare per il mondo stanno fermi in un simulacro del mondo, protetti dall’aria climatizzata, lavati e nutriti, difesi da ogni interferenza della vita reale, fossero anche il caldo e gli insetti.

La nostra crociera dentro il mondo che non esiste, finirà prima o poi per fare naufragio contro gli scogli di quello vero. La crisi economica e i tagliatori di teste non spariranno in un clic. E nemmeno le ondate dei migranti che con i loro corpi e le loro morti atroci sono un principio di realtà che ci sorprende così tanto da credere alla scorciatoia politica dei muri e delle ruspe. E se quel giorno – mentre postiamo una ricetta o un insulto su Facebook – ci verrà addosso il mondo, toccherà affrontarlo con gli occhi di nuovo aperti e il telefonino spento. Se ne saremo ancora capaci.

16.8.15

Benzina, accise e petrolieri strozzano la ripresa vanificando il calo del greggio

Il prezzo del Brent è tornato ai livelli del 2009, ma la verde costa il 36% in più: le imposte sono cresciute oltre quota un euro al litro, ma a salire senza sosta sono anche i margini dei produttori

Giuliano Balestreri (La Repubblica)

Inutile farsi illusioni: se anche le quotazioni del petrolio scivolassero sotto quota 20 dollari al barile come alla fine degli anni '90, il prezzo della benzina non tornerà mai sotto l'euro al litro di allora. Certo la colpa è anche dell'ingordigia dei petrolieri che si difendono dietro ai "costi di raffinazione sempre più alti", ma la responsabilità più pesante ricade sulle spalle dello Stato. Incapace di tagliare sprechi e spese inutili, i vari esecutivi sono sempre pronti a inserire balzelli e accise nelle pieghe di atti e decreti. Un passo alla volta, un centesimo in più ogni tanto, il peso delle tasse sul carburante ha sfondato quota un euro al litro: lo Stato incassa, tra Iva e accise, 1,012 euro per ogni litro di "verde". Abbastanza per capire come mai il crollo delle quotazioni del petrolio, complice la crisi economica e la svalutazione dello yuan cinese, non riesca a portare il giusto sollievo alle tasche degli italiani alle prese con le vacanze estive.

Basti pensare che da inizio anno le quotazioni del Brent - il pregiato petrolio del mare del nord - è calato del 15% (il 6,3% depurato dall'effetto cambio), mentre il prezzo della verde - rilevato dal ministero dello Sviluppo economico - è salito del 4%. Eppure con le accise ferme ad aumentare è stato solo il prezzo industriale della benzina, l'unica variabile che dipende direttamente dalle compagnie petrolifere, passato da 0,539 a 0,562 euro al litro. I petrolieri si giustificano spiegando di essere loro ad assorbire i rialzi delle quotazioni del greggio per evitare pesanti ricadute sui consumatori finali. Come a dire che l'aumento dei margini quando le quotazioni della materie prime calano sono solo una sorta di risarcimento.

Tuttavia, quando il prezzo del petrolio sale, la correzione dei prezzi verso l'alto è immediata, quando invece scende l'aggiustamento è sempre più lento. Il greggio, in calo sotto quota 49 dollari al barile, è tornato sui livelli del marzo 2009 quando il costo industriale era fermo a 0,403 euro al litro: il 28,3% in meno rispetto ad oggi. Certo l'euro viaggiava oltre 1,3 contro il dollaro, mentre adesso scambia intorno a quota 1,11, ma anche depurato dall'effetto cambio il prezzo al barile nel 2009 era più economico "solo" del 15,9%. Insomma resta un ampio margine difficilmente giustificabile.

Nel frattempo, le imposte sono aumentate senza sosta. L'Iva è salita al 22% (da 0,193 a 0,284 euro in questo caso), mentre le accise - tra il decreto Salva Italia e le innumerevoli clausole di salvaguardia a garanzia dei tagli alla spesa - sono esplose da 0,564 a 0,728 euro al litro. Nel complesso le tasse sui carburanti sono aumentate in 6 anni del 33% e il prezzo totale è salito del 36%, vanificando in un colpo solo sia il calo delle quotazioni

del petrolio sia quello dell'euro che avrebbero potuto essere due choc esogeni positivi ai fini della ripresa, riducendo i costi alla produzione e spingendo l'export. A sorridere, invece, sono i petrolieri che tra un aumento e l'altro riescono sempre a difendere i loro margini.

17.7.15

Yanis #Varoufakis: la nostra battaglia per salvare la #Grecia


Quando si deve negoziare senza avere nessuna possibilità di far accettare la propria posizione, non è più una negoziazione. E’ un ricatto. E oggi tutti abbiamo di fronte la verità. La Grecia è stata ricattata ed è sottoposta a un vero e proprio colpo di Stato. Possiamo pensare che debba sottostare a questa occupazione, oppure no. Ma non possiamo non tenere conto di come questa è avvenuta. E a raccontarcelo è Yanis Varoufakis in questa sua intervista su NewStatesman tradotta da Claudia Baldini. Dopo averla letta, capirete molte cose dell’Accordo dell’Eurosummit. E di Alexis Tsipras. Il consiglio è di non perderne neppure una riga.
La redazione
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[questa conversazione ha avuto luogo prima dell’accordo]

Harry Lambert : Allora, come ti senti?
Yanis Varoufakis : Mi sento in cima al mondo: non devo più vivere attraverso questo calendario frenetico, che era assolutamente disumano, semplicemente incredibile. Due ore di sonno ogni giorno per cinque mesi. …Sono anche sollevato: io non devo sostenere più a lungo questa incredibile pressione di negoziare per una posizione che trovo difficile da difendere, anche se sono riuscito a forzare l’altro lato ad accettare, tu sai cosa voglio dire.
HL: Com’è stato ? Ti ha soddisfatto come lavoro?
YV: Oh , sì sono stato contento. Ma mi sono reso conto da quella posizione privilegiata che le mie paure erano confermate … I “poteri forti” parlano e decidono per te, direttamente, e ho verificato, come tutti noi temevamo, che la situazione era peggiore di quanto si immagina! Così è stato divertente. E’ come avere un posto in prima fila.
HL: A che cosa ti riferisci ?
YV: La completa mancanza di scrupoli democratici, a nome dei difensori presunti della democrazia in Europa. La abbastanza chiara comprensione dall’altra parte che conviene stare sulla stessa barca. Ciò, ovviamente, non potrà mai venire fuori in questo momento. Per avere cifre molto alte di prestito ti guardano negli occhi e ti dicono: “Hai ragione, in quello che stai dicendo, ma noi dobbiamo andare a ‘sgranocchiare’ comunque”.
HL: Ho letto i verbali dei tuoi interventi: hai detto che i creditori si sono opposti alle vostre obiezioni. Perché, che cosa è successo quando hai detto “Io cerco di parlare di economia dentro all’ Eurogruppo, nessuno qui discute della ragionevolezza di quello che propongo”?
YV: Non è che non fossero d’accordo: è che c’era il rifiuto di impegnarsi in argomenti economici. Buco nero. Hai spiegato un argomento sul quale hai davvero lavorato per assicurarti della sua logica e coerenza e…hai solo di fronte sguardi fissi nel vuoto. E’come non avessi parlato. Gli interventi sono già preparati, non ribattono su quello che hai relazionato. Si potrebbe anche aver cantato l’inno nazionale svedese, avresti avuto la stessa risposta. E questo è sorprendente, io sono abituato che se qualcuno viene utilizzato per un dibattito accademico… l’altro lato si impegna sempre a capire e a ragionare. Beh non c’era alcun impegno. Non era nemmeno fastidio, era proprio come se non avessi parlato.

HL: Quando sei arrivato, all’inizio di febbraio, questo atteggiamento era uguale?
YV: Beh, ci sono state persone che erano in sintonia a livello personale, così, sai, a porte chiuse, in via informale, in particolare da parte del FMI. [HL: “Da più alti livelli?” YV: “Certo ,dai più alti livelli, dai più alti livelli”.] Ma poi all’interno dell’Eurogruppo, qualche parola gentile e il gioco è fatto, dietro il paravento della versione ufficiale.
In fondo Schäuble è stato coerente in tutto. La sua opinione era “Non sto discutendo il programma. Questo è stato accettato dal governo precedente e che non può assolutamente cambiare per una nuova elezione. Perché abbiamo elezioni in continuazione, siamo in 19, se ogni volta che c’è una elezione cambiamo qualcosa, i contratti tra noi non significano più nulla. ”
A quel punto, non ho resistito, perché dietro questo atteggiamento c’è il rifiuto della democrazia e il prevalere dei conti tuoi sulla politica, ho dovuto alzarmi e dire: “Beh, forse non dovremmo tenere più le elezioni per i paesi indebitati”. Non c’è stata nessuna risposta. L’unica interpretazione che posso dare della loro visione è “Sì, che sarebbe una buona idea, ma sarebbe difficile da fare. Quindi o firmare sulla linea sia decisa o sei fuori “.
HL : E Merkel ?
YV : Io non ho mai avuto nulla a che fare con la Merkel, i ministri delle finanze parlano solo con i ministri delle finanze, i primi ministri parlano ai cancellieri . Da quello che ho capito io, era molto diversa come atteggiamento dal suo ministro. Politica, ecco. Cercò di rassicurare il nostro primo ministro [ Tsipras ], ha detto: ” Troveremo una soluzione , non ti preoccupare , io non permetterò che accada niente di terribile, basta fare i compiti a casa e collaborare con le istituzioni , il lavoro con la Troika ; non ci può essere via di uscita da questo”.
Questo non è quello che i miei colleghi ministri economici hanno detto a me, sia dal capo dell’Eurogruppo e il dottor Schäuble , sono stati molto chiari. Ad un certo punto il capo dell’Eurogruppo si è espresso con me in modo inequivocabile : “Si tratta di un cavallo: o uno si tiene stretto in sella su di esso o è morto”.
HL : E ciò quando è stato?
YV : Fin dall’inizio, fin dall’inizio. Ci siamo conosciuti all’inizio di febbraio.
HL: Allora, perché restare in ballo fino all’estate?
YV: Beh, uno non ha un’alternativa. Il nostro governo è stato eletto con un mandato per negoziare. Quindi il nostro primo mandato era quello di creare lo spazio e il tempo di avere una trattativa e raggiungere un altro accordo. Questo è stato il nostro mandato – il nostro mandato era quello di negoziare, non era per venire alle mani con i nostri creditori.
I negoziati si sono fermati a metà, perché dall’altra parte si rifiutava di negoziare. Hanno insistito su un “accordo globale”, il che significava che volevano parlare di tutto. La mia interpretazione è che quando si vuole parlare di tutto, non si vuole parlare di niente. Ma siamo andati dietro quella corrente, per non contraddire.
E guarda, c’erano posizioni assolutamente formulate sul nulla da loro. Così avrebbero … Lascia che ti faccia un esempio. Ci hanno detto: abbiamo bisogno di tutti i dati sul percorso fiscale con cui i Greci pagano le tasse, abbiamo bisogno di tutti i dati su imprese di proprietà statale. Così abbiamo speso un sacco di tempo a cercare di fornire loro tutti i dati e rispondere a questionari e con innumerevoli incontri che per illustrare i dati forniti.
Così è stata la prima fase. La seconda fase riguardava l’Iva: che cosa avessimo intenzione di fare in materia di IVA. Avrebbero poi rifiutato la nostra proposta, ma non ne hanno fatto una loro.
Prima avessimo avuto la possibilità di concordare l’IVA con loro, prima saremmo passati ad un altro problema, come la privatizzazione. Avrebbero chiesto cosa volessimo fare per la privatizzazione, abbiamo fatto delle proposte, hanno rifiutato. Allora ho capito che si doveva perdere tempo: poi avrebbero spostano su un altro argomento, come le pensioni, da lì ai mercati, da lì ai rapporti di lavoro, da rapporti di lavoro a tutti i tipi di cose giuste? Così è andata, come un gatto che si morde la coda.
Ci siamo sempre sentiti con il governo, sulla difficoltà a farci ascoltare, che non siamo riusciti a sospendere il processo che volevano farci ad ogni costo.
Il mio intervento fin dall’inizio è stato questo: Questo è un paese che si è arenato, che si è arenato da tempo. …Sicuramente abbiamo bisogno di riformare questo paese – siamo d’accordo su questo. Perché il tempo è l’essenza, e perché nel corso dei negoziati la banca centrale stringeva la liquidità [sulle banche greche] e noi eravamo sotto pressione, per non soccombere, la mia proposta costante alla troika era molto semplice: siamo d’accordo su tre o quattro importanti riforme come il sistema fiscale, come l’IVA, e cerchiamo di farle immediatamente. E ci allentate le restrizioni di liquidità da parte della BCE. Volete un accordo globale, ok. Ma cerchiamo di portare avanti negoziati e nel frattempo introduciamo queste riforme in Parlamento da un accordo tra noi e voi.
E hanno detto: “No, no, no, questo deve essere una revisione globale. Nulla sarà attuato se non avete il coraggio di introdurre una legislazione completa. Sarà considerato un’azione unilaterale ostile al processo di raggiungimento di un accordo”. E poi, naturalmente, qualche mese più tardi avrebbero detto ai media che non avevamo riformato il paese e che ci hanno fatto perdere del tempo! E così … [ridacchia] siamo andati avanti..
Così, quando la liquidità era quasi esaurita completamente, e noi eravamo in ritardo, o quasi-default, al FMI, hanno introdotto le loro proposte, che erano assolutamente impossibili … totalmente non vitali e tossiche. Così hanno sempre rinviato e ritardato, era chiara la volontà che non si voleva un accordo diverso da quello che c’era prima.
HL: Hai provato a lavorare insieme con i governi di altri paesi indebitati ?
YV: La risposta è no, e il motivo è molto semplice: sin da subito proprio quei paesi hanno reso molto chiaro che erano i nemici più avversi del nostro governo , fin dall’inizio. E la ragione, naturalmente, è stato il loro più grande incubo sarebbe stato il nostro successo: se fossimo riusciti a negoziare un accordo migliore per la Grecia, avrebbero dovuto rispondere alle loro stesso popolo perché non hanno negoziare come noi stavano facendo.
HL: E la partnership con i partiti più affini, come Podemos, poteva servire?
YV: Non proprio. Voglio dire, abbiamo sempre avuto un buon rapporto con loro , ma non c’era niente da fare – la loro voce non avrebbe mai potuto penetrare il muro dell’Eurogruppo. E in effetti, più parlavano in nostro favore, cosa che hanno fatto, e più ostile il ministro delle Finanze spagnolo diventava verso di noi.
HL: E George Osborne? Quali sono stati i vostri rapporti come con lui?
YV: Oh molto buono, molto piacevole, eccellente. Ma è fuori dal giro, non è parte dell’Eurogruppo. Quando ho parlato con lui in diverse occasioni si vedeva che era molto simpatico. E in effetti se si guarda al Telegraph, i più grandi sostenitori della nostra causa sono stati i conservatori! A causa della loro euroscetticismo, eh … non è solo Euroscetticismo; si tratta di una visione di Burke della sovranità del parlamento – nel nostro caso è stato molto chiaro che il nostro parlamento è stato trattato come spazzatura.
HL: Qual è il più grande problema con il modo generale le funzioni dell’Eurogruppo?
YV: [Per esemplificare …] C’è stato un momento in cui il presidente dell’Eurogruppo ha deciso di muoversi contro di noi ed efficacemente ci ha chiuso fuori, e poi fa sapere che la Grecia era essenzialmente sulla sua via d’uscita dalla zona euro. …C’è una convenzione che devono essere essere comunicati in modo unanime, e il presidente non può essere solo, in una riunione della zona euro ed escludere uno Stato membro. E lui disse: “Oh, io sono sicuro che posso farlo”.
Così ho chiesto un parere legale. Ha creato un po’ di subbuglio. Per circa 5-10 minuti l’incontro si fermò, gli impiegati, i funzionari stavano parlando tra di loro, sul loro telefono cellulare, e, infine, qualche funzionario, qualche esperto legale si rivolse a me e disse le seguenti parole, che «Beh, l’Eurogruppo non esiste in legge, non vi è alcun trattato che ha convocato questo gruppo “.
Quindi quello che abbiamo è un gruppo inesistente che ha il maggior potere di determinare la vita degli europei. Non è responsabile verso chiunque, dato che non esiste nella legge; non verbale è redatto; ed è riservata. Quindi nessun cittadino sa mai ciò che viene detto all’interno. …Queste sono decisioni quasi di vita o di morte, e nessun membro deve rispondere a nessuno.
HL: Ed è vero che l’Eurogruppo è controllato dagli atteggiamenti tedeschi?
YV: Oh, completamente e assolutamente. Non atteggiamenti – ordini da parte del ministro delle finanze della Germania. È tutto come un’orchestra molto ben sintonizzata e li è il direttore. Tutto avviene in sintonia. Ci saranno momenti in cui l’orchestra qualcuno non rispetta la partitura, ma lui lo convoca e lo mette di nuovo in linea.
HL: Non c’è energia alternativa all’interno del gruppo, può contare qualcosa il potere francese?
YV: Solo il ministro delle finanze francese ha fatto obiezioni che erano diverse dalla linea tedesca, ma molto debolmente. Si capiva che doveva usare un linguaggio molto giudizioso, per non far pensare di essere contrario. E in ultima analisi, quando Dott. Schäuble ha risposto ed effettivamente ha determinato la linea ufficiale, la ministra francese, alla fine, ha sempre accettato.
HL: Parliamo del tuo background teorico, e del pezzo su Marx nel 2013, quando hai detto:
“Una uscita greca o portoghese o soprattutto italiana dalla zona euro farebbe presto a portare ad una frammentazione del capitalismo europeo, ottenendo un grave recessione nelle regioni a est del Reno e a nord delle Alpi, mentre il resto d’Europa sarebbe nella morsa della stagnazione. Chi pensi che dovrebbe beneficiare di questo sviluppo? La sinistra progressista, che risorgerà dalle ceneri delle istituzioni pubbliche europee? O la Gilda nostalgica dei nazisti, i neofascisti assortiti, gli xenofobi e gli imbroglioni? Non ho assolutamente alcun dubbio su quale dei due farà meglio da una disintegrazione della zona euro “.
… Così sarebbe? un Grexit inevitabilmente aiuterà Alba Dorata, non c’è dubbio?
YV: Beh, guarda , io non credo nelle versioni deterministiche della storia. Syriza ora è una forza molto dominante. Se riusciremo a uscire da questo pasticcio uniti, e gestire correttamente una Grexit … sarebbe possibile avere un’alternativa . Ma non sono sicuro che potremmo gestirlo, perché la gestione del crollo di una unione monetaria richiede una grande quantità di know-how, e non sono sicuro che l’ abbiamo qui in Grecia, senza l’aiuto di estranei .
HL : Devi aver pensato a una Grexit dal primo giorno …
YV : Sì , assolutamente.
HL: Sono stati fatti i preparativi?
YV: La risposta è sì e no. Abbiamo avuto un piccolo gruppo, un ‘gabinetto di guerra’ all’interno del ministero, di circa cinque persone che stavano simulando questo: così abbiamo lavorato in teoria, sulla carta, tutto ciò che doveva essere fatto [per preparare / in caso di Grexit]. Ma è una cosa fare in teoria, a livello di 4-5 persone, è tutta un’altra faccenda è preparare il paese per grexit. Per preparare il paese una decisione esecutiva doveva essere presa, ma non è mai stata presa.
HL: Ma la scorsa settimana, c’è stata una decisione che si sentiva che si erano diretti verso la soluzione della Grexit?
YV: La mia idea era: dobbiamo stare molto attenti a non attivarla. Non volevo che ciò si avverasse . Non volevo che questa sventura fosse come il famoso detto di Nietzsche ‘ se guardi nell’abisso molto a lungo, l’abisso comincerà a guardare te’. Ma ho anche creduto fortemente che nel momento in cui l’Eurogruppo ci ha chiuso le banche, dovevamo tentare questo processo.
HL: Giusto. Quindi ci sono due opzioni, per quanto posso capire, una Grexit immediata, oppure fare cambiali e prendere il controllo della banca della Banca di Grecia [quindi, potenzialmente, ma non necessariamente e immediatamente precipitare una Grexit]?
YV: Certo, certo. Non ho mai creduto che dovessimo andare direttamente a una nuova moneta. La mia idea era, e ho spiegato questo al governo , che se avessero osato chiudere le nostre banche, che giudico mossa aggressiva di incredibile ostilità, anche noi avremmo dovuto rispondere in modo aggressivo ma senza attraversare il punto di non ritorno.
Dovevamo rilasciare i nostri pagherò, o almeno annunciare che stavamo per farlo per rilasciare la nostra liquidità in euro; avremmo dovuto operare un taglio ai legami impostici dalla BCE nel 2012 o annunciare che stavamo per farlo; e così prendere noi il controllo della Banca di Grecia. Questo è stato il trittico, le tre cose, che avremmo dovuto tentare se la BCE avesse chiuso le nostre banche.
… Stavo attento a ciò che non doveva accadere. La Bce ha chiuso le nostre banche per un mese, al fine di trascinarci in un accordo umiliante. Quando è successo, e molti dei miei colleghi non potevano credere fosse vero, la mia raccomandazione era di dare una risposta “energica”, ma è stata rifiutata.
HL : E quanto eravate a favore o contro ?
YV: Beh, mi permetto di dire che su sei persone eravamo solo due. … Una volta che ho verificato ciò ho dato il mio ordine di chiudere le banche consensualmente con la BCE e la Banca di Grecia. Ero contrario, ma l’ho fatto perché io sono un giocatore di squadra, credo nella responsabilità collettiva.
E poi è venuto il referendum, che ci ha dato una spinta incredibile , una spinta che avrebbe giustificato il piano contro la BCE , ma poi quella notte il governo ha deciso che la volontà del popolo, questo clamoroso ‘No’ , non doveva essere sfruttato per risposte di rottura.
Invece avrebbe dovuto portare a grandi concessioni verso l’altro lato: la riunione del Consiglio dei leader politici, con il nostro Presidente del Consiglio ad accettare la premessa che qualunque cosa accada , qualunque porcheria faccia l’altra parte, non avremmo mai dovuto rispondere in alcun modo che apparisse come una sfida. E in sostanza, questo significa ripiegamento. … Cessate di negoziare.
HL: Così non si può sperare ora , che questo accordo sia molto meglio rispetto la scorsa settimana, anzi sarà peggio ?
YV: Certo, semmai sarà peggio . Confido e spero che il nostro governo insisterà sulla ristrutturazione del debito, ma non riesco a vedere come il ministro delle finanze tedesco potrà mai firmare una cosa del genere nella prossima riunione dell’Eurogruppo. Se lo fa, sarà un miracolo o un impazzimento.
HL: Esattamente, perché, come hai spiegato, non è nella sua testa vero?
YV: Penso di sì, penso di sì. A meno che [ a Schäuble] non giungano ordini diversi dal Cancelliere. Che è poi tutto da vedere, se lei interverrà per farlo.
HL: Per cambiare un poco argomento, ci potrebbe forse spiegare, in parole povere per i nostri lettori, le sue obiezioni alla versione Piketty del “Capitale”?
YV: Beh, vorrei dire in primo luogo, mi sento in imbarazzo perché Piketty è stato di grande aiuto a me e al governo, e sono stato un critico terribile per lui nella mia recensione del suo libro! Apprezzo molto la sua posizione nel corso degli ultimi mesi, e ho intenzione di dirglielo quando lo incontrerò a settembre.
Ma la mia critica del suo libro è giustificata. Il suo sentimento è corretto. La sua avversione per la disuguaglianza. La sua analisi, però, indebolisce l’argomento, per quanto mi riguarda. Perché nel suo libro il modello neoclassico del capitalismo dà molto poco spazio per costruire il caso che vuole costruire, a meno di usare per la costruzione del suo caso parametri che lo mettono in fallo. In altre parole, se fossi un avversario della sua tesi che la disuguaglianza è integrata nel capitalismo, sarei in grado di prendere da parte il suo esempio e mettere in crisi la sua analisi.
HL: Non voglio entrare troppo nel dettaglio, perché questo non ci agevola ad andare alle conclusioni.
YV: Sì …
HL: … ma si tratta della complessità del racconto?
YV: Sì, egli usa una definizione di capitale che rende impossibile il capire cos’è il capital e – quindi è una contraddizione di termini. [Clicca qui –  http://yanisvaroufakis.eu/2014/10/08/6006/  – per la  recensione critica di Varoufakis al Capitale del XXI secolo di Piketty]
HL: Torniamo alla crisi. Io capisco molto poco del suo rapporto con Tsipras …
YV: Lo conosco dalla fine del 2010, perché ero un convinto critico del governo, a quel momento, anche se una volta ero vicino ad esso. Ero vicino alla famiglia Papandreou – lo sono ancora in un certo senso – ma sono diventato importante … allora era una grande novità che un ex consigliere stava dicendo “Stiamo facendo finta che il fallimento non sia accaduto, stiamo cercando di coprirlo con nuovi prestiti insostenibili “, quel genere di cose insomma ..che sostengo ancora.
Ho riflettuto su alcune uscite di allora, e Tsipras era un leader molto giovane che cercava di capire cosa stava succedendo, ciò che la crisi rappresentava, e come si sarebbe dovuto posizionare.
HL: C’è stato un primo incontro, lo ricordi?
YV: Oh, sì. Era la fine del 2010, siamo andati in una caffetteria, eravamo in tre amici, e il mio ricordo è che egli non aveva ancora idee chiare, la dracma contro l’euro, sulle cause della crisi, mentre io avevo molto chiara, devo dire, un’opinione su quello che stava succedendo.
E’ un dialogo continuo il nostro avviato da allora, che si è svolto nel corso degli anni è un amico che … credo che mi abbia aiutato a plasmare la visione di ciò che dovrebbe essere fatto.
HL : Allora, come ci si sente ora, dopo quattro anni e mezzo , di non essere più a lavorare al suo fianco ?
YV : Beh, io continuo a lavorare al suo fianco , credo che siamo molto vicini. La nostra separazione è stato estremamente amichevole. Non abbiamo mai avuto problemi tra di noi, mai, fino ad oggi. E io sono molto vicino a Euclid Tsakalotos [ il nuovo ministro delle finanze ].
HL: E presumibilmente ti stai ancora parlando con tutti e due questa settimana?
YV : Io non ho parlato con Alexis nel corso degli ultimi due giorni, ma io parlo con Euclid, sì, e ritengo che Euclid mi sia molto vicino, e viceversa, e non lo invidio affatto . [ Ridacchiando. ]
HL: Saresti scioccato se Tsipras si dimettesse ? E gli hai perdonato di non avere accettato il tuo piano?
YV: Niente mi sconvolge in questi giorni – la nostra zona euro è un luogo molto inospitale per le persone decenti. Non c’è da perdonare, ognuno fa la sua parte . Mi addolorerebbe se dovesse essere costretto ad accettare un pessimo affare. Ma questo perché, io lo posso capire: lui è il Premier e sente di avere l’obbligo di rispondere alle persone che lo sostengono, che non vogliono abbandonare l’Euro, ma non vogliono nemmeno essere umiliati . Lui ha l’obbligo morale di sostenerci, di non lasciare che questo paese diventi uno Stato fallito.
HL: Ma se il tuo piano fosse stato approvato ?
YV : Tsipras alla fine non fu d’accordo e io capisco il perché. Non potevo garantire che la Grexit funzionasse. Dopo che Syriza era andata al governo in gennaio, un piccolo team aveva pensato “in teoria, sulla carta” come avrebbe potuto funzionare. Io l’ ho detto: ” Non sono sicuro che avremmo potuto gestirla, perché gestire il collasso di una unione monetaria richiede una grande quantità di competenze e non sono sicuro che le abbiamo qui in Grecia, senza aiuti esterni”. Ci saranno altri anni di austerità, ma io so che Tsipras ha preso l’impegno “di non permettere il fallimento della Grecia”.
HL: Ma allora, perché non restare ?
YV : Io non ho intenzione di tradire il mio punto di vista, che ho affinato fin dal 2010, che questo paese deve fermare l’estensione del debito e facendo finta di farcela, dobbiamo smettere di contare su nuovi prestiti fingendo che abbiamo risolto il problema, quando non non è vero; quando abbiamo reso il nostro debito ancor meno sostenibile, a condizione di ulteriore austerità che ancora di più riduce l’economia; e sposta l’onere ulteriore sui non abbienti, creando una crisi umanitaria. E’ una cosa che non ho intenzione di accettare. Io non ho intenzione di esserne parte. Io sono in una posizione diversa dal premier.
HL: Ultima domanda : terrai rapporti con coloro con cui dovevi negoziare?
YV: Uhm, non sono sicuro. Io non ho intenzione di citare tutti i loro nomi ora. Solo nel caso in cui potrei distruggere la loro carriera! [Ride.]

15.7.15

I migliori argomenti per un accordo con l'Iran

By Bret Stephens (The Wall Street Journal)

Le eroiche ipotesi, e le false promesse, della nostra diplomazia
(traduzione Dagopia)

In retorica, la prolessi consistente nel prevedere e controbattere un'obiezione prima che venga mossa. Cerchiamo di essere prolettici per quanto riguarda l’accordo sul nucleare iraniano, i cui apologeti hanno già iniziato a difendere per il timore che si trasformi in una storica débâcle diplomatica.

L’ipotesi eroica. Certo, la Guida Suprema dell’Iran Ali Khamenei è un rivoluzionario irascibile e violento incline a imporre una pericolosa alla sua nazione e a quelle vicine. Lo stesso poteva essere detto di Mao Zedong quando Henry Kissinger gli fece visita nel 1971 – una scommessa diplomatica che alla fine pagò un alto dividendo, poiché la Cina divenne, di fatto, un alleato degli Stati Uniti durante la guerra fredda e poi si aprì al mondo con Deng Xiaoping.

Ma è improbabile che l’Iran sia una nuova Cina. Mao stava subendo una grave minaccia esterna da parte dell’Unione Sovietica, mentre l’Iran non è minacciato da nessuno e, anzi, sta vincendo molte delle sue guerre regionali. Beijing stemperò la tensione con Washington con un’amichevole partita di ping-pong, Teheran invece incarcera i cittadini americani e blocca le navi cargo nello stretto di Hormuz. Deng Xiaoping credeva che la ricchezza portasse la gloria, il presidente iraniano Hasan Rouhani, sedicente riformatore, ha partecipato venerdì scorso alla parata annuale del regime “Morte all’America, morte ad Israele”.

In questo contesto, sta ai promotori dell’accordo sul nucleare dimostrare che l’Iran ha intrapreso la via della conversione verso una politica moderata.

L’ipotesi dello scambio. Ok, mettiamo che l’Iran non abbia rinunciato alla sua indole bellicosa e alla sua visione del mondo antidiluviana. Mettiamo anche che il patto non significhi che non dovremo più combattere l’Iran sugli scenari di guerra mediorientali, come in Yemen, in Siria o a Gaza. Ma che tutto questo può essere messo da parte perché l’accordo sul nucleare è uno scambio ben architettato: l’Iran mette le sue ambizioni atomiche nel cassetto in cambio di poter tornare sulla scena economica e diplomatica. In determinati termini, ognuno può trarre vantaggio da questa soluzione.

Ma uno scambio ha bisogno di qualche garanzia e siccome non possiamo fidarci dell’Iran, serve un sistema di controllo. Il patto sul nucleare lo prevede? John Kerry sarebbe pronto a giurare di sì, ma di fatto lo scorso gennaio alcuni funzionari Cechi hanno bloccato una transizione segreta con cui l’Iran stava comprando tecnologie nucleari polivalenti per 61 milioni di dollari. Un mese prima, gli Stati Uniti avevano accertato che l’Iran era a caccia di plutonio per il suo reattore di Arak. Cosa non sappiamo ancora?

Altro quesito: come si potrà evitare che il patto diventi un ostaggio dell’Iran quando si parlerà di politica estera mediorientale? Gli Stati Uniti saranno pronti a rinunciare all’accordo ogni volta che l’Iran minaccerà di strapparlo, per esempio a causa di una crisi in Yemen o in Siria? La Corea del Nord ha perfezionato per anni l’arte di vendere il proprio deterrente nucleare in cambio di una concessione dopo l’altra – e nonostante ciò possiede ancora la bomba.

L’ipotesi della disfatta. Perfetto, l’accordo con l’Iran fa acqua da tutte le parti e molto probabilmente non funzionerà. Avete qualche idea migliore? Le sanzioni non si sono dimostrate sufficienti per fermare un regime determinato come quello iraniano e non sarebbero state sostenibili ancora per molto. Nessuno, né l’opinione pubblica americana né Israele, vuole iniziare una guerra per impedire all’Iran di fabbricare la bomba. In più, la storia ci insegna che la politica internazionale consiste spesso nella scelta tra due mali. Nel caso di un accordo sul nucleare la soluzione migliore è il male minore.

È vero che nessuno vuole la guerra. Ma un patto che dia all’Iran il diritto di arricchire l’uranio dopo più di dieci anni non darebbe al prossimo presidente americano altra opzione che iniziare una guerra per impedire all’Iran di costruire decine di bombe. D’altra parte un patto che non impedisce all’Iran di sviluppare missili balistici, gli permetterà di montare una di quelle bombe sopra un missile.

Buona fortuna. Gli americani sono un popolo fortunato – lo sono geograficamente, lo sono stati i loro padri della patria, e lo sono anche gli immigrati che approdano alle loro coste. Gli americani sono così fortunati che si dice che Bismark amasse ripetere: “C’è una provvidenza speciale che difende gli ubriaconi, gli idioti e gli Stati Uniti d’America”.

Forse saranno fortunati anche questa volta. Magari l’Iran cambierà in meglio, alla fine dell’era Khamenei. Magari il controllo internazionale in Iran funzionerà, dopo aver fallito in Corea del Nord. Magari John Kerry è il miglior negoziatore del mondo ed è riuscito a fare il miglior accordo possibile.

O magari gli americani non saranno fortunati, e non ci sarà nessuna provvidenza speciale per le nazioni ubriache di speranza e guidate da idioti.

13.7.15

Killing the European Project

Paul Krugman (The New York Times)

Suppose you consider Tsipras an incompetent twerp. Suppose you dearly want to see Syriza out of power. Suppose, even, that you welcome the prospect of pushing those annoying Greeks out of the euro.

Even if all of that is true, this Eurogroup list of demands is madness. The trending hashtag ThisIsACoup is exactly right. This goes beyond harsh into pure vindictiveness, complete destruction of national sovereignty, and no hope of relief. It is, presumably, meant to be an offer Greece can’t accept; but even so, it’s a grotesque betrayal of everything the European project was supposed to stand for.

Can anything pull Europe back from the brink? Word is that Mario Draghi is trying to reintroduce some sanity, that Hollande is finally showing a bit of the pushback against German morality-play economics that he so signally failed to supply in the past. But much of the damage has already been done. Who will ever trust Germany’s good intentions after this?

In a way, the economics have almost become secondary. But still, let’s be clear: what we’ve learned these past couple of weeks is that being a member of the eurozone means that the creditors can destroy your economy if you step out of line. This has no bearing at all on the underlying economics of austerity. It’s as true as ever that imposing harsh austerity without debt relief is a doomed policy no matter how willing the country is to accept suffering. And this in turn means that even a complete Greek capitulation would be a dead end.

Can Greece pull off a successful exit? Will Germany try to block a recovery? (Sorry, but that’s the kind of thing we must now ask.)

The European project — a project I have always praised and supported — has just been dealt a terrible, perhaps fatal blow. And whatever you think of Syriza, or Greece, it wasn’t the Greeks who did it.

5.7.15

Il piano B di Grecia e Germania dopo il referendumTitolo del post

 
Carta di Laura Canali
[Carta di Laura Canali]
La contesa tra Atene e l’ex Troika è più politica che economica e non riguarda solo il debito pubblico. Merkel prepara da tempo un progetto alternativo all’Eurozona attuale, Tsipras dovrebbe fare lo stesso.
A maggio, il prezzo del petrolio è calato di circa 2 dollari al barile ($/b). In particolare, il Brent ha chiuso poco sopra i 63$/b mentre la qualità Wti attorno ai 59$/b. L’euro si è inizialmente apprezzato verso il dollaro superando quota 1,14€/$ dopo che la Fed ha dichiarato che il rialzo dei tassi sarà più lento e meno intenso rispetto a quanto precedentemente ipotizzato, per poi deprezzarsi a 1,12€/$ in conseguenza degli effetti della crisi greca.

Nonostante l’offerta globale di petrolio sia diminuita di 155 mila barili al giorno (b/d), collocandosi attorno ai 96 milioni di b/d, essa continua a eccedere la domanda per circa 1.5 milioni b/d. Secondo le stime dell’International Energy Agency, quest’ultima crescerà nell’anno in corso di 1.4 milioni di b/d sulla scia di un incremento del pil mondiale del 3,3%.

A Vienna, i membri dell’Opec – in particolare l’Arabia Saudita e i suoi alleati del Golfo – hanno deciso di mantenere invariato l’output del Cartello anche a costo di deprimere le quotazioni di mercato (ufficialmente, 30.49 milioni di b/d; in realtà, circa 1 milione di b/d in più) al fine di difendere le proprie quote, mettendo in difficoltà chi sostiene maggiori costi di estrazione, auspicando anche il rallentamento della produzione di tight oil negli Stati Uniti (vedi 1,2,3,4,5)

Il motivo per il quale il prezzo del barile continua a resistere è la presenza di una forte speculazione finanziaria non sostenuta dai cosiddetti “fondamentali”, a dimostrazione del fatto che il petrolio non è solo una materia prima, bensì un asset finanziario. Con ogni probabilità, nei mesi a venire il petrolio risentirà anche delle decisioni della Fed in merito al dollaro.

Secondo quanto riportato dal Financial Times, dall’inizio dell’anno Gazprom Neft ha iniziato a regolare le proprie esportazioni di petrolio verso la Cina in renminbi anziché in dollari. Per Verda, “dal punto di vista dei mercati petroliferi, l’egemonia del dollaro non è al momento in discussione: l’impatto della decisione russa è poco più che simbolico, dati i volumi in questione. Resta però sul tavolo la questione dell’inevitabile superamento dell’unicità della posizione del dollaro e del disancoramento dei prezzi del greggio dalle politiche monetarie statunitensi”.

A maggio, la Federazione Russa è stata il 1° fornitore di petrolio della Cina, scavalcando l’Arabia Saudita. Nel 2015 Riyad rimane ancora il principale fornitore di greggio di Pechino seguito a stretta distanza dall’Angola, ma le esportazioni di petrolio russo verso l’Impero del Centro sono aumentate di un terzo rispetto a maggio 2014. Non tanto a causa di qualità meno costose, bensì di una chiara scelta politica.

La Grecia e i suoi creditori (Fmi, Bce e Commissione europea, la cosiddetta Troika), dopo oltre 4 mesi di trattative pare non siano riusciti a trovare un accordo. Posto dinanzi alla sostanziale riproposizione delle politiche di austerità, il primo ministro greco Alexis Tsipras, ottenuto il via libera dal parlamento di Atene, ha indetto un referendum per domenica 5 luglio, riguardante l’accettazione o meno delle misure richieste dai creditori.

Indipendentemente dal fatto che quest’ultimo si tenga o sia annullato grazie a un accordo raggiunto in camera caritatis, l’impressione è che lo scoglio sia politico più che economico, cioè che consista nel profilo ideologico dell’alleanza Syriza-Anel attualmente al governo ad Atene. Inoltre, un’intesa che non contempli la capitolazione dell’esecutivo greco rischia di creare un “pericoloso” precedente che potrebbe essere replicato in Spagna con Podemos e magari in Francia (dove si vota nel 2017) con il Front National. Aprirebbe infine un auspicabile spiraglio a favore di modalità di rientro dall’eccessivo rapporto debito pubblico/pil di alcuni Stati dell’Ue – Italia in primis – che liberino risorse per la crescita.

Da un punto di vista strettamente economico, lo scontro in atto tra creditori e debitori solleva i seguenti punti di discussione:

  1. La Grecia, indipendentemente dall’esito delle trattative e del referendum e dalla volontà dell’attuale maggioranza di governo che continua a essere in favore della moneta unica, deve mettere in campo un’opzione alternativa alla permanenza nell’Eurozona che non escluda anche l’uscita dal mercato unico.
  2. Sulla scia dell’attuale posizione di Bruxelles nei confronti di Atene, è facile prevedere che i creditori non concederanno alcuno sconto riguardo l’attuazione del Fiscal Compact. Per l’Italia, dal 2016, ciò significherà ridurre il debito dello Stato per un ammontare pari a circa 45/50 miliardi di euro l’anno, obiettivo da conseguire in presenza della sciagurata aggiunta del principio del pareggio di bilancio in Costituzione (art. 81).
  3. La Germania non ha alcuna intenzione di convertire la propria economia dall’export ai consumi e agli investimenti. Berlino, in merito alla continuazione della propria politica neo-mercantilista, sta già predisponendo da tempo un eventuale piano B, il cui fulcro sarà volto a sostituire il mercato di sbocco intraeuropeo con quello dei mercati emergenti (Brics, Cina su tutti).

Da un punto di visto geopolitico, le potenziali conseguenze della crisi greca portano alla ribalta i seguenti interrogativi:

  1. La permanenza della Grecia nella Nato.
  2. Dopo la firma definitiva del 18 giugno tra Tsipras e il presidente russo Vladimir Putin, Atene può diventare lo snodo energetico dell’Europa del Sud grazie al gasdotto Turkish (Greek) Stream attraverso il quale verrà dirottato il gas naturale russo che, dal 2019, non transiterà più attraverso il sistema infrastrutturale dell’Ucraina. Questo aspetto interessa anzitutto l’Italia.
  3. La Cina, dopo avere individuato il porto del Pireo come hub in Europa meridionale ed essere in procinto di investire nel complesso del sistema infrastrutturale greco, ha in progetto la costruzione della tratta ferroviaria Atene-Budapest onde trasportare le proprie esportazioni.

In un contesto internazionale contraddistinto dai simultanei episodi terroristici verificatisi in Europa, Africa e Medioriente, oltre al conflitto strisciante in Ucraina e alle incognite legate all’accordo sul nucleare iraniano, potrebbe non essere così sbagliato estendere anche alla Grecia il modus operandi suggerito dall’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger nella sua intervista al Corriere della Sera del 18 giugno scorso. Nella sostanza, siano Stati Uniti, Federazione Russa – e Cina aggiungiamo noi – a creare quella sorta di “camera di compensazione” alla quale l’Europa si ostina a non volere, o forse a non poter, partecipare.

Purtroppo, a differenza dell’ottimo ruolo diplomatico svolto dall’Italia nel corso del Forum economico internazionale di San Pietroburgo del 18/19 giugno, la posizione assunta dal primo ministro italiano Matteo Renzi su Atene rischia di essere gravida di conseguenze negative anche per Roma.

Per approfondire: La Germania in Grecia: com’è nata e come si può risolvere la crisi di Atene

29.6.15

Paul Krugman: la scelta di Atene di ricorrere alla consultazione popolare è da difendere - Thomas Piketty “Serve una conferenza per ristrutturare i debiti più insostenibili”

“Una mostruosa follia aver spinto Tsipras fino a questo punto”
La troika sperava che il governo greco avrebbe ceduto o in alternativa si sarebbe dimesso
Non posso biasimare il premier ellenico per aver rimesso tutta la questione nelle mani degli elettori

di Paul Krugman (La Repubblica)

Ad oggi ogni monito riguardo a un’imminente frattura dell’euro si è dimostrato infondato. A dispetto di quanto affermato in fase di campagna elettorale, i governi cedono alle richieste della troika, e parallelamente la Bce interviene per calmare i mercati. Tale dinamica ha permesso di tenere insieme la moneta unica, ma ha al tempo stesso perpetuato un’austerità profondamente distruttiva: non lasciate che qualche trimestre di modesta crescita metta in ombra l’immenso costo di cinque anni di disoccupazione di massa.
Da un puto di vista politico, i grandi perdenti di questa dinamica sono stati i partiti di centro-sinistra, la cui acquiescenza in fase di rigorosa austerità — e il conseguente abbandono di quei valori per i quali avrebbero presumibilmente dovuto battersi — produce danni ben più gravi di quelli che politiche analoghe mietono nel centro-destra.
Ho l’impressione che la troika (credo sia ora di smettere di fingere che qualcosa sia cambiato, e tornare a chiamarla con il vecchio nome) si aspettasse, o quanto meno si augurasse, che nel caso della Grecia la storia si sarebbe ripetuta: o Tsipras avrebbe preso come al solito le distanze dalla maggior parte della propria coalizione, trovandosi probabilmente obbligato a stringere un’alleanza con il centro- destra, o il governo Syriza sarebbe caduto. Cosa che infatti potrebbe ancora accadere.
Tuttavia Tsipras non sembra per ora disposto a lasciarsi cadere sulla propria spada. Anzi: di fronte all’ultimatum posto dalla troika ha indetto un referendum sull’opportunità di accettarlo o meno. La sua scelta produrrà certo grande preoccupazione e numerose dichiarazioni sul suo scarso senso di responsabilità, ma in realtà egli sta facendo la cosa giusta, e per due motivi.
Per cominciare, una vittoria del referendum rafforzerà il governo, conferendogli una legittimità democratica — cosa che in Europa credo conti ancora (e se non contasse occorre saperlo).
In secondo luogo Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra, con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l’euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, è lo è a maggior ragione oggi. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la troika lo porti a un gesto estremo.
Ritengo che spingerlo sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti creditori, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anziché voltar loro le spalle.

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“Europa in agonia sono i conservatori ad averla devastata”
“Quando sento dai tedeschi che i debiti vanno onorati, mi viene solo da ridere”
“La Merkel se vuole assicurarsi un posto della storia come Kohl, deve avere il coraggio di un nuovo inizio”

di Roberto Brunelli (La repubblica)

L’Europa sta per essere distrutta. Ma non dai greci e dall’ostinazione di Tsipras e Varoufakis, ma dai “conservatori” del Vecchio Continente, in particolare quelli tedeschi. E’ un Thomas Piketty furente a dire la sua, in un’intervista alla Zeit che il settimanale tedesco pubblica non a caso con grandissimo rilievo. Perché è un j’accuse — quello dell’economista divenuto una star internazionale con il suo “Il capitale del XXI secolo” — che cade come un meteorite in fiamme sulla cronaca greca di questi giorni.
“I conservatori stanno ad un passo dal devastare definitivamente l’idea europea, e lo fanno per colpa di uno spaventoso deficit di memoria storica. In particolare per quello che riguarda i debiti. Proprio la Germania di oggi dovrebbe capire il significato di quello che sta accadendo: dopo la guerra Gran Bretagna, Germania e Francia soffrirono di una situazione debitoria peggiore di quella della Grecia di oggi. La prima lezione che dovremmo trarne è che ci sono molti modi per saldare dei debiti: e non uno solo, come Berlino vorrebbe far intendere ai greci”.
Sul banco degli imputati, non è difficile immaginarlo, soprattutto Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble. “Quando sento i tedeschi dire che sono mossi solo dall’etica e che sono fermamente convinti che i debiti debbano essere pagati, penso: ma questa è una barzelletta! La Germania è esattamente il paese che non ha mai onorato i suoi debiti, né dopo la prima né dopo la seconda guerra mondiale”. Niente a che vedere con “l’accezione comune di ordine e giustizia: perché se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il boom, fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti, cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci”.
Quello che propone Piketty è chiaro: una grande conferenza europea sul tema dei debiti. Qualcosa di paragonabile, come dimensione strategica, al Piano Marshall. Ma niente del genere è all’orizzonte, anzi. “La verità è che una ristrutturazione dei debiti è inevitabile in molti paesi europei, non soltanto in Grecia.
E invece abbiamo appena perso inutilmente sei mesi di tempo a causa di trattative tutt’altro che trasparenti con Atene”. Non solo. A Schaeuble, che sostiene che una eventuale Grexit addirittura favorirebbe una rinnovata compattazione europea, Piketty risponde con uno scenario opposto: se non cambia passo, l’Unione europea affronterà una crisi di fiducia ancora più grave. “Sarà l’inizio di una lenta agonia, nella quale sacrificheremo all’altare di una politica debitoria irrazionale il modello sociale europeo, persino in termini di democrazia e civilizzazione”. L’ultimo pensiero, e non poteva essere altrimenti, è per la cancellera tedesca Angela Merkel: “Se vuole assicurarsi un posto nella storia, come Kohl con la riunificazione tedesca, deve avere il coraggio di un nuovo inizio. Chi invece oggi insiste nel voler cacciare la Grecia dall’eurozona finirà nella pattumiera della storia”.