22.4.09

Dovevamo partecipare e batterci

di Sergio Romano

Come la conferenza precedente, anche «Durban II» si è conclusa con un comunicato pasticciato, zeppo di buoni propositi ed esortazioni generiche, privo probabilmente di pratiche conseguenze. Le posizioni, dentro e fuori la conferenza, erano troppo distanti.
I Paesi ex coloniali credono, non senza qualche ragione, che «razzismo» fosse quello dei conquistatori e non accettano lezioni morali dai loro vecchi padroni. I Paesi musulmani pensano che le critiche all’islamismo e il dileggio delle loro credenze siano colpe più gravi della durezza con cui i loro governi trattano gli oppositori. I Paesi arabi, in particolare, ritengono che lo Stato israeliano abbia usurpato le loro terre e trattato i loro connazionali come cittadini di seconda categoria. I Paesi occidentali non intendono rinunciare agli illuminati principi della loro migliore tradizione filosofica e chiedono al mondo di rispettarli. Ma quando un membro della loro famiglia li ha platealmente violati nel carcere di Abu Ghraib, a Guantanamo, nella pratica delle «consegne straordinarie» e persino nelle istruzioni impartite dal suo governo ai propri servizi di sicurezza, i cugini occidentali hanno chiuso un occhio o, addirittura, prestato la loro collaborazione. Sperare, in queste circostanze, che la conferenza di Ginevra potesse produrre una linea concordata, utile ed efficace, era ingenua illusione. Come tutti gli esercizi inutili, anche questo potrebbe lasciare una coda di risentimenti e rendere le grandi crisi internazionali ancora più imbrogliate e avvelenate.
Che cosa avremmo dovuto fare di fronte a un tale mostro diplomatico? Partecipare o restarne fuori? Per rispondere a queste domande sono state espresse molte opinioni, fra cui quelle, appassionate e bene argomentate, di Angelo Panebianco e Paolo Lepri sul Corriere degli scorsi giorni contro la partecipazione. Proverò a sostenere la tesi opposta.
La conferenza di Ginevra non è una iniziativa privata. È un incontro promosso dall’Onu, nell’ambito delle sue attività istituzionali, e inaugurato dal suo segretario generale. Sapevamo che sarebbero stati pronunciati discorsi intolleranti e inaccettabili. Ma è forse la prima volta che propositi di questo genere turbano un dibattito delle Nazioni Unite? Decidemmo di boicottare l’Assemblea generale quando Nikita Kruscev si tolse la scarpa per batterla sul leggio del suo scranno e annunciò che il comunismo ci avrebbe sepolti? Gli assenti, a Ginevra, hanno dato agli altri la sensazione di non tollerare la sconfitta, di non voler essere minoranza.
Questa non è diplomazia: è una forma di presuntuosa arroganza. Noi italiani, in particolare, abbiamo dimenticato le parole di Giovanni Giolitti ai deputati che si erano ritirati sull’Aventino dopo il delitto Matteotti: «A mio avviso dovreste rientrare alla Camera». E quando il socialista Giuseppe Modigliani replicò «Per fare a revolverate?», il vecchio di Dronero rispose «Può darsi». Intendeva dire che persino la durezza del dibattito può essere preferibile a un atteggiamento che si propone d’inceppare un meccanismo istituzionale.
Avremmo dovuto andare a Ginevra per affermare le nostre verità, rintuzzare le faziose parole di Ahmadinejad, separare i faziosi dai ragionevoli (esistono anche quelli), comprendere le ragioni degli altri, lasciare agli atti della Conferenza programmi e concetti a cui avremmo potuto fare riferimento in altri momenti e circostanze. La Santa Sede lo ha fatto e ci ha dato, in questo caso, una lezione di laico buon senso.
corriere.it

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