di Benedetto Vecchi
Negli ormai innumerevoli scaffali dedicati al capitalismo contemporaneo questo saggio dello psicologo Oliver James occupa sicuramente il posto che spetta alle analisi che non pretendono di fornire un'analisi esaustiva della realtà indagata. E tuttavia come tutti gli studi interessati a sondarne solo un «frammento» ha il pregio di esemplificare tendenze profonde delle società capitaliste. Oliver James è infatti convinto che lo «stress» emotivo non è da considerare una manifestazione di disagio individuale, quanto l'espressione di un mutamento antropologico che ha caratterizzato le società industrializzate dalla seconda metà del Novecento ai nostri giorni.Il capitalista egoista (Codice edizioni, pp. 150, euro 18) di cui scrive James non è infatti una figura idealtipica, ma un virus che lentamente si è diffuso nel corpo sociale fino a «infettarlo» completamente. Un virus che spinge uomini e donne a consumare, a lottare per il successo, la fama, ad «avere invece di essere», come scrive più volte, facendo riferimento agli studi di Eric Fromm sulla psicoanalisi del capitalismo affluente. Con un significativo apparato di tabelle e grafici, lo studioso inglese mostra come l'infelicità, l'anomia, la depressione, la paura di essere messi ai margini siano diventati i sentimenti che caratterizzano la vita sociale. Sentimenti «malati», sostiene lo studioso, che hanno come cura il consumo di merci sempre più deperibili e tuttavia impregnati di significati simbolici che vanno ben al di là del loro «valore d'uso». E tanto più gli uomini e donne consumano, tanto più aumenta lo stress, perché il rito del consumo attenua i sintomi, ma non cura le cause dello «stress» emotivo.L'universo di infelicità messo in evidenza da James coinvolge trasversalmente tutte le classi sociali. Dal manager al «colletto bianco», dal broker all'operaio tutti sono colpiti dagli stessi sintomi. L'autore tuttavia introduce una distinzione: chi deve fare i conti con il regno della necessità è affetto da «materialismo della sopravvivenza»; chi ha invece soddisfatto i bisogni primari è in preda al «materialismo del superfluo»; allo stesso tempo chi vive in una metropoli è sottoposto a una pressione psicologica che rende l'esistenza quasi insopportabile, mentre chi vive in campagna è meno propenso a farsi avvolgere nelle spire della «vita moderna». L'analisi del «capitalista egoista» è permeata da molte ingenuità e da una sorta di invito alla frugalità, a una «decrescita» che guarda con sospetto qualsiasi propensione al consumo. Ma non sono queste ingenuità che rendono piacevole la lettura del volume. La parte più interessante è quella in cui analizza la trasmigrazione del pensiero darwiniano attorno l'evoluzione al pensiero politico e economico. «Il capitalista egoista», infatti, è legittimato dal principio che solo i più forti, i più meritevoli, i più cinici, i più opportunisti hanno la possibilità di adattarsi a un ambiente competitivo e le risorse scarse. CONTINUAPAGINA14 Più o meno come recita la vulgata evoluzionista attorno alla selezione delle specie. Soltanto che James mette in rilievo una contraddizione: gli studiosi di Charles Darwin sono generalmente simpatizzanti per teorie politiche incentrate sulla triade «libertà, uguaglianza, fraternità», mentre il darwinismo è stato uno dei potenti dispositivi culturali che ha legittimato politiche neoliberiste dove non c'è spazio né per la fraternità né tantomeno per l'ugualitarismo. L'uso delle teorie darwiniane da parte dei sostenitori del «capitalismo egoista» è stato efficace perché considerava il capitalismo un fatto naturale e non un prodotto sociale, e quindi transitorio, della vità in società. È su questo crinale che si addensano le pagine più riuscite del saggio, laddove l'autore parla appunto delle psicopatologie che dilagano oltrepassando i confini invisibili ma tuttavia ferrei tra le classi sociali, le etnie, i generi sessuali. Psicopatologie che vengono curate attraverso l'operato dei media, che come novelli apprendisti stregoni riescono a persuadere uomini a donne a consumare; oppure con la diffusione di farmaci e antidepressivi che rendono tollerante l'inferno dove si vive. La storia della «lineare» diffusione del «capitalista egoista» che l'autore propone sarebbe ben diversa se fosse stata evocata la quantità di violenza necessaria affinché potesse propagarsi. L'autore ricorda solo l'aumento dei «disturbi mentali» dopo l'inizio della guerra in Iraq. Effetto collaterale di quella produzione di paura e incertezza a mezzo di propaganda che ha comunque ridimensionato le forme di resistenza che pure si erano manifestate. Una piccola scommessa è d'obbligo: la crisi attuale fermerà il virus del «capitalista egoista»? Domanda non peregrina, visto che la paura, l'insicurezza e la il culto dei «migliori» continuano a essere il vangelo delle società contemporanee.
ilmanifesto.it
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