24.4.09

Ragazze in fuga

Letteratura/tendenze Dopo anni di voyeurismo e porno soft, le giovani scrittrici tornano a raccontare la famiglia. Disfunzionale e violenta. Con le istruzioni per evadere e ricostruire il mondo

di Benedetta Marietti

Chi focu chi 'ndi vinni". Che inferno ci è toccato. La frase è di zia Nuccia, ma per Caterina, bimba di dodici anni che a sentirla gridare ha i brividi, quella frase è segno di un disastro incombente. Soprattutto se la famiglia in questione è costretta a scappare da Nacamarina, paesino sconosciuto della Calabria, per una sciagura macchiata dai legami con la 'ndrangheta. La protagonista non c'entra nulla, ma "all'interno di una famiglia come quella che descrivo, nessuno è mai innocente perché i legami sono troppo intensi, indissolubili", dice Rosella Postorino, 31 anni, autrice di L'estate che perdemmo Dio, in uscita in questi giorni per Einaudi/Stile Libero. Dopo il romanzo d'esordio, La stanza di sopra (Neri Pozza), Postorino torna ai temi del senso di colpa, della separazione, del segreto, con una scrittura poetica e cinematografica, capace - fotogramma per fotogramma - di dilatare il tempo e le sensazioni. La frase della zia è il motore della narrazione. Dopo quella rivelazione, nulla sarà più uguale: "gli eventi avrebbero preso una piega nuova, stavano sterzando in una direzione sconosciuta ancora a tutti, eppure inevitabile". Caterina dovrà cercare la sua libertà in "Altitalia", un posto "dove le strade erano pulite ma piene di curve, gli edifici erano bassi e finivano con i tetti rossi, come quelli dei Lego". Con i ricordi familiari che la inseguono. Speculare è la vicenda di Thea, la protagonista di Una bambina sbagliata, romanzo d'esordio di Cynthia Collu che Mondadori sta lanciando come "caso letterario" della stagione. Catapultata da una Sardegna arcaica e selvaggia a Quarto Oggiaro, nella periferia di Milano, un susseguirsi di palazzi popolari che crescono come funghi, abitati soprattutto da meridionali, la piccola Thea è intrappolata da un padre alcolizzato e violento e da una madre incapace di amare. "Il romanzo nasce da suggestioni autobiografiche", spiega Collu. "Sentivo il desiderio di parlare della mia storia familiare per cercare di capire da dove vengo e che cosa sono diventata". Basta con la letteratura voyeuristica alla Melissa P., Berarda Del Vecchio, Marilù Manzini e Pulsatilla. La nuova ondata di scrittrici italiane guarda oltre il proprio ombelico, recuperando la tradizione del romanzo familiare e una lingua letteraria spruzzata talvolta di espressioni dialettali. Suggestioni biografiche o meno, la famiglia (italiana) resta il luogo più naturale da descrivere: un pozzo inesauribile di sentimenti contraddittori, segreti inconfessabili e dinamiche disfunzionali. La parabola di Gisela Scerman è da questo punto di vista esemplare: dopo aver esordito nel 2007 come Gisy Sherman con il romanzo feticista La ragazza definitiva (Castelvecchi), oggi propone Vorrei che fosse notte (Elliot), dove ricostruisce la propria infanzia malinconica in un paese del vicentino, mortificata dalla presenza di uno zio autoritario e crudele e dalla scoperta dell'esistenza del male. "Me ne sono andata di casa a 17 anni per disintossicarmi da un ambiente malato", racconta. "Nel paesino di montagna, incastrato tra due valli, dove ho vissuto, la dignità e la normalità esibite dalle famiglie erano solo apparenti. Troppe volte le violenze private erano taciute per la vergogna e la paura delle malelingue. In quei luoghi si può fare tutto, basta che non si sappia in giro. E tutto rimane uguale. In città, invece, c'è molta meno ipocrisia. Il mio trasferimento a Modena è stato una liberazione". Con la liberazione, è anche arrivata la consapevolezza. "In questo romanzo volevo raccontare quell'inferno, facendo però un passo indietro rispetto a quella materia ancora adesso incandescente". L'escamotage? Prestare la sua voce al bambino protagonista. A volte il posto in cui si approda non è però così risolutivo, magari apre altre ferite, come l'emarginazione e il razzismo. "I luoghi sono fondamentali per l'equilibrio di una famiglia", dice Collu. "Spesso mancanza di radici affettive e territoriali coincidono. E l'immigrazione amplifica i problemi, soprattutto se è vissuta come un obbligo e non come una scelta. Penso alla Milano degli anni 50, quando molti meridionali provavano l'alienazione del lavoro in fabbrica e il disagio di essere "terroni"". Oggi quel disagio si è spostato sulle coppie miste. In Quelle stanze piene di vento (Einaudi/Stile Libero), Francesca Di Martino descrive una Napoli corrotta e decadente, dove si consuma l'amore disperato tra due giovani migranti: il tunisino Alì e la pugliese Teresella. E dove si riflette anche lo sguardo della voce narrante, Anna, un'intellettuale alle prese con la propria solitudine, fuggita da un paesino incolore sul lago di Garda per chiudere una volta per tutte i conti con un passato doloroso. "La pressione sociale sulle coppie miste è diventata insostenibile. Napoli non è mai stata una città razzista, ma in questi tempi di crisi hanno attecchito pregiudizio e intolleranza. E allora si cerca il capro espiatorio". L'amore che lega gli esuli diventa quasi impossibile. "L'unica speranza è che la tragedia aiuti la gente a capire". Nei romanzi - come spesso accade nella vita - sono sempre le donne la forza dirompente che corre verso un futuro alternativo. "Per salvare i figli siamo capaci di ribellarci a un destino che ci va stretto, e di guardare avanti. Progressiste e coraggiose", commenta Postorino. "Come Laura, la madre di Caterina, che pur venendo da un ambiente provinciale e da un'estrazione sociale "bassa", vuole liberarsi dalla cultura mafiosa". Così il suo trasferimento al Nord, pure in mezzo a tante difficoltà, è una rinascita. E una condanna per Salvatore, il marito, intrappolato dal senso di colpa per aver abbandonato la sua famiglia d'origine. Accade anche nel romanzo di Cynthia Collu, dove Angela, la madre di Thea, reagisce al trasferimento a Milano con grinta, senza lasciarsi andare come il marito. "Angela è una donna che per sopravvivere si è indurita", racconta l'autrice. "Non ha ricevuto amore quand'era piccola e non riesce ora a darlo ai suoi figli. È povera, ignorante, non ha gli strumenti per comprendere. Ed è sopraffatta continuamente da un quotidiano brutale, che non le permette di esprimere i propri sentimenti. Ma riesce comunque a offrire ai figli un futuro diverso dal suo. Del resto, la maternità è una conquista, e a essere madri si impara solo con fatica". Così le figlie spezzeranno definitivamente la catena di un destino che si ripete di generazione in generazione. Caterina, Thea, Teresella, il bambino senza nome di Vorrei che fosse notte, reclamano il proprio diritto alla felicità. E riescono a salvarsi grazie anche alla capacità, propria dello scrittore, di saper raccontare una storia vera, la loro. "Caterina è la più forte della sua famiglia perché è l'unica dotata del potere dell'immaginazione", spiega Rosella Postorino. "È attratta da ciò che è bello, da ciò che è magico, e in questa maniera riesce a proiettarsi in un altrove. La conoscenza le permette di ribellarsi lucidamente alla cultura da cui proviene. E di accedere alla speranza, anche se è un percorso faticoso. Un bambino si sente sempre responsabile del dolore dei genitori. Ma può liberarsene se riesce a fuggire nella letteratura. È questo l'ultimo atto di fuga possibile. Un atto non più fisico, ma intellettuale. E questa possibilità di costruire mondi "altri" è forse il passo decisivo verso la ricerca della felicità".

Storie sfilacciate di ricordi "È successo: ha provato in tutti i modi a sfuggire il dolore, ha provato a cambiare strada, a ingannarlo, a diluirlo, sperando che prima o poi traboccasse dal corpo, non avesse più nulla a che fare con lei. Ha cancellato ricordi come disegni sconci sulla lavagna, li ha camuffati, li ha rivestiti, sono stati Cenerentola al ballo prima della mezzanotte, a volte sono risaliti a galla come rifiuti tra le barche del porto, e non ha potuto fare a meno di vederli, di nuovo lì, di nuovo un bagaglio recapitato dall'ufficio oggetti smarriti, e coi pezzi che si ritrovava, scomposti, disordinati, incandescenti a toccarli, lei ha cucito una storia, tutta storta, sfilacciata, stasera le sembra di sgranarla come un rosario tra le mani, e anche se trova buchi, e rattoppi, e nodi che non saprebbe mai sciogliere - ci vorrebbe nonna Màrgara, è lei l'esperta di fili - anche se attraversa le lenzuola sotto cui è stesa, stasera, come un ricamo sbilenco, raffazzonato, stretto fino a rovinare la stoffa, in fondo nessuno potrebbe dirle che non è vera, che è diversa, in fondo Caterina lo sa che è questa la sua storia. Che questa storia è proprio sua". da L'estate che perdemmo Dio (Einaudi/Stile Libero) di Rosella Postorino

Quella ragazza giapponese "Nel paese faceva scandalo che arrivassero, per poi rimanere, persone straniere, fossero queste anche di altre province poco distanti di lì. Del resto non c'erano altri umani al di là dei montanari, e di quei pochi operai che in alcuni giorni facevano brevi soste per lavoro e per commissioni dai confini vicini. In particolare fece scandalo una ragazza giapponese dai capelli neri, lisci, lunghissimi che le cascavano addosso, di nome Yoshi. Si diceva facesse l'intrattenitrice in un night a Kyoto. Da quando il marito montanaro Nardo era ritornato in Italia con lei, era sempre stato visto di cattivo occhio anche dagli stessi altri montanari, per i suoi noti tour del sesso all'estero. Col passare del tempo lui era pure peggiorato di carattere; nonostante non andasse più molto in giro per il mondo, lo stravizio continuava a coltivarlo lì, ad un ponte famoso nel paese, unica fonte di attrazione notturna". da Vorrei che fosse notte (Elliot) di Gisela Scerman

Il corpo di mio padre "Mi sembra strano sentire che mio padre si affidi completamente a me, che sia felice del nostro contatto fisico: così stretti non siamo mai stati. Se non avesse la paralisi sono certa che adesso ce ne andremmo insieme a zonzo, due vagabondi che non sono stati capiti in famiglia, due scansafatiche, due anime perse, artisti a nostro modo nel disegnare cieli intrappolati dal sole e ruscelli d'ombra nei quali riposare. Cercheremmo insieme le pere selvatiche e i fichi d'India, ascolteremmo sotto un ulivo il canto delle cicale e ce ne staremmo beati così, senza nulla dare e nulla chiedere. Papà mi porterebbe a vedere la sua spiaggia. Aspetteremmo. Aspetteremmo a lungo la voce del mare. Si ferma di colpo, scrolla la testa: "eh, eh!" mi dice con tristezza e si batte la gamba ribelle. Gli occhi gli si appannano e la mano si stringe alla mia. È il discorso più intimo che mi abbia mai fatto nella sua vita. Il più prezioso". da Una bambina sbagliata (Mondadori) di Cynthia Collu
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