25.4.09

Sodalizi e conflitti tra gemelli siamesi

di Benedetto Vecchi
CAPITALISMO E DEMOCRAZIA - Intervista con Prem Shankar Jha

Il destino incerto della democrazia. È questo il tema attorno al quale ruota l'iniziativa in corso a Torino, che non a caso ha come titolo «Biennale democrazia». Tema articolato in più sessione, attraverso «parole chiave» che hanno accompagnato la discussione sullo stato di salute dei sistemi politici appunto democratici. Il multiculturalismo, il potere pervasivo dei media, ma anche i rischi che la attuale crisi economica possa determinare la crescita di un populismo che in nome del popolo limita libertà civili, politiche e ridimensiona ulteriormente i diritti sociali. L'economista indiano Prem Shankar Jha è stato invece chiamato a discutere di quel «caos» originato dalla crisi economica e di come quel caos possa accelerare la crisi della democrazia.
Prem Shankar Jha è, oltre che uno studioso, anche un noto commentatore dell'economia mondiale da una prospettiva, quella dell'India, cioè di una nazione considerata l'esempio vivente di una nazione che è potuta crescere economicamente grazie a quella deregolamentazione dei mercati che ha caratterizzato il cosiddetto neoliberismo. Tesi che lo studioso indiano ha più volte contestato, come d'altronde dimostra il ponderoso volume Caos prossimo venturo pubblicato da Neri Pozza lo scorso anno. Un libro che prevedeva l'eclissi del neoliberismo. Prem Shankar Jha sarà oggi a Torino, dove terrà una «lezione» proprio sulla realtà originata dalla crisi, prefigurando ancora anni di «caos», indipendentemente da quanto sostengono alcuni commentatori sulla fine della crisi economica.

Capitalismo e democrazia. Due termini spesso in conflitto, nonostante la retorica sulla loro indissolubilità. Cosa ne pensa di questa «querelle»?
Storicamente, la democrazia politica è stata voluta dalla borghesia per contrastare il potere dei proprietari terrieri e dell'aristocrazia. Poi è stata usata dal movimento operaio per contrastare il potere del capitale, dando vita all'intensa, seppur breve stagione dei diritti sociali. Stagione tuttavia che ha reso la democrazia e il capitalismo come realtà in conflitto. Per me, sono da considerare come fratelli siamesi. Aggiungo, però, che stiamo parlando di un contesto molto preciso, quello dove lo stato-nazione esercitava la sovranità sulla nazione. La globalizzazione ha lentamente ridimensionato, se non distrutto lo stato-nazione. C'è stata l'unificazione dei mercati nazionali in un unico, grande mercato, mentre le imprese manufatturiere e finanziarie sono diventate globali e profondamente antidemocratiche. Ogni azione politica deve essere quindi globale, come le imprese. È questa la cornice antro la quale agire politicamente per ridimensionare il potere del capitale e per sviluppare l'equivalente globale di ciò che è stato il welfare state.

In «Caos prossimo venturo», lei sosteneva che la crisi dell'economia mondiale era una probabilità che non poteva essere esclusa. Il bailout delle borse ha drammaticamente confermato la sua analisi. Alcuni studiosi e economisti, come Immanuel Wallerstein, ora scrivono che la crisi attuale possa coincidere con la fine del capitalismo e con lo sviluppo di una economia di mercato senza capitalisti. Tesi molto provocatoria, non crede?
Inviterei alla cautela. È difficile infatti pensare una economia di mercato senza la proprietà privata. Più realisticamente il nodo da sciogliere è come affrontare la crisi e nessuno ha ricette pronte. Durante il cosiddetto ciclo neoliberista abbiamo assistito al divorzio tra stato-nazione e l'attività economica, fattore che ha messo fine all'«alleanza» tra il potere politico e le imprese. La crisi, invece, ripropone con urgenza un rinnovato controllo e regolazione nella circolazione dei capitali e della finanza; assieme a un maggiore rigore nella certificazione dei bilanci delle imprese. Infine, la crisi economica può favorire un cambiamento negli assetti proprietari delle imprese, come imprese a capitale misto pubblico e privato; oppure forme inedite di proprietà «sociale». Più che fine del capitalismo parlerei quindi di una trasformazione del capitalismo.

Green economy: è la parola magica per uscire dalla crisi. Lo dicono e scrivono in tanti. Il personaggio più noto a usarla è il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il quale ha illustrato la sua azione per favorire lo sviluppo di uno sviluppo economico sostenibile e compatibile con l'ambiente. Una lieta novella, non crede?
L'«economia verde» è proprio una parola magica, proprio come lo fu carbone in un mondo dove il vento e l'acqua costituiscono le uniche potenze energetiche usate nell'attività produttiva nel diciassettesimo secolo. Le stesse speranze sulla possibilità di uno sviluppo economico duraturo sono state rinnovate con il petrolio agli inizi del Novecento, il motore a scoppio, fino all'ultimo prodotto, il computer, che doveva, al pari degli altri esempi che ho fatto, garantire lo sviluppo ecconomico. Per il momento, tuttavia non ci sono tecnologie «ambientaliste» che possono essere sfruttate economicamente, cioè che possono fare da traino alle attività produttive. Quindi ci sarà un'«economia verde» solo quando si creeranno le condizioni che hanno portato il carbone, il motore a scoppio, il petrolio, l'automobile e il computer a essere fattori energetici e prodotti che potevano essere usati o prodotti secondo precisi requisiti economici e altrettanti prevedibili profitti. Allo stato attuale, per quanto riguarda le fonti energetiche non c'è infatti nessuna «vera» alternativa al petrolio. Né esistono al momento attività produttive che possono sostituire quelle attuali.

Il neoliberismo ha alimentato la crescita di forti diseguaglianze sociali, proprio quando veniva alimentata la speranza che la ricchezza avrebbe trovato nel mercato uno straordinario strumento di redistribuzione. Lei, invece, ha spesso sostenuto il contrario, cioè che l'essenza dell'economia mondiale erano proprio le diseguaglianze sociali. In questo mondo in fibrillazione c'è chi guarda alla crisi come a una possibilità per politiche sociali più egualitarie....
Quest'ultima è proprio un'opinione bizzarra basata su un errore logico che scambia le coincidenze con la causalità. Potrebbe certo accadere che una società industriale privilegi politiche sociali più eque. Ma viviamo in un'economia di mercato dove le differenze di reddito determinano disparità nel consumo, nel mercato del lavoro e precarietà nei rapporti di lavoro. È quindi auspicabile la presenza di interventi politici tesi a ridurre le diseguaglianze sociali. Ma per questo serve limitare il potere delle imprese e favorisca la redistribuzione della ricchezza. Non vanno però nascoste le difficoltà che incontrerebbe tale azione politiche in un mondo globalizzato che vede la messa all'angolo degli stati nazionali, il luogo e il contesto cioè dove far crescere gli interventi politici necessari per ridurre le diseguaglianze sociali. Questo non significa che non bisogna comunque provarci. Lo ripeto: la necessità di una regolamentazione dell'economia è necessaria anche perché l'economia e la finanza lasciate libere di fare ciò che volevano hanno determinato questa crisi.
ilmanifesto.it

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