di Elio Veltri
Luigi Giuliano, già capo assoluto della Nuova Famiglia della camorra, alleata con «l'Alleanza di Secondigliano», nel 2003, quando si pente, comincia a raccontare gli affari, e dice che la «Cupola» incassava decine di miliardi di vecchie lire al mese. In Sicilia i magistrati ascoltando una intercettazione ambientale, si convincono che i veri padroni della SISA che gestisce 100 supermercati in provincia di Palermo e fattura 300 miliardi all'anno di vecchie lire, sono Provenzano e Palazzolo.
Dal porto di Gioia Tauro la 'ndrangheta mandava in Cina containers pieni di rifiuti che ritornavano in Europa trasformati in plastica. Ecco, queste sono solo tessere della mafia Spa, multinazionale, presente in molti paesi del mondo, a suo agio nell'economia globalizzata, senza segreti per la finanza e per i paradisi fiscali. Rappresentata da tecnici di valore, incensurati, capaci di portare all'estero decine di società, con una triangolazione fulminea Milano- Lussemburgo- Lugano e di riportarle in Italia ripulite e pronte ad operare in borsa.
La Mafia ha capito prima degli imprenditori onesti la globalizzazione, la caduta delle frontiere e, soprattutto, l'uso di Internet e li ha usati a proprio vantaggio. Subito dopo la caduta del muro di Berlino, in un'intercettazione telefonica diventata famosa, si ascolta l'inviato che chiede al capo cosa deve comprare e si sente rispondere: «vai a Berlino est e compra tutto». A Berlino est per due ragioni: la domanda di capitali era elevata e di democrazia ce n'era poca, per cui le regole potevano essere aggirate.
L'economia del paese segna il passo e la crescita è zero; la produzione industriale è in caduta libera perché gli italiani hanno le tasche vuote e non comprano, ma mafia Spa è florida e in espansione, in tutto il mondo. In Italia, con un fatturato calcolato 90 miliardi di Euro dal rapporto di SOS impresa della Confesercenti per la parte commerciale, si conferma la più importante multinazionale del paese e una delle più grandi d'Europa, tale da competere con le Corporations che hanno bilanci superiori a quelli degli Stati. Se poi aggiungiamo traffico di droga, di armi e di esseri umani, allora il fatturato tocca i 140-150 miliardi all'anno. Certo, la mafia non deposita bilanci e non si sottopone al controllo della Consob.
Ma le stime sono attendibili e anche sottodimensionate. Ad esempio Piero Grasso valuta circa 50 miliardi di euro il traffico di droga e John Kerry, senatore democratico, presidente di una Commissione del Senato che si occupa di criminalità organizzata, il traffico di droga della mafia italiana lo valuta 110 miliardi di dollari all'anno e cioè più del doppio.
In un rapporto al Senato degli Stati Uniti sulle cinque mafie più potenti del mondo, il Senatore democratico scrive che si può affermare con sicurezza che la mafia italiana gode di protezioni ad alti livelli politici e nell'apparato dello Stato. Il rapporto naturalmente non è stato tradotto. Forse vale la pena ricordarne il titolo: «La nuova guerra». E cioè la guerra per la democrazia e la civiltà nel terzo millennio è quella contro la mafia. E non la pensa diversamente Louise I. Shelley, direttore del Transnational Crime and Corruption Center dell'Università di Washington il quale scrive: «la criminalità transnazionale sarà per i legislatori il problema dominante del ventunesimo secolo, come lo fu la guerra fredda per il ventesimo secolo e il colonialismo per il diciannovesimo».
È una esagerazione? Non credo, perché anche l'ONU e L'Unione Europea la pensano allo stesso modo. Ad esempio, se esaminiamo uno dei settori più «produttivi» che è quello della contraffazione( abiti griffati, giocattoli, computer, profumi ecc) nel quale lavorano a due euro all'ora, nelle cantine e nei sottoscala, e non solo della Campania, decine di migliaia di persone, «l'Union des fabricants pour la protection International de la propriété industrielle et artistique», che ha organizzato il Forum di Parigi del 2003, ne valuta i profitti in 250 miliardi di euro all'anno pari al 5-7% del commercio mondiale. L'organizzazione Mondiale delle Dogane poi, ne stima il fatturato in 450 miliardi di euro anno. L'Italia, per la contraffazione, è ai primi posti al mondo. Ed è solo un comparto delle innumerevoli produzioni oramai in mano alla criminalità organizzata, che fa concorrenza all'economia sana, conquista i mercati con la violenza, non ha bisogno di accendere prestiti bancari perché paga cash. Per dare ancora un'idea si calcola che i posti di lavoro persi ogni anno dalle aziende regolari che subiscono la concorrenza sono 100 mila e l'evasione fiscale è di 2,4 miliardi di dollari. Il nero si mescola col criminale sia nella finanza che nell'economia.
Poi, nei paradisi fiscali, che negli ultimi anni sono raddoppiati, dove si contano più banche che cittadini, si sposano.
In un convegno nell'Università di Firenze, Ottobre del 2007, Piero Grasso ricordava che Falcone aveva capito tutto e l'aveva spiegato nel 1991 ai deputati del Bundestag, ma ricordava anche che oggi solo i «fondi per le piccole spese vengono confiscati» e un po' sconsolato si chiedeva: «ma la politica vuole davvero combattere la mafia?».
La domanda è d'obbligo per due ragioni: la politica ha delegato alla magistratura e alle forze dell'ordine il problema economico e sociale più drammatico del paese. La politica non si cura di conoscerlo per intervenire e quindi ne ignora o ne sottovaluta la dimensione. Eppure, i patrimoni mafiosi valgono 1000 miliardi di euro(oltre 2 milioni di miliardi di vecchie lire) e gli affiliati, secondo la DIA, sono un milione e ottocentomila. Gli affiliati non sono i «pungiuti». Sono quelli che con le organizzazioni mafiose hanno rapporti sociali e di affari a causa di un'espansione gigantesca e incontrollabile della finanza e dell'economia criminale.
Le leggi che i magistrati hanno in mano sono strumenti che non funzionano: né quella sulla confisca dei beni, né quella sul riciclaggio, se solo pensiamo che non più del 6-7% dei beni vengono confiscati e i processi in corso, di qualche peso, per riciclaggio sono 4-5. L'anagrafe dei conti e dei depositi introdotta con legge nel 1991 non è operativa. Proposte all'Europa per cominciare a chiudere i paradisi fiscali sui territori europei per poi concordare nelle sedi internazionali interventi negli altri continenti, non ce ne sono. Embarghi finanziari non ne vengono proposti. Eppure, ne sono stati attuati persino sui farmaci e sul cibo. Ma per le sacre finanze sporche No.
L'Italia, inoltre, ha la sua buona dose di banche e società finanziarie nei paradisi fiscali col placet della Banca d'Italia: 220 banche; 117 società controllate da banche di cui 40 in Lussemburgo.
Sono giorni di dibattito acceso sugli immigrati clandestini e sull'immigrazione in generale. Com'è stato sottolineato su questo giornale anche da Livia Turco, la clandestinità è figlia innanzitutto dell'economia sommersa(nera e mafiosa), che costituisce il più grande serbatoio europeo di italiani precari e sfruttati e di immigrati clandestini e non, ma sempre sfruttati. Con scie di morti da guerra civile, quella mafiosa, che si contano in migliaia e che sembra non interessino più di tanto.
Quindi, o si interviene sulle cause oppure la cancrena rimane. Eppure, questa sì, che sarebbe materia di una grande alleanza trasversale e nazionale.
unità.it
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
4.6.08
Mafia, potenza economica
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28.5.08
Il nuovo conformismo che circonda il Cavaliere
di Emondo Berselli
dalla Repubblica del 26 maggio 2008.
Gli scontri di Napoli testimoniano che il miracolo non è ancora avvenuto, e che la realtà è refrattaria a conformarsi al clima saccarinoso seguito all’insediamento del Governo Berlusconi e al primo Consiglio dei Ministri sotto il Vesuvio. Con un normale esercizio critico, si può ragionevolmente sostenere che la tonalità generale dell’Italia contemporanea non è certo rappresentata dagli spettrali raid contro i campi nomadi di Ponticelli.Né dalle aggressioni a sfondo più o meno xenofobo, dall'insurrezione antimigratoria. Ma neppure è rappresentata dal clima della luna di miele con il nuovo esecutivo e con il nuovo Berlusconi, lo "statista".Negli ultimi giorni si è assistito a un fenomeno non sorprendente ma comunque straordinario di conformismo verso il nuovo potere.In certi momenti, come all' ultima assemblea generale della Confindustria, è sembrato addirittura che l'attuazione del programma del centrodestra fosse soltanto una formalità, e che Silvio Berlusconi e i suoi ministri meritassero un consenso corale, nel nome delle centrali nucleari, della guerra ai fannulloni e della crescita.Ma questa non è la realtà. Questa è una rappresentazione ideologica, forse un miraggio suscitato dalle aspettative di quella opinione pubblica che ha assaporato il dolce calice della vittoria del Pdl e della Lega, e ora comincia a osservare con romanticismo i primi risultati del nuovo governo. È vero che nelle settimane dopo il 13-14 aprile sono stati sparsi interi turiboli di incenso per celebrare la liturgia del grande ritorno.Ma questa cerimonia andrebbe catalogata sotto l'ineffabile amore di buona parte delle élite italiane per qualsiasi potere, purché forte e spregiudicato: quell'amore che induce i membri dell'establishment a clamorose virate intellettuali (vedi quella del passaggio dal dogma delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni e delle "agende Giavazzi" al neoprotezionismo, e alla globalizzazione "regolata", simboleggiate probabilmente dalla candidatura del capo dei tassisti romani e dalla cordata nazionalista per l'Alitalia).Va da sé che non tutti gli uomini politici e le figure di potere possiedono l'auto-stima che fa dire a Massimo D'Alema, a proposito del ministro dell'economia Giulio Tremonti: «E’ un pensatore neo-conservatore, peraltro modesto». Ma perlomeno sarebbe utile se nel Pd emergesse qualche giudizio critico, e criticamente motivato, sulle prime mosse del governo.Perché non è affatto detto che il tema supremo delle riforme istituzionali sia un totem a cui sacrificare anche una dettagliata linea di giudizio. Fra l'altro, non è chiarissimo con quali idee, al di là del reperto della "bozza Violante", il Pd affronti la discussione del rifacimento costituzionale: e non è detto che l'elettorato del centrosinistra condivida integralmente i pilastri del riformismo veltroniano (un ventaglio che sembra prevedere forme di presidenzialismo e si spinge verso configurazioni di federalismo fiscale): tanto per dire, può essere che settori non insignificanti apprezzino invece modalità di governo neoparlamentare, sebbene finora nessuno ne abbia discusso apertamente.Inoltre, sarà superfluo sottolineare le possibili trappole dell'iter di riforma istituzionale: che prevedono la possibilità di essere ricacciati nel ghetto riservato all'opposizione disfattista e sabotatrice, nel caso disgraziato che le riforme della maggioranza non piacciano alla minoranza ovvero che un accordo non si trovi. E sarà inutile anche segnalare che l'accusa di disfattismo arriverà puntualmente non appena si passerà a iniziative di governo più consistenti, dopo i "primi passi", le "prime mosse", i segnali mandati, le misure sperimentali (come per l'appunto i discutibilissimi e poco discussi provvedimenti sull'Ici e sulla parziale nonché bizzarramente selettiva detassazione degli straordinari).In sostanza, la scena politica appare amorfa perché un'ondata di consenso aprioristico, in genere non condizionato dalla verifica dei risultati attesi, si è riversata sul centrodestra.Un consenso "a prescindere", come se la società italiana, dopo essersi faticosamente misurata con il berlusconismo per quindici anni, di fronte al Berlusconi statista, al politico improvvisamente consapevole delle difficoltà e moderato negli intenti, avesse deciso che non aspettava altro, che quella destra era la coperta migliore per il paese, tale da aderire confortevolmente a tutte le sue pieghe: una specie di andreottismo screziato di prudente decisionismo, una Dc senza i preti, ma che comprende l'interclassismo a cui allude Maurizio Sacconi, in cui si sentono echi di Mitbestimmung tedesca, con i sindacati nei consigli d'amministrazione e la fine di qualsiasi conflitto redistributivo: Pax vobiscum, nel senso di una pace sociale garantita da un potere politico senza alternative.Rispondere a questo pacchetto ideologico è difficile, perché in realtà il cosiddetto interclassismo prospetta un 'economia corporata, che integra organicamente gli interessi di categoria, a cui chiede voti offrendo protezione, cioè riducendo la concorrenza e tutelando le rendite diposizione.Di per sé, si tratta di una notevole antitesi al profilo di una società liberale. Ma anche senza ipotecare un giudizio filosoficamente negativo, anche sfuggendo ai pregiudizi e valutando soltanto i fatti, ci vorrebbe comunque da sinistra un buon esorcista, per dissolvere la magia del consenso a tutti i costi e del conformismo generale.Perché con ogni probabilità ci sarà da condurre una battaglia impopolare contro l'idea irresistibile che viviamo nel migliore dei mondi possibili, e in cui l'unico atteggiamento civile è l'applauso.Per questa battaglia, il governo ombra va bene, un'opposizione costruttiva va benissimo, ma una cultura, un progetto condiviso, cioè un'ipotesi di società desiderabile alternativa a quella di Berlusconi e soci, andrebbe anche meglio.
ilbarbieredellasera
dalla Repubblica del 26 maggio 2008.
Gli scontri di Napoli testimoniano che il miracolo non è ancora avvenuto, e che la realtà è refrattaria a conformarsi al clima saccarinoso seguito all’insediamento del Governo Berlusconi e al primo Consiglio dei Ministri sotto il Vesuvio. Con un normale esercizio critico, si può ragionevolmente sostenere che la tonalità generale dell’Italia contemporanea non è certo rappresentata dagli spettrali raid contro i campi nomadi di Ponticelli.Né dalle aggressioni a sfondo più o meno xenofobo, dall'insurrezione antimigratoria. Ma neppure è rappresentata dal clima della luna di miele con il nuovo esecutivo e con il nuovo Berlusconi, lo "statista".Negli ultimi giorni si è assistito a un fenomeno non sorprendente ma comunque straordinario di conformismo verso il nuovo potere.In certi momenti, come all' ultima assemblea generale della Confindustria, è sembrato addirittura che l'attuazione del programma del centrodestra fosse soltanto una formalità, e che Silvio Berlusconi e i suoi ministri meritassero un consenso corale, nel nome delle centrali nucleari, della guerra ai fannulloni e della crescita.Ma questa non è la realtà. Questa è una rappresentazione ideologica, forse un miraggio suscitato dalle aspettative di quella opinione pubblica che ha assaporato il dolce calice della vittoria del Pdl e della Lega, e ora comincia a osservare con romanticismo i primi risultati del nuovo governo. È vero che nelle settimane dopo il 13-14 aprile sono stati sparsi interi turiboli di incenso per celebrare la liturgia del grande ritorno.Ma questa cerimonia andrebbe catalogata sotto l'ineffabile amore di buona parte delle élite italiane per qualsiasi potere, purché forte e spregiudicato: quell'amore che induce i membri dell'establishment a clamorose virate intellettuali (vedi quella del passaggio dal dogma delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni e delle "agende Giavazzi" al neoprotezionismo, e alla globalizzazione "regolata", simboleggiate probabilmente dalla candidatura del capo dei tassisti romani e dalla cordata nazionalista per l'Alitalia).Va da sé che non tutti gli uomini politici e le figure di potere possiedono l'auto-stima che fa dire a Massimo D'Alema, a proposito del ministro dell'economia Giulio Tremonti: «E’ un pensatore neo-conservatore, peraltro modesto». Ma perlomeno sarebbe utile se nel Pd emergesse qualche giudizio critico, e criticamente motivato, sulle prime mosse del governo.Perché non è affatto detto che il tema supremo delle riforme istituzionali sia un totem a cui sacrificare anche una dettagliata linea di giudizio. Fra l'altro, non è chiarissimo con quali idee, al di là del reperto della "bozza Violante", il Pd affronti la discussione del rifacimento costituzionale: e non è detto che l'elettorato del centrosinistra condivida integralmente i pilastri del riformismo veltroniano (un ventaglio che sembra prevedere forme di presidenzialismo e si spinge verso configurazioni di federalismo fiscale): tanto per dire, può essere che settori non insignificanti apprezzino invece modalità di governo neoparlamentare, sebbene finora nessuno ne abbia discusso apertamente.Inoltre, sarà superfluo sottolineare le possibili trappole dell'iter di riforma istituzionale: che prevedono la possibilità di essere ricacciati nel ghetto riservato all'opposizione disfattista e sabotatrice, nel caso disgraziato che le riforme della maggioranza non piacciano alla minoranza ovvero che un accordo non si trovi. E sarà inutile anche segnalare che l'accusa di disfattismo arriverà puntualmente non appena si passerà a iniziative di governo più consistenti, dopo i "primi passi", le "prime mosse", i segnali mandati, le misure sperimentali (come per l'appunto i discutibilissimi e poco discussi provvedimenti sull'Ici e sulla parziale nonché bizzarramente selettiva detassazione degli straordinari).In sostanza, la scena politica appare amorfa perché un'ondata di consenso aprioristico, in genere non condizionato dalla verifica dei risultati attesi, si è riversata sul centrodestra.Un consenso "a prescindere", come se la società italiana, dopo essersi faticosamente misurata con il berlusconismo per quindici anni, di fronte al Berlusconi statista, al politico improvvisamente consapevole delle difficoltà e moderato negli intenti, avesse deciso che non aspettava altro, che quella destra era la coperta migliore per il paese, tale da aderire confortevolmente a tutte le sue pieghe: una specie di andreottismo screziato di prudente decisionismo, una Dc senza i preti, ma che comprende l'interclassismo a cui allude Maurizio Sacconi, in cui si sentono echi di Mitbestimmung tedesca, con i sindacati nei consigli d'amministrazione e la fine di qualsiasi conflitto redistributivo: Pax vobiscum, nel senso di una pace sociale garantita da un potere politico senza alternative.Rispondere a questo pacchetto ideologico è difficile, perché in realtà il cosiddetto interclassismo prospetta un 'economia corporata, che integra organicamente gli interessi di categoria, a cui chiede voti offrendo protezione, cioè riducendo la concorrenza e tutelando le rendite diposizione.Di per sé, si tratta di una notevole antitesi al profilo di una società liberale. Ma anche senza ipotecare un giudizio filosoficamente negativo, anche sfuggendo ai pregiudizi e valutando soltanto i fatti, ci vorrebbe comunque da sinistra un buon esorcista, per dissolvere la magia del consenso a tutti i costi e del conformismo generale.Perché con ogni probabilità ci sarà da condurre una battaglia impopolare contro l'idea irresistibile che viviamo nel migliore dei mondi possibili, e in cui l'unico atteggiamento civile è l'applauso.Per questa battaglia, il governo ombra va bene, un'opposizione costruttiva va benissimo, ma una cultura, un progetto condiviso, cioè un'ipotesi di società desiderabile alternativa a quella di Berlusconi e soci, andrebbe anche meglio.
ilbarbieredellasera
18.5.08
La zattera della medusa
BARBARA SPINELLI
Si è parlato molto, negli ultimi anni, della casta politica e delle sue cecità, dei suoi privilegi. Si è parlato della distanza che la separa dal cittadino, dal suo quotidiano tribolare. Si è parlato assai meno della malattia, vasta, che affligge l’informazione e il compito che essa ha nelle democrazie. Compito di chiamare i poteri a render conto, tra un voto e l’altro. Compito d’abituare l’opinione pubblica non a inferocirsi, ma a capire le complicazioni, a esplorarne le radici, a scommettere con razionalità su rimedi non subito spettacolari. Compito di formare quest’opinione, cosa che spetta all’informazione in quanto «mezzo che mette il cittadino a contatto con l’ambiente che sta al di fuori del suo campo visuale»: lo scriveva Walter Lippmann nei primi Anni 20, e la missione è sempre quella. La malattia non è solo italiana, sono tante le democrazie alle prese con un’informazione che fallisce la prova, che al cittadino non rende visibile l’invisibile, che dal potere politico si fa dettare l’agenda, le inquietudini, gli interessi prioritari. Che è vicina più ai potenti o alle lobby che ai lettori. Che alimenta il clima singolare che regna oggi nelle democrazie: come se vivessero un permanente stato di necessità - di guerra - dove per conformismo si sospendono autonomie, libertà di dire.La grande stampa Usa si è fatta dettare l’agenda da Bush, per anni. La stampa francese per anni s’è dedicata ai temi prediletti da Sarkozy. Quel che ci rende originali non è dunque la malattia. È il fallire del sistema immunitario, che altrove generalmente funziona. Non sappiamo liberarci dalle patologie, dalle loro cellule.Siamo immersi in esse con compiacimento, con il senso di potenza che dà l’ebbro sentirsi in branco: lo straordinario conformismo che disvelò Jean-François Revel (Pour l’Italie, 1958) non è scemato. In Italia c’è poca auto-stima ma anche poca analisi di sé. Un romanzo spietato come Madame Bovary è da noi impensabile. Quanto all’informazione, nulla che somigli alle autocritiche dei giornalisti Usa sull’Iraq, emerse quando Katrina travolse New Orleans. L’informazione italiana non produce anticorpi atti a ristabilire un contatto con la società. Il risultato è palese, oggi, e lo storico Adriano Prosperi lo descrive con nitidezza: nel Palazzo «un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto della correttezza (...) un’aria di intesa e di pace». Fuori, intanto: una guerra tra poveri, e pogrom moltiplicati contro rom e diversi (la Repubblica, 16-5). Il guaio è che anche la stampa è Palazzo: incensa serenità politiche ritrovate e scopre, d’improvviso, una società inferocita da tempo, ormai indomabile dalla destra che l’ha sobillata.L’enorme polemica suscitata da alcune affermazioni televisive del giornalista Marco Travaglio è sintomo di questa malattia, assieme alla violenza, impressionante, con cui alcuni si scagliano contro di lui (in primis un grande professionista d’inchieste giudiziarie come Giuseppe D’Avanzo). Il Paese traversa tifoni, e i giornalisti trovano il tempo di scannarsi a vicenda come fossero nell’ottocentesca Zattera della Medusa. Chi ha visto il quadro di Géricault, al Louvre, ricorderà la cupa zattera, dove pochi naufraghi pensarono di salvarsi a spese di altri. Su simile zattera sono oggi i giornalisti, mangiandosi vivi. L’istinto della muta è forte in tempi di necessità, di Ultimi Giorni dell’Umanità.Ignoranza e mancanza di memoria sono tra i mali che impediscono di smettere il cannibalismo tra giornalisti e di suscitare un’opinione pubblica informata. Si ignora quel che succede nel Paese, e da quanto tempo. Il pogrom di Ponticelli non è un evento nuovo. Violenze di mute cittadine contro il capro espiatorio già sono avvenute il 2 novembre 2007, quando squadracce picchiarono i romeni dopo l’assassinio di Giovanna Reggiani. Già il 21-22 dicembre 2006 presidi cittadini incendiarono un campo nomadi a Opera presso Milano, approvati da un consigliere comunale leghista, Ettore Fusco, ora sindaco. E non erano violenze nate da niente, avevano anch’esse album di famiglia che chi ha memoria conosce: la tortura di manifestanti no-global a Genova nel 2001; gli sgomberi dei campi Rom attuati brutalmente dal Comune di Milano nel giugno 2005; le parole del presidente del Senato Pera contro i meticci nell’agosto 2005; le complicità del governo Berlusconi nel rapimento di Abu Omar e nella sua consegna ai torturatori egiziani.Erano pogrom anche quelli del 2006-2007, e gli oppositori di allora non sapevano che a forza di aizzarli avrebbero suscitato i mostri che adesso, grazie all’allarme europeo, devono condannare. La perdita di memoria è stupefacente, ramificandosi s’espande. D’un tratto Berlusconi è «un’altra persona», al pari di suoi amici come Dell’Utri, Schifani. Non hanno dovuto fare ammenda: sono altre persone perché il conformismo fa letteralmente magie. Non si ricorda quel che è stato Berlusconi ancora ieri: come quotidianamente ha delegittimato Prodi, trascinando dietro di sé l’informazione. Di conflitto d’interesse non si parla più. Non si ricordano i trascorsi dei suoi uomini. I rapporti con la mafia o il vivere vicino a essa sono pur sempre una loro macchia. Travaglio ha avuto il cattivo gusto di non uniformarsi, di dirlo a Fabio Fazio su Rai3. Sta pagando per questo.Fa parte del conformismo giornalistico il fascino per il potere (il vizio infantile descritto nel libro di Scalfari: non solo i buoni vincono ma chi vince è buono). E anche se il fascino esiste altrove, in Italia è diverso: proprio perché lo Stato è debole, la massima irriverenza verso le cariche repubblicane si mescola non di rado a riverenze esagerate (verso il presidente del Senato, anche verso il Capo dello Stato). L’usanza non esiste in regimi presidenziali come America e Francia.Travaglio è un professionista che ha molto investigato, ma ve ne sono altri: Abbate che ha indagato su mafia e politica, o Peter Gomez, Gian Antonio Stella, Elio Veltri, Carlo Bonini, Francesco La Licata. Anche D’Avanzo è fra essi, e per il lettore non è chiaro perché si sia tanto accanito contro Travaglio, il cui carattere non è più spigoloso di altri astri giornalistici. Travaglio si è chiesto come mai un politico dal passato non specchiato sia presidente del Senato. Non è illegittimo. Ha violato il sacro della carica, ma la prossimità di Schifani alla mafia è già stata descritta da Lirio Abbate e Peter Gomez ne I Complici - in libreria dal marzo 2007 - senza che mai sia stata sporta querela. Berlusconi s’avvia a esser osannato allo stesso modo, metamorfizzandosi in tabù. L’antiberlusconismo non è più una normale presa di posizione politica; sta divenendo un insulto che disonora oppositori e giornalisti. Qui è l’altra originalità italiana. Nessuno si sognerebbe in America di accusare il New York Times o i democratici di anti-bushismo, nessuno in Francia denuncerebbe l’anti-sarkozismo di Libération o dei socialisti. Da noi lo spirito dell’orda è tale che ieri era indecente difendere Prodi, oggi è indecente attaccare Berlusconi. Le precipitose scuse di Fabio Fazio non erano necessarie. Più appropriato è quello che ha detto dopo, su La Stampa del 13 maggio: «L’idea che si immagini sempre il complotto, la trama, fa pensare che non possa esistere la normalità; è come se non si riuscisse a concepire che in Italia c’è chi lavora autonomamente. Noi giornalisti non siamo dipendenti della politica. Semmai questo è un atteggiamento proprietario che ha la politica nei confronti dei cittadini». Che cos’è la normalità, per il giornalista? È non farsi intimidire, non lasciarsi manipolare dalla violenza con cui il presidente della Camera Fini giustifica, in aula, gli attacchi a Di Pietro («dipende da quel che dici»). È lavorare solo per i lettori: via maestra per fabbricarsi gli anticorpi che mancano.
lastampa.it
Si è parlato molto, negli ultimi anni, della casta politica e delle sue cecità, dei suoi privilegi. Si è parlato della distanza che la separa dal cittadino, dal suo quotidiano tribolare. Si è parlato assai meno della malattia, vasta, che affligge l’informazione e il compito che essa ha nelle democrazie. Compito di chiamare i poteri a render conto, tra un voto e l’altro. Compito d’abituare l’opinione pubblica non a inferocirsi, ma a capire le complicazioni, a esplorarne le radici, a scommettere con razionalità su rimedi non subito spettacolari. Compito di formare quest’opinione, cosa che spetta all’informazione in quanto «mezzo che mette il cittadino a contatto con l’ambiente che sta al di fuori del suo campo visuale»: lo scriveva Walter Lippmann nei primi Anni 20, e la missione è sempre quella. La malattia non è solo italiana, sono tante le democrazie alle prese con un’informazione che fallisce la prova, che al cittadino non rende visibile l’invisibile, che dal potere politico si fa dettare l’agenda, le inquietudini, gli interessi prioritari. Che è vicina più ai potenti o alle lobby che ai lettori. Che alimenta il clima singolare che regna oggi nelle democrazie: come se vivessero un permanente stato di necessità - di guerra - dove per conformismo si sospendono autonomie, libertà di dire.La grande stampa Usa si è fatta dettare l’agenda da Bush, per anni. La stampa francese per anni s’è dedicata ai temi prediletti da Sarkozy. Quel che ci rende originali non è dunque la malattia. È il fallire del sistema immunitario, che altrove generalmente funziona. Non sappiamo liberarci dalle patologie, dalle loro cellule.Siamo immersi in esse con compiacimento, con il senso di potenza che dà l’ebbro sentirsi in branco: lo straordinario conformismo che disvelò Jean-François Revel (Pour l’Italie, 1958) non è scemato. In Italia c’è poca auto-stima ma anche poca analisi di sé. Un romanzo spietato come Madame Bovary è da noi impensabile. Quanto all’informazione, nulla che somigli alle autocritiche dei giornalisti Usa sull’Iraq, emerse quando Katrina travolse New Orleans. L’informazione italiana non produce anticorpi atti a ristabilire un contatto con la società. Il risultato è palese, oggi, e lo storico Adriano Prosperi lo descrive con nitidezza: nel Palazzo «un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto della correttezza (...) un’aria di intesa e di pace». Fuori, intanto: una guerra tra poveri, e pogrom moltiplicati contro rom e diversi (la Repubblica, 16-5). Il guaio è che anche la stampa è Palazzo: incensa serenità politiche ritrovate e scopre, d’improvviso, una società inferocita da tempo, ormai indomabile dalla destra che l’ha sobillata.L’enorme polemica suscitata da alcune affermazioni televisive del giornalista Marco Travaglio è sintomo di questa malattia, assieme alla violenza, impressionante, con cui alcuni si scagliano contro di lui (in primis un grande professionista d’inchieste giudiziarie come Giuseppe D’Avanzo). Il Paese traversa tifoni, e i giornalisti trovano il tempo di scannarsi a vicenda come fossero nell’ottocentesca Zattera della Medusa. Chi ha visto il quadro di Géricault, al Louvre, ricorderà la cupa zattera, dove pochi naufraghi pensarono di salvarsi a spese di altri. Su simile zattera sono oggi i giornalisti, mangiandosi vivi. L’istinto della muta è forte in tempi di necessità, di Ultimi Giorni dell’Umanità.Ignoranza e mancanza di memoria sono tra i mali che impediscono di smettere il cannibalismo tra giornalisti e di suscitare un’opinione pubblica informata. Si ignora quel che succede nel Paese, e da quanto tempo. Il pogrom di Ponticelli non è un evento nuovo. Violenze di mute cittadine contro il capro espiatorio già sono avvenute il 2 novembre 2007, quando squadracce picchiarono i romeni dopo l’assassinio di Giovanna Reggiani. Già il 21-22 dicembre 2006 presidi cittadini incendiarono un campo nomadi a Opera presso Milano, approvati da un consigliere comunale leghista, Ettore Fusco, ora sindaco. E non erano violenze nate da niente, avevano anch’esse album di famiglia che chi ha memoria conosce: la tortura di manifestanti no-global a Genova nel 2001; gli sgomberi dei campi Rom attuati brutalmente dal Comune di Milano nel giugno 2005; le parole del presidente del Senato Pera contro i meticci nell’agosto 2005; le complicità del governo Berlusconi nel rapimento di Abu Omar e nella sua consegna ai torturatori egiziani.Erano pogrom anche quelli del 2006-2007, e gli oppositori di allora non sapevano che a forza di aizzarli avrebbero suscitato i mostri che adesso, grazie all’allarme europeo, devono condannare. La perdita di memoria è stupefacente, ramificandosi s’espande. D’un tratto Berlusconi è «un’altra persona», al pari di suoi amici come Dell’Utri, Schifani. Non hanno dovuto fare ammenda: sono altre persone perché il conformismo fa letteralmente magie. Non si ricorda quel che è stato Berlusconi ancora ieri: come quotidianamente ha delegittimato Prodi, trascinando dietro di sé l’informazione. Di conflitto d’interesse non si parla più. Non si ricordano i trascorsi dei suoi uomini. I rapporti con la mafia o il vivere vicino a essa sono pur sempre una loro macchia. Travaglio ha avuto il cattivo gusto di non uniformarsi, di dirlo a Fabio Fazio su Rai3. Sta pagando per questo.Fa parte del conformismo giornalistico il fascino per il potere (il vizio infantile descritto nel libro di Scalfari: non solo i buoni vincono ma chi vince è buono). E anche se il fascino esiste altrove, in Italia è diverso: proprio perché lo Stato è debole, la massima irriverenza verso le cariche repubblicane si mescola non di rado a riverenze esagerate (verso il presidente del Senato, anche verso il Capo dello Stato). L’usanza non esiste in regimi presidenziali come America e Francia.Travaglio è un professionista che ha molto investigato, ma ve ne sono altri: Abbate che ha indagato su mafia e politica, o Peter Gomez, Gian Antonio Stella, Elio Veltri, Carlo Bonini, Francesco La Licata. Anche D’Avanzo è fra essi, e per il lettore non è chiaro perché si sia tanto accanito contro Travaglio, il cui carattere non è più spigoloso di altri astri giornalistici. Travaglio si è chiesto come mai un politico dal passato non specchiato sia presidente del Senato. Non è illegittimo. Ha violato il sacro della carica, ma la prossimità di Schifani alla mafia è già stata descritta da Lirio Abbate e Peter Gomez ne I Complici - in libreria dal marzo 2007 - senza che mai sia stata sporta querela. Berlusconi s’avvia a esser osannato allo stesso modo, metamorfizzandosi in tabù. L’antiberlusconismo non è più una normale presa di posizione politica; sta divenendo un insulto che disonora oppositori e giornalisti. Qui è l’altra originalità italiana. Nessuno si sognerebbe in America di accusare il New York Times o i democratici di anti-bushismo, nessuno in Francia denuncerebbe l’anti-sarkozismo di Libération o dei socialisti. Da noi lo spirito dell’orda è tale che ieri era indecente difendere Prodi, oggi è indecente attaccare Berlusconi. Le precipitose scuse di Fabio Fazio non erano necessarie. Più appropriato è quello che ha detto dopo, su La Stampa del 13 maggio: «L’idea che si immagini sempre il complotto, la trama, fa pensare che non possa esistere la normalità; è come se non si riuscisse a concepire che in Italia c’è chi lavora autonomamente. Noi giornalisti non siamo dipendenti della politica. Semmai questo è un atteggiamento proprietario che ha la politica nei confronti dei cittadini». Che cos’è la normalità, per il giornalista? È non farsi intimidire, non lasciarsi manipolare dalla violenza con cui il presidente della Camera Fini giustifica, in aula, gli attacchi a Di Pietro («dipende da quel che dici»). È lavorare solo per i lettori: via maestra per fabbricarsi gli anticorpi che mancano.
lastampa.it
La maschera e il volto
Furio Colombo
Un agente in divisa (festa della Polizia, 16 maggio, ore 10.30) si è staccato dalla sua pattuglia, si è accostato per dire: «Sono di sinistra. Mi dicono che sono l’unico. Mi aiuti a capire. Dove ho sbagliato?».
Poco prima in un altro crocevia due signori bene in arnese non tanto più giovani di me si erano piazzati alle mie spalle il più vicino possibile, e fingevano di conversare ad alta voce.
Uno: - Ha vinto Berlusconi, se lo devono mettere in testa i comunisti. Ha vinto Berlusconi.
L’altro: - Eh santo Dio, finalmente ce li siamo levati dalle palle. Per sempre, hai capito, per sempre.
Uno: - Era ora. ’Sti comunisti del cazzo che ci stavano rovinando... ’Sti comunisti di Prodi!
Alcuni giorni prima, a Fiumicino, di ritorno dal Salone del Libro, mentre ero intruppato nella piccola folla che camminava verso il ritiro bagagli, due signori, più manager che pensionati, cercavano di restare vicini per farsi sentire in una cantilena tipo “Hare Krishna” «Per fortuna ha vinto Berlusconi... per fortuna ha vinto Berlusconi. Passa parola ai comunisti...». Con loro c’era un bambino serio, con il suo zainetto, probabilmente in trasferta tra padre e madre, tra una casa e l’altra. Oltre a me, era il solo a essere imbarazzato.
Nella libreria Mondadori di via del Corso si è accostata una signora, anche lei con un bambino per mano. Dice: «Dateci una parola di speranza». Ci siamo salutati con un sorriso.
La sera prima, di fronte al televisore per guardare una memorabile puntata di “AnnoZero” (quella in cui Travaglio ha spiegato che nei Paesi democratici ci si ispira all’emendamento della Costituzione americana che vieta al governo di censurare la stampa affinché la stampa possa censurare il governo) vengo sorpreso da questo scambio di battute fra il sindaco Ds-Pd di Salerno De Luca e il sottoministro leghista Castelli.
De Luca: - Prima di tutto dobbiamo imparare dalla Lega Nord, imparare dal loro rapporto col territorio, dalla forza del loro linguaggio... lo dico a tutti ma vedo che la sinistra fa spallucce.
Castelli: - Ma no, no, quelli di sinistra non fanno spallucce. Adesso le piegano le spalle.
Lo stesso sottoministro Castelli, poco prima, dopo avere ascoltato un appassionato, civile intervento di Stefano Rodotà contro la barbarie dei rastrellamenti notturni e delle invasioni alle quattro del mattino nei campi legali abitati da Rom di cittadinanza italiana e monitorati da posti fissi di polizia, ha detto con espressione beata: «Avete notato? da quando ci siamo noi non sbarcano più».
Michele Santoro ha dovuto pazientemente ricordargli che cinquanta clandestini erano morti in mare appena pochi giorni prima. Ma non ha cancellato quell’aria di trionfo sul viso di Castelli. Ognuno ha le sue ragioni di felicità. Per fortuna, si è spostata la telecamera.
Proprio in quelle ore dal Libano (pensate, dal Libano) il nuovo ministro della Difesa La Russa, camuffato da capo a piedi in divisa da combattimento ha annunciato che l’ordine pubblico in Italia (ovvero l’argine forte e risoluto contro l’incontenibile orda degli immigrati e dei clandestini, che, come si sa, straripano lungo i viali e assediano minacciosi le chiese cristiane) sarà mantenuto dai pattuglioni composti da esercito e polizia. Soldati armati per le strade di Milano, di Torino, di Roma. È sempre più evidente che alcuni, nel nuovo, agile governo di Berlusconi Quinto, lavorano a trasformare i loro sogni in un incubo, con la loro Notte dei cristalli e i loro pogrom. Le foto dell’assedio, della fuga, dell’incendio di Ponticelli hanno guadagnato la prima pagina del New York Times di giovedì scorso. Noi italiani abbiamo immagini buone e meno buone di noi nel mondo. Ma crudeli e razzisti mai. Adesso Gentilini e Borghezio hanno vinto su Primo Levi e Piero Calamandrei.
* * *
Per caso, subito dopo “AnnoZero”, subito dopo l’immagine di un Paese in cui la voce di Stefano Rodotà resta la sola a indignarsi dell’incendio dei campi nomadi, ho ascoltato a Radio Radicale un frammento del loro archivio. Hanno ritrasmesso, proprio quella sera (notte dal 15 al 16 maggio) una riflessione di Emma Bonino sull’immigrazione che mette in luce la cieca e sorda xenofobia della Lega che ormai è il vero motore del governo di destra, mentre gli altri si dedicano a teatrali cerimonie di potere nello stesso tempo assoluto e benevolo. La Bonino ti fa capire quanto sia piccola la testa dei tanti Castelli leghisti e neo-leghisti, e la disinformazione profonda che sono riusciti a radicare in Italia. I filmati di “AnnoZero” ci hanno mostrato, in fiorenti città emiliane senza criminalità, il furore razzista di brave signore e di ex militanti di tutte le gradazioni della sinistra.
La Bonino divide la sua riflessione in tre parti. «Loro», «noi» e «il che fare». «Loro», gli immigrati devono essere visti prima di tutto, a partire dai dati: in 10 anni si è messo in moto un flusso fisso di 150 milioni di esseri umani che vengono e continueranno a venire per non morire. È un due per cento della popolazione del mondo che tenta e continuerà a tentare, contro qualunque politica di contenimento, dal mondo della penuria a quello del lavoro.
Quel due per cento potrà aumentare, se continuiamo a permettere che la penuria diventi fame e che un minimo di speranza lasci il posto alla disperazione. Ma niente al mondo potrà fermare un flusso che nessuno regola e nessuno contiene. Ed è ridicolo affermare che quel flusso lo decidiamo noi. La Bonino ricorda che centinaia di chilometri di muro fra Stati Uniti e Messico non hanno fermato un solo messicano clandestino. Poi Emma Bonino propone due punti che sembrano sfuggire, in Europa, a ogni governo, nonostante siano noti ed evidenti. Il primo è che le rimesse degli emigranti sono quasi sempre la parte più importante del Pil dei Paesi da cui fuggono. Dunque nessun accordo bilaterale potrà mai funzionare, neppure a pagamento. Le rimesse sono somme immense e non si possono negoziare contro il ritorno di spossessati.
Il secondo punto è che il mondo agiato, anche quando non è governato da politici immersi nelle xenofobia, che diventano «impresari della paura», non compra neppure uno spillo dal mondo povero. Non compra, ma preme e ricatta per vendere nel mondo povero in prodotti del mondo agiato.
In questo modo lavora alacremente a mantenere stabile quel flusso fisiologico che si stabilisce da solo e che nessun governo può regolare.
Poi - nella riflessione della Bonino - ci siamo «noi». «Noi» siamo l’Europa e gli Stati Uniti. L’atteggiamento è psicotico. Noi, le stesse persone, li vogliamo per lavorare e nessuno va per il sottile se sono clandestini. Meglio, li paghi meno.
«Noi» però siamo gli stessi che non li vogliono vicini, non li vogliono in città, non li vogliono vedere, li accusano di tutti i reati, li preferiscono in prigione, invocano l’espulsione.
La via d’uscita? Concentrare tutte le risorse, morali, materiali, legali e tecniche sull’unico percorso possibile non per bontà ma per necessità: l’integrazione.
È stata una bella sorpresa apprendere che la riflessione pubblica di Emma Bonino sulla immigrazione che ho ascoltato da Radio Radicale, subito dopo avere visto il sindaco già di sinistra De Luca e il sottoministro Castelli scambiarsi effusioni da guerrieri con grinta che sanno come trattare gli indigeni, aveva questa data: 12 dicembre 2002. Come si vede non tutta la civiltà marcia allo stesso passo.
* * *
Ma adesso, ai nostri giorni, da noi, mentre continuano brutte e difficili guerre nel mondo (Iraq, Afghanistan) mentre resta la minaccia dell’Iran e rialza la testa la doppia guerra del Libano (contro il Libano e contro Israele) e non si sa quale sarà, fra poco, il destino dell’Egitto e quello del Pakistan, ma anche il prezzo del petrolio e la tenuta della grande finanza americana, troppo posseduta dai «fondi sovrani» cinesi e arabi, adesso il ministro della Difesa italiano annuncia soldati armati contro i Rom in Italia, una misura che ricorda gli ultimi giorni della Repubblica di Weimar. E intanto molti sindaci «di sinistra» offrono le loro ronde di cittadini come pegno per la loro resa agli «impresari di paura» della Lega Nord. E gli «impresari di paura» della Lega Nord vanno a giurare fedeltà alla Padania nella squallida messa in scena teatrale di Pontida. Resta da domandarsi come possa un gruppo xenofobo locale eletto in un’area sola del Paese sulla base di un impegno per quell’unica area, sanzionato da un giuramento, governare tutto il resto del Paese che non conosce quel partito, non lo ha votato e non poteva votarlo. Infatti la Lega fuori dal Nord non presenta né liste né candidati.
Sorprende che nessun costituzionalista si sia posto il problema se si può governare un Paese in nome e per conto di un progetto di secessione da quel Paese.
Non risulta che i secessionisti scozzesi, che pure hanno ottenuto la devolution, possano governare a Londra.
E cominciamo a scoprire che le accuse di Berlusconi a Casini (ci impediva di governare) non erano infondate.
Adesso, infatti, sono gli avvocati di Berlusconi a lavorare per conto della Lega alfine di dare all’Italia una vergogna in più: il reato di clandestinità. La vergogna si rivela due volte. La prima perché accusa e macchia di un reato persone innocenti che sono note, listate, rintracciabili in quanto da anni stanno tentando di percorrere i crudeli labirinti della legge Bossi-Fini. Hanno presentato i documenti e si sono - in tal modo - autodenunciati.
Ed è vergogna perché i clandestini lavorano e tengono in piedi intere aziende e senza di loro molti settori dell’industria italiana smettono di produrre.
Dovremo ricordarci di queste date, di questi giorni, di questo anno. Al contrario di quanto è avvenuto negli anni 60 in America, dove Martin Luther King si è messo alla testa del Movimento dei diritti civili, qui, in questa Italia, fra campi nomadi bruciati, famiglie con bambini in fuga, case distrutte con la gente dentro («stranieri», si intende, è accaduto già varie volte, fra inchieste imprecise e colpevoli non rintracciati) si è messo in marcia un potente movimento contro i diritti civili. A capo ci sono i ministri della Lega secessionista, che lavora alacremente a dividere e danneggiare l’Italia. E ci sono i servizi legali del «Popolo delle Libertà» (cioè di casa Berlusconi) e ciò che resta di An disciolta nell’acido berlusconiano.
Chi ha capito tutto è Fini. Dirige la Camera abbronzato e annoiato, dà risposte sbadate, mostra poco orgoglio e poco interesse per il posto che gli hanno assegnato. Ha capito che l’involuzione sembra soft, sarà durissima. Ma non riserva per lui alcun posto nella catena del potere.
* * *
Scrive Massimo Franco sulla prima pagine del Corriere della Sera del 14 maggio che occorre «sconfiggere quanti continuano a ritenere più comodo lo scontro». Vorrei assicurare il collega che non è così comodo. Anche perché basta la minima critica, il più cauto dissenso per parlare di «scontro». La solitudine si rivela anche un po’ pericolosa, come dimostra l’aggressione a colpi di casco del ragazzo «comunista» a piazza San Giovanni a Roma, la sera di venerdì 16 maggio. Poi però il sindaco Alemanno gli manda la sua solidarietà. E questo è il massimo di civiltà in cui puoi sperare in questo momento.
Infatti ti capita non raramente di ricevere lettere come questa: «Egregio (?) sig. Colombo Furio, sono un simpatizzante leghista di lunga data: le scrivo queste righe per esprimere il mio più totale disprezzo sia per quello che dice in Tv nelle trasmissioni condotte dai suoi soci-amici, sia per quello che scrive sul suo vergognoso organo di disinformazione che è l’Unità. Mi domando come faccia il Pd ad accettare che un personaggio come lei faccia parte dei suoi rappresentanti. E non capiscono che lei apre bocca solo per spargere sempre veleno e rancore contro il Berlusca. È veramente autolesionistico da parte di Veltroni averle dato una poltrona. Con totale disistima. La saluto. E mi raccomando: continui a scrivere. Paolo da Milano». Sì, grazie. Conto di continuare a farlo.
17.5.08
Un po' di coca e il turno se ne vola via
Seconda puntata
Nello stabilimento gioiello della Fiat si «tira» per reggere i ritmi del Tmc2. Ma la cocaina detta anche tutti i tempi della vita e permette un commercio che per molti consumatori si trasforma in un bel business
Loris Campetti
Melfi (Potenza)
All'inizio era il «prato verde», messi di grano a perdita d'occhio nella straordinaria piana di San Nicola. Il grano ha lasciato il posto allo stabilimento Fiat-Sata di Melfi e la collina che si arrampica verso il paese è ferita da una strada costruita tutta in sopraelevata. Quando venne inaugurata la fabbrica, nel '94, speranze di emancipazione e retorica postdemocristiana si mescolarono in una narrazione inedita in questa terra lucana: arriva il capitalismo serio, si può uscire da una povertà contadina dominata per decenni dal paternalismo di Emilio Colombo. Arriva l'industria, arriva il progresso. Il vecchio applaudiva al passaggio dei nuovi padrini: «Romito, salutateci Agnello», aveva scritto su un cartello ripreso da cento telecamere e alla Fiat veniva concesso tutto, dalla deroga al divieto del lavoro notturno per le donne a una rivisitata forma di gabbie salariali che condannavano i futuri operai a guadagnare meno dei loro compagni di Mirafiori e a lavorare di più.
«Prato verde» chiamarono lo stabilimento di San Nicola. Perché nasceva dal nulla (il grano, si sa, è nulla) e nell'assenza di memoria dell'industria e del conflitto. Ci sono voluti 10 anni esatti perché gli operai di Melfi esplodessero decretando la fine della pace sociale, per 21 giorni bloccarono i cancelli, ressero alle cariche della polizia e ruppero un isolamento che inutilmente, in tanti nella politica, nei media e persino nei sindacati avevano cercato di costruire intorno ai nuovi briganti in tuta blu. Vinsero, con il sostegno quasi solitario della Fiom, diventarono maggiorenni conquistando diritti che altri, in altre stagioni, avevano conquistato e che ora, tutti insieme, rischiano di perdere di nuovo.
Quasi 15 anni dopo la nascita, Melfi è uno degli stabilimenti di punta della Fiat. 5.300 dipendenti diretti, 10 mila con l'indotto. Gli operai arrivano a San Nicola ogni mattina, pomeriggio e notte da tutti i paesi della Basilicata, dal nord della Puglia e in parte dalla Campania. Ore e ore di pullman o di macchina, centinaia di incidenti stradali con tanti morti e feriti accumulati in 15 anni di pendolariato. Anche qui, come alla Sevel in Val di Sangro, lavora una classe operaia molto giovane che spesso non riesce a reggere i ritmi ossessivi della fabbrica modello, come testimonia un turnover molto alto. Anche qui, come alla Sevel, impazza la cocaina. Mentre ci lasciamo alle spalle la piana e il paese viaggiando verso Potenza, un delegato Fiom senza nome ci racconta la «normalita» del consumo e dello spaccio lungo le linee di montaggio - pardon, le Ute, un acronimo che sta per Unità produttive elementari che viaggiano sui ritmi della famigerata metrica Tmc2, responsabile di strappi, ernie, tunnel carpali, tendiniti. «La cocaina circola in fabbrica dall'inizio, ma solo da pochi anni ha assunto dimensioni di massa. Un carrellista che lavora nella mia Ute vende una quantità di dosi incredibili agli altri operai, ai capi, ai vigilanti che tirano da matti, alle donne. Lo spaccio è quotidiano come il consumo, ma il venerdì e prima delle vacanze il volume degli affari va alle stelle perché vengono acquistate le dosi per il sabato sera in discoteca, o per le ferie. Il mio amico carrellista prima di Natale ha tirato su 15 mila euro, in poco tempo si è fatto casa». Ci si droga anche dentro la fabbrica? «Gli operai - risponde - si fanno durante le pause, li riconosci perché riprendono il lavoro eccitati, tirano su col naso, è una specie di tic, e per una mezz'ora producono come pazzi, poi si danno una calmata. All'inizio sono solo consumatori saltuari, ma quando prendono il vizio si trasformano in piccoli spacciatori per pagarsi la dose. Le canne se le fanno direttamente sulla Ute: sentissi che profumo...».
Droga di sostegno
I prezzi della cocaina si aggirano tra i 70 e i 100 euro a grammo, i soliti 20-25 euro a quartino. Arriva soprattutto da Foggia portata dai soliti camionisti che riforniscono la fabbrica di pezzi, componenti e sogni di gloria, o di fuga che dir si voglia. «C'è anche qualcuno che si buca - continua il racconto del nostro amico delegato - e spesso viene aiutato dall'azienda a recarsi qualche periodo in comunità per tentare di disintossicarsi». Perché si drogano? «Anni di lavoro in questa fabbrica ti spompano. Il ritmo è stressante, i viaggi quotidiani per raggiungere o lasciare il lavoro fanno il resto e la vita nei paesi è banale, noiosa. C'è chi si fa per reggere lo stress, ma spesso le motivazioni sono altre: per stare bene con gli amici, per stare bene con la moglie o il marito. Molti si portano la coca a casa e fanno sniffare anche la moglie per scopare meglio». Vuol dire che con gli amici si sta male senza farsi? E che non si riesce a divertirsi in discoteca o a letto senza l'uso di cocaina? Il delegato scuote le spalle, e va avanti nel suo racconto. Insiste sul legame con il sesso: «Quando tirano, anche in fabbrica, non li ferma più nessuno. Qui si dice «inculare la formica» quando sei preso dal raptus e ti senti Rambo, e succede che il tuo compagno di lavoro, un po' per gioco e un po' no, venga a toccarti il culo, non avendo una donna a portata di mano». Tra i consumatori ci sono anche iscritti al sindacato? «Ce ne sono, ce ne sono. Anche delegati. Uno dell'Ugl è stato anche bastonato perché era in ritardo con il pagamento allo spacciatore. I delegati Fiom? Qualche spinello, quello tutti. Sì, qualcuno usa anche la cocaina. La maggior parte dei consumatori - cambia discorso - è sposato e ha figli». Qual è la percentuale dei cocainomani? «C'è chi dice il 40%, chi corregge la cifra al rialzo: uno su due».
Stress, noia, sesso, voglia di essere diverso anche se poi finisce che sei esattamente uguale a tutti gli altri tuoi coetanei. «Di notte c'è meno controllo ma si sniffa in tutti i turni. In questa fabbrica si può comprare fumo, coca, eroina ma anche perizoma, canottiere, elettrodomestici. Tutti sanno nessuno parla. Per paura, per convenienza, per quieto vivere». In realtà c'è chi parla: i blitz dell'antidroga fuori dai cancelli, sui piazzali dello stabilimento, finiscono spesso con arresti, dunque le spiate non mancano. Chi viene pizzicato con le mani nella farina viene spinto dall'azienda a dimettersi, oppure viene degradato e spostato in altre unità, «è successo recentemente a un quarto livello del montaggio». Dalla lotta vittoriosa dei 21 giorni, Michele è assessore di Rifondazione alle politiche sociali della provincia di Potenza, in distacco dalla Fiat di Melfi dove fa l'operaio: «Ho assistito personalmente - ci racconta - all'arresto di due operai sul pullman che ci riportava al paese dopo il turno di notte: sono saliti in tre, uno in borghese dalla porta davanti e due in divisa da quella posteriore per bloccare le uscite e sono andati a colpo sicuro mettendo le manette a due operai, direttamente sul pullman. Per fortuna quella volta non avevano roba con sé e sono stati rilasciati». In qualche caso, però, scatta il licenziamento ma sempre con motivazioni diverse: «Due ragazzi - ci racconta l'avvocato Lina Grosso che segue le cause di lavoro per la Fiom - sono stati licenziati per assenza ingiustificata, ma è noto che si trattava di due tossicodipendenti. Noi avviamo la procedura ma in questi casi la Fiat punta sempre a monetizzare, offrendo soldi a chi di soldi ha bisogno come il pane, pur di non arrivare a sentenza. Per noi è difficile convincere questi ragazzi a non accettare l'offerta, anche perché non abbiamo alcuna certezza di vincere la causa». E questo è uno dei tanti problemi a Melfi, dove le procedure d'urgenza (il 700 contro i licenziamenti) durano mesi e mesi e le sentenze, quando ci si arriva, rarissimamente sono a favore del sindacato. «C'è invece il caso di un altro operaio, dipendente da alcol, che l'azienda metteva regolarmente in postazioni per lui insostenibili. Una volta chiese di poter uscire per andare in ospedale perché stava male. Lo bloccarono più volte finché non riuscì a scappare determinando momenti di forte tensione. Fuggì in automobile dopo una colluttazione con due capi in stato confusionale ed ebbe un incidente d'auto. L'azienda l'ha licenziato e noi abbiamo fatto causa. Abbiamo perso in primo grado e siamo andati in appello, anche perché una perizia medica ha stabilito che non era in grado di intendere e di volere per cui non è stato condannato in sede penale. Dopo una seconda perizia che ha confermato la prima, la Fiat ha proposto la transazione, cioè la monetizzazione per non arrivare a sentenza. Il nostro assistito non ha accettato e ora aspettiamo il verdetto del giudice». Finalmente, all'inizio della settimana è avvenuta una cosa che ha ridato qualche speranza all'ufficio legale della Fiom: il giudice di melfi ha accolto il ricorso contro il licenziamento di un operaio Sata, Michele Passannante, «senza giusta causa», dopo l'apertura di un'inchiesta giudiziaria in cui è indagato per una presunta appartenenza all'area del terrorismo. Ora la Fiat dovrà riaprirgli le porte della fabbrica e pagargli gli stipendi arretrati.
Un'emergenza che dilaga
La Regione Basilicata si occupa della Fiat di Melfi dal giorno della sua apertura, e lo fa manifestando talvolta un certo grado di autonomia rispetto allo strapotere esercitato nel territorio dalla multinazionale torinese. Ha attivato incheste («magari la Procura fosse altrettanto attiva», ci dicono gli avvocati che difendono gli operai) sul mutamento della vita nei paesi in cui vivono i dipendenti Sata e dell'indotto, sugli infortuni stradali stradali legati al pendolarismo, sul mobbing. La Regione si è occupata anche di tossicodipenza in fabbrica. In particolare c'è un'inchiesta curata dall'equipe della Cooperativa Marcella sulla percezione delle droghe da parte dei lavoratori dell'area industriale di Melfi: «Tutti sono concordi nell'affermare che l'uso delle sostanze è gravemente nocivo per la salute», pur ritenendo che alcune, come le droghe leggere, possano aumentare la capacità lavorativa e insieme a quelle sintetiche migliorino la resistenza alla fatica, a differenza di alcol e psicofarmaci. In molti pensano che l'uso di droghe pesanti e sintetiche facciano correre rischi all'interessato e ai compagni di lavoro. Sono al corrente del consumo crescente di droghe in fabbrica, o per conoscenza diretta, o per lo spaccio evidente, le siringhe abbandonate, i furti, l'eccesso di assenze per malattia, qualche episodio di violenza. Solo il 21% degli intervistati esclude che nella sua azienda si consumino sostanze stupefacenti. Un dato allarmante su cui riflettere è segnalato da un intervistato su due: chi si fa si infortuna di più. Il 50% sostiene che chi si droga è «una persona normale».
L'altro dato che non deve sorprendere è che il consumatore «non si ritiene tossicodipendente» (44,9%). Per il 77,3% del campione, infine, «le imprese dovrebbero avere un programma di lotta contro la droga».
Qualche mese fa, nel terzo stabilimento meridionale della Fiat per importanza, quello di Cassino, fu realizzato un video con un operaio intervistato di spalle che raccontava il consumo di droga durante il turno di notte. Diceva molte verità, e proponeva qualche certezza di troppo e troppo politicamente corrette: ci si fa di cocaina solo per resistere a un lavoro altrimenti insopportabile. E' così, ma non è solo così. Ne parleremo nelle prossime puntate. Finora abbiamo indagato solo grandi fabbriche metalmeccaniche, anzi Fiat, perché è più facile stabilirvi relazioni e perché il tasso di vent'enni è altissimo. Non si creda però che si tratti di un fenomeno circoscritto a queste realtà. In tutti i settori dell'industria e dei servizi il consumo della cocaina è drammaticamente alto e crescente. Lo è nei lavori faticosi, come nell'edilizia, nei lavori ripetitivi, in quelli che prevedono il rapporto con il pubblico. Lo è soprattutto tra i giovani e i precari. C'è chi pensa che ci sia un rapporto tra la diffusione delle droghe e la riduzione dei conflitti sul lavoro. Ipotesi, naturalmente, tutte da verificare.
ilmanifesto.it
Nello stabilimento gioiello della Fiat si «tira» per reggere i ritmi del Tmc2. Ma la cocaina detta anche tutti i tempi della vita e permette un commercio che per molti consumatori si trasforma in un bel business
Loris Campetti
Melfi (Potenza)
All'inizio era il «prato verde», messi di grano a perdita d'occhio nella straordinaria piana di San Nicola. Il grano ha lasciato il posto allo stabilimento Fiat-Sata di Melfi e la collina che si arrampica verso il paese è ferita da una strada costruita tutta in sopraelevata. Quando venne inaugurata la fabbrica, nel '94, speranze di emancipazione e retorica postdemocristiana si mescolarono in una narrazione inedita in questa terra lucana: arriva il capitalismo serio, si può uscire da una povertà contadina dominata per decenni dal paternalismo di Emilio Colombo. Arriva l'industria, arriva il progresso. Il vecchio applaudiva al passaggio dei nuovi padrini: «Romito, salutateci Agnello», aveva scritto su un cartello ripreso da cento telecamere e alla Fiat veniva concesso tutto, dalla deroga al divieto del lavoro notturno per le donne a una rivisitata forma di gabbie salariali che condannavano i futuri operai a guadagnare meno dei loro compagni di Mirafiori e a lavorare di più.
«Prato verde» chiamarono lo stabilimento di San Nicola. Perché nasceva dal nulla (il grano, si sa, è nulla) e nell'assenza di memoria dell'industria e del conflitto. Ci sono voluti 10 anni esatti perché gli operai di Melfi esplodessero decretando la fine della pace sociale, per 21 giorni bloccarono i cancelli, ressero alle cariche della polizia e ruppero un isolamento che inutilmente, in tanti nella politica, nei media e persino nei sindacati avevano cercato di costruire intorno ai nuovi briganti in tuta blu. Vinsero, con il sostegno quasi solitario della Fiom, diventarono maggiorenni conquistando diritti che altri, in altre stagioni, avevano conquistato e che ora, tutti insieme, rischiano di perdere di nuovo.
Quasi 15 anni dopo la nascita, Melfi è uno degli stabilimenti di punta della Fiat. 5.300 dipendenti diretti, 10 mila con l'indotto. Gli operai arrivano a San Nicola ogni mattina, pomeriggio e notte da tutti i paesi della Basilicata, dal nord della Puglia e in parte dalla Campania. Ore e ore di pullman o di macchina, centinaia di incidenti stradali con tanti morti e feriti accumulati in 15 anni di pendolariato. Anche qui, come alla Sevel in Val di Sangro, lavora una classe operaia molto giovane che spesso non riesce a reggere i ritmi ossessivi della fabbrica modello, come testimonia un turnover molto alto. Anche qui, come alla Sevel, impazza la cocaina. Mentre ci lasciamo alle spalle la piana e il paese viaggiando verso Potenza, un delegato Fiom senza nome ci racconta la «normalita» del consumo e dello spaccio lungo le linee di montaggio - pardon, le Ute, un acronimo che sta per Unità produttive elementari che viaggiano sui ritmi della famigerata metrica Tmc2, responsabile di strappi, ernie, tunnel carpali, tendiniti. «La cocaina circola in fabbrica dall'inizio, ma solo da pochi anni ha assunto dimensioni di massa. Un carrellista che lavora nella mia Ute vende una quantità di dosi incredibili agli altri operai, ai capi, ai vigilanti che tirano da matti, alle donne. Lo spaccio è quotidiano come il consumo, ma il venerdì e prima delle vacanze il volume degli affari va alle stelle perché vengono acquistate le dosi per il sabato sera in discoteca, o per le ferie. Il mio amico carrellista prima di Natale ha tirato su 15 mila euro, in poco tempo si è fatto casa». Ci si droga anche dentro la fabbrica? «Gli operai - risponde - si fanno durante le pause, li riconosci perché riprendono il lavoro eccitati, tirano su col naso, è una specie di tic, e per una mezz'ora producono come pazzi, poi si danno una calmata. All'inizio sono solo consumatori saltuari, ma quando prendono il vizio si trasformano in piccoli spacciatori per pagarsi la dose. Le canne se le fanno direttamente sulla Ute: sentissi che profumo...».
Droga di sostegno
I prezzi della cocaina si aggirano tra i 70 e i 100 euro a grammo, i soliti 20-25 euro a quartino. Arriva soprattutto da Foggia portata dai soliti camionisti che riforniscono la fabbrica di pezzi, componenti e sogni di gloria, o di fuga che dir si voglia. «C'è anche qualcuno che si buca - continua il racconto del nostro amico delegato - e spesso viene aiutato dall'azienda a recarsi qualche periodo in comunità per tentare di disintossicarsi». Perché si drogano? «Anni di lavoro in questa fabbrica ti spompano. Il ritmo è stressante, i viaggi quotidiani per raggiungere o lasciare il lavoro fanno il resto e la vita nei paesi è banale, noiosa. C'è chi si fa per reggere lo stress, ma spesso le motivazioni sono altre: per stare bene con gli amici, per stare bene con la moglie o il marito. Molti si portano la coca a casa e fanno sniffare anche la moglie per scopare meglio». Vuol dire che con gli amici si sta male senza farsi? E che non si riesce a divertirsi in discoteca o a letto senza l'uso di cocaina? Il delegato scuote le spalle, e va avanti nel suo racconto. Insiste sul legame con il sesso: «Quando tirano, anche in fabbrica, non li ferma più nessuno. Qui si dice «inculare la formica» quando sei preso dal raptus e ti senti Rambo, e succede che il tuo compagno di lavoro, un po' per gioco e un po' no, venga a toccarti il culo, non avendo una donna a portata di mano». Tra i consumatori ci sono anche iscritti al sindacato? «Ce ne sono, ce ne sono. Anche delegati. Uno dell'Ugl è stato anche bastonato perché era in ritardo con il pagamento allo spacciatore. I delegati Fiom? Qualche spinello, quello tutti. Sì, qualcuno usa anche la cocaina. La maggior parte dei consumatori - cambia discorso - è sposato e ha figli». Qual è la percentuale dei cocainomani? «C'è chi dice il 40%, chi corregge la cifra al rialzo: uno su due».
Stress, noia, sesso, voglia di essere diverso anche se poi finisce che sei esattamente uguale a tutti gli altri tuoi coetanei. «Di notte c'è meno controllo ma si sniffa in tutti i turni. In questa fabbrica si può comprare fumo, coca, eroina ma anche perizoma, canottiere, elettrodomestici. Tutti sanno nessuno parla. Per paura, per convenienza, per quieto vivere». In realtà c'è chi parla: i blitz dell'antidroga fuori dai cancelli, sui piazzali dello stabilimento, finiscono spesso con arresti, dunque le spiate non mancano. Chi viene pizzicato con le mani nella farina viene spinto dall'azienda a dimettersi, oppure viene degradato e spostato in altre unità, «è successo recentemente a un quarto livello del montaggio». Dalla lotta vittoriosa dei 21 giorni, Michele è assessore di Rifondazione alle politiche sociali della provincia di Potenza, in distacco dalla Fiat di Melfi dove fa l'operaio: «Ho assistito personalmente - ci racconta - all'arresto di due operai sul pullman che ci riportava al paese dopo il turno di notte: sono saliti in tre, uno in borghese dalla porta davanti e due in divisa da quella posteriore per bloccare le uscite e sono andati a colpo sicuro mettendo le manette a due operai, direttamente sul pullman. Per fortuna quella volta non avevano roba con sé e sono stati rilasciati». In qualche caso, però, scatta il licenziamento ma sempre con motivazioni diverse: «Due ragazzi - ci racconta l'avvocato Lina Grosso che segue le cause di lavoro per la Fiom - sono stati licenziati per assenza ingiustificata, ma è noto che si trattava di due tossicodipendenti. Noi avviamo la procedura ma in questi casi la Fiat punta sempre a monetizzare, offrendo soldi a chi di soldi ha bisogno come il pane, pur di non arrivare a sentenza. Per noi è difficile convincere questi ragazzi a non accettare l'offerta, anche perché non abbiamo alcuna certezza di vincere la causa». E questo è uno dei tanti problemi a Melfi, dove le procedure d'urgenza (il 700 contro i licenziamenti) durano mesi e mesi e le sentenze, quando ci si arriva, rarissimamente sono a favore del sindacato. «C'è invece il caso di un altro operaio, dipendente da alcol, che l'azienda metteva regolarmente in postazioni per lui insostenibili. Una volta chiese di poter uscire per andare in ospedale perché stava male. Lo bloccarono più volte finché non riuscì a scappare determinando momenti di forte tensione. Fuggì in automobile dopo una colluttazione con due capi in stato confusionale ed ebbe un incidente d'auto. L'azienda l'ha licenziato e noi abbiamo fatto causa. Abbiamo perso in primo grado e siamo andati in appello, anche perché una perizia medica ha stabilito che non era in grado di intendere e di volere per cui non è stato condannato in sede penale. Dopo una seconda perizia che ha confermato la prima, la Fiat ha proposto la transazione, cioè la monetizzazione per non arrivare a sentenza. Il nostro assistito non ha accettato e ora aspettiamo il verdetto del giudice». Finalmente, all'inizio della settimana è avvenuta una cosa che ha ridato qualche speranza all'ufficio legale della Fiom: il giudice di melfi ha accolto il ricorso contro il licenziamento di un operaio Sata, Michele Passannante, «senza giusta causa», dopo l'apertura di un'inchiesta giudiziaria in cui è indagato per una presunta appartenenza all'area del terrorismo. Ora la Fiat dovrà riaprirgli le porte della fabbrica e pagargli gli stipendi arretrati.
Un'emergenza che dilaga
La Regione Basilicata si occupa della Fiat di Melfi dal giorno della sua apertura, e lo fa manifestando talvolta un certo grado di autonomia rispetto allo strapotere esercitato nel territorio dalla multinazionale torinese. Ha attivato incheste («magari la Procura fosse altrettanto attiva», ci dicono gli avvocati che difendono gli operai) sul mutamento della vita nei paesi in cui vivono i dipendenti Sata e dell'indotto, sugli infortuni stradali stradali legati al pendolarismo, sul mobbing. La Regione si è occupata anche di tossicodipenza in fabbrica. In particolare c'è un'inchiesta curata dall'equipe della Cooperativa Marcella sulla percezione delle droghe da parte dei lavoratori dell'area industriale di Melfi: «Tutti sono concordi nell'affermare che l'uso delle sostanze è gravemente nocivo per la salute», pur ritenendo che alcune, come le droghe leggere, possano aumentare la capacità lavorativa e insieme a quelle sintetiche migliorino la resistenza alla fatica, a differenza di alcol e psicofarmaci. In molti pensano che l'uso di droghe pesanti e sintetiche facciano correre rischi all'interessato e ai compagni di lavoro. Sono al corrente del consumo crescente di droghe in fabbrica, o per conoscenza diretta, o per lo spaccio evidente, le siringhe abbandonate, i furti, l'eccesso di assenze per malattia, qualche episodio di violenza. Solo il 21% degli intervistati esclude che nella sua azienda si consumino sostanze stupefacenti. Un dato allarmante su cui riflettere è segnalato da un intervistato su due: chi si fa si infortuna di più. Il 50% sostiene che chi si droga è «una persona normale».
L'altro dato che non deve sorprendere è che il consumatore «non si ritiene tossicodipendente» (44,9%). Per il 77,3% del campione, infine, «le imprese dovrebbero avere un programma di lotta contro la droga».
Qualche mese fa, nel terzo stabilimento meridionale della Fiat per importanza, quello di Cassino, fu realizzato un video con un operaio intervistato di spalle che raccontava il consumo di droga durante il turno di notte. Diceva molte verità, e proponeva qualche certezza di troppo e troppo politicamente corrette: ci si fa di cocaina solo per resistere a un lavoro altrimenti insopportabile. E' così, ma non è solo così. Ne parleremo nelle prossime puntate. Finora abbiamo indagato solo grandi fabbriche metalmeccaniche, anzi Fiat, perché è più facile stabilirvi relazioni e perché il tasso di vent'enni è altissimo. Non si creda però che si tratti di un fenomeno circoscritto a queste realtà. In tutti i settori dell'industria e dei servizi il consumo della cocaina è drammaticamente alto e crescente. Lo è nei lavori faticosi, come nell'edilizia, nei lavori ripetitivi, in quelli che prevedono il rapporto con il pubblico. Lo è soprattutto tra i giovani e i precari. C'è chi pensa che ci sia un rapporto tra la diffusione delle droghe e la riduzione dei conflitti sul lavoro. Ipotesi, naturalmente, tutte da verificare.
ilmanifesto.it
16.5.08
Quanto tira la classe operaia
La cocaina va a ruba nelle fabbriche tra i più giovani.
Prima puntata
Alla Sevel in Val di Sangro un operaio su due consuma sostanze stupefacenti. Lo stesso avviene dove l'età media è molto bassa. Si sniffa per reggere «un lavoro e una vita di merda», perché così fan tutti, perché la fabbrica non è più una comunità. Lo spaccio, i furti, i blitz. La polvere bianca cambia il rapporto con il lavoro e il sindacato Al montaggio ci sono stati casi di ragazze che si prostituivano per pagarsi la dose. Adesso meno e solo quando finisce lo stipendio
Loris Campetti
Atessa (Chieti)
«Il proletariato non è soltanto una classe che soffre... La vergognosa situazione economica nella quale si trova lo spinge irresistibilmente in avanti e lo incita a lottare per la sua emancipazione definitiva». Così scriveva nel 1840 Friedrich Engels nella sua magistrale «Indagine sulla condizione della classe operaia in Inghilterra». E' un'idea semplice quanto straordinaria quella di Engels e Marx, che ha mosso centinaia di milioni di uomini e donne in tutto il pianeta nel corso dei due secoli alle nostre spalle. Un'idea che ha cambiato il mondo, emancipando grandi masse da una condizione di miseria e subalternità attraverso la lotta di classe, il «motore della storia».A che punto è la storia, 170 anni dopo l'indagine di Engels? Questa domanda ci è sorta spontanea al termine della nostra inchiesta sul consumo e la diffusione delle droghe nelle fabbriche italiane, e siamo andati a risfogliare i testi classici, memori delle operaie tessili di Manchester poco più che bambine, costrette ad avvelenarsi con «cherry, porto e caffè» per reggere un ritmo di lavoro disumano per 15-16 ore al giorno. Nel 2008 ci sono realtà industriali importanti in cui addirittura il 50% dei lavoratori si fa di cocaina e, in misura minore, di eroina e di ogni sostanza capace di rendere più tollerabile una «vita di merda», o meglio, di far sognare un'improbabile fuga da essa. Di merda è il lavoro così come la normalità delle relazioni in paesi privi di vita sociale, che concedono ben poco alle speranze di futuro e di cambiamento, ci raccontano le tute blu. Ci si fa per lavorare, per sballare, per fare l'amore. Ci si fa alla catena di montaggio, in discoteca con gli amici, a letto con la moglie per migliorare le prestazioni sessuali; poi arriva la dipendenza e con essa lo spaccio per pagarsi la dose. Operai e operaie, capi e sorveglianti, adescati in fabbrica da altri operai: una «pista» nei cessi della fabbrica tanto per provare, l'esaltazione e il cuore che batte a mille, l'adrenalina che all'inizio fa persino aumentare la produzione, infine la consuetudine. Si lavora di notte per guadagnare trecento euro in più, 1.400 invece di 1.100 euro buoni per affrontare l'astinenza e la crisi della quarta settimana. La notte ci sono meno controlli, «tu fai i picchi di produzione e i capi non ti rompono il cazzo». Qualche ragazza può persino arrivare a prostituirsi per pagarsi la dose, per fortuna casi sporadici.Dall'officina al murettoDalla fabbrica la droga arriva nei paesi di provenienza dei lavoratori in una spirale perversa di cui, oltre alle forze dell'ordine, si occupano in pochi: operatori sociali, Ser.T, qualche livello istituzionale. Le aziende nascondono finché possono il fenomeno per salvare la faccia; quando un caso esplode, magari dopo l'ennesimo blitz dei carabinieri, scelgono la repressione attraverso il licenziamento o le «dimissioni spontanee», a volte aiutano il recupero dei tossicodipendenti. I sindacati, anch'essi, rimuovono, cosa che non riescono più a fare i delegati il cui impegno rischia di cambiare natura, assorbito dal lavoro di aiuto ai ragazzi finiti nella spirale. Ragazzi - anche iscritti al sindacato, persino delegati - che non vivono, se non molto parzialmente, il lavoro come emancipazione, come veicolo per costruirsi un futuro, ma come pura fonte di introito per continuare a sniffare coca o a iniettarsi eroina, oppure a fumarla «come fa un gruppo di ragazze del mio turno», dice Arturo che da anni prova a disintossicarsi e ci ricade ogni volta, nonostante il suo appuntamento quotidiano al Ser.T di Pescara. Lui dal sindacato (è iscritto alla Fiom) si aspetta «solo un aiuto per difendermi dai capi che mi ricattano, mi perseguitano, mi danno giorni e giorni di sospensione per poi tenerli nel cassetto e tirarli fuori ogni volta che provo ad alzare la testa». Arturo alterna lavoro in fabbrica, assenze per malattia e molto d'altro per tirare avanti. Ha abbandonato l'università in seguito a un grande trauma, il terremoto al suo paese, San Giuliano di Puglia, e ha cominciato a farsi.Abbiamo iniziato il nostro viaggio alla Sevel di Atessa, Val di Sangro, Abruzzo. Assegneremo nomi di fantasia a molti interlucutori, ragazzi e ragazze che usano sostanze stupefacenti, delegati sindacali che chiedono l'anonimato, operatori delle forze dell'ordine impegnati nell'antidroga. La Sevel è la principale fabbrica italiana della Fiat per numero di addetti dopo Mirafiori. Vi si costruiscono i furgoni Ducato per la multinazionale torinese e per la francese Psa (Peugeot e Cytroen), un prodotto che non sta risentendo della crisi internazionale dell'automobile. Dalla nascita, nel 1980, la Sevel ha progressivamente aumentato la sua capacità produttiva e oggi dà lavoro a 6.500 persone sui tre turni, mattino, pomeriggio, notte, a cui si aggiungono quasi duemila operai di ditte esterne che operano nel perimetro dello stabilimento e migliaia di addetti dell'indotto. Solo in Val di Sangro sono 10 mila le famiglie che vivono di Sevel, tra i 10 e i 15 milioni di euro al mese che rappresentano la principale fonte di reddito della valle. Inutile dire che al peso economico dell'azienda si aggiunge quello politico. Una situazione per molti aspetti analoga a quella determinatasi in Basilicata con l'arrivo della Fiat-Sata. L'azienda procede con assunzioni massicce - ci racconta la nostra guida, il delegato Fiom Antonio Di Tonno - grandi infornate di ragazzi e ragazze diciottenni selezionati alla bell'e meglio. Il bacino primario ormai non è più sufficiente a soddisfare la domanda Fiat e sono sempre più numerose le assunzioni effettuate in tutto il Chietino, il Pescarese, il Molise, la Puglia, la Campania. Età media bassissima, alto turnover perché qui «si fatica sodo»: «I giovani vivono in modo estraniante il rapporto con la fabbrica e il sindacato, per non parlare della politica. Pensano al pallone, alla pizza, alla discoteca. E alla cocaina. C'è chi fa di tutto per non farsi confermare al termine del periodo di prova, così da poter dire ai genitori: "io ho provato, non è colpa mia se non mi hanno preso". Vuoi per questo atteggiamento, vuoi per una diffusione della droga fuori controllo, adesso la Sevel sta assumendo persone un po' più grandi, tra i 25 e i 28 anni». Tanto i delegati quanto un ufficiale dell'antidroga che in fabbrica è di casa, con blitz notturni alla ricerca quasi sempre fruttuosa di sostanze, valutano che un dipendente su due sia coinvolto con maggiore o minore frequenza e dipendenza nel giro della cocaina. Fino a poco tempo fa, dosi massicce di droga venivano trovate negli armadietti degli operai. Ci raccontano di sequestri di molte dosi di coca, di eroina e mattoni fino a un chilo di peso di hashish. In tanti sono stati beccati, ora tutti si sono fatti più accorti.Il silenzio è d'oroNon sempre i rapporti delle forze dell'ordine con la sicurezza aziendale sono idilliaci, così ai blitz interni allo stabilimento si aggiungono quelli fuori, a colpo sicuro. Perché tossici e spacciatori sono ricattabili, ed è da loro che arrivano le soffiate a Ps e Cc. E all'azienda, che talvolta utilizza le spiate per poi compromettere gli spioni facendo a sua volta spiate ai i loro compagni di lavoro. Ci sono stati arresti, ma tutto resta sotto traccia, e la stampa, anche quella locale, tace. La Procura si muove con i piedi di piombo, a volte neanche sostiene il lavoro dei Pm che autorizzano l'utilizzo delle cimici nel tentativo di arginare il fenomeno. «In fabbrica - dice Antonio - è saltato l'ordine. E l'azienda, dopo aver lavorato con costanza a neutralizzare il sindacato, ora lamenta la mancanza di un'interlocuzione con noi, nel senso che non siamo più un interlocutore forte di una conoscenza approfondita della fabbrica, degli operai, dei problemi».Questi giovani operai e operaie sono completamente diversi dalla classe operaia che conosciamo e raccontiamo. I «vecchi» con vent'anni e più di servizio in Sevel, sono furiosi con le nuove generazioni in tuta blu: «Se le cercano, non vogliono fare un cazzo, ti contattano solo per farsi spostare in postazioni migliori. Sono individualisti e non ci rispettano, la droga li ha svuotati dentro. Invece del lavoro - dicono - hanno in testa la cocaina». Su una cosa vecchi e giovani sembrerebbero uniti: votano in maggioranza a destra, per Fini e Berlusconi, o non votano, anche molti di quelli che avevano investito sul governo Prodi e sono rimasti delusi. Anche qualche iscritto ai sindacati, persino un po' di delegati possono votare a destra: «Con la tessera difendono il salario dal padrone, con il voto a destra lo difendono dallo stato che ci massacra con le tasse». «La fabbrica è diventato un supermercato, si vende di tutto: puoi acquistare un motore Alfa, un paracarro, uno stereo, ogni tipo di droga proveniente soprattutto da Napoli attraverso i camionisti che portano in fabbrica componenti e materiale necessario alla produzione dei furgoni. La roba finisce in mano agli spacciatori interni e, di mano in mano, raggiunge tutti i reparti, poi esce dalla fabbrica e arriva nei paesi dove tutti consumano droghe leggere e tanti, forse addirittura l'80%, si fanno di coca, dai 14 ai 40 anni», racconta un addetto alla repressione esterna e ci confermano i ragazzi con cui parliamo, nonché il segretario della Fiom abruzzese, Marco Di Rocco: «Una piaga sociale».Ma il processo di trasformazione culturale riguarda innanzitutto la fabbrica: ci si fa sulla linea di montaggio, si sniffa nelle pause vicino all'armadietto e al cesso ci si buca. Qualche volta, ci dice un ufficiale, «sono stati beccati dei ragazzi esaltati che facevano l'amore dentro i furgoni che costruiscono». I furti negli armadietti non si contano, «riescono a svuotarne così tanti perché operano in squadre organizzate», ci dice un altro delegato. Ma spariscono anche i sifoni dei bagni, gli specchi. «Tutto per quattro soldi, per un quartino». Il quartino è una dose da un quarto di grammo di coca, con una ventina di euro te la porti a casa o alla catena. Il suo prezzo, da Napoli ad Atessa, può anche triplicare.Ricatti e minaccePerché lo fanno? «Perché sono uguali ai loro coetanei che studiano o vivacchiano in paese. Qualcuno - ci dice chi si occupa di droga nel territorio di Lanciano - all'inizio tira coca per reggere un lavoro molto pesante, ma non è questa la motivazione prevalente. Lo fanno soprattutto la notte perché la sorveglianza è minore. E se chi spaccia è ricattabile, i sorveglianti interni non hanno strumenti per intervenire e vengono minacciati». Giulietta e Romeo sono due operai in trattamento da qualche anno al Ser.T. Eroinomani, ora vivono con la loro dose quotidiana di metadone e giurano di esserne fuori. Giulietta ha ereditato un'epatite C dal tempo in cui si bucava, è stata trasferita dalla linea a un posto più umano solo dopo quattro svenimenti. Ora lavora in verniciatura, che non è l'ideale per chi ha il fegato compromesso. Il nostro delegato Fiom si impegna di fronte a noi ad aiutarla a farsi trasferire in un posto compatibile con il suo stato di salute. Questo fanno i delegati, spesso chiamati a «dare una mano» con i capi, per ottenere turni o postazioni migliori: «Mi arrivano in casa - dice Antonio - i genitori di ragazzi finiti nella spirale. Chiedono aiuto». Molti sono giovani con contratti atipici. Si subisce il turno di notte perché sei precario e ricattabile, o lo si sceglie per guadagnare 300 euro in più, o perché «ci si può drogare senza troppe rotture di coglioni». I «pipistrelli» spesso vivono la notte come un «regalo», e lavorano a testa bassa per difenderlo.Il Ser.T di Lanciano ha 220 utenti, la metà sono operai Sevel. «Non ci si fa per reggere la fatica. Molti arrivano in fabbrica già legati alla coca o all'eroina. All'inizio può darti un po' di carica, se la controlli ti aiuta ma se ne fai un uso eccessivo non riesci più a lavorare. Il fisico regge meglio l'eroina - sostiene Romeo - che dà assuefazione solo psicologica. Con l'ero e poi passando al metadone riesci a fare la tua vita. Con la coca è peggio, 30 euro al giorno per la dose è tutto quello che cerchi. Si sente dire che al montaggio c'è stato qualche caso di ragazze che si prostituivano per tirar su i soldi». Questo è un tabù, anche chi è disposto a raccontarti tutto finge di non sapere, di non aver capito la domanda. Si sa «ma non si dice, sono solo voci che corrono». Corrono in fretta. Ripeti la domanda e allora la risposta è obbligata: «Una volta succedeva, adesso meno e solo a fine mese quando lo stipendio è finito». Rimozione o pudore? Forse entrambe le cose. Giulietta dice di dover ringraziare un capo che l'ha aiutata quando era ridotta molto male e pesava 38 chili: «Ero arrivata a consumare anche 80 euro al giorno per l'eroina, e a quel punto non ti resta che spacciare», se di prostituirti non vuoi sentir parlare. Che cos'è il lavoro per questi ragazzi? Per Romeo «è la cosa principale, mi dà un senso, un'identità» e invece per Giulietta «non è possibile identificarsi con questo lavoro. Se potessi me ne andrei domani. Ma non in un'altra fabbrica, tutto sommato la Sevel è il miglior posto di lavoro in zona. Vorrei fare altro nella vita». E il sindacato? «Ho un buon rapporto, è importante il sindacato. Però - ammette Romeo - raramente partecipo agli scioperi». E Giulietta: «Io non ho rapporti, i miei delegati sono pappa e ciccia col padrone. Solo la Fiom si salva. Però agli scioperi aderisco, almeno a quelli di otto ore così mi risparmio la fatica di andare in fabbrica». Perché vi fate? «Prova tu a vivere in questi paesi, poi lo capisci e ti fai anche tu». Non ha dubbi Giulietta. Ora riesce a vivere decentemente insieme al suo compagno. «Ormai siamo fuori. Ma non dal metadone, quello te lo porti dietro tutta la vita». Romeo non ha rinunciato all'idea di liberarsi anche del metadone, «una volta ci ho provato, forse proverò ancora». Sono due utenti modello, da cinque anni non si bucano e riescono a farsi le vacanze fuori: prima però passano al Ser.T, si portano le dosi quotidiane e poi via, alla ricerca di una vita normale. Con chiunque parli ti senti ripetere che con la cocaina non c'è problema, «puoi smettere quando vuoi». Fatto sta che non smettono. In pochi ammettono di essere tossicodipendenti. Lo raccontano a noi o a se stessi?La crisi della comunitàL'impressione che si trae da questo primo giro è che la «diversità» operaia sia finita, i giovani in tuta sono uguali a quelli senza perché la fabbrica non è più una comunità, un luogo identitario, di aggregazione. Si condivide una stessa condizione di lavoro ma è più facile mettersi insieme per sniffare che per lottare contro il padrone. La fabbrica è sempre più un luogo di transito per i giovani. E un luogo di consumo, di spaccio. (1/continua)
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Prima puntata
Alla Sevel in Val di Sangro un operaio su due consuma sostanze stupefacenti. Lo stesso avviene dove l'età media è molto bassa. Si sniffa per reggere «un lavoro e una vita di merda», perché così fan tutti, perché la fabbrica non è più una comunità. Lo spaccio, i furti, i blitz. La polvere bianca cambia il rapporto con il lavoro e il sindacato Al montaggio ci sono stati casi di ragazze che si prostituivano per pagarsi la dose. Adesso meno e solo quando finisce lo stipendio
Loris Campetti
Atessa (Chieti)
«Il proletariato non è soltanto una classe che soffre... La vergognosa situazione economica nella quale si trova lo spinge irresistibilmente in avanti e lo incita a lottare per la sua emancipazione definitiva». Così scriveva nel 1840 Friedrich Engels nella sua magistrale «Indagine sulla condizione della classe operaia in Inghilterra». E' un'idea semplice quanto straordinaria quella di Engels e Marx, che ha mosso centinaia di milioni di uomini e donne in tutto il pianeta nel corso dei due secoli alle nostre spalle. Un'idea che ha cambiato il mondo, emancipando grandi masse da una condizione di miseria e subalternità attraverso la lotta di classe, il «motore della storia».A che punto è la storia, 170 anni dopo l'indagine di Engels? Questa domanda ci è sorta spontanea al termine della nostra inchiesta sul consumo e la diffusione delle droghe nelle fabbriche italiane, e siamo andati a risfogliare i testi classici, memori delle operaie tessili di Manchester poco più che bambine, costrette ad avvelenarsi con «cherry, porto e caffè» per reggere un ritmo di lavoro disumano per 15-16 ore al giorno. Nel 2008 ci sono realtà industriali importanti in cui addirittura il 50% dei lavoratori si fa di cocaina e, in misura minore, di eroina e di ogni sostanza capace di rendere più tollerabile una «vita di merda», o meglio, di far sognare un'improbabile fuga da essa. Di merda è il lavoro così come la normalità delle relazioni in paesi privi di vita sociale, che concedono ben poco alle speranze di futuro e di cambiamento, ci raccontano le tute blu. Ci si fa per lavorare, per sballare, per fare l'amore. Ci si fa alla catena di montaggio, in discoteca con gli amici, a letto con la moglie per migliorare le prestazioni sessuali; poi arriva la dipendenza e con essa lo spaccio per pagarsi la dose. Operai e operaie, capi e sorveglianti, adescati in fabbrica da altri operai: una «pista» nei cessi della fabbrica tanto per provare, l'esaltazione e il cuore che batte a mille, l'adrenalina che all'inizio fa persino aumentare la produzione, infine la consuetudine. Si lavora di notte per guadagnare trecento euro in più, 1.400 invece di 1.100 euro buoni per affrontare l'astinenza e la crisi della quarta settimana. La notte ci sono meno controlli, «tu fai i picchi di produzione e i capi non ti rompono il cazzo». Qualche ragazza può persino arrivare a prostituirsi per pagarsi la dose, per fortuna casi sporadici.Dall'officina al murettoDalla fabbrica la droga arriva nei paesi di provenienza dei lavoratori in una spirale perversa di cui, oltre alle forze dell'ordine, si occupano in pochi: operatori sociali, Ser.T, qualche livello istituzionale. Le aziende nascondono finché possono il fenomeno per salvare la faccia; quando un caso esplode, magari dopo l'ennesimo blitz dei carabinieri, scelgono la repressione attraverso il licenziamento o le «dimissioni spontanee», a volte aiutano il recupero dei tossicodipendenti. I sindacati, anch'essi, rimuovono, cosa che non riescono più a fare i delegati il cui impegno rischia di cambiare natura, assorbito dal lavoro di aiuto ai ragazzi finiti nella spirale. Ragazzi - anche iscritti al sindacato, persino delegati - che non vivono, se non molto parzialmente, il lavoro come emancipazione, come veicolo per costruirsi un futuro, ma come pura fonte di introito per continuare a sniffare coca o a iniettarsi eroina, oppure a fumarla «come fa un gruppo di ragazze del mio turno», dice Arturo che da anni prova a disintossicarsi e ci ricade ogni volta, nonostante il suo appuntamento quotidiano al Ser.T di Pescara. Lui dal sindacato (è iscritto alla Fiom) si aspetta «solo un aiuto per difendermi dai capi che mi ricattano, mi perseguitano, mi danno giorni e giorni di sospensione per poi tenerli nel cassetto e tirarli fuori ogni volta che provo ad alzare la testa». Arturo alterna lavoro in fabbrica, assenze per malattia e molto d'altro per tirare avanti. Ha abbandonato l'università in seguito a un grande trauma, il terremoto al suo paese, San Giuliano di Puglia, e ha cominciato a farsi.Abbiamo iniziato il nostro viaggio alla Sevel di Atessa, Val di Sangro, Abruzzo. Assegneremo nomi di fantasia a molti interlucutori, ragazzi e ragazze che usano sostanze stupefacenti, delegati sindacali che chiedono l'anonimato, operatori delle forze dell'ordine impegnati nell'antidroga. La Sevel è la principale fabbrica italiana della Fiat per numero di addetti dopo Mirafiori. Vi si costruiscono i furgoni Ducato per la multinazionale torinese e per la francese Psa (Peugeot e Cytroen), un prodotto che non sta risentendo della crisi internazionale dell'automobile. Dalla nascita, nel 1980, la Sevel ha progressivamente aumentato la sua capacità produttiva e oggi dà lavoro a 6.500 persone sui tre turni, mattino, pomeriggio, notte, a cui si aggiungono quasi duemila operai di ditte esterne che operano nel perimetro dello stabilimento e migliaia di addetti dell'indotto. Solo in Val di Sangro sono 10 mila le famiglie che vivono di Sevel, tra i 10 e i 15 milioni di euro al mese che rappresentano la principale fonte di reddito della valle. Inutile dire che al peso economico dell'azienda si aggiunge quello politico. Una situazione per molti aspetti analoga a quella determinatasi in Basilicata con l'arrivo della Fiat-Sata. L'azienda procede con assunzioni massicce - ci racconta la nostra guida, il delegato Fiom Antonio Di Tonno - grandi infornate di ragazzi e ragazze diciottenni selezionati alla bell'e meglio. Il bacino primario ormai non è più sufficiente a soddisfare la domanda Fiat e sono sempre più numerose le assunzioni effettuate in tutto il Chietino, il Pescarese, il Molise, la Puglia, la Campania. Età media bassissima, alto turnover perché qui «si fatica sodo»: «I giovani vivono in modo estraniante il rapporto con la fabbrica e il sindacato, per non parlare della politica. Pensano al pallone, alla pizza, alla discoteca. E alla cocaina. C'è chi fa di tutto per non farsi confermare al termine del periodo di prova, così da poter dire ai genitori: "io ho provato, non è colpa mia se non mi hanno preso". Vuoi per questo atteggiamento, vuoi per una diffusione della droga fuori controllo, adesso la Sevel sta assumendo persone un po' più grandi, tra i 25 e i 28 anni». Tanto i delegati quanto un ufficiale dell'antidroga che in fabbrica è di casa, con blitz notturni alla ricerca quasi sempre fruttuosa di sostanze, valutano che un dipendente su due sia coinvolto con maggiore o minore frequenza e dipendenza nel giro della cocaina. Fino a poco tempo fa, dosi massicce di droga venivano trovate negli armadietti degli operai. Ci raccontano di sequestri di molte dosi di coca, di eroina e mattoni fino a un chilo di peso di hashish. In tanti sono stati beccati, ora tutti si sono fatti più accorti.Il silenzio è d'oroNon sempre i rapporti delle forze dell'ordine con la sicurezza aziendale sono idilliaci, così ai blitz interni allo stabilimento si aggiungono quelli fuori, a colpo sicuro. Perché tossici e spacciatori sono ricattabili, ed è da loro che arrivano le soffiate a Ps e Cc. E all'azienda, che talvolta utilizza le spiate per poi compromettere gli spioni facendo a sua volta spiate ai i loro compagni di lavoro. Ci sono stati arresti, ma tutto resta sotto traccia, e la stampa, anche quella locale, tace. La Procura si muove con i piedi di piombo, a volte neanche sostiene il lavoro dei Pm che autorizzano l'utilizzo delle cimici nel tentativo di arginare il fenomeno. «In fabbrica - dice Antonio - è saltato l'ordine. E l'azienda, dopo aver lavorato con costanza a neutralizzare il sindacato, ora lamenta la mancanza di un'interlocuzione con noi, nel senso che non siamo più un interlocutore forte di una conoscenza approfondita della fabbrica, degli operai, dei problemi».Questi giovani operai e operaie sono completamente diversi dalla classe operaia che conosciamo e raccontiamo. I «vecchi» con vent'anni e più di servizio in Sevel, sono furiosi con le nuove generazioni in tuta blu: «Se le cercano, non vogliono fare un cazzo, ti contattano solo per farsi spostare in postazioni migliori. Sono individualisti e non ci rispettano, la droga li ha svuotati dentro. Invece del lavoro - dicono - hanno in testa la cocaina». Su una cosa vecchi e giovani sembrerebbero uniti: votano in maggioranza a destra, per Fini e Berlusconi, o non votano, anche molti di quelli che avevano investito sul governo Prodi e sono rimasti delusi. Anche qualche iscritto ai sindacati, persino un po' di delegati possono votare a destra: «Con la tessera difendono il salario dal padrone, con il voto a destra lo difendono dallo stato che ci massacra con le tasse». «La fabbrica è diventato un supermercato, si vende di tutto: puoi acquistare un motore Alfa, un paracarro, uno stereo, ogni tipo di droga proveniente soprattutto da Napoli attraverso i camionisti che portano in fabbrica componenti e materiale necessario alla produzione dei furgoni. La roba finisce in mano agli spacciatori interni e, di mano in mano, raggiunge tutti i reparti, poi esce dalla fabbrica e arriva nei paesi dove tutti consumano droghe leggere e tanti, forse addirittura l'80%, si fanno di coca, dai 14 ai 40 anni», racconta un addetto alla repressione esterna e ci confermano i ragazzi con cui parliamo, nonché il segretario della Fiom abruzzese, Marco Di Rocco: «Una piaga sociale».Ma il processo di trasformazione culturale riguarda innanzitutto la fabbrica: ci si fa sulla linea di montaggio, si sniffa nelle pause vicino all'armadietto e al cesso ci si buca. Qualche volta, ci dice un ufficiale, «sono stati beccati dei ragazzi esaltati che facevano l'amore dentro i furgoni che costruiscono». I furti negli armadietti non si contano, «riescono a svuotarne così tanti perché operano in squadre organizzate», ci dice un altro delegato. Ma spariscono anche i sifoni dei bagni, gli specchi. «Tutto per quattro soldi, per un quartino». Il quartino è una dose da un quarto di grammo di coca, con una ventina di euro te la porti a casa o alla catena. Il suo prezzo, da Napoli ad Atessa, può anche triplicare.Ricatti e minaccePerché lo fanno? «Perché sono uguali ai loro coetanei che studiano o vivacchiano in paese. Qualcuno - ci dice chi si occupa di droga nel territorio di Lanciano - all'inizio tira coca per reggere un lavoro molto pesante, ma non è questa la motivazione prevalente. Lo fanno soprattutto la notte perché la sorveglianza è minore. E se chi spaccia è ricattabile, i sorveglianti interni non hanno strumenti per intervenire e vengono minacciati». Giulietta e Romeo sono due operai in trattamento da qualche anno al Ser.T. Eroinomani, ora vivono con la loro dose quotidiana di metadone e giurano di esserne fuori. Giulietta ha ereditato un'epatite C dal tempo in cui si bucava, è stata trasferita dalla linea a un posto più umano solo dopo quattro svenimenti. Ora lavora in verniciatura, che non è l'ideale per chi ha il fegato compromesso. Il nostro delegato Fiom si impegna di fronte a noi ad aiutarla a farsi trasferire in un posto compatibile con il suo stato di salute. Questo fanno i delegati, spesso chiamati a «dare una mano» con i capi, per ottenere turni o postazioni migliori: «Mi arrivano in casa - dice Antonio - i genitori di ragazzi finiti nella spirale. Chiedono aiuto». Molti sono giovani con contratti atipici. Si subisce il turno di notte perché sei precario e ricattabile, o lo si sceglie per guadagnare 300 euro in più, o perché «ci si può drogare senza troppe rotture di coglioni». I «pipistrelli» spesso vivono la notte come un «regalo», e lavorano a testa bassa per difenderlo.Il Ser.T di Lanciano ha 220 utenti, la metà sono operai Sevel. «Non ci si fa per reggere la fatica. Molti arrivano in fabbrica già legati alla coca o all'eroina. All'inizio può darti un po' di carica, se la controlli ti aiuta ma se ne fai un uso eccessivo non riesci più a lavorare. Il fisico regge meglio l'eroina - sostiene Romeo - che dà assuefazione solo psicologica. Con l'ero e poi passando al metadone riesci a fare la tua vita. Con la coca è peggio, 30 euro al giorno per la dose è tutto quello che cerchi. Si sente dire che al montaggio c'è stato qualche caso di ragazze che si prostituivano per tirar su i soldi». Questo è un tabù, anche chi è disposto a raccontarti tutto finge di non sapere, di non aver capito la domanda. Si sa «ma non si dice, sono solo voci che corrono». Corrono in fretta. Ripeti la domanda e allora la risposta è obbligata: «Una volta succedeva, adesso meno e solo a fine mese quando lo stipendio è finito». Rimozione o pudore? Forse entrambe le cose. Giulietta dice di dover ringraziare un capo che l'ha aiutata quando era ridotta molto male e pesava 38 chili: «Ero arrivata a consumare anche 80 euro al giorno per l'eroina, e a quel punto non ti resta che spacciare», se di prostituirti non vuoi sentir parlare. Che cos'è il lavoro per questi ragazzi? Per Romeo «è la cosa principale, mi dà un senso, un'identità» e invece per Giulietta «non è possibile identificarsi con questo lavoro. Se potessi me ne andrei domani. Ma non in un'altra fabbrica, tutto sommato la Sevel è il miglior posto di lavoro in zona. Vorrei fare altro nella vita». E il sindacato? «Ho un buon rapporto, è importante il sindacato. Però - ammette Romeo - raramente partecipo agli scioperi». E Giulietta: «Io non ho rapporti, i miei delegati sono pappa e ciccia col padrone. Solo la Fiom si salva. Però agli scioperi aderisco, almeno a quelli di otto ore così mi risparmio la fatica di andare in fabbrica». Perché vi fate? «Prova tu a vivere in questi paesi, poi lo capisci e ti fai anche tu». Non ha dubbi Giulietta. Ora riesce a vivere decentemente insieme al suo compagno. «Ormai siamo fuori. Ma non dal metadone, quello te lo porti dietro tutta la vita». Romeo non ha rinunciato all'idea di liberarsi anche del metadone, «una volta ci ho provato, forse proverò ancora». Sono due utenti modello, da cinque anni non si bucano e riescono a farsi le vacanze fuori: prima però passano al Ser.T, si portano le dosi quotidiane e poi via, alla ricerca di una vita normale. Con chiunque parli ti senti ripetere che con la cocaina non c'è problema, «puoi smettere quando vuoi». Fatto sta che non smettono. In pochi ammettono di essere tossicodipendenti. Lo raccontano a noi o a se stessi?La crisi della comunitàL'impressione che si trae da questo primo giro è che la «diversità» operaia sia finita, i giovani in tuta sono uguali a quelli senza perché la fabbrica non è più una comunità, un luogo identitario, di aggregazione. Si condivide una stessa condizione di lavoro ma è più facile mettersi insieme per sniffare che per lottare contro il padrone. La fabbrica è sempre più un luogo di transito per i giovani. E un luogo di consumo, di spaccio. (1/continua)
ilmanifesto.it
11.5.08
Il ruolo dello scrittore, termometro di un'epoca
Nei suoi romanzi e nei suoi pamphlet Gore Vidal ha fatto del sarcasmo lo strumento con cui denunciare i vizi della società statunitense. Un dialogo con lo scrittore, ieri al Lingotto Non ci si può affidare solo all'immaginazione, un autore deve essere in grado di calarsi pienamente nel mondo in cui gli è capitato di vivere
Giuliano Battiston
Tanto schietto da risultare offensivo ai custodi del politicamente corretto, tanto ancorato alla sua indipendenza da apparire superbo agli occhi di quanti hanno abdicato, magari senza accorgersene, alla propria autonomia, Gore Vidal è abituato a vivere fuori dai ranghi. Nato a West Point nel 1935, l'autore di Myra Breckinridge, polemista e romanziere tra i più noti al mondo, ha infatti sempre esibito senza reticenze il proprio punto di vista, anche laddove sapeva che sarebbe stato considerato sovversivo «per aver dato voce troppo precocemente all'indicibile». Consapevole che nella scrittura non «ci si può mai disfare di se stessi», ha fatto del sarcasmo lo strumento con cui denunciare i vizi della società statunitense, «che è sempre stata insieme romantica e puritana». In questa audacia i suoi detrattori riconosceranno solo la maschera irriverente di uno scrittore talmente contraddittorio da arrivare a scrivere «non mi è mai piaciuto parlare di me» in un'opera autobiografica; chi ne ha seguito la lunga traiettoria intellettuale riconoscerà invece la coerenza - e semmai la debolezza - di un uomo animato «da una tendenza protettiva, quasi proprietaria» nei confronti della sua «terra natale e della sua politica». Abbiamo incontrato Gore Vidal alla Fiera del libro di Torino, dove ieri ha presentato il suo romanzo storico Il candidato, uscito negli Usa nel 1976 e ora tradotto per Fazi da Silvia Castoldi (pp. 582, euro 18).
In italiano molti dei suoi saggi letterari sono stati raccolti nel «Canarino e la miniera», che inizia con una citazione di un suo discorso: «Nelle miniere di carbone in America i minatori portano spesso con sé un canarino. Lo mettono nel pozzo, e quello canta. E se per caso smette di cantare, per i minatori è il momento di uscire, perché l'aria è velenosa. Per me, noi scrittori siamo canarini». Di quali doti deve disporre uno scrittore per essere un termometro sensibile alla temperie di un'epoca?
Innanzitutto l'intelligenza, una virtù che, come lo spirito critico, negli Stati Uniti così come in molti altri paesi oggi è quasi del tutto assente. Ricordo una bella fotografia e un articolo pubblicati anni fa da Vanity Fair in occasione della guerra in Iraq, in cui si diceva che i soli intellettuali veramente critici all'interno degli Stati Uniti erano Gore Vidal, Norman Mailer e Kurt Vonnegut. È curioso che gli unici dotati di una voce abbastanza forte, critica e autorevole da denunciare apertamente le scelte dell'amministrazione Bush fossero tre veterani della seconda guerra mondiale, molto in là con gli anni. Io ho inteso quell'articolo come un complimento, ma dovremmo riflettere sul periodo in cui viviamo. Intendo dire che non ci si può affidare solo alla creatività e all'immaginazione, qualità comuni anche ai bambini e agli insegnanti; uno scrittore dovrebbe essere in grado di calarsi pienamente nel mondo in cui gli è capitato di vivere, e di riflettere in modo costante sull'orientamento che esso prende nel corso del tempo.
Lei è autore di una affascinante «saga epica» sulla storia statunitense che gli editori sono soliti titolare «Cronache americane», e che lei invece definisce «Narratives of Empire». Sembrerebbe un lavoro animato dall'esigenza di colmare quel vacuum storico nel quale secondo lei vive da sempre il suo paese.
Credo che tutte le forme d'arte popolari in qualche modo cerchino di riempire questo vacuum; ho dedicato tanta attenzione alla storia degli Stati Uniti perché sono un estimatore della vecchia repubblica, di certo non uno di quelli che aspira alla rivoluzione. Il nostro sistema politico ha funzionato abbastanza bene per diverso tempo, fondandosi su alcuni principi legati alla tradizione costituzionale inglese della Magna Charta, la quale aveva stabilito quell'habeas corpus che in questi anni sia il governo inglese sia quello americano hanno snaturato, se non compromesso definitivamente. Nel caso degli Stati Uniti la cosa gravissima è che l'amministrazione Bush non solo ha sotterrato il fondamento morale del nostro sistema politico-legale, ma lo ha fatto con piena soddisfazione. D'altronde la storia ci insegna che può capitare che i paesi si trovino vittime di colpi di stato, o che finiscano nelle mani di dirigenti politici che non hanno alcun interesse a garantirne il benessere.
Negli ultimi anni lei ha scelto di usare quella che in «Dreaming War» definisce come «la più antica forma del discorso politico americano», il pamphlet, scrivendo diversi testi in cui critica aspramente le falsità dell'amministrazione Bush. Alla base della sua scelta c'è forse quell'idea di Montaigne - da lei più volte citata - secondo la quale «quello di mentire è un vizio maledetto»?
Non è un caso che citi così spesso quella frase. Nel caso di Bush, si tratta di un individuo tanto stupido da non riuscire a comprendere che quelle bugie non aiutano neanche lui, e non è detto che in futuro non possa essere chiamato a risponderne. Anche il fatto che sia un credente orienta il modo in cui governa la cosa pubblica, o forse sarebbe meglio dire il modo in cui non governa la cosa pubblica, visto che non ne ha nessun interesse. Diversi anni fa ho adattato per il teatro con il titolo di Romulus un dramma di Friedrich Dürrenmatt in cui si racconta come l'ultimo imperatore romano abbia condotto il suo impero alla distruzione, anche perché convinto che fosse ormai troppo corrotto, e che solo così lui avrebbe potuto espiare i suoi peccati. Mentre i suoi consiglieri lo avvertono, preoccupati, che i barbari sono alle porte, lui invece aspetta che arrivino, e guardando sul muro l'immagine che rappresenta l'impero dice loro: «Guardate cosa abbiamo costruito: tutto questo verrà meno con un solo gesto». In questo modo, finisce per mandare in pezzi l'impero. Credo che ci siano molte affinità tra l'atteggiamento di Romolo Augustolo e quello del nostro Bush.
Nel corso di tutta la sua attività, lei non ha mai smesso di occuparsi di temi legati alla sessualità. Eppure in un articolo pubblicato su «The Nation» nel 1991 aveva notato con preoccupazione di non essere ancora riuscito a spiegare cosa fosse veramente il sesso. Cosa aveva dimenticato di dire?
Un po' mi sorprende di aver scritto una cosa del genere, perché credo di essere riuscito a parlarne in modo sufficientemente completo. Tra quelli che più mi hanno influenzato ricordo comunque il dottor Kinsey, il primo che abbia tentato di demistificare l'argomento, tanto da analizzare anche l'orgasmo in modo scientifico. Anche Freud ha tentato di farlo, ma senza grande successo. Il potere, radicato nella cultura protestante dell'Inghilterra poi trasferita in New England, ha sempre usato strategicamente il sesso come un'arma politica, demonizzando gli atti sessuali per soffocare le istanze di libertà e per mandare in guerra il popolo. Il sesso è sempre stato il diavolo contro il quale, e grazie al quale, sono state combattute le guerre degli Stati Uniti, un paese che combina un cinismo brutale a un senso del peccato di origine puritana.
ilmanifesto.it
Giuliano Battiston
Tanto schietto da risultare offensivo ai custodi del politicamente corretto, tanto ancorato alla sua indipendenza da apparire superbo agli occhi di quanti hanno abdicato, magari senza accorgersene, alla propria autonomia, Gore Vidal è abituato a vivere fuori dai ranghi. Nato a West Point nel 1935, l'autore di Myra Breckinridge, polemista e romanziere tra i più noti al mondo, ha infatti sempre esibito senza reticenze il proprio punto di vista, anche laddove sapeva che sarebbe stato considerato sovversivo «per aver dato voce troppo precocemente all'indicibile». Consapevole che nella scrittura non «ci si può mai disfare di se stessi», ha fatto del sarcasmo lo strumento con cui denunciare i vizi della società statunitense, «che è sempre stata insieme romantica e puritana». In questa audacia i suoi detrattori riconosceranno solo la maschera irriverente di uno scrittore talmente contraddittorio da arrivare a scrivere «non mi è mai piaciuto parlare di me» in un'opera autobiografica; chi ne ha seguito la lunga traiettoria intellettuale riconoscerà invece la coerenza - e semmai la debolezza - di un uomo animato «da una tendenza protettiva, quasi proprietaria» nei confronti della sua «terra natale e della sua politica». Abbiamo incontrato Gore Vidal alla Fiera del libro di Torino, dove ieri ha presentato il suo romanzo storico Il candidato, uscito negli Usa nel 1976 e ora tradotto per Fazi da Silvia Castoldi (pp. 582, euro 18).
In italiano molti dei suoi saggi letterari sono stati raccolti nel «Canarino e la miniera», che inizia con una citazione di un suo discorso: «Nelle miniere di carbone in America i minatori portano spesso con sé un canarino. Lo mettono nel pozzo, e quello canta. E se per caso smette di cantare, per i minatori è il momento di uscire, perché l'aria è velenosa. Per me, noi scrittori siamo canarini». Di quali doti deve disporre uno scrittore per essere un termometro sensibile alla temperie di un'epoca?
Innanzitutto l'intelligenza, una virtù che, come lo spirito critico, negli Stati Uniti così come in molti altri paesi oggi è quasi del tutto assente. Ricordo una bella fotografia e un articolo pubblicati anni fa da Vanity Fair in occasione della guerra in Iraq, in cui si diceva che i soli intellettuali veramente critici all'interno degli Stati Uniti erano Gore Vidal, Norman Mailer e Kurt Vonnegut. È curioso che gli unici dotati di una voce abbastanza forte, critica e autorevole da denunciare apertamente le scelte dell'amministrazione Bush fossero tre veterani della seconda guerra mondiale, molto in là con gli anni. Io ho inteso quell'articolo come un complimento, ma dovremmo riflettere sul periodo in cui viviamo. Intendo dire che non ci si può affidare solo alla creatività e all'immaginazione, qualità comuni anche ai bambini e agli insegnanti; uno scrittore dovrebbe essere in grado di calarsi pienamente nel mondo in cui gli è capitato di vivere, e di riflettere in modo costante sull'orientamento che esso prende nel corso del tempo.
Lei è autore di una affascinante «saga epica» sulla storia statunitense che gli editori sono soliti titolare «Cronache americane», e che lei invece definisce «Narratives of Empire». Sembrerebbe un lavoro animato dall'esigenza di colmare quel vacuum storico nel quale secondo lei vive da sempre il suo paese.
Credo che tutte le forme d'arte popolari in qualche modo cerchino di riempire questo vacuum; ho dedicato tanta attenzione alla storia degli Stati Uniti perché sono un estimatore della vecchia repubblica, di certo non uno di quelli che aspira alla rivoluzione. Il nostro sistema politico ha funzionato abbastanza bene per diverso tempo, fondandosi su alcuni principi legati alla tradizione costituzionale inglese della Magna Charta, la quale aveva stabilito quell'habeas corpus che in questi anni sia il governo inglese sia quello americano hanno snaturato, se non compromesso definitivamente. Nel caso degli Stati Uniti la cosa gravissima è che l'amministrazione Bush non solo ha sotterrato il fondamento morale del nostro sistema politico-legale, ma lo ha fatto con piena soddisfazione. D'altronde la storia ci insegna che può capitare che i paesi si trovino vittime di colpi di stato, o che finiscano nelle mani di dirigenti politici che non hanno alcun interesse a garantirne il benessere.
Negli ultimi anni lei ha scelto di usare quella che in «Dreaming War» definisce come «la più antica forma del discorso politico americano», il pamphlet, scrivendo diversi testi in cui critica aspramente le falsità dell'amministrazione Bush. Alla base della sua scelta c'è forse quell'idea di Montaigne - da lei più volte citata - secondo la quale «quello di mentire è un vizio maledetto»?
Non è un caso che citi così spesso quella frase. Nel caso di Bush, si tratta di un individuo tanto stupido da non riuscire a comprendere che quelle bugie non aiutano neanche lui, e non è detto che in futuro non possa essere chiamato a risponderne. Anche il fatto che sia un credente orienta il modo in cui governa la cosa pubblica, o forse sarebbe meglio dire il modo in cui non governa la cosa pubblica, visto che non ne ha nessun interesse. Diversi anni fa ho adattato per il teatro con il titolo di Romulus un dramma di Friedrich Dürrenmatt in cui si racconta come l'ultimo imperatore romano abbia condotto il suo impero alla distruzione, anche perché convinto che fosse ormai troppo corrotto, e che solo così lui avrebbe potuto espiare i suoi peccati. Mentre i suoi consiglieri lo avvertono, preoccupati, che i barbari sono alle porte, lui invece aspetta che arrivino, e guardando sul muro l'immagine che rappresenta l'impero dice loro: «Guardate cosa abbiamo costruito: tutto questo verrà meno con un solo gesto». In questo modo, finisce per mandare in pezzi l'impero. Credo che ci siano molte affinità tra l'atteggiamento di Romolo Augustolo e quello del nostro Bush.
Nel corso di tutta la sua attività, lei non ha mai smesso di occuparsi di temi legati alla sessualità. Eppure in un articolo pubblicato su «The Nation» nel 1991 aveva notato con preoccupazione di non essere ancora riuscito a spiegare cosa fosse veramente il sesso. Cosa aveva dimenticato di dire?
Un po' mi sorprende di aver scritto una cosa del genere, perché credo di essere riuscito a parlarne in modo sufficientemente completo. Tra quelli che più mi hanno influenzato ricordo comunque il dottor Kinsey, il primo che abbia tentato di demistificare l'argomento, tanto da analizzare anche l'orgasmo in modo scientifico. Anche Freud ha tentato di farlo, ma senza grande successo. Il potere, radicato nella cultura protestante dell'Inghilterra poi trasferita in New England, ha sempre usato strategicamente il sesso come un'arma politica, demonizzando gli atti sessuali per soffocare le istanze di libertà e per mandare in guerra il popolo. Il sesso è sempre stato il diavolo contro il quale, e grazie al quale, sono state combattute le guerre degli Stati Uniti, un paese che combina un cinismo brutale a un senso del peccato di origine puritana.
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30.4.08
Penuria alimentare, un dossier di Le Monde diplomatique
«Abbiamo fame», un grido sempre più frequente nelle rivolte che, dall'Africa alle Filippine, dall'India ad Haiti, portano in piazza le masse popolari, colpite dalla «crisi del riso» e dalle scelte del Fondo Monetario
Geraldina Colotti
«Fmi-Faim», Fmi ovvero fame. Il Fondo monetario internazionale produce fame. Va diritto al cuore del problema l'editoriale di Serge Halimi, direttore di Le Monde diplomatique, nel numero di maggio della rivista internazionale - in uscita il 15, e per tutto il mese, insieme al manifesto. Sullo stesso tono il dossier centrale del Diplo che spiega con dati e cifre in quante lingue del pianeta si sta pronunciando il grido: «abbiamo fame». Dall'Africa ad Haiti, dall'Indonesia alle Filippine, quote sempre maggiori di popolazione sono colpite dalla penuria alimentare. E seppure un paese come l'Australia quest'anno promette un ottimo raccolto invernale di frumento (12,4 milioni di tonnellate), che farebbe sperare in un ribasso dei prezzi internazionali, anche il nord del pianeta non può sentirsi al sicuro. La rabbia delle popolazioni esplode, evidenziando la geografia e le cifre stratosferiche dei «rifugiati per fame».
In Senegal, le madri di famiglia che non hanno più niente da far bollire, marciano con le pentole rovesciate, che ogni sera risuonano in tutte le case come tamburi. In Egitto dove si protesta per il pane, l'opposizione islamista accusa il governo di aver provocato la crisi acquistando prodotti importati a minor prezzo dall'estero anziché dai produttori locali, che preferiscono coltivare frutta, più facilmente esportabile sui mercati internazionali. Ad Haiti, le rivolte per fame, a inizio aprile, hanno provocato cinque morti e duecento feriti e la destituzione del primo ministro Jacques-Edouard Alexis. E diversi paesi asiatici, specialmente Indonesia e Filippine, temono il moltiplicarsi di manifestazioni come quella che, all'inizio dell'anno, ha portato in piazza a Giakarta oltre 10.000 persone contro l'aumento del prezzo del tofu. Rivolte contro l'aumento del prezzo della soia, della carne, e soprattutto del riso. Nel dossier, gli articoli del giornalista Dominique Baillard ricordano i dati della Fao, l'Organizzazione delle Nazioni unite per l'agricoltura e l'alimentazione: per la prima volta dal 1989, il prezzo della varietà di riso «thaie», che fa da riferimento, ha superato i 500 dollari (320 euro). Paesi come le Filippine, primo importatore mondiale, sono in serie difficoltà in quanto l'offerta globale di riso (420 milioni di tonnellate) risulta al di sotto della domanda (almeno 430). Le riserve mondiali di riso - ricorda ancora il Diplo - hanno toccato il livello mondiale più basso da 25 anni: 70 milioni di tonnellate, la metà di meno di quelle del 2000.
Colpa dei cinesi che hanno cominciato a mangiare troppa carne? Colpa degli stati come l'Argentina che hanno scelto di «proteggere» i loro prodotti destinando meno quote all'esportazione e più al mercato interno? Si può condannare uno stato che scelga di nutrire i propri cittadini prima di sottostare ai diktat dei mercati internazionali? Il punto - mostra il dossier - è invece quello di indicare a chiare lettere il fallimento e i paradossi dei «piani di aggiustamento strutturale» imposti dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale. L'equazione: sviluppo solo a prezzo delle privatizzazioni di beni e servizi e di investimenti agevolati per le grandi imprese multinazionali, imposta al sud del mondo, ha portato alla situazione attuale. E ora, proprio la Banca mondiale, che «ha contribuito a indebolire gli agricoltori imponendo la liberalizzazione dell'economia», mette questo settore al centro degli sforzi per la lotta contro la povertà del pianeta nel suo rapporto sullo sviluppo del 2008. Paradossi in cui si dibattono anche gli stati in via di sviluppo dei 37 paesi minacciati dalla crisi alimentare.
In Costa d'Avorio, dal primo d'aprile le autorità hanno sospeso le tasse d'importazione per i generi di prima necessità come l'olio da tavola, il riso, il grano o lo zucchero. Il governo senegalese ha bloccato per un breve periodo il prezzo del pane nell'ottobre 2007. In Mali, si sperimenta invece il pane burunafama, farina di grano mista a cereali locali come il sorgo (immangiabile, dicono le associazioni dei consumatori). In Egitto, il governo ha sovvenzionato il pane e lo ha fatto distribuire dall'esercito. Misure che gravano sui già magri bilanci degli stati africani e che l'Fmi giudica «false soluzioni». Alcune realtà del sud, sperimentano però altre direzioni. Il Diplo ne dà conto, indicando i risultati raggiunti, per esempio, in Mali dalle scelte dei coltivatori di cotone. Rimettere l'agricoltura locale e la sicurezza alimentare al centro delle politiche economiche vuol dire porre il problema della sovranità e del controllo delle proprie risorse. Un tema che, in America latina, ha già prodotto risultati evidenti
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Geraldina Colotti
«Fmi-Faim», Fmi ovvero fame. Il Fondo monetario internazionale produce fame. Va diritto al cuore del problema l'editoriale di Serge Halimi, direttore di Le Monde diplomatique, nel numero di maggio della rivista internazionale - in uscita il 15, e per tutto il mese, insieme al manifesto. Sullo stesso tono il dossier centrale del Diplo che spiega con dati e cifre in quante lingue del pianeta si sta pronunciando il grido: «abbiamo fame». Dall'Africa ad Haiti, dall'Indonesia alle Filippine, quote sempre maggiori di popolazione sono colpite dalla penuria alimentare. E seppure un paese come l'Australia quest'anno promette un ottimo raccolto invernale di frumento (12,4 milioni di tonnellate), che farebbe sperare in un ribasso dei prezzi internazionali, anche il nord del pianeta non può sentirsi al sicuro. La rabbia delle popolazioni esplode, evidenziando la geografia e le cifre stratosferiche dei «rifugiati per fame».
In Senegal, le madri di famiglia che non hanno più niente da far bollire, marciano con le pentole rovesciate, che ogni sera risuonano in tutte le case come tamburi. In Egitto dove si protesta per il pane, l'opposizione islamista accusa il governo di aver provocato la crisi acquistando prodotti importati a minor prezzo dall'estero anziché dai produttori locali, che preferiscono coltivare frutta, più facilmente esportabile sui mercati internazionali. Ad Haiti, le rivolte per fame, a inizio aprile, hanno provocato cinque morti e duecento feriti e la destituzione del primo ministro Jacques-Edouard Alexis. E diversi paesi asiatici, specialmente Indonesia e Filippine, temono il moltiplicarsi di manifestazioni come quella che, all'inizio dell'anno, ha portato in piazza a Giakarta oltre 10.000 persone contro l'aumento del prezzo del tofu. Rivolte contro l'aumento del prezzo della soia, della carne, e soprattutto del riso. Nel dossier, gli articoli del giornalista Dominique Baillard ricordano i dati della Fao, l'Organizzazione delle Nazioni unite per l'agricoltura e l'alimentazione: per la prima volta dal 1989, il prezzo della varietà di riso «thaie», che fa da riferimento, ha superato i 500 dollari (320 euro). Paesi come le Filippine, primo importatore mondiale, sono in serie difficoltà in quanto l'offerta globale di riso (420 milioni di tonnellate) risulta al di sotto della domanda (almeno 430). Le riserve mondiali di riso - ricorda ancora il Diplo - hanno toccato il livello mondiale più basso da 25 anni: 70 milioni di tonnellate, la metà di meno di quelle del 2000.
Colpa dei cinesi che hanno cominciato a mangiare troppa carne? Colpa degli stati come l'Argentina che hanno scelto di «proteggere» i loro prodotti destinando meno quote all'esportazione e più al mercato interno? Si può condannare uno stato che scelga di nutrire i propri cittadini prima di sottostare ai diktat dei mercati internazionali? Il punto - mostra il dossier - è invece quello di indicare a chiare lettere il fallimento e i paradossi dei «piani di aggiustamento strutturale» imposti dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale. L'equazione: sviluppo solo a prezzo delle privatizzazioni di beni e servizi e di investimenti agevolati per le grandi imprese multinazionali, imposta al sud del mondo, ha portato alla situazione attuale. E ora, proprio la Banca mondiale, che «ha contribuito a indebolire gli agricoltori imponendo la liberalizzazione dell'economia», mette questo settore al centro degli sforzi per la lotta contro la povertà del pianeta nel suo rapporto sullo sviluppo del 2008. Paradossi in cui si dibattono anche gli stati in via di sviluppo dei 37 paesi minacciati dalla crisi alimentare.
In Costa d'Avorio, dal primo d'aprile le autorità hanno sospeso le tasse d'importazione per i generi di prima necessità come l'olio da tavola, il riso, il grano o lo zucchero. Il governo senegalese ha bloccato per un breve periodo il prezzo del pane nell'ottobre 2007. In Mali, si sperimenta invece il pane burunafama, farina di grano mista a cereali locali come il sorgo (immangiabile, dicono le associazioni dei consumatori). In Egitto, il governo ha sovvenzionato il pane e lo ha fatto distribuire dall'esercito. Misure che gravano sui già magri bilanci degli stati africani e che l'Fmi giudica «false soluzioni». Alcune realtà del sud, sperimentano però altre direzioni. Il Diplo ne dà conto, indicando i risultati raggiunti, per esempio, in Mali dalle scelte dei coltivatori di cotone. Rimettere l'agricoltura locale e la sicurezza alimentare al centro delle politiche economiche vuol dire porre il problema della sovranità e del controllo delle proprie risorse. Un tema che, in America latina, ha già prodotto risultati evidenti
ilmanifesto.it
Perché l’Occidente non va a sinistra
di Giorgio Ruffolo
Francesco Algarotti, umanista insigne, racconta, in una novella bizzarra di quel fischio che si congelò in inverno per rifischiare allegro in primavera. Più di venti anni fa, suMicromega, ripresi quello scherzo come metafora di una sinistra che mi sembrava congelata augurandomi, ma con qualche dubbio, che riprendesse a fischiare in una nuova primavera politica. Quel rifischio non l’abbiamo mai sentito. Anzi, in un libro intitolato Il mostro mite Raffaele Simone, riferendosi proprio a quel mio articolo, ne riprende il tema, sviluppandolo in una analisi rigorosa e impietosa, nella quale si domanda «perché l’Occidente non va a sinistra».
Per rispondere alla domanda è impossibile evitare quella che viene prima, ovvia e abusata. Ha ancora significato quella distinzione tra destra e sinistra? Io credo di sì (e il miglior modo di rivelarla è proprio quello di porre questa domanda. Si può stare sicuri che chi risponde che quella distinzione non ha significato è di destra). Ma credo anche che abbia mutato significato. Per circa due secoli, dalla rivoluzione francese in poi, la destra è stata identificata con la conservazione, la sinistra con l’innovazione.
Da tempo non è più così. Si sarebbe tentati dal pensare che le parti si siano invertite. La destra è carica di spiriti irruenti, sedotta dall’innovazione, votata alla crescita, incline alla competizione, anelante al successo. La sinistra richiama l’osservanza delle regole, la fedeltà alle istituzioni, l’ordine della convivenza, la moderazione degli "animal spirits" in nome dell’eguaglianza. Insomma, la destra è all’attacco, la sinistra è sulla difensiva.
Di solito l’indebolimento politico della sinistra-poiché di questo si tratta - è attribuito ai suoi errori e ai suoi orrori. Agli orrori del comunismo, certo: mai una rivoluzione emersa come potenza liberatrice si è rovesciata e corrotta nella più tetra e lugubre delle oppressioni. Che qualcuno ne nutra nostalgia è materia non di politica ma di psichiatria.Anche agli errori e agli eccessi di un’invadenza statalistica e sindacale che hanno guastato in parte il successo peraltro grandioso del solo socialismo realizzato: quello delle socialdemocrazie e del welfare state.
Ma né gli orrori né gli errori della sinistra spiegano il vero e proprio "rovesciamento della prassi politica intervenuto nel recente mezzo secolo. La causa principale del quale sta nella scomparsa della "questione sociale" dal centro della scena politica: del conflitto storico tra capitalisti e operai, dovuta a una rivoluzione del modo di produrre e del modo di pensare.
Il formidabile aumento della produttività ha consentito di ridurre la pressione capitalistica sul lavoro spostandola sulle risorse naturali attraverso un gigantesco aumento dei consumi (Reichlin lo ha ben spiegato in un suo recente articolo). La massa omogenea del proletariato industriale si è articolata in un mondo del lavoro dotato di miriadi di competenze specifiche. L’effetto combinato di queste due correnti pesanti ha causato uno spostamento del fulcro dell’economia dal lavoro al consumo e dal lavoro collettivo al lavoro individuale.
Questa torsione del modo di produrre ha generato nelle grandi masse un nuovo modo di pensare. Mentre l’antagonismo dei rapporti di lavoro si riduceva, aumentava l’interesse comune al consumismo. Mentre nel nuovo mondo di un lavoro eterogeneo si attenuava la spinta alla solidarietà, si accentuava l’attrazione verso la cornucopia permissiva traboccante dai mille specchi della pubblicità. Ciò che la neodestra propone-dice in sostanza Simone -è un patto con un diavolo sorridente, con un "mostro mite", che promette di tutto e di più mentre offre un lavoro che può spingersi fino ai limiti del trastullo; come fa Google quando raccomanda ai suoi "ospiti" (come chiamarli altrimenti? lavoratori?) di dedicare almeno un quinto del tempo di lavoro a sane distrazioni. Tocqueville, che aveva previsto proprio tutto, pronosticò l’avvento di un governo «che vuole che i cittadini se la godano, purché non pensino ad altro che a godersela» un governo; che - aggiunge Simone - «assicuri al maggior numero di persone un fascio di esperienze gradevoli e vitalizzanti, che accrescano il loro benessere fisico e psicologico, ma soprattutto le inducano a consumare». Nel suo immaginario non c’è posto né per il padrone delle ferriere né per l’ingegner Taylor col suo cronometro che scandiva le ore piene e i minuti vuoti, maper quel tempo preso dal divertimento che è diventato l’essenza del lavoro, un sempre più prolungato e affollato weekend.
In questa economia del consumo, si forma sì, un (sotto) proletariato, ma ai margini della società, come "rifiuto», «non certo come scuola di solidarietà e di fratellanza, ma come fonte di inquinante turbolenza in quelle discariche che sono diventate le periferie metropolitane. La massa del ceto medio, quello che meglio si definirebbe il ceto di massa, condivide con l’élite plutocratica valori privati: il postulato di superiorità (io sono il primo tu non sei nessuno); il postulato di proprietà (questo è mio e nessuno melo tocca); il postulato di licenza (io faccio quello che voglio e come voglio); il postulato di non intrusione dell’altro (non ti immischiare negli affari miei); il postulato che tutti li riassume, di superiorità del privato sul pubblico (fino all’abuso del pubblico come cosa privata). Non può stupire allora che al centro della scena politica sia subentrata alla questione sociale la questione fiscale: il conflitto tra Stato e contribuenti che pretendono servizi pubblici sempre più costosi (perché a differenza di quelli privati non possono essere fronteggiati con aumenti significativi della produttività) ma non tollerano che siano finanziati "mettendo le mani nelle loro tasche".
Questo privatismo è l’opposto dell’individualismo. Mentre quello è espressione di personalità forti, caratterizzate, aperte alle relazioni con gli altri; questo, incerto e timoroso di contatti interpersonali (come chi evita persino le strette di mano) si esprime politicamente non attraverso la discussione, che aborre, ma in quell’attruppamento infatuato attorno a capi carismatici in cui si riconosce la forma moderna del populismo.
Populismo e privatismo si fondono perfettamente nell’ideologia apolitica della neodestra. Sono l’espressione di una formidabile tendenza alla disgregazione sociale che qualcuno (Bauman) traduce nella metafora della "liquefazione". Marx denunciò per primo la tendenza dissolvente insita nel capitalismo: «Tutto ciò che è solido si disperde nell’aria». Questo è appunto uno dei rischi supremi del nostro tempo: quello di una società polverizzata esposta ai venti delle mobilitazioni irrazionali. L’altro, all’altra estremità di una società privatistica e consumistica, è la distruzione del capitale naturale provocata da una crescita economica illimitata e dissennata.
A questi due supremi rischi cui il mite mostro della nuova destra espone l’umanità del nostro tempo, la sinistra non sa opporre che una sterile contestazione o una mimesi compiacente: un pensiero debole. Fino a quando non saprà costruire in un pensiero forte le fondamenta istituzionali di un nuovo ordine mondiale che sia in grado di reggere e regolare la poderosa complessità della globalizzazione, il campo sarà pericolosamente aperto ai demagoghi del mite inganno.
repubblica.it
Francesco Algarotti, umanista insigne, racconta, in una novella bizzarra di quel fischio che si congelò in inverno per rifischiare allegro in primavera. Più di venti anni fa, suMicromega, ripresi quello scherzo come metafora di una sinistra che mi sembrava congelata augurandomi, ma con qualche dubbio, che riprendesse a fischiare in una nuova primavera politica. Quel rifischio non l’abbiamo mai sentito. Anzi, in un libro intitolato Il mostro mite Raffaele Simone, riferendosi proprio a quel mio articolo, ne riprende il tema, sviluppandolo in una analisi rigorosa e impietosa, nella quale si domanda «perché l’Occidente non va a sinistra».
Per rispondere alla domanda è impossibile evitare quella che viene prima, ovvia e abusata. Ha ancora significato quella distinzione tra destra e sinistra? Io credo di sì (e il miglior modo di rivelarla è proprio quello di porre questa domanda. Si può stare sicuri che chi risponde che quella distinzione non ha significato è di destra). Ma credo anche che abbia mutato significato. Per circa due secoli, dalla rivoluzione francese in poi, la destra è stata identificata con la conservazione, la sinistra con l’innovazione.
Da tempo non è più così. Si sarebbe tentati dal pensare che le parti si siano invertite. La destra è carica di spiriti irruenti, sedotta dall’innovazione, votata alla crescita, incline alla competizione, anelante al successo. La sinistra richiama l’osservanza delle regole, la fedeltà alle istituzioni, l’ordine della convivenza, la moderazione degli "animal spirits" in nome dell’eguaglianza. Insomma, la destra è all’attacco, la sinistra è sulla difensiva.
Di solito l’indebolimento politico della sinistra-poiché di questo si tratta - è attribuito ai suoi errori e ai suoi orrori. Agli orrori del comunismo, certo: mai una rivoluzione emersa come potenza liberatrice si è rovesciata e corrotta nella più tetra e lugubre delle oppressioni. Che qualcuno ne nutra nostalgia è materia non di politica ma di psichiatria.Anche agli errori e agli eccessi di un’invadenza statalistica e sindacale che hanno guastato in parte il successo peraltro grandioso del solo socialismo realizzato: quello delle socialdemocrazie e del welfare state.
Ma né gli orrori né gli errori della sinistra spiegano il vero e proprio "rovesciamento della prassi politica intervenuto nel recente mezzo secolo. La causa principale del quale sta nella scomparsa della "questione sociale" dal centro della scena politica: del conflitto storico tra capitalisti e operai, dovuta a una rivoluzione del modo di produrre e del modo di pensare.
Il formidabile aumento della produttività ha consentito di ridurre la pressione capitalistica sul lavoro spostandola sulle risorse naturali attraverso un gigantesco aumento dei consumi (Reichlin lo ha ben spiegato in un suo recente articolo). La massa omogenea del proletariato industriale si è articolata in un mondo del lavoro dotato di miriadi di competenze specifiche. L’effetto combinato di queste due correnti pesanti ha causato uno spostamento del fulcro dell’economia dal lavoro al consumo e dal lavoro collettivo al lavoro individuale.
Questa torsione del modo di produrre ha generato nelle grandi masse un nuovo modo di pensare. Mentre l’antagonismo dei rapporti di lavoro si riduceva, aumentava l’interesse comune al consumismo. Mentre nel nuovo mondo di un lavoro eterogeneo si attenuava la spinta alla solidarietà, si accentuava l’attrazione verso la cornucopia permissiva traboccante dai mille specchi della pubblicità. Ciò che la neodestra propone-dice in sostanza Simone -è un patto con un diavolo sorridente, con un "mostro mite", che promette di tutto e di più mentre offre un lavoro che può spingersi fino ai limiti del trastullo; come fa Google quando raccomanda ai suoi "ospiti" (come chiamarli altrimenti? lavoratori?) di dedicare almeno un quinto del tempo di lavoro a sane distrazioni. Tocqueville, che aveva previsto proprio tutto, pronosticò l’avvento di un governo «che vuole che i cittadini se la godano, purché non pensino ad altro che a godersela» un governo; che - aggiunge Simone - «assicuri al maggior numero di persone un fascio di esperienze gradevoli e vitalizzanti, che accrescano il loro benessere fisico e psicologico, ma soprattutto le inducano a consumare». Nel suo immaginario non c’è posto né per il padrone delle ferriere né per l’ingegner Taylor col suo cronometro che scandiva le ore piene e i minuti vuoti, maper quel tempo preso dal divertimento che è diventato l’essenza del lavoro, un sempre più prolungato e affollato weekend.
In questa economia del consumo, si forma sì, un (sotto) proletariato, ma ai margini della società, come "rifiuto», «non certo come scuola di solidarietà e di fratellanza, ma come fonte di inquinante turbolenza in quelle discariche che sono diventate le periferie metropolitane. La massa del ceto medio, quello che meglio si definirebbe il ceto di massa, condivide con l’élite plutocratica valori privati: il postulato di superiorità (io sono il primo tu non sei nessuno); il postulato di proprietà (questo è mio e nessuno melo tocca); il postulato di licenza (io faccio quello che voglio e come voglio); il postulato di non intrusione dell’altro (non ti immischiare negli affari miei); il postulato che tutti li riassume, di superiorità del privato sul pubblico (fino all’abuso del pubblico come cosa privata). Non può stupire allora che al centro della scena politica sia subentrata alla questione sociale la questione fiscale: il conflitto tra Stato e contribuenti che pretendono servizi pubblici sempre più costosi (perché a differenza di quelli privati non possono essere fronteggiati con aumenti significativi della produttività) ma non tollerano che siano finanziati "mettendo le mani nelle loro tasche".
Questo privatismo è l’opposto dell’individualismo. Mentre quello è espressione di personalità forti, caratterizzate, aperte alle relazioni con gli altri; questo, incerto e timoroso di contatti interpersonali (come chi evita persino le strette di mano) si esprime politicamente non attraverso la discussione, che aborre, ma in quell’attruppamento infatuato attorno a capi carismatici in cui si riconosce la forma moderna del populismo.
Populismo e privatismo si fondono perfettamente nell’ideologia apolitica della neodestra. Sono l’espressione di una formidabile tendenza alla disgregazione sociale che qualcuno (Bauman) traduce nella metafora della "liquefazione". Marx denunciò per primo la tendenza dissolvente insita nel capitalismo: «Tutto ciò che è solido si disperde nell’aria». Questo è appunto uno dei rischi supremi del nostro tempo: quello di una società polverizzata esposta ai venti delle mobilitazioni irrazionali. L’altro, all’altra estremità di una società privatistica e consumistica, è la distruzione del capitale naturale provocata da una crescita economica illimitata e dissennata.
A questi due supremi rischi cui il mite mostro della nuova destra espone l’umanità del nostro tempo, la sinistra non sa opporre che una sterile contestazione o una mimesi compiacente: un pensiero debole. Fino a quando non saprà costruire in un pensiero forte le fondamenta istituzionali di un nuovo ordine mondiale che sia in grado di reggere e regolare la poderosa complessità della globalizzazione, il campo sarà pericolosamente aperto ai demagoghi del mite inganno.
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27.4.08
Italia, la vera Casa delle libertà e le servitù mediali
Marco Morosini
Il declino trentennale dell'Italia ha molte cause, ma una è più importante: la servitù dell'informazione. Il Paese è come un miope così forte che non riesce a trovare gli occhiali. Senza vista tutto diventa più difficile. A dircelo è la Casa della libertà, quella vera: freedomhouse.org. Creata nel 1941 dai coniugi Roosvelt e finanziata dai maggiori nomi capitalismo statunitense, la Casa della libertà è la referenza internazionale sullo stato delle libertà civili. Il suo rapporto Libertà della stampa classifica l'Italia del 2005 come paese "semi-libero", al 79° posto nel mondo, dietro a Bulgaria e Mongolia. «La libertà dei media – scrive la Casa della libertà – è limitata dalla perdurante concentrazione del potere mediatico nelle mani del primo ministro Silvio Berlusconi, che controlla il 90 per cento dei media televisivi sia attraverso le sue aziende private sia con il suo potere politico sulle reti della televisione statale». Chi deve ricchezza e potere a questa situazione nega che il problema esista. È grottesco però che giornalisti apparentemente equidistanti ripetano che non esiste strapotere mediatico e che anche se c'è non conta. Prodi ha vinto due volte su quattro – dicono – e la lega padana si è affermata senza potere mediatico. Il che è come dire che un carcere da cui alcuni evadono è un tempio della libertà.
Secondo la media dei dieci principali indici di sviluppo l'Italia era nel 2005 46a nel mondo. Era però 18a per reddito e 79a per libertà di stampa. È il ritratto degli ultimi 40 anni: tanti consumi, poca consapevolezza. Gran parte degli italiani si possono paragonare a bambini alla guida di una Ferrari: hanno troppi mezzi per fare danni rispetto alla loro consapevolezza e al loro senso di responsabilità. Non stupisce che nell'indice di sostenibilità ambientale l'Italia sia 69a.
Tradotto in immagine, quel 79° posto per la libertà di stampa è una macchietta che forse solo Pasolini avrebbe potuto inventare per un film surreale: un vecchio di 72 anni in camicia scura, il pubblicitario più ricco del mondo, che con barzellette e insulti ai nemici e a metà del Paese aizza una piccola folla in una piccola piazza. Eppure viene trasmesso ogni giorno per settimane sulle sette reti nazionali. L'immagine riassume i due prodotti peggiori dell'Italia degli ultimi cento anni: l'autoritarismo in camicia nera e la pubblicità totalitaria. Un'industria pubblicitaria che domina ogni momento della vita: le città, i paesaggi, i cibi, i giochi e i vestiti dei ragazzi, tutti gli sport, tutti i mezzi di comunicazione, il parlamento, il governo. Perfino le previsioni del tempo sono fatte "con il prosciutto A", il segnale orario "con il formaggio B", mentre i telegiornali sono spostati dall'ora esatta, per lasciar posto agli spot che, durante la cena, spiegano come pulire un water o come non macchiare le mutande. Anche i due monologhi della più importante trasmissione elettorale riassumono quel 79° posto dell'Italia. Il candidato più debole ha dovuto recarsi nella proprietà del candidato più forte, essere in balia delle sue regole e dei suoi dipendenti e parlare per primo. Per ogni minuto che l'ospite parlava, il padrone di casa guadagnava denaro. I due intervalli pubblicitari hanno interrotto l'ospite per 4 minuti e l'ospitante per un minuto e mezzo: per ogni minuto di pubblicità il primo perdeva telespettatori, il secondo guadagnava soldi. Il padrone di casa si è sottratto a un confronto leale con l'ospite, come invece avviene nei Paesi liberali. Ha parlato per secondo e per ultimo, potendo così criticare e smontare (e in parte denigrare) le tesi dell'ospite, senza che questo potesse fare lo stesso con le sue. Ha promesso rigore contro la criminalità e ha esaltato come "eroe" un suo stretto collaboratore, condannato per pluriomicidio, lesioni, estorsione e traffico di stupefacenti senza che nessuno potesse replicare. Ha affermato il falso e promesso a sorpresa nuove abolizioni di tasse senza che il suo dipendente o l'ospite potessero replicare. Infine, al di fuori del tempo che gli spettava e contro ogni regola, è tornato sul proprio palcoscenico, ha interrotto il suo dipendente e su un grande pannello con i simboli di tutti i partiti ha sfiorato quello dell'ospite dicendo che facendo una croce così il voto sarebbe stato nullo.
Si sa, nei Paesi industriali, il potere più forte è quello delle grandi aziende, mentre il più debole è quello dei governi e dei parlamenti che cercano, ove vogliano, di civilizzare il potere più forte. Solo in Italia i due poteri invece di bilanciarsi si concentrano nelle mani di decine di uomini pagati dalla stessa mano per remare sulla stessa barca. La seconda anomalia italiana è che da decenni la quasi totalità dei giornali non serve i lettori ma i loro proprietari, vale a dire industrie che non c'entrano con l'editoria. A questo dominio dell'industria come padrona si aggiunge il suo dominio come inserzionista. La maggioranza dei giornalisti sa di essere al guinzaglio pubblicitario: per non essere strozzati, non bisogna mordere la mano del padrone, ma leccarla.
Per recuperare due decenni perduti servono programmi educativi, industriali, energetici ed ecologici per i prossimi cinquantanni e la capacità di guardare avanti. L'Italia invece sarà governata guardando a 900, 90 e 50 anni fa: un medioevo incarnato da crociati e guerrieri padani che si radunano con armature, scudi e spade sguainate; un ventennio nero italiano rimpianto da un industriale e neosenatore fiero di dirsi fascista e da due vecchie e nuove Onorevoli che hanno battibeccato sui giornali su chi delle due sia più in contatto con Benito Mussolini nell'aldilà e meglio capace di portarne al governo l'eredità politica. Il tutto nel nome della "libertà". Infine, la ricetta meno antiquata del prossimo governo è quella degli anni '60: più pubblicità, più consumi, più produzione, più lavoro, più felicità. È con queste tre visioni che hanno promesso al Paese: "Rialzati Italia!".
area7.ch
Il declino trentennale dell'Italia ha molte cause, ma una è più importante: la servitù dell'informazione. Il Paese è come un miope così forte che non riesce a trovare gli occhiali. Senza vista tutto diventa più difficile. A dircelo è la Casa della libertà, quella vera: freedomhouse.org. Creata nel 1941 dai coniugi Roosvelt e finanziata dai maggiori nomi capitalismo statunitense, la Casa della libertà è la referenza internazionale sullo stato delle libertà civili. Il suo rapporto Libertà della stampa classifica l'Italia del 2005 come paese "semi-libero", al 79° posto nel mondo, dietro a Bulgaria e Mongolia. «La libertà dei media – scrive la Casa della libertà – è limitata dalla perdurante concentrazione del potere mediatico nelle mani del primo ministro Silvio Berlusconi, che controlla il 90 per cento dei media televisivi sia attraverso le sue aziende private sia con il suo potere politico sulle reti della televisione statale». Chi deve ricchezza e potere a questa situazione nega che il problema esista. È grottesco però che giornalisti apparentemente equidistanti ripetano che non esiste strapotere mediatico e che anche se c'è non conta. Prodi ha vinto due volte su quattro – dicono – e la lega padana si è affermata senza potere mediatico. Il che è come dire che un carcere da cui alcuni evadono è un tempio della libertà.
Secondo la media dei dieci principali indici di sviluppo l'Italia era nel 2005 46a nel mondo. Era però 18a per reddito e 79a per libertà di stampa. È il ritratto degli ultimi 40 anni: tanti consumi, poca consapevolezza. Gran parte degli italiani si possono paragonare a bambini alla guida di una Ferrari: hanno troppi mezzi per fare danni rispetto alla loro consapevolezza e al loro senso di responsabilità. Non stupisce che nell'indice di sostenibilità ambientale l'Italia sia 69a.
Tradotto in immagine, quel 79° posto per la libertà di stampa è una macchietta che forse solo Pasolini avrebbe potuto inventare per un film surreale: un vecchio di 72 anni in camicia scura, il pubblicitario più ricco del mondo, che con barzellette e insulti ai nemici e a metà del Paese aizza una piccola folla in una piccola piazza. Eppure viene trasmesso ogni giorno per settimane sulle sette reti nazionali. L'immagine riassume i due prodotti peggiori dell'Italia degli ultimi cento anni: l'autoritarismo in camicia nera e la pubblicità totalitaria. Un'industria pubblicitaria che domina ogni momento della vita: le città, i paesaggi, i cibi, i giochi e i vestiti dei ragazzi, tutti gli sport, tutti i mezzi di comunicazione, il parlamento, il governo. Perfino le previsioni del tempo sono fatte "con il prosciutto A", il segnale orario "con il formaggio B", mentre i telegiornali sono spostati dall'ora esatta, per lasciar posto agli spot che, durante la cena, spiegano come pulire un water o come non macchiare le mutande. Anche i due monologhi della più importante trasmissione elettorale riassumono quel 79° posto dell'Italia. Il candidato più debole ha dovuto recarsi nella proprietà del candidato più forte, essere in balia delle sue regole e dei suoi dipendenti e parlare per primo. Per ogni minuto che l'ospite parlava, il padrone di casa guadagnava denaro. I due intervalli pubblicitari hanno interrotto l'ospite per 4 minuti e l'ospitante per un minuto e mezzo: per ogni minuto di pubblicità il primo perdeva telespettatori, il secondo guadagnava soldi. Il padrone di casa si è sottratto a un confronto leale con l'ospite, come invece avviene nei Paesi liberali. Ha parlato per secondo e per ultimo, potendo così criticare e smontare (e in parte denigrare) le tesi dell'ospite, senza che questo potesse fare lo stesso con le sue. Ha promesso rigore contro la criminalità e ha esaltato come "eroe" un suo stretto collaboratore, condannato per pluriomicidio, lesioni, estorsione e traffico di stupefacenti senza che nessuno potesse replicare. Ha affermato il falso e promesso a sorpresa nuove abolizioni di tasse senza che il suo dipendente o l'ospite potessero replicare. Infine, al di fuori del tempo che gli spettava e contro ogni regola, è tornato sul proprio palcoscenico, ha interrotto il suo dipendente e su un grande pannello con i simboli di tutti i partiti ha sfiorato quello dell'ospite dicendo che facendo una croce così il voto sarebbe stato nullo.
Si sa, nei Paesi industriali, il potere più forte è quello delle grandi aziende, mentre il più debole è quello dei governi e dei parlamenti che cercano, ove vogliano, di civilizzare il potere più forte. Solo in Italia i due poteri invece di bilanciarsi si concentrano nelle mani di decine di uomini pagati dalla stessa mano per remare sulla stessa barca. La seconda anomalia italiana è che da decenni la quasi totalità dei giornali non serve i lettori ma i loro proprietari, vale a dire industrie che non c'entrano con l'editoria. A questo dominio dell'industria come padrona si aggiunge il suo dominio come inserzionista. La maggioranza dei giornalisti sa di essere al guinzaglio pubblicitario: per non essere strozzati, non bisogna mordere la mano del padrone, ma leccarla.
Per recuperare due decenni perduti servono programmi educativi, industriali, energetici ed ecologici per i prossimi cinquantanni e la capacità di guardare avanti. L'Italia invece sarà governata guardando a 900, 90 e 50 anni fa: un medioevo incarnato da crociati e guerrieri padani che si radunano con armature, scudi e spade sguainate; un ventennio nero italiano rimpianto da un industriale e neosenatore fiero di dirsi fascista e da due vecchie e nuove Onorevoli che hanno battibeccato sui giornali su chi delle due sia più in contatto con Benito Mussolini nell'aldilà e meglio capace di portarne al governo l'eredità politica. Il tutto nel nome della "libertà". Infine, la ricetta meno antiquata del prossimo governo è quella degli anni '60: più pubblicità, più consumi, più produzione, più lavoro, più felicità. È con queste tre visioni che hanno promesso al Paese: "Rialzati Italia!".
area7.ch
21.4.08
Camere uno specchio deformante
MICHELE AINIS
Il nuovo Parlamento assomiglia ai precedenti come un asino è simile a un cavallo.
In realtà è tutt'altra bestia, è una nuova specie che debutta nel nostro zoo istituzionale.
Del Parlamento conserva ancora il nome, ma non è più in grado d'esercitarne la funzione. Da molti secoli questa funzione è duplice: decidere e rappresentare. O meglio, produrre decisioni di governo per conto del popolo sovrano. Un sistema che rappresenta senza decidere è tendenzialmente anarchico; un sistema che decide senza rappresentare è tendenzialmente autoritario. La prima distorsione la conosciamo bene, perché ne abbiamo fatto esperienza durante la legislatura scorsa. Una quarantina di partiti rappresentati fra i banchi delle Camere, una coalizione di governo più affollata d'un tram dopo la chiusura dei negozi, e per esito lo stallo, la non decisione. Ce ne siamo finalmente liberati, ma per cadere nell'eccesso opposto. E pure in questo caso il conto potrebbe essere salato.
Le prove? Facciamo parlare i numeri. Alle elezioni della Camera ha votato l'80,5 per cento del corpo elettorale; significa che 10.575.785 italiani sono rimasti deliberatamente estranei alla consultazione. Fra quanti hanno deposto nell'urna il proprio voto, si contano 1.391.806 non voti, perché incartati in schede bianche oppure nulle. Infine altri 3.578.698 voti sono stati sparati a salve, verso liste che non hanno scavalcato la soglia di sbarramento del 4 per cento (al Senato, con la soglia dell'8 per cento, il dato è ancora più vistoso), sicché non hanno generato nessun seggio. Risultato? 15.546.289 italiani non sono rappresentati da questo Parlamento, per loro scelta o per la tagliola della legge elettorale.
Il vizio d’origine
È una cifra enorme, equivalente al 33 per cento dell'elettorato; e tale cifra significa a sua volta che un italiano su 3 non è di casa nella casa delle istituzioni.Ecco, il vizio d'origine del nuovo Parlamento è tutto in questi numeri. Perché dai numeri deriva la massima potenza di governo, ma insieme la massima impotenza a rappresentare tutti i governati. Insomma, se le assemblee elettive sono lo specchio d'un paese, per un quinquennio ci rifletteremo in uno specchio deformante. Senza le tante sigle di consumatori, pensionati, casalinghe; ma anche senza le due ali estreme dello schieramento, senza la destra e la sinistra radicali, per la prima volta nell'età repubblicana. E in tutti questi casi senza concedergli neppure un diritto di tribuna, come viceversa ottengono - per obbligo costituzionale - i partiti delle minoranze linguistiche.Poi, certo, nessun Parlamento potrà mai dar voce a ogni diversa voce della società civile. Però se lascia fuori della porta 15 milioni e mezzo d'italiani, esso tradisce la sua specifica missione d'integrare i cittadini nello Stato, e perciò di esorcizzare gli umori negativi, gli spiriti guerrieri, le pulsioni antisociali. Di questi tempi, non è un buon modo per ricominciare. Perché di questi tempi già lo Stato appare ai più come una creatura ostile, e perché l'antipolitica può essere curata solo accorciando la distanza fra popolo e Palazzo, non innalzando l'ennesimo steccato.
Il problema delle nomine
Da qui la responsabilità del nuovo Parlamento, e specialmente di chi ne presiederà le commissioni, le giunte, i gruppi, o infine siederà sullo scranno più alto di Camera e Senato. Tutti costoro dovranno ricordarsi che il proprio interlocutore è dentro, ma è in buona misura anche all'esterno dell'aula in cui si svolgono i lavori. Dovranno perciò attingere a piene mani agli strumenti della procedura parlamentare - le audizioni, le indagini conoscitive, le udienze legislative - per ascoltare l'opinione degli esclusi. In ultimo dovranno procedere alle nomine senza guardarsi unicamente l'ombelico. E a proposito di nomine: in questo quadro anche il presidente Napolitano potrebbe forse temperare con un gesto l'isolamento di chi è rimasto fuori dal Palazzo. In passato sono stati proposti vari nomi, più o meno improbabili, per la carica di senatore a vita. Ma c'è un uomo che per la sua storia personale, nonché per la storia della legislatura prossima ventura, oggi meriterebbe la massima attenzione. Quell’uomo è Pietro Ingrao.
lastampa.it
Il nuovo Parlamento assomiglia ai precedenti come un asino è simile a un cavallo.
In realtà è tutt'altra bestia, è una nuova specie che debutta nel nostro zoo istituzionale.
Del Parlamento conserva ancora il nome, ma non è più in grado d'esercitarne la funzione. Da molti secoli questa funzione è duplice: decidere e rappresentare. O meglio, produrre decisioni di governo per conto del popolo sovrano. Un sistema che rappresenta senza decidere è tendenzialmente anarchico; un sistema che decide senza rappresentare è tendenzialmente autoritario. La prima distorsione la conosciamo bene, perché ne abbiamo fatto esperienza durante la legislatura scorsa. Una quarantina di partiti rappresentati fra i banchi delle Camere, una coalizione di governo più affollata d'un tram dopo la chiusura dei negozi, e per esito lo stallo, la non decisione. Ce ne siamo finalmente liberati, ma per cadere nell'eccesso opposto. E pure in questo caso il conto potrebbe essere salato.
Le prove? Facciamo parlare i numeri. Alle elezioni della Camera ha votato l'80,5 per cento del corpo elettorale; significa che 10.575.785 italiani sono rimasti deliberatamente estranei alla consultazione. Fra quanti hanno deposto nell'urna il proprio voto, si contano 1.391.806 non voti, perché incartati in schede bianche oppure nulle. Infine altri 3.578.698 voti sono stati sparati a salve, verso liste che non hanno scavalcato la soglia di sbarramento del 4 per cento (al Senato, con la soglia dell'8 per cento, il dato è ancora più vistoso), sicché non hanno generato nessun seggio. Risultato? 15.546.289 italiani non sono rappresentati da questo Parlamento, per loro scelta o per la tagliola della legge elettorale.
Il vizio d’origine
È una cifra enorme, equivalente al 33 per cento dell'elettorato; e tale cifra significa a sua volta che un italiano su 3 non è di casa nella casa delle istituzioni.Ecco, il vizio d'origine del nuovo Parlamento è tutto in questi numeri. Perché dai numeri deriva la massima potenza di governo, ma insieme la massima impotenza a rappresentare tutti i governati. Insomma, se le assemblee elettive sono lo specchio d'un paese, per un quinquennio ci rifletteremo in uno specchio deformante. Senza le tante sigle di consumatori, pensionati, casalinghe; ma anche senza le due ali estreme dello schieramento, senza la destra e la sinistra radicali, per la prima volta nell'età repubblicana. E in tutti questi casi senza concedergli neppure un diritto di tribuna, come viceversa ottengono - per obbligo costituzionale - i partiti delle minoranze linguistiche.Poi, certo, nessun Parlamento potrà mai dar voce a ogni diversa voce della società civile. Però se lascia fuori della porta 15 milioni e mezzo d'italiani, esso tradisce la sua specifica missione d'integrare i cittadini nello Stato, e perciò di esorcizzare gli umori negativi, gli spiriti guerrieri, le pulsioni antisociali. Di questi tempi, non è un buon modo per ricominciare. Perché di questi tempi già lo Stato appare ai più come una creatura ostile, e perché l'antipolitica può essere curata solo accorciando la distanza fra popolo e Palazzo, non innalzando l'ennesimo steccato.
Il problema delle nomine
Da qui la responsabilità del nuovo Parlamento, e specialmente di chi ne presiederà le commissioni, le giunte, i gruppi, o infine siederà sullo scranno più alto di Camera e Senato. Tutti costoro dovranno ricordarsi che il proprio interlocutore è dentro, ma è in buona misura anche all'esterno dell'aula in cui si svolgono i lavori. Dovranno perciò attingere a piene mani agli strumenti della procedura parlamentare - le audizioni, le indagini conoscitive, le udienze legislative - per ascoltare l'opinione degli esclusi. In ultimo dovranno procedere alle nomine senza guardarsi unicamente l'ombelico. E a proposito di nomine: in questo quadro anche il presidente Napolitano potrebbe forse temperare con un gesto l'isolamento di chi è rimasto fuori dal Palazzo. In passato sono stati proposti vari nomi, più o meno improbabili, per la carica di senatore a vita. Ma c'è un uomo che per la sua storia personale, nonché per la storia della legislatura prossima ventura, oggi meriterebbe la massima attenzione. Quell’uomo è Pietro Ingrao.
lastampa.it
19.4.08
Silvio finge di sparare in difesa di zar Vladimir
La gag fuori ordinanza dopo la notte del Bagaglino-show
MASSIMO GRAMELLINI
Questo è un sondaggio post-elettorale. Che effetto produce sulla vostra psiche la visione del presidente del Consiglio in (doppio) pectore che, durante un’arzilla conferenza stampa con traduzione simultanea in russo, punta le mani a mitraglietta contro una giornalista moscovita terrea in volto, che aveva appena chiesto a Putin notizie sul suo divorzio?
Prima di azzardare una risposta, è opportuno che vi facciate un quadro completo della situazione. Dunque: è in corso l’ultimo atto della visita di zar Vladimir a Porto Rotondo, allietata la sera prima dall’arrivo nella villa padronale, tramite apposito volo charter, dell’intera compagnia del Bagaglino. Con questa mossa che spacca irrimediabilmente il Paese (ci sono milioni di italiani che non riuscirebbero a sorridere per una battuta del Bagaglino neanche passandosi una piuma di struzzo sotto le piante dei piedi), Berlusconi ha voluto ricompensare l’amico del cuore. Il quale, sei mesi fa, nella sua dacia in Russia, gli aveva regalato uno spettacolo di professioniste della danza del ventre: ancor oggi il Cavaliere ne conserva ricordi vividi, più di quanti gliene lascino i vertici con Bossi e Fini per la spartizione della vittoria.
Sorvoliamo sull’immagine, per qualcuno deprimente ma per altri democratica, di due fra gli uomini più potenti del mondo che se la spassano condividendo gli stessi svaghi degli ospiti di una crociera aziendale. E andiamo a sederci anche noi in mezzo al pubblico della conferenza stampa: sta filando liscia, facilitata dal confronto con quelle di Romano Prodi, che provocavano improvvisi attacchi di sonnolenza persino fra le guardie del corpo, con rischi gravissimi per l’ordine pubblico. Quand’ecco che al microfono si accosta una ragazza bionda e minuta, che attira subito l’attenzione del pubblico a casa, composto a quell’ora del mattino soprattutto dai giornalisti maschi che piantonano gli schermi di Sky. Si chiama Natalia Melikova e scrive per la «Nezavsinaya Gazeta». Contravvenendo alla convinzione che Putin si trascini in trasferta soltanto i reggicoda (oppure ribadendola, se credete che si sia trattato di una messinscena orchestrata da lui per poter smentire certe voci), la giornalista gli chiede conto delle indiscrezioni sul suo legame con la venticinquenne Alina Kabayeva, ex ginnasta e neodeputata. Putin diventa paonazzo, assumendo per un attimo lo stesso color terracotta del Cavaliere, e trafigge la Melikova con uno sguardo amichevole quanto le sue parole: «Non mi sono mai piaciuti quelli che infilano il loro naso colante nella vita altrui».
L’atmosfera è leggermente più tiepida di quella che si respira in Siberia durante una notte invernale. Ma a riscaldarla ci pensa un «entertainer» molto più divertente dei comici del Bagaglino: Silvio, naturalmente, che sotto lo sguardo benedicente di Putin punta le mani verso la giornalista, mimando una mitragliatrice. Nella sua testa, come in quella di molti suoi elettori, quel gesto non evoca morte e desolazione, ma un unico autorevole precedente storico: l’ex centravanti della Fiorentina Batistuta, che dopo i gol sventagliava le mani a mo’ di mitra. A essere pignoli, più che un mitra la mimica del Cavaliere richiama alla mente le due pistole estratte in contemporanea da Clint Eastwood nelle scene-madri dei film di Sergio Leone. Sfumature. Di sicuro De Gasperi non avrebbe mai imitato Batistuta e neanche Clint Eastwood. Ma se è per questo, nemmeno Breznev si sarebbe mai lasciato intervistare in pubblico sulle proprie amanti patinate. E De Gaulle non ne avrebbe sposata una, come invece ha fatto Sarkozy, che ha pure festeggiato la vittoria alle Presidenziali andandosene in giro per il Mediterraneo sullo yacht di un amico miliardario.
Eccoci dunque al sondaggio. Se l’ultima cassanata in mondovisione di Berlusconi (mimare scherzosamente l’omicidio di una giornalista russa ficcanaso, incurante che negli ultimi anni siano stati ammazzati oltre duecento giornalisti russi ficcanaso) vi indigna e vi sconvolge, siete Nanni Moretti. Se vi fa sorridere, siete berlusconiani. Se vi fa proprio morire dal ridere, siete Berlusconi. Se invece vi ritrovate a rimpiangere l’orribile ipocrisia che un tempo, nelle famiglie come nei vertici di governo, teneva il posto della buona educazione e serviva quantomeno a mascherare i cattivi pensieri, siete solo dei borghesi confusi e probabilmente antiquati, come il sottoscritto.
E la signorina Melikova, intanto? A lei la mitragliata ha fatto venire gli occhi lucidi, ma quando qualcuno ha tentato di rassicurarla, dicendole: «Guarda che scherzava, è fatto così», la giornalista russa ha risposto: «Lo so che scherzava, lui». Povera figlia. Non erano state le mani a mitraglia di Berlusconi a farla precipitare nel panico, ma gli occhi di ghiaccio di quell’altro. Come la capisco. Anch’io, nel dubbio, fra i due mi tengo la mitraglia.
lastampa.it
MASSIMO GRAMELLINI
Questo è un sondaggio post-elettorale. Che effetto produce sulla vostra psiche la visione del presidente del Consiglio in (doppio) pectore che, durante un’arzilla conferenza stampa con traduzione simultanea in russo, punta le mani a mitraglietta contro una giornalista moscovita terrea in volto, che aveva appena chiesto a Putin notizie sul suo divorzio?
Prima di azzardare una risposta, è opportuno che vi facciate un quadro completo della situazione. Dunque: è in corso l’ultimo atto della visita di zar Vladimir a Porto Rotondo, allietata la sera prima dall’arrivo nella villa padronale, tramite apposito volo charter, dell’intera compagnia del Bagaglino. Con questa mossa che spacca irrimediabilmente il Paese (ci sono milioni di italiani che non riuscirebbero a sorridere per una battuta del Bagaglino neanche passandosi una piuma di struzzo sotto le piante dei piedi), Berlusconi ha voluto ricompensare l’amico del cuore. Il quale, sei mesi fa, nella sua dacia in Russia, gli aveva regalato uno spettacolo di professioniste della danza del ventre: ancor oggi il Cavaliere ne conserva ricordi vividi, più di quanti gliene lascino i vertici con Bossi e Fini per la spartizione della vittoria.
Sorvoliamo sull’immagine, per qualcuno deprimente ma per altri democratica, di due fra gli uomini più potenti del mondo che se la spassano condividendo gli stessi svaghi degli ospiti di una crociera aziendale. E andiamo a sederci anche noi in mezzo al pubblico della conferenza stampa: sta filando liscia, facilitata dal confronto con quelle di Romano Prodi, che provocavano improvvisi attacchi di sonnolenza persino fra le guardie del corpo, con rischi gravissimi per l’ordine pubblico. Quand’ecco che al microfono si accosta una ragazza bionda e minuta, che attira subito l’attenzione del pubblico a casa, composto a quell’ora del mattino soprattutto dai giornalisti maschi che piantonano gli schermi di Sky. Si chiama Natalia Melikova e scrive per la «Nezavsinaya Gazeta». Contravvenendo alla convinzione che Putin si trascini in trasferta soltanto i reggicoda (oppure ribadendola, se credete che si sia trattato di una messinscena orchestrata da lui per poter smentire certe voci), la giornalista gli chiede conto delle indiscrezioni sul suo legame con la venticinquenne Alina Kabayeva, ex ginnasta e neodeputata. Putin diventa paonazzo, assumendo per un attimo lo stesso color terracotta del Cavaliere, e trafigge la Melikova con uno sguardo amichevole quanto le sue parole: «Non mi sono mai piaciuti quelli che infilano il loro naso colante nella vita altrui».
L’atmosfera è leggermente più tiepida di quella che si respira in Siberia durante una notte invernale. Ma a riscaldarla ci pensa un «entertainer» molto più divertente dei comici del Bagaglino: Silvio, naturalmente, che sotto lo sguardo benedicente di Putin punta le mani verso la giornalista, mimando una mitragliatrice. Nella sua testa, come in quella di molti suoi elettori, quel gesto non evoca morte e desolazione, ma un unico autorevole precedente storico: l’ex centravanti della Fiorentina Batistuta, che dopo i gol sventagliava le mani a mo’ di mitra. A essere pignoli, più che un mitra la mimica del Cavaliere richiama alla mente le due pistole estratte in contemporanea da Clint Eastwood nelle scene-madri dei film di Sergio Leone. Sfumature. Di sicuro De Gasperi non avrebbe mai imitato Batistuta e neanche Clint Eastwood. Ma se è per questo, nemmeno Breznev si sarebbe mai lasciato intervistare in pubblico sulle proprie amanti patinate. E De Gaulle non ne avrebbe sposata una, come invece ha fatto Sarkozy, che ha pure festeggiato la vittoria alle Presidenziali andandosene in giro per il Mediterraneo sullo yacht di un amico miliardario.
Eccoci dunque al sondaggio. Se l’ultima cassanata in mondovisione di Berlusconi (mimare scherzosamente l’omicidio di una giornalista russa ficcanaso, incurante che negli ultimi anni siano stati ammazzati oltre duecento giornalisti russi ficcanaso) vi indigna e vi sconvolge, siete Nanni Moretti. Se vi fa sorridere, siete berlusconiani. Se vi fa proprio morire dal ridere, siete Berlusconi. Se invece vi ritrovate a rimpiangere l’orribile ipocrisia che un tempo, nelle famiglie come nei vertici di governo, teneva il posto della buona educazione e serviva quantomeno a mascherare i cattivi pensieri, siete solo dei borghesi confusi e probabilmente antiquati, come il sottoscritto.
E la signorina Melikova, intanto? A lei la mitragliata ha fatto venire gli occhi lucidi, ma quando qualcuno ha tentato di rassicurarla, dicendole: «Guarda che scherzava, è fatto così», la giornalista russa ha risposto: «Lo so che scherzava, lui». Povera figlia. Non erano state le mani a mitraglia di Berlusconi a farla precipitare nel panico, ma gli occhi di ghiaccio di quell’altro. Come la capisco. Anch’io, nel dubbio, fra i due mi tengo la mitraglia.
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11.4.08
Grida sul Tibet sussurri sui salari
GIANNI VATTIMO
Piccoli pensieri per mitigare il senso di colpa che avvertiamo per non sentirci affatto coinvolti dalla campagna elettorale. Le cause sono note: esito quasi scontato della battaglia; somiglianza preoccupante tra i programmi; indignazione per essere costretti votare a scatola, cioè lista, chiusa. A tutto ciò va aggiunto, in questi ultimi giorni, quella specie di colpo di grazia che si può chiamare il trionfo dell’inessenziale, o anche, nei termini di Ernesto Rossi, la riabilitazione (propagandistica) dell’aria fritta. Non sappiamo come chiamare se non così la «drammatica» lettera con cui Veltroni chiede a Berlusconi un esplicito impegno a rispettare l’Italia, la sua unità, la sua Costituzione, la sua bandiera, contro le innocue sparate (e solo di parole) della Lega di Bossi; e, dall’altro lato, la ripresa berlusconiana della proposta di obbligare i pubblici accusatori a un periodico controllo della loro sanità mentale. Con varie aggiunte che scandalizzano persino i massimi editorialisti moderati, come il proposito di Dell’Utri di riformare i libri di testo in modo da limitare il peso che avrebbe ancora in essi il «mito» della Resistenza. Ciò che possiamo aspettarci è probabilmente: meno partigiani e più Tibet.
Anche sul Tibet è difficile non vedere che, come nel caso dell’unità nazionale, della stessa necessità di una storiografia più obiettiva, di una magistratura indipendente e affidabile (magari anche nei tempi di stesura delle sentenze!) non ci sono avversari riconoscibili, al massimo si distinguono i sostenitori di un semplice boicottaggio «politico» della Cina (i capi di Stato non vadano all’inaugurazione delle Olimpiadi a Pechino) da quelli che vorrebbero un democratico bombardamento per difendere la teocrazia del Dalai Lama. Insomma, un insieme di facili indignazioni che tentano invano di movimentare l’asfittica scena della campagna elettorale, contribuendo a far dimenticare problemi più vicini e urgenti: salari e pensioni insufficienti, costo crescente dei generi alimentari non solo in Italia ma in tutto il mondo, dall’Egitto ad Haiti, che ormai danno luogo a sanguinosi moti di piazza. Sono forse temi che Pannella e i suoi amici in sciopero della fame per ottenere dalla Rai una rubrica fissa sui diritti umani metterebbero all’ordine del giorno? Abbiamo la fondata impressione che anche questa ultima trovata di Pannella non abbia affatto lo scopo di mettere l’accento sui mali prodotti dal liberismo mondiale, ma solo di offrire ulteriori distrazioni dalle questioni più urgenti che ci toccano, non solo noi italiani, più da vicino.
Un ennesimo corteo per la libertà della Birmania, o peggio «contro la fame nel mondo», non disturba nessuno, se si rinuncia a vedere il nesso di tante violazioni dei diritti umani con il Wto e il Fondo monetario internazionale. Vero che l’idea radicale può dar l’impressione di colmare il vuoto di riferimenti alla politica internazionale (altri temi «eticamente sensibili» e perciò tabù?) di cui soffre il dibattito elettorale. Ma, anche su questo terreno, l’indignazione per i diritti dei più remoti popoli oppressi non rischierà di (o non sarà usata per) farci dimenticare, per esempio, l’imminenza delle più ingenti spese militari che i Paesi europei dovranno mettere in conto per partecipare al nuovo sistema di «difesa» (contro chi?) inventato da Bush e approvato dai Paesi Nato nei giorni scorsi? Anche su questo, autorevolissimi commentatori di sicura fede atlantica hanno richiamato la nostra attenzione nei giorni scorsi, senza suscitare alcuna reazione nei leader degli schieramenti in lotta, occupati a promettere assicurazioni gratuite alle casalinghe e fantastiche riduzioni d’imposte: promesse bellissime ma obiettivamente irrealizzabili. Perciò, avanti con le indignazioni «olimpiche», sperando che gli atleti tedofori ci trasmettano almeno quel tanto di forza da farci arrivare alla nostra cabina elettorale.
lastampa.it
Piccoli pensieri per mitigare il senso di colpa che avvertiamo per non sentirci affatto coinvolti dalla campagna elettorale. Le cause sono note: esito quasi scontato della battaglia; somiglianza preoccupante tra i programmi; indignazione per essere costretti votare a scatola, cioè lista, chiusa. A tutto ciò va aggiunto, in questi ultimi giorni, quella specie di colpo di grazia che si può chiamare il trionfo dell’inessenziale, o anche, nei termini di Ernesto Rossi, la riabilitazione (propagandistica) dell’aria fritta. Non sappiamo come chiamare se non così la «drammatica» lettera con cui Veltroni chiede a Berlusconi un esplicito impegno a rispettare l’Italia, la sua unità, la sua Costituzione, la sua bandiera, contro le innocue sparate (e solo di parole) della Lega di Bossi; e, dall’altro lato, la ripresa berlusconiana della proposta di obbligare i pubblici accusatori a un periodico controllo della loro sanità mentale. Con varie aggiunte che scandalizzano persino i massimi editorialisti moderati, come il proposito di Dell’Utri di riformare i libri di testo in modo da limitare il peso che avrebbe ancora in essi il «mito» della Resistenza. Ciò che possiamo aspettarci è probabilmente: meno partigiani e più Tibet.
Anche sul Tibet è difficile non vedere che, come nel caso dell’unità nazionale, della stessa necessità di una storiografia più obiettiva, di una magistratura indipendente e affidabile (magari anche nei tempi di stesura delle sentenze!) non ci sono avversari riconoscibili, al massimo si distinguono i sostenitori di un semplice boicottaggio «politico» della Cina (i capi di Stato non vadano all’inaugurazione delle Olimpiadi a Pechino) da quelli che vorrebbero un democratico bombardamento per difendere la teocrazia del Dalai Lama. Insomma, un insieme di facili indignazioni che tentano invano di movimentare l’asfittica scena della campagna elettorale, contribuendo a far dimenticare problemi più vicini e urgenti: salari e pensioni insufficienti, costo crescente dei generi alimentari non solo in Italia ma in tutto il mondo, dall’Egitto ad Haiti, che ormai danno luogo a sanguinosi moti di piazza. Sono forse temi che Pannella e i suoi amici in sciopero della fame per ottenere dalla Rai una rubrica fissa sui diritti umani metterebbero all’ordine del giorno? Abbiamo la fondata impressione che anche questa ultima trovata di Pannella non abbia affatto lo scopo di mettere l’accento sui mali prodotti dal liberismo mondiale, ma solo di offrire ulteriori distrazioni dalle questioni più urgenti che ci toccano, non solo noi italiani, più da vicino.
Un ennesimo corteo per la libertà della Birmania, o peggio «contro la fame nel mondo», non disturba nessuno, se si rinuncia a vedere il nesso di tante violazioni dei diritti umani con il Wto e il Fondo monetario internazionale. Vero che l’idea radicale può dar l’impressione di colmare il vuoto di riferimenti alla politica internazionale (altri temi «eticamente sensibili» e perciò tabù?) di cui soffre il dibattito elettorale. Ma, anche su questo terreno, l’indignazione per i diritti dei più remoti popoli oppressi non rischierà di (o non sarà usata per) farci dimenticare, per esempio, l’imminenza delle più ingenti spese militari che i Paesi europei dovranno mettere in conto per partecipare al nuovo sistema di «difesa» (contro chi?) inventato da Bush e approvato dai Paesi Nato nei giorni scorsi? Anche su questo, autorevolissimi commentatori di sicura fede atlantica hanno richiamato la nostra attenzione nei giorni scorsi, senza suscitare alcuna reazione nei leader degli schieramenti in lotta, occupati a promettere assicurazioni gratuite alle casalinghe e fantastiche riduzioni d’imposte: promesse bellissime ma obiettivamente irrealizzabili. Perciò, avanti con le indignazioni «olimpiche», sperando che gli atleti tedofori ci trasmettano almeno quel tanto di forza da farci arrivare alla nostra cabina elettorale.
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