17.4.14

Cos’è il Fiscal Compact, spiegato bene

il Post

Guida minima a uno dei temi ricorrenti nel dibattito politico degli ultimi anni: davvero tra poco l'Italia sarà costretta a tagliare 50 miliardi di euro all'anno?

Nelle ultime settimane, in vista delle prossime elezioni europee del 25 maggio, molti critici dell’euro e più in generale delle politiche economiche in Europa hanno sostenuto di nuovo la necessità per l’Italia di uscire dal cosiddetto “Fiscal Compact”, cioè il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione Europea firmato da 25 paesi il 2 marzo 2012. Il Fiscal Compact è stato un tema ricorrente del dibattito politico negli ultimi anni e probabilmente lo sarà ancora a lungo: formalmente si tratta di un accordo europeo che prevede una serie di norme comuni e vincoli di natura economica che hanno come obbiettivo il contenimento del debito pubblico nazionale di ciascun paese; sostanzialmente è diventato sinonimo dell’austerità.
A distanza di due anni, alcuni importanti esponenti dei partiti che nel 2012 ne approvarono l’entrata in vigore in Italia hanno detto che aderire al Fiscal Compact fu uno sbaglio, alimentando il dibattito. Stefano Fassina, ex viceministro all’Economia e responsabile economico del Partito Democratico nel momento in cui il PD votava sì al Fiscal Compact, ha detto che si trattò di «un errore»; l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, sempre del PD, ha detto pochi giorni fa che «così com’è sarebbe terribile per l’Italia». Silvio Berlusconi, all’epoca leader del PdL, che voto sì al Fiscal Compact, recentemente ha detto che l’accordo «esprime in sé tutte le idee di una politica imposta all’Europa da una Germania egemone».
Da dove arriva, chi l’ha firmato
Bisogna ricordare innanzitutto che i mesi precedenti alla firma del trattato erano stati tra i più complicati nella storia dell’euro e dell’Unione Europea: le economie di molti paesi, soprattutto quelli mediterranei, erano state messe in grande difficoltà dalla crisi. Costretti a indebitarsi per fare fronte alle loro spese nonostante le ridotte entrate fiscali, questi paesi non potevano fare altro che offrire interessi sempre più alti agli investitori per ottenere denaro in prestito. La crescita verticale degli interessi unita alla crisi di produttività e ricchezza aveva portato esperti e analisti persino a dubitare, in alcuni casi, che quei debiti potessero essere mai ripagati. La Grecia effettivamente fu costretta a fare un parziale default, rinegoziando le condizioni del suo debito, e senza due prestiti internazionali da centinaia di miliardi di euro avrebbe dichiarato bancarotta; anche la Spagna, il Portogallo e Cipro ebbero bisogno dei soldi della comunità internazionale per tenersi in piedi.
I problemi di ogni paese dell’euro determinavano una “reazione a catena” sugli altri: una giornata particolarmente negativa in Grecia o in Spagna, per esempio, costringeva anche l’Italia a offrire un tasso di interesse più alto agli investitori. Proprio in Italia la pericolante situazione economica aveva portato il governo Berlusconi a perdere la sua maggioranza in Parlamento e a essere sostituito da un governo tecnico guidato da Mario Monti, col compito dichiarato di far uscire quantomeno l’Italia dall’emergenza. Economisti anche molto stimati prevedevano che l’euro sarebbe scomparso entro pochi mesi.
Una delle iniziative prese dai paesi dell’Unione Europea in quel periodo – non l’unica, ma certamente la più controversa – fu il Fiscal Compact, un trattato per stabilire norme e vincoli validi per tutti i paesi firmatari e intervenire in particolare sulla politica fiscale dei singoli paesi. Sia simbolicamente sia materialmente, comportò la cessione di una fetta della propria sovranità economica di ogni paese a un ente sovranazionale, l’Unione Europea. Il Fiscal Compact in questo senso non fu una novità assoluta, anzi: i sui predecessori più importanti furono il Trattato di Maastricht, entrato in vigore l’1 novembre 1993, e il Patto di stabilità e crescita, sottoscritto nel 1997. Nel Trattato di Maastricht, fra le altre cose, erano contenuti i cinque criteri che ciascun paese avrebbe dovuto soddisfare per adottare l’euro, fra cui un rapporto fra deficit (cioè il disavanzo annuale di uno stato) e il prodotto interno lordo (PIL) non superiore al 3 per cento e un rapporto fra debito complessivo e PIL non superiore al 60 per cento. Nel Patto del 1997 l’Unione si dotò invece degli strumenti per inviare avvertimenti e applicare sanzioni agli Stati che non avessero rispettato i vincoli imposti nel 1993.
Il Fiscal Compact è stato firmato da tutti i 17 paesi che all’epoca facevano parte dell’eurozona (dall’1 gennaio 2014 si è aggiunta la Lettonia, che lo aveva già firmato), che cioè dispongono dell’euro come moneta corrente, cioè Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna. È stato anche firmato da 7 altri membri dell’Unione Europea non appartenenti all’eurozona, cioè Bulgaria, Danimarca, Lituania, Ungheria, Polonia, Romania, Svezia. Non è stato firmato da Gran Bretagna e Repubblica Ceca.
Cosa prevede
Fra le molte cose contenute nel trattato, le più importanti sono quattro:
– l’inserimento del pareggio di bilancio (cioè un sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) di ciascuno Stato in «disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale» (in Italia è stato inserito nella Costituzione con una modifica all’articolo 81 approvata nell’aprile del 2012);
– il vincolo dello 0,5 di deficit “strutturale” – quindi non legato a emergenze – rispetto al PIL;
– l’obbligo di mantenere al massimo al 3 per cento il rapporto tra deficit e PIL, già previsto da Maastricht;
– per i paesi con un rapporto tra debito e PIL superiore al 60 per cento previsto da Maastricht, l’obbligo di ridurre il rapporto di almeno 1/20esimo all’anno, per raggiungere quel rapporto considerato “sano” del 60 per cento. In Italia il debito pubblico ha sforato i 2000 miliardi di euro, intorno al 134 per cento del PIL. Per i paesi che sono appena rientrati sotto la soglia del 3 per cento nel rapporto tra deficit e PIL, come l’Italia, i controlli su questo vincolo inizieranno nel 2016.
Le critiche
Una delle norme più criticate è stata il vincolo del 3 per cento, ritenuto da alcuni troppo basso per permettere allo Stato di indebitarsi per tagliare le tasse o finanziare investimenti e attività in favore della crescita. Fra gli altri l’economista Emiliano Brancaccio, collaboratore del Manifesto e del Sole 24 Ore e noto critico delle misure di cosiddetta “austerità”, ha detto che ridiscutere il vincolo «è il minimo che si possa fare», e lo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi l’ha definito«oggettivamente anacronistico», nonostante abbia garantito che il governo italiano lo rispetterà.
Ma la norma più contestata in assoluto è quella che prevede la riduzione del rapporto fra debito e PIL di 1/20esimo all’anno. Beppe Grillo, in un post del suo blog del 9 marzo 2014, ha scritto che il Movimento 5 Stelle «cancellerà» il Fiscal Compact, che «in mancanza di una fortissima crescita taglierebbe la spesa pubblica dai 40 ai 50 miliardi all’anno per vent’anni». Moltissimi hanno detto la stessa cosa, negli ultimi mesi: costringendo i paesi a ridurre il rapporto tra debito e PIL di almeno 1/20esimo all’anno, l’Italia sarebbe costretta a fare ogni anno dolorosissime manovre di tagli da 40 o 50 miliardi di euro ogni volta. Anche altri partiti di destra, come la Lega Nord e Fratelli d’Italia, si sono detti decisamente contrari al trattato.
In realtà, come spiegato bene da esperti e analisti, il Fiscal Compact non “impone” nessun taglio della spesa pubblica né obbliga l’Italia a fare tagli anche solo vicini ai 50 miliardi all’anno. Per prima cosa, come spiega bene Davide Maria De Luca nel suo libro, «quello che le regole del fiscal compact ci impongono di ridurre è il rapporto tra il debito pubblico e il PIL. Se ripaghiamo il debito, agiamo sul numeratore, diminuendolo. Per ridurre il rapporto si può però percorrere anche un’altra strada: alzare il denominatore», cioè aumentare il PIL.
Nel conto del rapporto fra debito e PIL, inoltre, il riferimento non è il PIL reale, bensì quello “nominale”: cioè, in sostanza, il PIL reale più l’inflazione. Secondo quanto riportato da Giuseppe Pisauro su La Voce, le cifre di cui si sta parlando «in tempi normali sono valori bassi: con un debito al 120 per cento del PIL e il pareggio di bilancio è sufficiente che il PIL nominale cresca del 2,5 per cento». Tenendo conto del fatto che la BCE si sta spendendo molto per tenere l’inflazione al 2 per cento (e facendo quindi in modo di aumentare il valore del PIL nominale di ciascun paese del 2 per cento). L’ISTAT prevede che nel 2014 il PIL aumenterà di circa lo 0,75 per cento, al netto dell’inflazione: potrebbe quindi non essere necessario agire sul numeratore, cioè tagliare per ripagare il debito pubblico, e risolvere il problema lavorando all’incremento del PIL attraverso misure rivolte alla crescita (cioè sul denominatore).
Il problema, semmai, è che l’inflazione va piuttosto a rilento: potrebbe non aumentare fino al 2 per cento ogni anno, la quota ritenuta “sana”, e c’è addirittura chi teme si entri in una fase di deflazione; e poi c’è il rischio che le stime sulla crescita dell’ISTAT si rivelino troppo ottimistiche. In quel caso l’Italia potrebbe essere sollecitata a rispettare gli accordi previsti dal Fiscal Compact o ricevere degli avvertimenti (il rischio di sanzioni, nonostante siano previste in modo semiautomatico, è improbabile: per approvarle serve il voto favorevole di una larga maggioranza degli Stati, e ce ne sono molti che hanno a loro volta problemi nel rispettare i parametri del Fiscal Compact). Questografico interattivo di Reuters mostra bene come in ogni caso il raggiungimento del rapporto fra debito e PIL sotto al 60 per cento dipenderà da molti fattori: cambiando i valori, si modificano le stime.
La stima dei “50 miliardi da tagliare per vent’anni” citata da Grillo, infine, è frutto di un calcolo “a spanne” che non ha senso nemmeno se decidessimo di agire soltanto sulla riduzione del debito e non sulla crescita del PIL: riducendo il debito pubblico il numeratore del rapporto con il PIL si abbasserebbe, rendendo comunque necessario abbassare la cifra da tagliare ogni anno per ridurre il rapporto.

16.4.14

Russia: in Italia l’intellettuale di riferimento è Lilin. E non stiamo messi bene

Antonio Armano (ilfattoquotidiano)

Mette una certa tristezza che l’intellettuale russo di riferimento che abbiamo in Italia attualmente sia Lilin, l’autore del bestseller Educazione siberiana, dove si spaccia il mito del criminale onesto e una serie di falsi storici pacchiani per una vicenda autobiografica. Giovedì sera era a Servizio pubblico e, interrogato sullo schieramento di truppe russe al confine con l’Ucraina, ha commentato che 100mila soldati non sono molti visto che in “Cecenia eravamo 500mila”. Niente di cui preoccuparsi? Del resto Putin “non è uno stupido”, non farà colpi di testa.

Ora se consideriamo che la Cecenia ha una popolazione di 1200mila abitanti (negli anni precedenti meno), appare chiaro che la cifra sparata da Lilin è assurda. Vorrebbe dire che in Cecenia, territorio montagnoso e impervio, una persona su tre era un soldato russo! Che bisogno c’era dunque di combattere? Bastava il corpo a corpo, le manette, il judo, anzi: la lotta greco-romana. Al contrario l’impiego di truppe è progressivamente diminuito nel corso delle due guerre cecene perché più soldati hai sul territorio più rischi perdite, attacchi della guerriglia, aggressioni di ogni tipo come sanno tutti, con vittime e problemi di contestazione interna, le madri in piazza e così via. Si è dunque intensificata nella seconda guerra cecena l’azione di bombardamento dell’artiglieria e dell’aviazione fino a radere praticamente al suolo il Paese e le truppe russe presenti sul territorio ceceno sono diminuite da 70mila a 60mila unità. Anche se si tratta di stime approssimative siamo lontani anni luce da quelle sparate da Lilin. Contano i carrarmati e gli elicotteri, non i fantolini.

Nonostante un costoso programma di ammodernamento per portare l‘esercito russo al livello tecnologico di quelli occidentali più avanzati, che comunque richiede tempo (la conclusione del programma è prevista per il 2020), le forze armate della Federazione sono di gran lunga le più forti dell’area ex sovietica ma hanno molti limiti. Soprattutto è urgente il passaggio a un esercito professionista e non di leva con i problemi connessi allo scarso addestramento.

Tornando al punto da cui siamo partiti, ci può stare che le fantasie romanzesche di Lilin, spacciate per vissuto personale, incontrino successo andando incontro ai gusti di un pubblico credulone e di bocca buona in cerca di un esotismo slavo da fogliettone criminale. Anche se lo scrittore russo Zachar Prilepin, che in Cecenia ha combattuto davvero, ed è membro del partito Nazional bolscevico (quello di Limonov), nonché autore di bellissimi libri editi da Voland come San’ka, si è dichiarato esterrefatto che in Italia e altrove ci sorbiamo le panzane raccontate da Lilin.

In un articolo intitolato La Russia artefatta che piace all’Occidente è sbottato su Educazione siberiana: “Ma siamo impazziti? La Russia sarà pure un Paese selvaggio, ma da noi è impossibile immaginare il romanzo di uno scrittore contemporaneo tedesco che racconti di come, nei boschi presso Berlino, si nasconda un reparto di ex SS, che insieme ai figli e ai nipoti, sulle note di Wagner e battendo il tamburo, rapinano i treni in transito. Ed è altrettanto impossibile immaginare che i lettori russi ci caschino e gli editori scrivano in copertina: “Ecco i figli del lupo della steppa, è più forte del Faust di Goethe“. Oppure proviamo a immaginare che in Russia arrivi uno scrittore francese di 22 anni e cominci a raccontare di essere stato tiratore scelto in Algeria o guastatore in Iraq, dove è riuscito a catturare uno dei figli di Saddam, e adesso scrive un libro in cui i commandos francesi mangiano rane e compiono prodezze straordinarie. E che gli pubblichino le sue storie dicendo “Finalmente un autore degno di Dumas e di Saint-Exupéry’. Impossibile!”

In Italia non solo è possibile, ma scatta pure l’invito televisivo a discettare di geopolitica. Insomma: non mi sembra il caso di tornare su Educazione siberiana, che purtroppo Salvatores ha trasformato in un film, e racconta una serie di cose inverosimili e cioè che Lilin discende da una tribù siberiana deportata in Moldavia ai tempi di Stalin che in Siberia viveva di rapine e in Moldavia ha continuato a sguazzare nel crimine ma secondo un codice di regole “oneste”, segretamente racchiuse in un codice di onore non scritto se non sulla pelle, vale a dire impresso nei tatuaggi. Già molti, in Italia e all’estero, tra cui Anna Zafesova della Stampa, hanno scritto quello che doveva essere scritto per ridicolizzare la verosimiglianza di quanto veniva spacciato non solo per realistico, ma addirittura per reale. Non solo per verosimile, ma pure per vero. Quello che più colpisce è che ci siano ancora dei giornalisti, delle trasmissioni televisive, che diano credito a Lilin, che lo prendano sul serio, quando non andrebbe preso più sul serio di un personaggio da bar di provincia che dice di avere un cugino che conosce uno che sa fare un colpo mortale e segreto e illegale di arti marziali.

Fino a qualche tempo fa l’expat di riferimento esperto di cose dell’Est in televisione almeno era un Predrag Matvejevic, discendente da una famiglia russa fuggita in nave da Odessa ai tempi della rivoluzione. Come siamo caduti in basso. Non un moldavo che si spaccia per discendente di una inesistente etnia criminale siberiana. Non a caso in Russia non lo traducono neanche. Ma quale censura putiniana! Si metterebbero a ridere. Qui lo si invita a pontificare in tivù.

12.4.14

Tetto stipendi: nessuno pensa ai giudici della Corte Costituzionale?

Giuseppe Valditara - Professore ordinario di Diritto Pubblico Romano (ilfattoquotidiano)

Il governo intende giustamente mettere il limite di 238.000 euro per gli stipendi dei dirigenti della Pubblica Amministrazione e dei manager delle società pubbliche o partecipate dallo Stato. Dirigenti apicali e manager pubblici hanno beneficiato finora di trattamenti economici esagerati in virtù della loro contiguità con il potere politico. Si propone adesso di commisurare le loro retribuzioni massime a quella del Presidente della Repubblica.

Vi è tuttavia una curiosa dimenticanza in tutto ciò: nessun limite viene stabilito infatti per i giudici della Corte Costituzionale. Matteo Renzi si è limitato ad auspicare che i poteri dotati di autonomia provvedano anche loro. Auspicio destinato chiaramente a non avere conseguenza alcuna posto che la retribuzione dei giudici della Corte Costituzionale è fissata da una legge costituzionale, la 87 del 1953, modificata in senso più favorevole da una legge voluta dal governo Berlusconi, la 289 del 2002. Il trattamento dei giudici costituzionali è dunque oggi commisurato alla retribuzione del primo Presidente della Corte di Cassazione, vale a dire 311.000 euro lordi annui, aumentato della metà.

L’indennità del Presidente della Corte è incrementato di un ulteriore 20%. A queste cifre, già molte elevate (467.000 euro circa per un giudice ordinario, 550.000 per il Presidente) si sommano una indennità giornaliera, pari ad un trentesimo della retribuzione mensile di un magistrato ordinario, ed un beneficio fiscale: l’imponibile è pari solo al 70% della retribuzione. Solo per fare qualche paragone, i giudici della Corte suprema del Regno Unito ricevono un appannaggio di 235.000 euro, gli omologhi canadesi percepiscono 216.000 euro, il Presidente della Corte suprema Usa prende 173.000 euro. La Corte costituzionale costa 61,5 milioni di euro all’anno – circa quattro volte quella britannica – e, in proporzione al numero dei membri, due volte e mezzo il Senato. Contrariamente a quanto ha lasciato intendere Renzi, il trattamento dei giudici costituzionali può essere modificato solo con una legge costituzionale e dunque, di fatto, solo con una iniziativa del governo.

Si potrebbe così tornare alla disciplina originaria prevista dalla legge del 1953, che si limitava a commisurare la loro retribuzione a quella del primo presidente della Corte di Cassazione, eliminando inoltre la diaria ed il beneficio fiscale. Se poi si volesse togliere solo l’aumento concesso nel 2002 basterebbe una legge ordinaria, posto che si tratta di disposizioni inserite nella legge Finanziaria. Si avrebbe così un risparmio non trascurabile, ma soprattutto una dimostrazione di coraggio da parte del premier. Se non altro sgombrerebbe il campo dalle insinuazioni malevole secondo cui la cautela di Renzi sarebbe dovuta alla volontà di blandire la Corte in vista di probabili ricorsi contro le sue riforme. Insomma la stessa critica che si fece a Berlusconi quando 12 anni fa aumentò le indennità dei giudici costituzionali.

Per un ulteriore approfondimento sulle nostre iniziative e le nostre proposte, vi invito a visitare la nostra pagina www.facebook.com/groups/crescitaliberta

11.4.14

Sanità, il soccorso diventa business 'L'obiettivo non è salvare, ma incassare'

In Italia si spendono ogni anno un miliardo e mezzo di euro per gli interventi di soccorso. Una pioggia di soldi che fa gola a politica e mafia
di Michele Sasso

Esistono mestieri in cui la professionalità non basta, ma servono una motivazione profonda e una disponibilità totale. Per questo far parte dell’equipaggio di un’ambulanza è sempre stata un’attività per volontari, animati dallo spirito degli angeli custodi. Ogni chiamata al 118 è questione di vita o di morte, una corsa che in pochissimi minuti decide il destino di una persona. Il paziente è nelle mani dell’abilità del guidatore a destreggiarsi nel traffico, della capacità del personale nel massaggio cardiaco e nella rianimazione. Adesso invece anche il soccorso d’emergenza sta diventando un ricco business: in Italia si spende un miliardo e mezzo di euro per garantire gli interventi. Oggi si punta al profitto, tagliando sulla qualità, risparmiando sui mezzi e imbarcando soggetti senza qualifica. Una torta che attrae interessi spregiudicati e lottizzazioni politiche, un serbatoio di soldi facili e posti assicurati. Perché il settore di fatto è stato investito da una deregulation, che rischia di creare un Far West a sirene spiegate.

Il ministero della Salute ha ceduto i controlli alle Regioni, che preferiscono affidarsi ai privati. Dalla Lombardia alla Calabria, dal Lazio alla Sicilia è scattato l’assalto all’ambulanza. Nunzia De Girolamo ha perso la poltrona di ministro proprio per uno scandalo sugli appalti del 118. Ovunque sono segnalati disservizi e a Sud nella mangiatoia si è infilata persino la criminalità. Questo ai danni di oltre 150 mila volontari, che vengono scacciati per fare spazio a organizzazioni spregiudicate. «Ci sono finti volontari che ricevono lo stipendio in nero mascherato da rimborso», spiega Mario, soccorritore di Torino. Il metodo è uguale da Milano a Napoli: le associazioni di pubblica assistenza, le cosiddette “Croci”, si iscrivono all’albo regionale e sgomitano per accaparrarsi le corse. L’obiettivo non è più salvare, ma incassare. «Abbiamo scoperto persino casi di autisti alcolizzati e soccorritori zoppi», racconta Mirella Triozzi, responsabile del settore per il sindacato medici italiani: «Con l’arrivo dei privati il soccorso è diventato un colossale affare, dimenticando che in ballo c’è la sopravvivenza di migliaia di persone».

SOCCORSO A MANO ARMATA In Puglia le 141 basi delle ambulanze costano 68 milioni di euro l’anno. La pioggia di denaro pubblico ha scatenato la concorrenza tra decine di onlus, che sgomitano per conquistare le postazione delle ambulanze: averne tre (il massimo consentito) significa fare bingo e incassare 120mila euro ogni mese. «Ai presidenti delle associazioni rimangono in tasca 6 mila euro al mese», riconosce Marco De Giosa, responsabile del 118 della Asl di Bari. C’è più di un sospetto su come siano stati assegnati gli incarichi: la procura del capoluogo sta indagando su un sistema di tangenti che sarebbero state smistate ai funzionari arbitri degli appalti. Stando alle inchieste, i controlli fanno acqua da tutte le parti. Nessuno ha mai chiesto la fedina penale a Marcello Langianese, ex presidente dell’Oer, Operatori emergenza radio, un ente morale con 50 ambulanze e decine di dipendenti. Langianese era il manager del soccorso che gestiva diverse postazioni tra Bari e Modugno. Mentre veniva stipendiato per salvare i pazienti, è accusato di avere architettato una rapina clamorosa. Secondo i carabinieri ha avuto un ruolo chiave nell’attacco contro un furgone portavalori nel centro di Ortona: un colpo che ha fruttato quasi due milioni e mezzo di euro. Nella regione per il business delle ambulanze si combatte persino con le bombe incendiarie, che hanno distrutto i mezzi di alcune onlus a Bari, Trani, Barletta e Foggia. A Turi, sempre nel Barese, hanno bruciato un’autolettiga nuova di zecca. L’ipotesi investigativa è che si tratti di avvertimenti criminali. Per evitare che le associazione di volontari possano spezzare il monopolio di un cartello che invece agisce solo a scopo di lucro.

COSCHE E SIRENE L’intercettazione è esplicita: «Quando ti chiamano e abbiamo bisogno a quell’orario di un’autoambulanza, mi fotto 1500 euro». È agli atti dell’inchiesta sui Lo Bianco, la cosca di Vibo Valentia che dominava la Asl locale, e spiega come ogni uscita a sirene spiegate si trasforma in denaro contante. Guadagni sicuri, costi ridottissimi: per entrare nel settore non sono richieste competenze particolari. L’imprenditore mette il capitale, acquista o noleggia i mezzi e cerca gli autisti. Va bene chiunque. Uno degli indagati è stato registrato mentre ingaggia il personale: «La guideresti l’ambulanza? La patente è quella della macchina, sono 800 euro puliti». Non è l’unico caso. Nello scorso luglio è emersa la vicenda della Croce Blu San Benedetto di Cetraro nel Cosentino. I magistrati sostengono che a gestirla fosse Antonio Pignataro detto “Totò Cecchitella”, seppur privo di incarichi ufficiali. Pignataro non è una pedina qualunque: è stato arrestato per i legami con il boss Franco Muto, “Il re del pesce”.

APPALTI LOTTIZZATI Quanti interessi si muovano dietro i 118 “liberalizzati” lo ha fatto capire la vicenda che ha travolto Nunzia De Girolamo. Le registrazioni dei colloqui tra l’esponente del centrodestra e i vertici della sanità sannita mostrano l’opacità del settore. Sono riuniti nel giardino di famiglia e Nunzia chiede: «In tutto questo si deve fare la gara?». La discussione verte su come “bypassare la gara pubblica” e favorire un’impresa amica. In quel luglio 2012 l’atmosfera attorno alle ambulanze di Benevento è incandescente, con i lavoratori che protestano per il mancato stipendio. Il servizio è nelle mani di due imprese: la Modisan e la Sanit che lo gestiscono in proroga intascando oltre quattro milioni di euro l’anno. La prima è molto vicina alla regina del Sannio, tanto da aver contribuito finanziariamente al congresso del suo partito. L’altra ditta, invece, non è allineata: «Quelli non li voglio», dice Michele Rossi, l’uomo messo dall’ex ministro alla guida dell’Asl. La lottizzazione riguarda pure la rete dell’assistenza, sfavorendo la copertura nei comuni guidati da giunte non allineate. Come racconta Zaccaria Spina, sindaco di Ginestra degli Schiavoni a 40 chilometri dal capoluogo:«Per venire da noi l’ambulanza ci mette un’ora. I cittadini ormai si sono rassegnati e se c’è un’emergenza si mettono in auto e scappano. Scoprire cosa c’era dietro quelle scelte dà molta amarezza».

ANIMATORI DA VACANZE Nel Lazio uno strano appalto agita i sonni dell’agenzia regionale che gestisce migliaia di ambulanze. La cronica mancanza di risorse ha portato l’ex governatrice Renata Polverini a concedere ai privati quaranta basi, le postazioni dalle quali partono gli equipaggi che coprono la provincia di Roma. Un affare da dieci milioni l’anno, senza gara: vengono assegnate per affidamento diretto alla Croce rossa italiana. Un’istituzione storica seppur piena di debiti, che decide di “girare” l’attività operativa a una srl di Milano, la Cfs costruzioni e servizi: una società specializzata in pulizia e manutenzione di immobili, che applica la logica del ribasso. Così al personale assunto per la missione capitolina viene offerto un contratto singolare: quello da animatore turistico. Soccorritori trattati come se lavorassero in un villaggio vacanze. Perché? Semplice: con questo contratto si risparmia un terzo della paga. Solo dopo un esposto del sindacato è scoppiato il caso. «In questo settore c’è il divieto di dare subappalti, eppure è quanto ha fatto la Croce rossa con l’aggravante di aver avallato condizioni di lavoro ridicole», accusa Gianni Nigro della Cgil Lazio.

PAGATI PER STARE A CASA In Sicilia anche le ambulanze sono diventate uno stipendificio: un pronto soccorso per favorire assunzioni di massa. Nel 2002 grazie a un corso per formare i guidatori-soccorritori con prove di guida banali e surreali test di comunicazione, ben 1600 persone vennero imbarcate in una società creata da Regione e Croce Rossa per garantire il salvataggio nell’isola. Un colosso con un totale di 3300 dipendenti. Che secondo la Corte dei Conti ha prodotto uno spreco di denaro pubblico. L’allora presidente Totò Cuffaro è stato condannato a pagare un danno erariale da 12 milioni per quell’infornata di autisti e soccorritori. Troppi. E troppo costosi. In Sicilia si spende per un’autolettiga 440 mila euro l’anno, contro 100 mila della Toscana. La ragione? Molte macchine sono praticamente ferme o escono solo per tre interventi al mese. L’ultima truffa da venti milioni di euro l’ha scovata l’assessore alla Salute Lucia Borsellino: negli ultimi due anni 160 dipendenti sarebbero stati regolarmente stipendiati mentre in realtà rimanevano a casa. Oltre 600 mila ore non lavorate ma retribuite. Nonostante lo sperpero di denaro, l’assistenza non soddisfa. E la giunta Crocetta ora vuole schierare la cavalleria dell’aria: sei elicotteri, con un costo per il noleggio di 178 milioni in sette anni.

SISTEMA MILANO Non è una questione solo meridionale. Dietro le sirene si scoprono ovunque storie di sfruttamento e drammatici disservizi. In Lombardia ogni anno il Pirellone stanzia 315 milioni per dare assistenza rapida: ogni intervento è una fattura e inserirsi nelle metropoli permette di moltiplicare i guadagni. Ma a Milano un incidente stradale ha scoperchiato un sistema marcio: l’ambulanza ha bruciato un semaforo e si è andata a schiantare. Si è scoperto che l’autista non dormiva da tre giorni. Da lì sono partite le indagini che hanno svelato quanto sia pericolosa la trasformazione del soccorso in business: precari a bordo pagati a cottimo e obbligati a turni massacranti, mezzi fuori norma, corsi d’addestramento fantasma. Tre inchieste parallele della Finanza in corso dal 2010 stanno svelando lo stesso meccanismo di truffe e peculato. Con risultati raccapriccianti: i responsabili di tre onlus - Croce la Samaritana, Ambrosiana e San Carlo - usavano il denaro pubblico destinato alle emergenze e alla formazione per le loro vacanze, per l’asilo dei figli, scommesse ai videopoker, le auto personali e perfino l’acquisto di una casa. Spese senza freno e i rischi scaricati su migliaia di feriti. Loro stessi ne erano consapevoli e dicevano cinicamente: «Se stai male non chiamare le nostre ambulanze sennò muori».

hanno collaborato Antonio Loconte, Piero Messina, Claudio Pappaianni e Giovanni Tizian

19.3.14

Noam Chomsky sulla Crimea: «Altro che feroce invasione»

Pio d'Emilia, (il manifesto)

Intervista. Il professore del Massachusetts Institute of Technology sui nuovi venti di guerra oriente-occidente, accusa i giornalisti di asservimento al pensiero comune e gli Usa di doppiopesismo

Di «pas­sag­gio» a Tokyo per una serie di affol­la­tis­sime con­fe­renze, abbiamo chie­sto a Noam Chom­sky, pro­fes­sore eme­rito di lin­gui­stica al Mas­sa­chu­setts Insti­tute of Tech­no­logy, il suo parere sui nuovi «venti di guerra» tra Occi­dente e Oriente, che agi­tano il pia­neta. E non solo per quel che riguarda la crisi ucraina e ora la Crimea.

L’Occidente sembra essere preoccupato da quello che qualcuno ha definito il «fascismo» di Putin.
E mentre tornano i toni da guerra fredda, la situazione, in Crimea, rischia di precipitare…


Non solo in Crimea, direi che anche qui, in Asia orientale, la tensione è altissima, tira una bruttissima
aria. Il recente riferimento del premier Shinzo Abe — per il quale non nutro particolare stima
— alla situazione dell’Europa prima del primo conflitto mondiale è più che giustificato. Perché le
guerre possono anche scoppiare per caso, o a seguito di un incidente, più o meno provocato. Quanto
alla Crimea, faccio davvero fatica ad associarmi all’indignazione dell’occidente. Leggo in questi
giorni editoriali assurdi, a livello di guerra fredda, che accusano i russi di essere tornati sovietici,
parlano di Cecoslovacchia, Afghanistan. Ma dico, scherziamo? Per un giornalista, un commentatore
politico, scrivere una cosa del genere, oggi, significa avere sviluppato una capacità di asservimento
e subordinazione al «pensiero comune» che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare. Ma come
si fa? Mi sembra di essere tornato ai tempi della Georgia, quando i russi, entrando in Ossezia e occupando
temporaneamente parte della Georgia, fermarono quel pazzo di Shakaashvili, a sua volta (mal)
«consigliato» dagli Usa. I russi, all’epoca, evitarono l’estensione del conflitto, altro che «feroce
invasione».
Per carità, tutto sono tranne che un filo russo o un fan di Putin: ma come si permettono gli Stati uniti,
dopo quello che hanno fatto in Iraq – dove dopo aver mentito spudoratamente al mondo intero sulla
storia delle presunte armi di distruzioone di massa, sono intervenuti senza un mandato Onu
a migliaia di chilometri di distanza per sovvertire un regime – a protestare, oggi, contro la Russia?
Voglio dire, non mi sembra che ci siano state stragi, pulizie etniche, violenze diffuse. Io mi chiedo:
ma perché continuamo a considerare il mondo intero come nostro territorio, che abbiamo il diritto,
quasi il dovere di «controllare» e, nel caso, modificare a seconda dei nostri interessi? Non è cambiato
nulla, alla Casa Bianca e al Pentagono, sono ancora convinti che l’America sia e debba essere
la guida – e il gendarme – del mondo.

A proposito di minacce, oltre alla Russia, anche la Cina e il Giappone fanno paura? Chi dobbiamo
temere di più?


Dobbiamo temere di più gli Stati uniti. Non ho alcun dubbio, e del resto è quanto ritengono il 70%
degli intervistati di un recente sondaggio internazionale svolto in Europa e citato anche dalla Bbc.
Subito dopo ci sono Pakistan e India, la Cina è solo quarta. E il Giappone non c’è proprio. Questo
non significa che quello che stanno facendo, anzi per ora, per fortuna, solo dicendo i nuovi leader
giapponesi non siano pericolose e inaccettabili provocazioni. Il Giappone ha un passato recente che
non è ancora riuscito a superare e di cui i paesi vicini, soprattutto Corea e Cina non considerano
chiuso, in assenza di serie scuse e soprattutto atti di concreto ravvedimento dal parte del Giappone.
Proprio in questi giorni leggo sui giornali che il governo, su proposta di alcuni parlamentari, ha
intenzione di rivedere la cosiddetta «dichiarazione Kono», una delle poche dichiarazioni che ammetteva,
esprimendo contrizione e ravvedimento, il ruolo dell’esercito e dello stato nel rastrellare decine
di migliaia di donne coreane, cinesi e di altre nazionalità e costrigendole a prostutirsi per «ristorare»
le truppe al fronte.

Già, le famose «donne di ristoro», tuttavia ogni paese ha i suoi scheletri. In Italia pochi sanno che
siamo stati i primi a gasare i «nemici» e anche inglesi e americani non scherzano, quanto a crimini
di guerra nascosti e/o ignorati

Assolutamente d’accordo. Solo che un conto è l’ignoranza, l’omissione sui testi scolastici, un conto
è il negazionismo: insomma, in Germania se neghi l’olocausto rischi la galera, in Giappone se neghi il
massacro di Nanchino rischi di diventare premier.

16.3.14

Un mondo in cerca di governance

Guido Rossi (ilsole24ore)

Si stanno oggi svolgendo le operazioni di referendum in Crimea per decidere il distacco dall'Ucraina e la eventuale adesione alla Federazione Russa, alla quale aveva appartenuto fino al 1954.
Il ricorso alla forma più classica di democrazia diretta, come il referendum, rivela purtroppo, anche in questo drammatico caso, la mancanza di una governance mondiale, poiché l'esito positivo di quel referendum non sarà riconosciuto né dagli Stati Uniti, né dall'Unione Europea.
Il processo di annessione alla Russia ha peraltro caratteristiche sostanziali di natura puramente militare decisamente palesi. Le truppe di Mosca, all'interno della Crimea e ammassate minacciose ai confini dell'Ucraina, non nascondono le intenzioni del Cremlino, in particolare di Putin, di un confronto diretto internazionale con gli Stati Uniti d'America dettato da esigenze di politica militare di dominio, sdegnosa di qualsivoglia diplomazia o mediazione e foriera di possibili pericoli d'ogni genere, da tempo dimenticati in Europa.
A livello internazionale assistiamo dunque all'uso della democrazia attraverso il voto popolare sovrano, suo limitato e spesso erroneo sinonimo, ma sovente, come qui, apparente strumento di legittimazione del potere.
È pur vero che l'uso strumentalmente abusato di forme democratiche, rivelatore di una ricerca costante ancorché di volta in volta diversa, ma di identica matrice, si verifica anche a livello di Unione Europea.

La sovranità popolare è infatti estranea sia all'organo di governo, cioè la Commissione, sia al Consiglio e soprattutto alla Bce, la quale certamente costituisce, come esattamente scrive Etienne Balibar, un tentativo di "rivoluzione dall'alto", nell'epoca in cui potere economico, finanziario e politico non si distinguono più l'uno dall'altro. Eppure sarebbe ben difficile non riconoscere la sovranità di fatto della Bce nella sua determinante influenza sulle politiche economiche degli Stati membri, ad iniziare dalle imposte politiche di austerità e di rigore di bilancio, introdotte poi passivamente anche a livello costituzionale dagli Stati membri.
Nello stesso tempo sono messe a repentaglio l'indipendenza, la legittimazione e la stessa sovranità degli Stati nazione, via via svuotati di identità. E tutto ciò avviene nella totale subordinazione del Parlamento europeo ai poteri esclusivi di iniziativa legislativa della Commissione che ha, in qualche misura, sanzionato la perdita di ogni riscontro democratico da parte di uno dei tre poteri fondamentali, cioè quello legislativo.
Prima di continuare il discorso, sembra purtroppo necessaria una parentesi che dimostra chiaramente il carattere generale di questo deficit di democrazia, globalmente individuabile nell'ambito delle democrazie liberali anche a livello interno dei singoli Stati nazione. Basterà un riferimento, pur trascurando quelli nostrani, agli Stati Uniti d'America, dove un recente editoriale del New York Times dall'inquietante titolo "The Dying Art of Legislating" riporta l'allarmante fenomeno delle dimissioni volontarie dal Congresso di ben 21 membri della Camera e 6 senatori, tutti autorevoli e ben noti per i loro fondamentali contributi all'attività legislativa negli ultimi decenni, i quali motivano le loro dimissioni perché il Congresso non legifera più, sanzionandone, conclude l'articolo, la decadenza del ruolo nella vita della nazione americana.

11.3.14

«Bisogna mettere le quote blu» (intervista a Chiara Saraceno sul Manifesto)

«Bisogna mettere le quote blu»
«Ma quali quote rosa. Guardi sono categorica: qui il problema vero è di quote blu, o azzurre se preferisce, nel senso che va ridotto il numero di uomini presenti in parlamento. Bisogna mettere fine a questo monopolio. Ecco cosa servirebbe davvero: una norma antimonopolistica». Chiara Saraceno, sociologa che da anni si occupa anche della condizione femminile, guarda con occhi quasi indignati a quanto accade in questi giorni in parlamento. «Sono stanca che la questione venga sempre formulata in termini di quote delle donne», dice. «Non si tratta di un problema solo lessicale, ma concettuale e di prospettiva: la questione è la riduzione del monopolio maschilee infatti è proprio così che chi si oppone lo sta percependo: come la rottura di un monopolio. E’ per questo che in un quadro istituzionale come quello che si sta delineando e che trovo particolarmente orroroso, in cui sono rimasti i listini bloccati, in cui nessuno entra perché ha particolari meriti ma solo perché scelto da qualcun altro, non si instauri il principio dell’alternanza nelle liste, un uomo e una donna. Così si afferma che gli uomini sono più bravi. Cicchitto e Gasparri dicono: «Bisogna che le donne provino il merito». Ma perché loro l’hanno provato?
Lei dice: è anche una questione di linguaggio. Ma non sarà che in realtà le donne non sono convinte di queste battaglia? E poi c’è un dato di fatto: sono le donne che non votano le donne.
Questo non lo può più dire. Lo dicevamo quando io ero giovane, che le donne non votavano le donne, ma c’erano le preferenze. E anche allora non era facilissimo, perché uno doveva andare a cercarle con il lanternino visto che i partiti che le mettevano in lista poi non le rendevano anche visibili. Ma è da un bel pezzo che non è più così.
Ciò non toglie che solo la minoranza delle deputate ha firmato al petizione sulle quote rosa.
Che difficoltà tradisce questo dato?
Difficoltà multiple. Primo: a nessuna di noi piace essere una quota, perché viene percepita come una quota protetta, scelta non sulla base del merito ma perché riempie appunto la quota. Come se gli uomini poi fossero sempre scelti sulla base del merito. Credo inoltre che ci sia anche il timore di inimicarsi gli uomini, e quindi di non essere più messa in lista. Per quanto riguarda il Pd, poi, Renzi ha dato un messaggio chiarissimo: non è un tema importante, non ha fatto parte delle negoziazioni.
Però Renzi dice: io la parità la pratico.
Ma questo non mi importa, perché il problema non è che il singolo individuo pratichi la parità, cosa oltretutto falsa perché sì, è vero che il 50% dei ministri sono donne, ma tre sono senza portafoglio.
Ma comunque la parità non può essere affidata alla pura buona volontà. Renzi ha anche detto: la vera parità è che le donne prendano lo stesso stipendio degli uomini a parità di lavoro. Già, ma le donne spesso non riescono neppure ad avere la parità di lavoro. E allora tu devi garantire che possano correre con le stesse possibilità.
Ma è giusto stabilire la parità di genere per legge?
La parità nella corsa sì, assolutamente. Vede, io a lungo ho sperato che sarebbe avvenuto un mutamento culturale, ma così non è stato. Anche Paesi culturalmente più evoluti del nostro per arrivare a un riequilibrio tra uomini e donne in parlamento hanno dovuto in qualche modo introdurre un sistema di riduzione della quota maschile. Questo è avvenuto in modi diversi: in alcuni Paesi per legge, in altri grazie ad alcuni partiti che hanno cominciato a farlo e gli altri hanno capito che non potevano restare fuori da questa competizione. Ma in nessun caso la cosa è avvenuta in modo evolutivamente naturale, altrimenti ci sarebbero voluti duecento anni.
Il fatto che il governo si sia rimesso all’aula non è la prova che se ne lava le mani? Così come i partiti che hanno lasciato libertà di votare secondo coscienza.
E’ gravissimo. Ed è interessante la scelta dei partiti che considerano l’intera questione un caso di coscienza, non un caso di democrazia. Ma trovo gravissimo anche che le ministre non si siano espresse. Se loro sono lì, al governo, non è perché Renzi è bravo, ma perché in passato ci sono state delle lotte che hanno fatto sì che il problema della rappresentanza femminile venisse fuori e maturasse.
Quindi hanno delle responsabilità nel farsene carico. Il loro silenzio invece fa paura.

Perché La Grande Bellezza è un capolavoro

Roberto Cotroneo

Tolgo qualche ora alla scrittura di un saggio dedicato alla creatività perché ho bisogno di spiegare il motivo per cui ritengo La Grande Bellezza un film magnifico. Lo faccio dopo l’assegnazione del premio Oscar al film, e lo faccio il giorno dopo averlo visto al cinema: ormai ero determinato a capire il perché buona parte del mondo intellettuale italiano, spesso sussurando tra una cena e un aperitivo, lo ritenesse un film brutto e sbagliato, o comunque in ogni caso sopravvalutato. Volevo capire perché si ripetesse come un noioso argomento che quella era l’immagine dell’Italia che piace agli americani. E volevo vedere se fosse mai vero che si trattava di una scopiazzatura di Federico Fellini, e ancora di più se poteva avere un senso un’altra delle tante cose che ho sentito sul film di Paolo Sorrentino: che era costruito per prendere l’Oscar. Come se fosse mai possibile una cosa simile.

Non avevo visto La Grande Bellezza quando uscì per molti motivi. Vado poco al cinema (spesso mi annoiano i film che si producono oggi) e non mi era piaciuto Il Divo, che avevo trovato un film sbagliato, dove il ragionamento estetico sul potere, e la figura di Andreotti, raggiungevano un paradosso che a suo tempo avevo trovato un po’ stucchevole. Insomma avevo trovato Il Divo un’idea molto bella, ma anche un’occasione persa. Per cui non mi si poteva annoverare tra i fan di Paolo Sorrentino, ma neppure tra i detrattori, visto che mi erano piaciuti molto L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore. Questo per la premessa.

Ma quando leggo in giro, e quando ascolto in giro giudizi negativi così netti mi insospettisco. Quando utilizzo l’espressione in giro intendo nell’ambiente che mi appartiene, e che conosco assai bene, forse meglio di tutti quelli che dell’ambiente fanno parte. Parlo dei giornalisti, degli scrittori, dei critici e in genere degli intellettuali italiani, che ho conosciuto uno a uno, anche se non li ho mai frequentati molto (non sono salottiero, ho da sempre delle timidezze relazionali che mi vengono da una parte di anima sabauda e provinciale che quasi 30 anni di Roma non mi hanno scrollato ancora di dosso). Così, non essendo riuscito a vedere La Grande Bellezza in televisione, sono andato al cinema. Ancora meglio: niente interruzioni pubblicitarie, concentrazione, e visione degna di quello che chiamiamo spettacolo.

Non mi aspettavo niente, ma una cosa mi balenava per la testa: eccetto Bernardo Bertolucci, non avevo sentito da nessuno parole profonde che mi accendessero una curiosità sul film. Solo banalità distaccate. Per quel poco che conosco Bertolucci non è un uomo che usa l’espressione, «è un film che ti resta dentro», a caso. Ha un uso delle parole che è quello di suo padre Attilio, un uomo meraviglioso, un grande poeta, che sorrideva sempre (a proposito degli intellettuali conosciuti, e di un’altra Italia che non esiste più).

Dopo pochi minuti de La Grande Bellezza avevo capito che mi trovavo di fronte a un film magnifico, scritto per uno spettatore colto, sofisticato, capace di entrare fino in fondo dentro un sogno che scardina tutti i luoghi comuni e le banalità che certo cinema e certo mondo intellettuale propinano da trent’anni. Solo che Sorrentino nella sua fortuna è sfortunato. In Italia non c’è più una classe culturale e giornalistica, un’intellighentia che possa capire un film del genere e apprezzarlo. Esiste solo fuori d’Italia. E infatti lo hanno premiato gli americani, ma non perché hanno visto una certa immagine dell’Italia. Questo film non è sull’Italia, ma è un film sulla religione e sulla morte, sul sesso, sul potere, sulla dissoluzione della storia. E solo Roma poteva permettere questo. L’unica città dove la storia si manifesta in strati sovrapposti, in strati di pietre che cambiano dall’età Augustea al Medioevo, dal Rinascimento al Barocco fino al periodo Umbertino e al Novecento.

Certo ci voleva coraggio a mettersi a girare un film che non è scritto secondo le regole rimbambite che insegnano in tutte le scuole di regia e sceneggiatura e che stanno mandando all’ammasso il cervello di tutte le nuove generazioni. Ci voleva coraggio a spazzare via con una mirabile battuta qualsiasi impegno politico, qualsiasi riferimento alla nostra sinistra, alla nostra destra, alla politica corrotta, e agli ideali. Jep Gambardella liquida tutto una sera sul suo terrazzo quando spiega a Stefania chi è lei veramente, demolendola. Forse è lì che una parte dei nostri critici binari (ovvero capaci solo di una scarnata dicotomia come: bello/brutto) ha cominciato a sviluppare una certa antipatia per Jep e per Sorrentino.

Davvero scrittori e giornalisti, intellettuali e artisti, sono stati solo degli ininfluenti provinciali affannati a prendersi un po’ di gloria con qualche spinta in Rai, o qualche posto di potere culturale dove compiacere la grande politica, quella che ci avrebbe resi tutti migliori, oltre che compiacere se stessi?

Ho visto ne La Grande Bellezza trent’anni della mia vita. Ma forse anche 50 anni, per quello che 30 anni fa mi raccontavano i più vecchi, quelli che avevano vissuto il dopoguerra, gli anni 50 e 60. Ed era questo. Era il racconto di Sorrentino nel film. In questa Roma struggente, che è struggente per qualsiasi provinciale che ci arriva da fuori (vale per me, per Sorrentino, e ancor di più per Fellini) è come se fosse in atto una dissoluzione che non è solo fisica, non è solo morale (quanta morale, nel cinema italiano, quanto neorealismo camuffato quando ormai si era fuori tempo, quanta pedagogia politica mascherata da arte, bellezza, ed estetica… basti solo pensare a casi come La meglio gioventù) ma è una dissoluzione ancestrale, come se la storia trasudasse comunque da tutto.

Quel Colosseo che incombe non è uno specchietto per gli americani che lo fotografano, e non è il simbolo di una grandezza perduta, è il capro espiatorio, la pietra del sacrificio, il luogo di un martirio che non finisce mai. Ed è il martirio consapevole di una modernità e di una contemporaneità che non è in grado di comprendere perché non c’è niente da comprendere.

Ovvio che Toni Servillo è un grandissimo attore. Ovvio che il film senza di lui non sarebbe immaginabile. Ma non è solo questo. Questo è un film fitto di contaminazioni musicali, di citazioni. E le citazioni non sono solo quelle felliniane, che i critici binari comprendono subito, ma ad esempio c’è Todo Modo di Elio Petri. Il vero film sul potere che Sorrentino ha girato è proprio La Grande Bellezza, e non Il Divo. Il vero film sul potere del divino e sul mistero originario è questo.

Ho conosciuto il mondo di Jep Gambardella. Non è importante se le feste fossero in quel modo oppure no. La Grande Bellezza non è un film felliniano e non è un film realista. È un film sorrentiniano, perché ormai il termine ci sta. Ho visto quei giornalisti, quegli scrittori, ho ascoltato argomentare in quel modo. Ho visto quei mondi mescolati in epoche diverse. Quando gli anni Settanta avevano appena smesso di bruciare, e sembravamo un paese destinato a fare scuola, e persino ora che non contiamo più nulla da nessuna parte. Sono entrato in case come quelle. Esistono. Ed esistono corridoi che portano sempre là in fondo, a quelle chiavi che aprono giardini e palazzi inaccessibili, a persone che tolgono la camicia e scopri che portano il cilicio, a religiosità strane, sincretiche, eclettiche dentro volti, ruoli, pensieri, azioni e corpi che neanche immagineresti. Ho conosciuto uomini di fiducia e uomini sfiduciati. Ho visto gente capace di mandare al diavolo una carriera per il sesso e gente che con il sesso ha costruito un potere profondo, incancellabile, ma non roboante e volgare, peggio: invisibile. Ho visto candore nel potere e potere nel candore. Vecchiaia repellenti che odoravano di saggezza ma anche di pochezza e di vergogna. Ho ascoltato discorsi tutti uguali per anni, di gente che non sapeva cosa stesse dicendo ma soprattutto perché. E mentre queste complessità si legavano assieme una all’altra, generando una classe di potere nuova e sottile che nulla aveva a che fare con il censo, con la cultura e con le posizioni sociali e professionali, dall’altro lato si creava una nuova semplicità sempre più isolata, che andava a occupare caselle che non interessavano più a nessuno.

È quello che si vede nel film. Le attricette che valgono sempre più dei ruoli che vengono loro offerti, gli attori che assomigliano alle pubblicità di Dolce e Gabbana, gli scrittori che sembrano degli sceneggiatori che si sono persi il produttore, e i produttori che guardano alla crisi e investono in commerciabilità e semplicità. Le fiction morali, i fotoromanzi dei nostri giorni rivolti a shampiste e intellettuali, dove l’eroismo è semplice, la storia è lineare, dove vincono i buoni, e l’olezzo dei cattivi non arriva da nessuna parte. E attorno a questa roba c’è un mondo di uffici stampa, di parole, di feste, di eventi, di visibilità, ma soprattutto di oscenità nel senso della messa-in-scena che nessuno è stato capace di girare come Sorrentino.

A Paolo Sorrentino sono bastate un paio di feste per chiudere l’argomento. Altri ci avrebbero girato un film intero, e inutilmente. Lui invece torna di continuo a quelle fontanelle sul Gianicolo, quei luoghi di clausura che intravedi, e dove non entri, il sogno dell’hortus conclusus.

Non c’è la bellezza in questo film. Non ci sono attrici strepitose, modelle scelte con la lente di ingrandimento, prelevate direttamente dalle campagne dei sacerdoti di questa dissoluzione: gli stilisti, o se preferite, i sarti. La più bella è Ramona, Sabrina Ferilli, che ha 50 anni. E muore di una malattia che non si sa, che non può curare.

Ai critici ha dato fastidio che Sorrentino non abbia puntato il dito su ogni cosa, non abbia indicato il nemico culturale e politico, non abbia raccontato con il plot. I critici non hanno capito che nella Roma a strati lui sta un po’ più sotto di loro, verso i riti più antichi, verso il punto originario di tutto. E per loro i giusti tributi a quella che è l’influenza, la tradizione culturale non è altro che «fare il verso», come dicono loro. E invece non è un verso, è un proseguire in un discorso che inizia dal Rossellini de La presa del potere di Luigi XIV, continua con il Fellini romano, prosegue con Petri, sia con Todo Modo e sia con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ai critici non interessa che in Toni Servillo c’è un superamento di Gian Maria Volontè. Nel senso che da Volontè prende il registro paradossale e grottesco, ma arriva là dove quei tempi ideologici non potevano consentire. Arriva a René Girard, arriva alla Roma nera, antipositivista, reazionaria. Arriva allo sberleffo della Commedia dell’Arte. Mette l’orologio della storia prima della nascita dei partiti di massa, della Psicologia delle folle di Gustav Le Bon. Guarda fino ai boschi sacri dei dintorni di Roma, fino a una religiosità pagana dove i miracoli e le apparizioni sono un chiacchierare sommesso, profondo, di una città che non si è mai dimenticata di aver stampato le opere magiche di Giordano Bruno, quelle di Girolamo Cardano, e aver dato asilo, in ogni caso, al meglio degli irrazionali, dei maghi, degli alchimisti, degli stregoni e naturalmente degli imbroglioni che l’Europa potesse vantare.

In quelle vecchiaie sdentate de La Grande Bellezza non c’è bellezza, come non c’è bellezza in quelle feste, in quei personaggi patetici e stanchi, in quella via Veneto deserta che abbiamo visto tutti. E tutti, passandoci di notte, quando non non arrivano echi di niente, se non sguardi ammiccanti di buttadentro che sperano tu sia un turista buono per locali da lap-dance, abbiamo ricordato intere sequenze della Dolce Vita come servissero a scaldarci da quel gelo.

Non è quello che si è perduto a preoccuparci, è quello che è rimasto comunque ad affascinarci. E Sorrentino a farcelo entrare nella testa, a lasciarcelo dentro, come dice Bertolucci, è di una bravura stupefacente. Non ho usato il verbo raccontare, e l’ho fatto di proposito. Un’altra caratteristica del critico binario, del produttore binario, del capo delle fiction binario, del regista binario è questa: hai una storia da raccontare? Se hai una buona storia… Questa storia a un certo deve avere una svolta… Sorrentino non racconta storie, ti inietta il penthotal. E poi sono fatti tuoi. Il film non ha svolte. Mentre lo vedevo mi chiedevo se non potesse essere montato in cento modi diversi, se ogni dettaglio non valesse in sé. Come se l’anima del film potesse resistere a tutto, soprattutto ai precetti idioti che si trasmettono con religiosa competenza alle nuove generazioni: il ritmo, la svolta, la messa a fuoco dei personaggio, le sottostorie che nei film ci devono essere. E via dicendo. Non mi stupirebbe se qualcuno mi dicesse che nessuno ha mai scritto questa sceneggiatura. E non mi stupirebbe se Sorrentino un giorno dichiarasse: ho fatto questo film per raccontare Roma, la morte, e il vuoto. Punto. Come Eco raccontò di aver scritto Il nome della rosa perché voleva «avvelenare un monaco».

Che poi un film così complesso, che non può essere visto una sola volta, sia piaciuto all’Academy (e non solo a loro) è la dimostrazione che siamo noi dei provinciali. Noi che ancora pensiamo, attraverso un’ideologia bolsa e trita che ancora resiste anni e anni dopo la fine delle ideologie, che «gli americani» sono dei semplicioni, banali, capaci di vedere l’Italia come una cartolina svampita. Quando è sempre stato l’opposto: un tempo come oggi. Ma si sa, le nostre cattedre di storia del cinema nelle università erano quasi sempre tenute da gente che non andava più a ovest di Miklós Jancsó, e chi sa di cosa parlo capisce quel che dico.

In questo film sul vuoto, sul divino che alle volte sembra andarsi a svilire in una bellezza scheggiata, consumata dal tempo, in questo lungo viaggio dentro una perdita di identità che sta nelle cose, e non potrebbe essere altrimenti, oltre questa rassegnazione alla pochezza, non resta niente. Non resta la vita com’era, il diario della vecchia fidanza di Jep, la povera bellezza di Ramona, la grottesca potenza di Dadina, l’ipocrisia di Stefania, e via dicendo. Niente resta perché niente doveva restare. Neppure il mafioso del piano di sopra riesce a resistere. Solo quello spettacolo, fuori da quel terrazzo, di quel Colosseo che non è affatto l’Anfiteatro Flavio come tutti credono. Ma un luogo spolpato dalla storia, privato dei marmi, crollato per i terremoti, dimenticato, abitato da famiglie nobiliari che ci costruirono dentro case poi demolite, restaurato alla meglio perché non crollasse. Un luogo che è antico, ma è anche ricucito come si è potuto, immaginario di un passato, monumento che non ha neppure la forza di sorreggersi da solo. E soprattutto luogo sinistro, di sacrificio e perdizione. Così muore la carne, titolava Samuel Butler un suo grande romanzo postumo, sul sesso, sulla tragressione, un testo contro la sua epoca, l’epoca vittoriana. E Così muore la critica in questo italianissimo vittorianesimo culturale in cui viviamo, dove lo scandalo è nelle idee, e non nella dissoluzione; dove ci si vergogna ad argomentare e a rompere le righe più che a praticare pubblicamente una fellatio.

Sorrentino ha girato un film che è un punto di partenza per tutti quelli che avranno coraggio e avranno voglia di ricominciare davvero. Ha segnato l’anno zero dei prossimi tempi. E non posso che ringraziarlo per tutto questo.

8.3.14

E ora, la Grande Barzelletta

Antonio Armano (Il Fatto Quotidiano)

"Poi volevo ringraziare l'odore delle case dei vecchi. E la fessa. Soprattutto la fessa, fessa, fessa!". I "denghiù" hollywoodiani di Paolo Sorrentino sono diventati un tormentone nei social network, con infinite variazioni sul tema (dicesi meme). Quello che avete appena letto è preso dalla pagina Facebook "Sorrentino Ringrazia", e usa una delle citazioni più note del film: "A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: ‘La fessa'. Io, invece, rispondevo: ‘L'odore delle case dei vecchi'. La domanda era: ‘Che cosa ti piace di più veramente nella vita?'.

Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella". C'è chi ironizza dicendo che il problema di Sorrentino non è che si crede solo Fellini quanto che si crede pure Flaiano, cioè la butta in frasi a effetto, ma senza avere lo stesso talento. Problema! Se vinci un Oscar e il film con cui lo vinci passa su Canale 5 ed è il più visto da dieci anni a questa parte, la parola problema non è azzeccata. Dobbiamo aggiungere, ai colpi messi a segno, anche la paraculissima pubblicità istantanea della Fiat 500 (definita "La piccola grande bellezza" dal regista nel ruolo di testimonial).

Le capacità recitative non appaiono eccelse, per trovare di peggio bisognerebbe ripescare lo spot di Francesco Moser sul detersivo ("C'erano patacche grosse come medaglie"). Avranno chiesto a Tony Servillo, ma lui si sarà rifiutato. Si dice che l'idea sia stata di Lapo, che quanto a comunicazione ne capisce molto più del fratello John Elkann, reduce dalla infelice sparata sui giovani italiani che "non trovano lavoro perché stanno bene a casa".

Le capacità recitative di Sorrentino risultano poco convincenti pure nella reazione allo scherzo de Le Iene Pio e Amedeo. A Los Angeles l'hanno attirato in trappola facendolo chiamare da un falso agente di Di Caprio: Leo vuole complimentarsi per l'Oscar e chiede un incontro all'hotel Roosevelt per parlare di lavoro. Sorrentino ci casca e, di fronte alle Iene che gli chiedono un po' di sana autoironia napoletana, cerca di togliersi dall'imbarazzo del silenzio succhiando mentine e facendo il dito medio mentre sgomma via dal parcheggio col Suv (mica la 500).

Ma se c'era qualcuno cui fare uno scherzo quello casomai è DiCaprio, che si è preso l'ennesima sòla assistendo al trionfo altrui. E infatti di meme ce n'è anche per lui. Questo il più cinico: va a finire che faranno un film sul bravo attore di The Wolf of Wall Street, morto senza mai vincere l'Oscar, e l'attore che lo interpreta vincerà l'Oscar. Mah.

Due vittime. È questo il bilancio di una tragica rissa, la decima della serie a Roma, scoppiata al Prenestino tra alcune coppie che in trattoria discutevano su La grande bellezza. All'aggettivo "kierkegaardiano" uno dei commensali ha tirato fuori la P38 e c'è scappato il morto, anzi due. Il commissario di polizia del Prenestino VII ha dichiarato:

"Chiediamo maggiore tatto, in primis da parte dei media, e che non si ripeta più un uso tanto spropositato di aggettivi". Naturalmente si tratta di una bufala, e non per niente l'ha creata il blog Il Menzogniero, parodia del Messaggero , ma non manca chi l'ha presa per vera. Come tale Adriana Bellucci: "Non credo che il problema sia La grande bellezza di Sorrentino (che a me è piaciuto), l'uomo deve guardarsi bene dentro e cercare di capire perché sta impazzendo". Considerate le polemiche sul film, che si trascinano dall'uscita, la bufala è quasi credibile.

Nei giorni in cui Odessa, unico porto sul Mar Nero rimasto agli ucraini, è tornata alla ribalta della cronaca, La corazzata Potëmkin, il celebre film girato sulla scalinata di quella città e l'ancor più celebre commento fantozziano, poteva restare nell'ombra?

La grande bellezza è una cagata pazzesca è il video che gira sui social network e dove al classico film di Ejzenštejn si è sostituito quello di Sorrentino. Seguono: "Novantadue minuti di applausi". E probabilmente tra i dieci milioni di italiani che hanno visto il film in tivù chissà quanti l'avranno pensata come Fantozzi, convinti di trovarsi davanti a un prodotto ben più commerciale e veloce.

Il giorno dopo, poi, tutti a dire che era lento e deludente, o bellissimo, signora mia: siamo un popolo di allenatori e ora anche di critici cinematografici da Facebook, il vero bar sport italiano. Speriamo che si torni presto a mettere foto di gattini, di piedi e i meme di Renzi, commentava qualcuno.

Ma se solo un tormentone può scacciare un altro tormentone, bisogna ringraziare Sorrentino di avere spodestato Renzi.

Qui si passa per forza a quello che ormai si chiama "generatore di ringraziamenti". Vale a dire lo schema reso famoso dal discorso del denghiù che secondo il sito Jacopocolo.com   si presta a infinite variazioni rispetto ai destinatari (Fellini, Talking Heads, Maradona eccetera): "Grazie alle mie fonti di ispirazione: Eddy Murphy, Marco Materazzi, Cher e i magneti con le frasi simpatiche". Era meglio se Sorrentino ringraziava davvero la fessa e l'odore delle case dei vecchi. Sarebbe stato geniale.

7.3.14

Ecco il nuovo esecutivo ucraino. Il clan Tymoschenko, i nuovi oligarchi, i neonazisti di Svoboda

Matteo Tacconi  (il manifesto)

Per gli occi­den­tali è il governo legit­timo dell’Ucraina, per Mosca un ese­cu­tivo gol­pi­sta. Ma a pre­scin­dere dai rispet­tivi punti di vista, al momento nei mini­steri di Kiev si sono piaz­zate que­ste per­sone. Chi sono di pre­ciso? Quali le loro bio­gra­fie? A quali cir­coli di potere rispon­dono? Più che da chi rico­pre posi­zioni, si può par­tire da chi non ne ha. È il caso di Vitali Kli­tschko e del suo par­tito, Udar, for­ma­zione cen­tri­sta e filo-occidentale con sta­tus di osser­va­tore nel Par­tito popo­lare euro­peo. Dal quale, assieme alla fon­da­zione Kon­rad Ade­nauer, filia­zione della Cdu tede­sca, ha rice­vuto lezioni di poli­tica e tec­nica par­la­men­tare, scri­veva a dicem­bre Der Spie­gel. Ci si chie­derà come mai Kli­tschko, che ha cer­cato di accre­di­tarsi come guida cari­sma­tica della pro­te­sta, almeno prima che dege­ne­rasse, non ha voluto assu­mere respon­sa­bi­lità di governo. Per qual­che ana­li­sta l’ex pugile, che punta alla pre­si­denza, non intende spor­carsi le mani con i prov­ve­di­menti impo­po­lari che il pac­chetto d’aiuti euro­peo, pronto a essere scon­ge­lato, dovrebbe imporre. In più sta­rebbe emer­gendo una con­trap­po­si­zione sem­pre più mar­cata — ed era pre­ve­di­bile — tra Udar e Bat­ki­v­schyna (Patria), il par­tito di Yulia Tymo­shenko.
La for­ma­zione della pasio­na­ria di Kiev ha fatto incetta di mini­steri, pro­ba­bil­mente sulla base di un ragio­na­mento oppo­sto a quello di Kli­tschko: dimo­strare di sapersi cari­care il paese sulle spalle. A gui­dare la com­pa­gine mini­ste­riale c’è Arse­niy Yatse­niuk, luo­go­te­nente della Tymo­shenko. Nomina scon­tata. Nelle scorse set­ti­mane la evocò anche l’assistente al segre­ta­riato di stato ame­ri­cano, Vic­to­ria Nuland, nel leak in cui si lasciò sfug­gire il «fuck the Eu». Accanto a Yatse­niuk ci sono figure di spicco del par­tito. Pavlo Petrenko è andato alla giu­sti­zia, Mak­sim Bur­bak alle infra­strut­ture e Ostap Seme­rak, con­si­gliere di poli­tica estera del primo mini­stro, sarà un po’ un gran ceri­mo­niere. Un ruolo chiave è quello di Vitali Yarema, ex capo della poli­zia di Kiev. È vice primo mini­stro con delega al law enfor­ce­ment.
Al blocco della Tymo­shenko – lei non avrà cari­che, la piazza ha mugu­gnato – affe­ri­sce anche il mini­stro degli interni Arsen Ava­kov, un tempo alleato dell’ex pre­si­dente Vik­tor Yush­chenko. È di Khar­khiv, la seconda città del paese. La più grande, tra quelle dell’est. Non ha casac­che, invece, il mini­stro degli esteri Andriy Desh­chy­tsia. Ma era stato tra i primi fir­ma­tari di un appello di alcuni diplo­ma­tici ucraini con­tro le repres­sioni di Yanu­ko­vich.
Nella coa­li­zione si deli­nea un ruolo note­vole per l’oligarca Ihor Kolo­moy­sky, numero uno di Pri­vat­Bank, prin­ci­pale isti­tuto di cre­dito del paese. Del cer­chio magico del ban­chiere, tra l’altro appena nomi­nato gover­na­tore di Dne­pro­pe­tro­vsk, fareb­bero parte il mini­stro dell’energia Yuriy Pro­dan (per­so­nag­gio chiac­chie­rato) e quello delle finanze Olek­sandr Shla­pak. Non è un caso, si direbbe, che si siano acca­par­rati due mini­steri così cru­ciali.
Discreta è l’influenza della Myhola Uni­ver­sity di Kiev, acca­de­mia rispet­tata, con respiro occi­den­ta­li­sta. Il mini­stro dell’economia Pavlo She­re­meta e quello dell’educazione Serhiy Kvit hanno inse­gnato lì.
Ristretto, un po’ a sopresa, il peso di Petro Poro­shenko, oli­garca di ten­denza euro­pei­sta. La sua pedina nel governo è Volo­dy­mir Gro­syan, ex sin­daco di Vin­ni­tsa, nell’ovest del paese. È il respon­sa­bile degli affari regio­nali. Una pos­si­bile mossa con cui, dato che Poro­shenko (pure lui di Vin­ni­tsa) è stato anche mini­stro con Yanu­ko­vich, tran­quil­liz­zare la popo­la­zione rus­so­fona. Per quanto pos­si­bile.
Arri­viamo alla destra-destra. A Svo­boda. Gli ultra­na­zio­na­li­sti, bol­lati come por­ta­tori di un verbo estre­mi­sta e anti­se­mita, hanno diversi inca­ri­chi. Olek­sandr Sych è vice primo mini­stro. In pas­sato fece cla­more pro­po­nendo il divieto asso­luto di aborto, per­sino in caso di stu­pro. Svo­boda s’è presa pure l’ambiente e l’agricoltura, con Andriy Mokh­nyk e Ihor Shvaika, due che hanno capeg­giato le pro­te­ste con­tro le licenze sullo shale gas con­cesse da Yanu­ko­vich a com­pa­gnie occi­den­tali.
In quota Svo­boda c’è anche Ihor Tenyukh, ex capo della marina. A lui la difesa. Men­tre Andrei Paru­biy, rite­nuto tra i fon­da­tori di Svo­boda, ma poi acca­sa­tosi presso la Tymo­shenko e da ultimo coor­di­na­tore delle bar­ri­cata di piazza dell’Indipendenza, pre­sie­derà il con­si­glio nazio­nale per la sicu­rezza. Dovrebbe avere come vice Dmy­tro Yarosh, coman­dante di Pra­vyi Sek­tor, le fami­ge­rate bande para­mi­li­tari di estrema destra. A quanto pare non ha ancora assunto l’incarico, ma ciò non toglie che si pro­fila un mono­po­lio della destra radi­cale sulla sicu­rezza. E la cosa ha allar­mato ben più di un osser­va­tore.
Infine, la piazza. Tetyana Chor­no­vol e Yegor Sobo­lev, gior­na­li­sti e atti­vi­sti, gui­de­ranno rispet­ti­va­mente l’anticorruzione e la lustra­zione. È la cam­biale riscossa da Euro­mai­dan per il con­tri­buto alla rivoluzione.

6.3.14

Pavia, viaggio nella Las Vegas d’Italia. I giocatori: “Ecco come ci riduce lo Stato”

di Eleonora Bianchini (ilfattoquotidiano.it)

Tremila euro di spesa procapite per il gioco contro i 1.200 di media nazionale. Li chiamano "apparecchi da divertimento e intrattenimento", ma slot e vlt nella provincia lombarda sono diventate un'emergenza sociale, spesso nascosta per vergogna. E c'è chi tenta il suicidio, perde la casa e gli affetti

“Se penso a quanto ho perso mi impicco”. Seduto su una sedia girevole, rossa e imbottita. Davanti la slot. Una mano regge 150 euro di monete, l’altra schiaccia “start”. Due, tre, decine di volte. Fino a che non arriva il “bonus”, scatta l’autoplay e la macchina parte in loop e decreta vittorie e sconfitte. Da sola. A pochi passi da lui, c’è un giocatore che mette 50 euro in un’altra mangiasoldi e in un attimo li perde. Poi si alza, fa un giro al bar, torna con un superalcolico e ricomincia daccapo. “Questo è un posto di merda, andate via. Guardate come ci riduce lo Stato”. Mini casinò in provincia di Pavia, aperto 24 ore su 24. Ci sono anche biliardo, calcio balilla e karaoke. Famiglie con bimbi piccoli, giovani, uomini di mezza età, casalinghe cinquantenni fresche di parrucchiere, tanti italiani e qualche trentenne dell’Est Europa. Illuminati delle luci delle slot, che sfumano volti e contorni, cambiano i contanti, riversano i soldi nelle macchine e sperano di vincere. O meglio, di passare il tempo, perché tante alternative, nella ricca e desolata provincia tra Po e Ticino, non ci sono.

A Pavia slot e videolottery (vlt) – presenti solo in agenzie di scommesse o sale dedicate e che consentono anche di giocare banconote di grosso taglio – hanno regalato alla città il primato della Las Vegas d’Italia, dove la spesa procapite per il gioco, vincite escluse, è di 3mila euro, contro i 1200 di media nazionale. Un record che, secondo Agimeg (Agenzia giornalistica sul mercato del gioco) stacca di oltre mille euro Como, Teramo e Rimini. Una città di quasi 70mila abitanti con una slot ogni 104 e al primo posto anche per livello di puntata massima (2900 euro).

I profitti – La gente gioca, ma chi vince? Di certo Monopoli di Stato (attraverso licenze e Preu, prelievo erariale unico) e concessionari, incassano somme interessanti. Il settore del gioco nel suo complesso rappresenta il 4% del Pil. Dunque, la terza “azienda” del Paese dopo Eni e Fiat. In Italia, secondo i dati elaborati da Agipro (Agenzia stampa Gioco Pronostico e Scommesse) ci sono 372.467 new slot e 50.556 Vlt, per un totale di 423.023 apparecchi. In totale nel 2013 sono finiti nelle macchine 48,5 miliardi di euro (-0,4% rispetto ai 48,7 miliardi del 2012) e la spesa effettiva dei giocatori al netto delle vincite è stata di 8,3 miliardi (-9,8% rispetto ai 9,2 miliardi del 2012), mentre l’erario ha incassato 4,32 miliardi. Secondo i Monopoli, nel 2013 l’erario ha guadagnato sulle slot 3,2 miliardi di euro, mentre 3 miliardi sono andati alla filiera degli operatori. Nello stesso anno, per le vlt sono andati allo Stato 1,1 miliardi di euro circa, mentre concessionari e gestori di sala hanno incassato 1,4 miliardi. Complessivamente le casse pubbliche hanno quindi messo in tasca il +4% rispetto ai 4,15 miliardi del 2012.

In sintesi, dell’importo che finisce nelle slot (raccolta), il 74% finisce nelle tasche dei giocatori, il 13,5% (che comprende il prelievo erariale unico sulle giocate del 12,7% e lo 0,8% del canone di concessione per utilizzo della rete 0,8%). Infine, il 12,5% va alla filiera delle slot, composta da concessionari, gestori che si occupano della manutenzione e distribuzione delle macchine, e i singoli esercenti (bar, tabacchi) che hanno le macchine nei locali. In media, il 55% degli utili va agli esercenti, il 38% ai gestori, il 7% ai concessionari. Per quanto invece riguarda le vlt, l’89% va ai giocatori, il 5% allo Stato e il 6% a gestori delle sale per il 55% e concessionari per il rimanente (45%).

Sul fronte dei giocatori, secondo quanto pubblicato sul sito dei Monopoli di Stato, per le videolottery ”la normativa prevede la restituzione in vincita di una percentuale minima pari all’85 per cento per ogni sistema di gioco e per ogni gioco sul medesimo installato”. Il dato effettivo di restituzione in vincite delle somme giocate ha raggiunto l’88,34% nel 2011 e a l’’88,40% nel 2012. Per le slot, invece, la percentuale minima è fissata al 74 per cento. Tuttavia, si legge sul sito dei Monopoli, “non è possibile indicare l’effettiva probabilità di vincita di ogni apparecchio, che deve risultare non inferiore a quella normativamente prevista”. Vero è che la somma che nel 2012 è rientrata nelle tasche dei giocatori sotto forma di vincite (tra macchinette, lotterie, gratta e vinci, lotto, superenalotto, giochi a base sportiva, poker e casinò online, bingo e giochi a base ippica) è stata di 70 miliardi. Un dato suggestivo. Ma, come scrive la Relazione annuale della Direzione nazionale antimafia (Dna) 2013, “deve essere però valutato nel contesto di un meccanismo che privilegia pochissime persone con alte vincite”. Ed ecco perché i giocatori possono perdere anche migliaia di euro. Ma dietro alle sconfitte c’è anche un altro motivo.

Infiltrazioni mafiose – Alla problema della redistribuzione, si aggiunge infatti la criminalità organizzata. Perché il gioco è un business in cui si accomodano i clan – oltre 40 – che così possono riciclare e investire “in maniera tranquilla, elevatissime somme di denaro”. La Dna spiega che è anche nel “perimetro legale del gioco” che avvengono le infiltrazioni, specie su slot e vlt. La procedura: le cosche comprano e intestano le sale gioco ai suoi prestanome, sia per ricavare guadagni immediati alterando le macchine, sia per il riciclaggio. Se la macchina non è collegata alla rete telematica, la criminalità si accaparra il Preu più le somme dovute a concessionario ed esercente. Nel caso invece il software dell’apparecchio sia truccato “anche per abbattere la probabilità di vincere del giocatore, l’importo va tutto all’organizzazione criminale”. E una macchina così può fruttare anche mille euro a settimana. Importante ricordare che, “benché per le vlt sia prevista la giocata massima di 10 euro, accettano banconote di ogni taglio”. Anche da 500 euro. E i controlli? Complicati e costosi. Già nel 2012 la Dna sottolineava che le cosche sottraggono a Monopoli e concessionari importi difficili da intercettare.

Emergenza ludopatia – Tecnicamente li chiamano “apparecchi da divertimento e intrattenimento”, ma slot e vlt sono diventate un’emergenza sociale, spesso nascosta per vergogna. E il fenomeno della ludopatia – inserita tra gli stati patologici oggetto di cura del Sistema sanitario nazionale dal decreto legge 158/2012 – è in aumento. Per il dipartimento per le politiche Antidroga, nella relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze 2012, sono 300mila i giocatori compulsivi già conclamati e nel 2011, quelli in cura, erano 4687, “di cui 82 per cento maschi”. Secondo La Sapienza, oggi, sono 790mila quelli a rischio. Inoltre, lo studio Ipsad del Cnr di Pisa rileva che anche il numero di giocatrici sta aumentando. E sia le donne che gli uomini finiscono davanti a slot e vlt per noia, solitudine e frustrazione.

“Giocano tutti, di qualsiasi età e professione – spiega Simone Feder, psicologo della Casa del giovane di Pavia e fondatore del Movimento No Slot, contro il gioco d’azzardo - Donne, uomini, pensionati, imprenditrici, carabinieri, banchieri. Entrare in sala ed essere circondati da una varietà di genere ed estrazione sociale ricrea la normalità che il giocatore cerca per giustificarsi. Ed è pericolosa”. Feder racconta di famiglie che hanno perso “fino a 230mila euro, che si sono giocate la casa, la famiglia, il lavoro. C’è chi ha tentato il suicidio”. E ancora “anziani che non hanno mai avuto vizi e che iniziano a giocare”, racconta un operatore della Casa del Giovane. “Ricordo uno psicologo che, per evitare danni maggiori, accompagnava una signora a giocare perché lei non spendesse più di cento euro”. Non solo. “A Pavia, appena ritirano la pensione, vedi le slot imballate di gente”. E mogli che con un marito giocatore non possono permettersi una maternità, bancomat requisiti dai parenti per necessità, famiglie sul lastrico, prestiti sospetti e usurai alle calcagna.

Le slot ormai non sono soltanto nei bar e in tabaccheria, “perché le trovi anche in latteria, in erboristeria, dal benzinaio“. Feder ha avviato la campagna No Slot, affinché i baristi lasciano il gioco d’azzardo fuori dalla porta. Un obiettivo per il quale il Comune di Pavia ha stanziato 20mila euro, mille a testa per chi toglie gli apparecchi dal locale. Una cifra che, però, “per molti esercenti è bassa – dice Feder”. Al questionario sottoposto ai gestori per sondare l’interesse della proposta, hanno risposto in 77 (su 136) e il 74 per cento di loro vorrebbe almeno 4mila euro. Soltanto il 18 per cento, invece, ritiene giusto il compenso proposto dall’amministrazione locale.

Ma per alcuni giocatori c’è dell’altro. “Tanti gestori vogliono tenere le slot perché, quando chiudono il bar, si attaccano alla macchinetta – spiegano – Tra loro ci sono molti ludopatici”. E se i clienti sono ancora dentro quando la serranda si abbassa, “nessuno li va a staccare dalla slot”. Ma l’incentivo del Comune, come spiega Pasquale Cannella, che nel suo bar ha eliminato le slot “è segno del cortocircuito dello Stato”. Che offre soldi agli esercenti per eliminare le macchinette, ma allo stesso tempo le usa per battere cassa e incassare miliardi di euro.

Rabbia contro lo Stato – La Casa del giovane si occupa anche di prevenzione e nelle scuole spiega ai ragazzi cos’è la ludopatia. “Pavia è la piccola Las Vegas d’Italia. Ma la differenza è che se là si avvicinano con un bambino alla slot, arrestano i genitori”, precisa Feder. Non è così nel nostro Paese, dove “tra i minori e le macchine non c’è nessuna distanza. Sono al bar, in tabaccheria, nei centri commerciali”. Non solo: i suoni e i colori ”ricalcano apposta quelli dei videogame e playstation“. Così aumenta anche il rischio per gli adolescenti. E “anche se dicono di avere meno di 18 anni, entrano nelle sale giochi senza problemi. Ci sono papà che prendono in braccio i figli piccoli per fargli spingere i pulsanti”. I ragazzi, continua lo psicologo, “vogliono sapere i sintomi, come possono accorgersi se un genitore gioca. Si chiedono perché le banche non facciano niente, perché non siano tempestive quando vedono i conti prosciugati”. Dall’altra parte, i giocatori puntano il dito contro lo Stato complice della loro dipendenza, “che non fa i controlli e che ci riduce così. Ci ruba i soldi, perché questi che finiscono nel gioco non fanno girare l’economia. La distruggono”. Stipendi riversati nelle slot, in pezzi da 500 o in monetine da un euro. Ma c’è chi gioca e sente che la vita scivola via. “Cosa ti toglie il gioco d’azzardo? Di solito, gli uomini dicono i soldi. Le donne, gli affetti. La verità? Che chi è qui si sente solo”.

Ritorno all’Ottocento

di Barbara Spinelli  (La Repubblica)

IN PARTE per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante.
Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni.
È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina - quella insorta in piazza a Kiev - vuole «entrare in Europa». Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale - non denunciato a Occidente - forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice Premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ’39 collaborò con Hitler.
È sbagliato chiamare l’Est ucraino regioni secessioniste perché «abitate da filorussi ». Non sono filo- russima russi, semplicemente. In Crimea il 60% della popolazione è russa, e il 77% usa il russo come lingua madre (solo il 10% parla ucraino). È mistificante accomunare Nato e Europa: se tanti sognano l’Unione, solo una minoranza aspira alla Nato (una minaccia, per il 40%). Sbagliato è infine il lessico della guerra fredda applicato ai rapporti euro-americani con Mosca, accompagnato dal refrain: è «nostra » vittoria, se Mosca è sconfitta.
Dal presente dramma bellicoso si uscirà con altri linguaggi, altre dicotomie. Con una politica - non ancora tentata - che cessi di identificare i successi democratici con la disfatta della Russia. Che integri quest’ultima senza trattarla come immutabile Stato ostile: con una diplomazia intransigente su punti nodali ma che «rispetti l’onore e la dignità dei singoli Stati, Mosca compresa», come scrive lo studioso russo-americano Andrej Tsygankov. L’Ucraina è una regione più vitale per Mosca che per l’Occidente, e i suoi abitanti russi vanno rassicurati a ogni costo. È il solo modo per esser severi con Mosca e insieme rispettarla, coinvolgerla.
Siamo lontani dunque dalla guerra fredda. Che era complicata, ma aveva due elementi oggi assenti: una certa prevedibilità, garantita dalla dissuasione atomica; e la natura ideologica (oggi si usa l’orrendo aggettivo valoriale) di un conflitto tra Est sovietizzato e liberal-democrazie. Grazie allo spauracchio dell’Urss, Europa e Usa formavano un «occidente » senza pecche, qualsiasi cosa facesse. L’Urss era nemico esistenziale: letteralmente, ci faceva esistere come blocco di idee oltre che di armi.
Questo schema è saltato, finita l’Urss, e l’Est è entrato nell’Unione. Mentre l’Urss crollava un alto dirigente sovietico, Georgij Arbatov, disse: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico ». Non aveva torto, se ancora viviamo quel lutto come orfani riottosi. Ma non è più l’antagonismo ideologico a spingerci. La Russia aspira a Riconquiste come la Nato e Washington. Fa guerre espansive in Cecenia mentre gli Usa, passivamente seguiti dall’Europa, fanno guerre illegali cominciando dall’Iraq e proseguendo con le uccisioni mirate tramite i droni. «Oggi la Russia di Putin e “l’Occidente” condividono un’identica visione basata sulla ricerca di profitto e di potere: in tutto tranne su un punto, e cioè a chi debbano andare profitto e potere», scrive Marco D’Eramo su Pagina 99(25-2-14).
Questo significa che non la guerra fredda torna, ma il vecchio equilibrio tra potenze (balance of power) che regnava in Europa fino al ’45: i Grandi Giochidell’800, in Asia centrale o Balcani. Qui è la perversione odierna, obnubilata. Washington ha giocato per anni con l’idea di spostare la Nato a Est, fino ai confini russi. Più per mantenere in piedi l’ostilità del Cremlino che per aiutare davvero nazioni divenute indipendenti. L’Europa avrebbe potuto essere primo attore, perso il «nemico esistenziale». Non lo è diventata. È un corpo con tante piccole teste, alcune delle quali (Germania per prima) curano propri interessi economico-strategici da soli. Lo scandalo è che nel continente c’è ancora una pax americana opposta alla russa. Una pax europea neppure è pensata.
Eppure una pax simile potrebbe esistere. L’unità europea fu inventata proprio in risposta all’equilibrio delle potenze, per una pace che non fosse una tregua ma un ordine nuovo. L’ombrello Usa ha protetto un pezzo del continente, consentendogli di edificare l’Unione, ma ha viziato gli europei, abituandoli all’indolenza passiva, all’inattività irresponsabile, al mutismo. Finite le guerre fratricide, l’Europa occidentale s’è occupata di economia, pensando che pace-guerra non fosse più di attualità. Lo è invece, atrocemente.
Priva di visioni su una pace attiva, l’Europa cade in errori successivi fin dai tempi dell’allargamento. Allargamento che non definì la pax europea: i paesi dell’Est si liberarono, senza apprendere la libertà. Il poeta russo Brodsky lo disse subito: «La verità è che un uomo liberato non diventa per questo un uomo libero. La liberazione è solo un mezzo per raggiungere la libertà, non è un sinonimo della libertà (...) Se vogliamo svolgere il ruolo di uomini liberi, dobbiamo esser capaci di accettare o almeno imitare il comportamento di una persona libera che conosce lo scacco: una persona libera che fallisce non getta la pietra su nessuno». L’Est si liberò dalle alleanze con Mosca, ma quel che ritrovò, troppo spesso, fu il nazionalismo di prima.
Non a caso molti a Est si misero a difendere la sovranità degli Stati, senza esser contestati. E la «liberazione» criticata da Brodsky risvegliò ataviche passioni mono-etniche, intolleranti del diverso. Si aggravò lo status dei Rom: ridivenuti apolidi. Si riaccesero nazionalismi irredentisti, come nell’Ungheria di Orbán. Nata contro le degenerazioni nazionaliste, L’Europa ammutolì.
Kiev corre gli stessi rischi, proprio perché manca una pax europea che superi le sovranità statali assolute, e la loro fatale propensione bellicosa. Se tanti sono euro- fili ignorando la filosofia dell’Unione, è perché anche l’Unione l’ignora. Bussola resta l’America: lo Stato che meno d’ogni altro riconosce autorità sopra la propria. Oppure il nazionalismo russo. Tra Russia e Usa il rapporto è antagonistico, ma a parole. Nei fatti è un rapporto di rivalità mimetica, di somiglianza inconfessata.
L’Ucraina è una nazione dalle molte etnie, con una storia terribile. Storia di russificazioni forzate, che in Crimea risalgono al ’700: ma oggi i russi che sono lì vanno protetti. Storia di deportazioni in massa di tatari dalla Crimea, che pagarono la collaborazione col nazismo e tornarono negli anni ’90. Storia di una carestia orchestrata da Stalin, e di patti con Hitler su cui non è iniziata alcuna autocritica (il collaborazionista Bandera è un mito, per le destre estreme che hanno pesato nei recenti tumulti). Uno dei più nefasti fallimenti della rivoluzione a Kiev è stata la decisione di abolire la tutela della lingua russa a Est: cosa che ha attizzato paure e risentimenti antichissimi dei cittadini russi, timorosi di trasformarsi in paria inascoltati dal mondo.
Tutte queste etnie convivevano, quando in Europa c’erano gli imperi. Pogrom e Shoah son figli dei nazionalismi. Oggi regnano due potenze dal comportamento imperialista (Usa, Russia), che però non sono imperi multietnici ma nazioni- Stato distruttivi come in passato.
Se l’Europa non trova in sé la vocazione di essere impero senza imperialismo, via d’uscita non c’è. Se non trova il coraggio di dire che mai considererà «filo- europei» neonazisti che si gloriano di un passato russofobo che combatté i liberatori dell’Urss, le guerre nel continente son destinate a ripetersi. Le tante chiese ucraine lo hanno capito meglio degli Stati.

5.3.14

La strana guerra di Andriy dentro la base assediata dai russi

“Combattere? Mica sono matto”
Il fuciliere ucraino e l’ordine di “ far finta di niente”


di Nicola Lombardozzi (la Repubblica)

PEREVALNOE (base della 37esima brigata fanteria della Marina ucraina)- Il fuciliere Andriy è in piena crisi di nervi. Arrampicato su un muro della caserma ammira le evoluzioni di un blindato russo con un suo coetaneo ben saldo sulla torretta: «E da me cosa vorrebbero? Che uscissi fuori a combattere contro questi qui?». Non è mancanza di coraggio, più che altro confusione. La stessa che si è impadronita di centinaia di migliaia di soldati ucraini in questi giorni assurdi divisi tra una rivoluzione ancora troppo fragile e un’invasione in piena regola. Andriy ce l’ha con i suoi amici d’infanzia che lo chiamano continuamente sul telefonino per chiedergli di arrendersi all’esercito amico venuto dall’Est; con i suoi superiori che sono più agitati di lui e non sanno cosa decidere; con quei «maledetti rompipalle» degli ufficiali addetti all’indottrinamento ideologico (antica eredità di tutti gli eserciti sovietici) che continuano invece a ordinargli di ribellarsi, di resistere all’occupazione.
Difficile calmarlo stando dall’altra parte di una parete di più di dieci metri e riuscendo a intravedere solo un paio di occhi da ventenne e un berretto di lana da assaltatore calcato sulla fronte. Andriy è troppo esasperato per fare un discorso lineare, parla senza pause, continua a voltarsi in equilibrio instabile per assicurarsi di non essere ascoltato né da i suoi né dai russi che ci circondano, ma quello che ne viene fuori è un racconto surreale e drammatico di quello che sta succedendo all’interno di questa base a 40 chilometri dal capoluogo Simferopoli, dotata di truppe scelte, autoblinde, pezzi d’artiglieria leggera, insomma il meglio della Difesa ucraina in Crimea.
Tutto è cominciato la mattina di domenica, dopo l’adunata e prima delle esercitazioni quotidiane. I ragazzi della base hanno visto che davanti ai loro cancelli c’erano dei colleghi con armi nuove di zecca, passamontagna sul viso e un armamento invidiabile. «Chi sono questi? Russi? Americani? E noi che dobbiamo fare?». Risposta: «Niente, fate come se non ci fossero ».
La voce di Andrjy si fa stridula: «Capite? Mi addestro da anni per combattere e poi mi ritrovo preso in ostaggio da sconosciuti». Orgoglio da soldato e perplessità da cittadino. Andrjy è anche lui di origine russa come la maggioranza di abitanti della Crimea, detesta «quelli della rivoluzione di Kiev», la sua famiglia abita a Pionerskoe, il primo villaggio a una decina di minuti di marcia da qui. «Loro vanno in piazza ad applaudire l’intervento di Putin. Li capisco e condivido pure. Ma io sono un soldato o no?».
Sul prato tutto intorno una compagnia di soldati russi ha dispiegato camion, blindati e pattuglie armate che perlustrano la valle giorno e notte. Hanno cucine da campo, tende, mense, e attrezzature di un livello che i loro colleghi ucraini non hanno mai visto. Sembra una scorta protettiva più che un assedio. Ma in caserma si fa appunto finta di niente come da ordini. Il comandante ucraino esce di tanto in tanto per andare dalla moglie che abita qui vicino. Passa senza fare una piega tra gli incappucciati che aprono e chiudono i cancelli della sua base, segue su Internet e in tv gli sviluppi internazionali, cerca di rinviare ogni decisione.
E i suoi soldati discutono, domandano, litigano fra di loro. C’è stata pure qualche scazzottata. Anche perché le pressioni non mancano. Tra le camerate qualcuno ha portato un foglio da firmare con il giuramento di fedeltà alla repubblica autonoma di Crimea. Chiede a ogni singolo commilitone di aderire. Andriy non firma: «Ho giurato fedeltà all’intera Ucraina. Tecnicamente è un tradimento ». E poi rimarca un aspetto meno nobile ma fondamentale: «E se poi si mettono tutti d’accordo, a me che succede?».
Ma i partiti sono due. Gli ufficiali specializzati in “indottrinamento”, per natura vicini alle alte sfere della capitale, fanno invece pressioni per aderire alla rivoluzione nazionale. Andrjy sorride nervosamente: «Ti chiamano in disparte, ti dicono che bisogna respingere questo assedio, liberare il territorio della caserma. Loro che sono ufficiali da scrivania dicono a me, soldato semplice, di organizzare un contrattacco. Follia pura».
E non sono pressioni da poco. L’altra sera tra i vialetti della caserma è comparsa perfino la sagoma colossale e baffuta di Oleksandr Kozmuk, per tanti anni ministro della Difesa ucraino. Qualcuno è riuscito a farlo passare beffando la sorveglianza dei russi e della milizia popolare che li affianca, attraverso un cancello laterale conosciuto a pochi. Usando gergo e modi da consumato militare di mestiere, diceva a ognuno di resistere, che qualcuno a Kiev stava studiando un piano per cacciare via i russi e che presto l’operazione sarebbe cominciata. E il nostro fuciliere non riesce proprio a capire: «A parte che io non ho niente contro questi ragazzi venuti dalla Russia, ragioniamo dal punto di vista di pura tecnica militare: ci schiaccerebbero senza nemmeno sforzarsi troppo».
La testa di Andrjy scompare all’improvviso. Alle nostre spalle è arrivata un pattuglia di russi. Restano in silenzio, ma agitano le canne dei fucili verso nord per indicarci cortesemente la strada statale. Da queste parti, per il momento, decidono loro.



2.3.14

Giro di boa per il Pd

Rossana Rossanda (sbilanciamoci.info)

Affermare – come ha fatto Matteo Renzi nell'introduzione alla nuova edizione di "Destra e sinistra" di Norberto Bobbio – che il Pd non intende più collocarsi a sinistra conclude l'ultimo giro di boa del partito democratico. Simbolico, ma fa impressione che questo arrivi proprio quando in Italia si superano i 4 milioni di senza lavoro

Si conclude, con il nuovo governo e la sua carta di identità allegata su Repubblica da Matteo Renzi, l’ultimo giro di boa simbolico del Pd. Simbolico, perché nelle scelte concrete era già consumato da un pezzo, ma dare il vero nome ai fatti non è cosa da poco (non è passatempo da giorni festivi, come verseggia Eliot a proposito del nome da dare al proprio gatto). Che il Pd precisi come la sua immagine non debba più essere a sinistra, o di sinistra, riconoscendo come sola discriminante culturale e sociale “il nuovo e il vecchio” non è una gran novità, il concetto ci svolazza attorno da un bel pezzo, ma affermare che il Pd non intende più collocarsi a sinistra resta uno scatto simbolico rilevante. Non solo infatti, come taluni vagheggiavano, non è più in grado di compiere scelte di sinistra, poniamo, da Monti, ma neppure mira più a farle e a questo scopo ha scelto come proprio leader “Matteo” per chiarirlo una volta per tutte. Non in parlamento – nessuno, a cominciare da Giorgio Napolitano ha tempo da perdere – ma su un giornale amico e a governo varato.
Lo fa prendendosi qualche licenza culturale, come citare Norberto Bobbio contro Bobbio esempio di chi, se aveva ragione in passato, non l’avrebbe più oggi, quando la distinzione tra destra e sinistra non avrebbe più senso. Pazienza, oggi ne vediamo di ben altre. Fra le innovazioni trionfanti c’è che ciascuno riveste o spoglia dei panni che più gli aggrada il defunto scelto come ispiratore. Più significativo è che il concetto archiviato indicava il peso assegnato da ogni partito alla questione sociale e dichiararla superata proprio mentre si sfiorano e forse si superano i quattro milioni di senza lavoro, fa impressione. Forse per questo l’ex sindaco di Firenze si era scordato di informarci su quel job act che doveva presentare entro gennaio; ma in primo luogo non risulta che durante le consultazioni qualcuno glielo abbia ricordato, in secondo luogo nel governo se ne occuperà la ministra Guidi, donna imprenditrice esperta in quanto allevata dal padre confindustriale.
Sappiamo dunque che dobbiamo attenderci con il nuovo esecutivo e dobbiamo al Pd tutto il peso, visto che né la sua presidenza né la sua minoranza gli hanno opposto il proprio corpo, al contrario hanno sgombrato il campo sussurrando come il melvilliano Bartleby “preferirei di no”. Della stessa pasta la stampa, affaccendata dal sottolineare lo storico approdo delle donne a metà del governo sottolineando il colore delle giacche e il livello dei tacchi, cosa che dovrebbe far riflettere le leader di “Se non ora quando”. Eccola qui l’Ora, ragazze, non si vede dove stia la differenza.
Il nuovo che avanza ha rilanciato anche Berlusconi, primo interpellato da Renzi per incardinare tutta l’operazione. Condannato da mesi per squallidi reati contro la cosa pubblica ad astenersi dalla politica è stato ricevuto non già dai giudici di sorveglianza, bensì dal capo dello stato per illustrargli quello che pensa e intende fare sul futuro del paese. Per ora appoggia Renzi, rassicurando i suoi che non è un comunista.