28.2.08

Trame americane sullo sfondo della guerra in Vietnam

Confronto a distanza tra due libri separati da trent'anni. Il misconosciuto e appena tradotto romanzo di Newton Thornburg «La strana vita di Cutter e Bone», e l'ultimo di Denis Johnson «Tree of Smoke», recente vincitore del National Book Award. Un intreccio di classica bellezza che allude all'attuale coinvolgimento militare in Iraq
Tommaso Pincio
La letteratura di genere solo in apparenza è generosa con gli scrittori. In realtà, quel che dà se lo riprende, spesso con gli interessi. Poniamo il caso abbiate scritto un buon thriller - un thriller «spaventosamente riuscito», per citare le parole di una recensione più che favorevole apparsa recentemente su uno fra i più importanti quotidiani nazionali. Poniamo, poi, abbiate scritto anche qualcosa di più, «un'opera di alto livello» in assoluto, sempre per stare a quel che hanno detto i giornali. Poniamo inoltre che questo vostro romanzo venda assai bene e abbia pure la fortuna di essere portato sul grande schermo da un bravo regista che ne ricava una pellicola che, seppur non eccelsa, vedono in molti. Tutto lascerebbe presagire che il romanzo e voi in quanto autore sopravviviate decentemente all'oblio cui gran parte della letteratura di un certo tipo è fatalmente destinata. E invece no. Una sfida al genere giallo Newton Thornburg, che ai suoi tempi ha conosciuto il genere di successo appena descritto, trascorre oggi gli ultimi anni della propria esistenza in un ospizio di Seattle confidando esclusivamente su una pensione di invalidità. Un infarto lo ha costretto su una sedia a rotelle, la moglie se ne è andata da molto tempo, un figlio se l'è portato via l'alcolismo: il quadro è questo. Quanto alla sua fama di autore, si fa presto a testarla: alzi la mano chi ha letto un libro di Newton Thornburg o conosce anche solo il suo nome. Nel 1976 diede alle stampe La strana vita di Cutter e Bone (Fanucci, trad. Daniela Middioni, pp. 340, euro 16) da cui il regista Ivan Passer trasse un film interpretato da Jeff Bridges. Nonostante ciò, dopo qualche tempo il romanzo sparì dalla circolazione. È stato ripescato di recente grazie anche all'ammirazione di un altro scrittore, George Pelecanos, che lo colloca, insieme a L'ultimo bacio di James Crumley e Surf City di Kem Nunn, nel novero di quei romanzi che negli '70 si posero come «una sfida alla tradizione giallistica». In effetti è molto più di questo. Come ogni grande libro, La strana vita di Cutter e Bone è il ritratto dell'epoca che lo ha generato; nella fattispecie è uno dei migliori romanzi mai scritti sui postumi della grande ubriacatura da stupefacenti, amore libero, ribellione e pacifismo che mise in fibrillazione gli Stati Uniti sul finire degli anni '70. La scena prende infatti le mosse nel decennio successivo, più o meno in zona Watergate, quando, finita la festa, il paese versò in una crisi profonda, tanto economica che di valori. Luogo di partenza dell'azione: la fetta d'America che più di ogni altra ha incarnato quel sogno, la California. E siccome a pagare lo scotto sono quasi sempre gli sfigati, ecco una coppia di sgangherati protagonisti il cui squallido destino di pochissime prospettive e nessuna idealità pare scritto fin nel nome che portano: Cutter e Bone. Il primo è tornato dal Vietnam con un gamba e un braccio in meno e una consistente dose di amarezza e follia in più. Il secondo è invece un uomo di gradevole aspetto, diciamo pure avvenente. È però un mollaccione. Ha piantato baracca e burattini - vale a dire: moglie, figlie e un lavoro nel Minnesota - per venire a fare il gigolo dei poveri nella patria degli hippy e degli sciroccati in genere. Lo si vede dunque vagolare per le spiagge di Santa Barbara in cerca di donne a cui scroccare pranzo, cena e magari qualche soldo. Non ha grandi velleità. «Qualcosa accadrà. Qualcosa cambierà»: è la sua fatalistica filosofia di vita. Qualcosa infatti accade. Una notte il caso decide che Bone debba rincasare a piedi per essere testimone di uno fatto strano. Un uomo scende da un'auto e scarica in un cassonetto qualcosa che, nell'oscurità, pare essere un involto contenente mazze da golf. Fatto ciò, l'uomo risale in macchina e schizza via. La strana coppia in azioneSul momento, Bone non dà troppa importanza a ciò che ha visto. I problemi nascono quando viene a sapere che in quel luogo e a quell'ora qualcuno si è sbarazzato del cadavere di una cheerleader alla stessa maniera: quelle che in un primo tempo erano parse mazze da golf ora sono diventate un paio di gambe. Naturalmente, il pensiero di presentarsi alla polizia manco sfiora Bone. Del resto, quale aiuto potrebbe mai dare? Dopotutto non ha scorto che una sagoma nera. Sfogliando un giornale, ha però l'inspiegabile impressione di riscontrare una qualche somiglianza tra il misterioso assassino e un magnate di passaggio a San Barbara. Stessa altezza, stessa corporatura. Le vaghissima similitudine si limita a questo. Ma qui entra in gioco Cutter, che per ragioni sue si convince e cerca di convincere l'amico che l'uomo in questione è proprio questo milionario del Missouri. Per Cutter, il riccone è l'incarnazione del malefico sistema che lo ha spedito in Vietnam per sacrificare pezzi del proprio corpo in una guerra inutile. «Non è mai il loro culo a finire in prima linea, ma il nostro, il mio» pensa il veterano cominciando ad architettare un piano per ricattare il magnate. Bone obietta che l'estorsione è un reato. «Pure l'omicidio lo è» replica laconico Cutter ormai deciso a fare giustizia a modo suo. Quel che segue è una convulsa serie di disavventure nel corso delle quali la strana coppia dimentica spesso e volentieri i suoi propositi per dedicarsi al sesso e all'alcol. Il tutto raccontato con un cinismo gravido di passione che finisce per rendere verosimile le situazioni più grottesche. Sul set di una crisi moraleSospeso tra due anime dell'America, quella del disperato edonismo californiano e quella degli Stati dell'entroterra più patriottici ma nascostamente inclini alla violenza, il romanzo di Thornburg rimane - a tre decenni dalla sua pubblicazione - uno dei migliori ritratti della profonda crisi morale in cui è precipitato il paese nel corso degli anni '70. Un libro misconosciuto che varrebbe la pena di leggere solo per la sorprendete frase finale. Ma c'è anche un altro motivo per cui ha senso riscoprirlo: un confronto a distanza con l'ultimo romanzo di Denis Johnson cui è stato recentemente assegnato il National Book Award, Tree of Smoke (Farrar, Straus and Giroux, pp. 614, $ 27). Johnson è un autore agli antipodi rispetto a Thornburg. Benché abbia talvolta sconfinato nel genere, è sempre stato considerato scrittore di alto rango, poco adatto al grande pubblico in quanto appartenente al quel filone che vede in Burroughs il suo maestro e nell'America dei derelitti e degli emarginati il suo argomento centrale. Per molto tempo si è parlato di lui come un'eterna promessa della letteratura, perché nonostante la sua produzione fosse sempre di ottima qualità, l'opera davvero significativa - il suo Great American Novel - faticava a venire alla luce. Ora che non è più giovanissimo, Denis Johnson ce l'ha finalmente fatta. Per mole, stile e ambizione, Tree of Smoke si muove ovviamente su piani lontani da quelli tutto sommato immediato della Strana vita di Cutter e Bone. Affronta però lo stesso argomento: la brutta America del Vietnam.Si parte dal giorno dell'assassinio di John F. Kennedy per arrivare al 1983. Un ventennio di storia per un romanzo la cui trama è difficile se non impossibile da riassumere. Personaggio principale è un certo William Sands detto «Skip», il quale non si risolve ad avere un'opinione definitiva su se stesso. A volte si immagina simile all'americano tranquillo dell'omonimo romanzo di Graham Greene, altre si vede invece come un americano schifoso. Come è facile intuire, vorrebbe però essere migliore di come si vede o si immagina. Gli piacerebbe essere un bravo americano, ma essendo un agente della Cia, di stanza prima nelle Filippine e poi in Vietnam, si ritrova fatalmente a recitare la parte del peggiore americano che si possa incontrare. E non gli è certo di aiuto il fatto di lavorare al fianco di suo zio, un «Colonnello» che ricorda da vicino tanto il Kurtz di Conrad quanto quello rivisitato da Francis Ford Coppola e Marlon Brando in Apocalypse Now. Come ogni Kurtz che si rispetti, il Colonnello di Denis Johnson è un rinnegato per il quale è un punto di merito tradire la fiducia dei propri superiori. Disprezza i burocrati di Washington e pertanto prende ordini solo da se stesso. I limiti che pone alle sue operazioni sono soltanto quelli della sua immaginazione. Seminare droghe psichedeliche nei tunnel nord-vietnamiti oppure spargere la voce che un qualche gruppo dissidente ha in mano un'arma nucleare e medita di farci saltare la casa di Ho Chi Minh. Tra lealtà e tradimentoL'idea di fondo è che «la guerra è per il novanta per cento mito», per cui tanto vale sfondare i limiti del reale, confondere il noto con l'inconoscibile, rivolgere tutto in sogno, in una ragnatela nebbiosa, quella dei rami dell'albero di fumo che dà il titolo del romanzo. Attorno a questo asse centrale Johnson racconta molte altre storie, le vite di persone che per varie strade vengono toccate, coinvolte e segnate dalle conseguenze di questa sporca guerra. Ritroviamo Bill Houston - protagonista di Angeli, splendido romanzo d'esordio dell'autore - e suo fratello James il quale scoprirà che lo stesso comportamento che in Vietnam gli è valso una medaglia, in America lo farà finire in carcere. Sul fronte opposto assistiamo alla complessa relazione, in perenne bilico tra lealtà e tradimento, fra Nguyen Hao, che fa il doppio gioco per gli americani e un suo vecchio amico vietcong.Seguiamo infine il percorso di colei che è un po' la chiave morale del romanzo, Kathy Jones, una donna che arriva nel sud-est asiatico come moglie di un missionario e se ne va perdendo la fede religiosa e non soltanto quella. La domanda che sorge spontanea è se c'era bisogno di un ulteriore libro su una guerra che è stata raccontata in tutte le salse e non di rado in modo magistrale. La risposta è sì, perché Denis Johnson usa il Vietnam per parlare dell'attuale coinvolgimento militare in Iraq. Ma soprattutto perché Tree of Smoke è semplicemente un romanzo di classica bellezza, uno fra i migliori che l'asfittica letteratura americana di questo decennio ci abbia regalato.
ilmanifesto.it

24.1.08

Reporter «blasfemo» condannato a morte

Sayed Parwez Kaambakhsh, 23 anni, era in carcere da tre mesi. Aveva diffuso testi sui diritti delle donne

Sayed Parwez Kaambakhsh, 23 anni, era in carcere da tre mesi. Appello della comunità internazionale a Karzai per salvarlo Condannato alla pena capitale con l'accusa di avere offeso Maometto e il verbo del Corano. In Afghanistan può ancora capitare a un giornalista sette anni dopo la caduta del regime talebano. Di certo è accaduto a Sayed Parwez Kaambakhsh, 23enne studente alla scuola di giornalismo a Mazar- i-Sharif, nel Nord del Paese, e neo-assunto in un quotidiano locale. Secondo i giudici, l'imputato avrebbe definito il Profeta «un assassino e un adultero» e soprattutto avrebbe difeso il diritto delle donne ad avere più partner maschili. «Se un uomo secondo il Corano può sposare sino a quattro mogli, perché una donna non può avere quattro mariti?», chiedeva un articolo trovato da Sayed su Internet e da lui diffuso tra gli studenti dell’Università di Balkh. Parole di fuoco, temi delicatissimi, che secondo i giudici in primo grado sono immediatamente punibili con la morte.

Il giovane giornalista ha comunque diritto a due ricorsi in appello. E lo stesso presidente Hamid Karzai per legge in un caso del genere dispone della piena facoltà di modificare la sentenza. A detta dei giornalisti locali, tra l'altro, la vicenda sarebbe molto più complessa e vedrebbe coinvolto il fratello dell'accusato, Sayed Yaqub Ibrahimi (il quale nega con fermezza che questi sia responsabile di alcuna dichiarazione blasfema), che da tempo sarebbe impegnato in un pericoloso braccio di ferro con Piram Qul, noto signore della guerra e membro del parlamento. «Si colpiscono i due fratelli per affossare la nuova stampa liberale, che sempre più di frequente mette in dubbio il potere dei vecchi signori della guerra. A Kabul un fatto del genere sarebbe stato subito denunciato. Lo stesso presidente Karzai è intervenuto più volte di persona a difesa dei giornalisti. Ma oggi più che mai il potere centrale è debole, fiacco, non arriva nelle province, dove gli uomini forti dell'era talebana restano in sella», sostengono nei circoli giornalistici della capitale. Nella primavera scorsa il procuratore generale dello Stato, Abdul Jabar Sabet, era intervenuto personalmente per cercare di imporre la censura contro Tolo, la più diffusa televisione privata.

Ma, dopo alcune brevi colluttazioni tra giornalisti e forze dell'ordine a Kabul, Sabet era stato costretto a tornare sui suoi passi. Eppure le accuse di blasfemia sono certamente più difficili da combattere. Nei tre casi noti per gli ultimi sei anni, quasi tutti gli imputati e i loro famigliari hanno dovuto lasciare il Paese. Non aiuta la crescita dell'influenza dei mullah e delle corti religiose locali di fronte alla crisi del governo centrale e le continue accuse di corruzione e nepotismo nei confronti dei suoi rappresentanti. Di recente il governo ha persino accolto la richiesta dei circoli religiosi affinché venissero censurati i film indiani ritrasmessi dalle tv private afghane, giudicati «immorali». In ogni caso i maggiori responsabili delle organizzazioni della stampa afghana sono già corsi a chiedere aiuto a Karzai. Dichiara Rahimullah Samander, direttore dell'Associazione dei Giornalisti Indipendenti: «Le accuse contro Sayed sono scioccanti. Di lui si deve occupare un'apposita commissione di giornalisti».

Lorenzo Cremonesi
corriere.it

20.1.08

Il senso del laico

Questo termine non è un sinonimo di ateo o miscredente ma implica rispetto per gli altri e libertà da ogni idolatria

di Claudio Magris

Quando, all'università, con alcuni amici studiavamo tedesco, lingua allora non molto diffusa, e alcuni compagni che l'ignoravano ci chiedevano di insegnar loro qualche dolce parolina romantica con cui attaccar bottone alle ragazze tedesche che venivano in Italia, noi suggerivamo loro un paio di termini tutt'altro che galanti e piuttosto irriferibili, con le immaginabili conseguenze sui loro approcci. Questa goliardata, stupidotta come tutte le goliardate, conteneva in sé il dramma della Torre di Babele: quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l'invito del Papa all'università di Roma, l'elemento più pacchiano è stato, per l'ennesima volta, l'uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo, nel mio caso ripetitivo, tentativo di chiarirne il significato.

Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l'opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall'adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.

La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l'attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura— anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.

Una visione religiosa può muovere l'animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l'articolo del codice penale che punisce l'omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Un altro grande laico è stato Arturo Carlo Jemolo, maestro di diritto e libertà, cattolico fervente e religiosissimo, difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa e duro avversario dell'inaccettabile finanziamento pubblico alla scuola privata — cattolica, ebraica, islamica o domani magari razzista, se alcuni genitori pretenderanno di educare i loro figli in tale credo delirante.

Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l'autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall'idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.

I bacchettoni che si scandalizzano dei nudisti sono altrettanto poco laici quanto quei nudisti che, anziché spogliarsi legittimamente per il piacere di prendere il sole, lo fanno con l'enfatica presunzione di battersi contro la repressione, di sentirsi piccoli Galilei davanti all'Inquisizione, mai contenti finché qualche tonto prete non cominci a blaterare contro di loro.

Un laico avrebbe diritto di diffidare formalmente la cagnara svoltasi alla Sapienza dal fregiarsi dell'appellativo «laico». È lecito a ciascuno criticare il senato accademico, dire che poteva fare anche scelte migliori: invitare ad esempio il Dalai Lama o Jamaica Kincaid, la grande scrittrice nera di Antigua, ma è al senato, eletto secondo le regole accademiche, che spettava decidere; si possono criticare le sue scelte, come io criticavo le scelte inqualificabili del governo Berlusconi, ma senza pretendere di impedirgliele, visto che purtroppo era stato eletto secondo le regole della democrazia.

Si è detto, in un dibattito televisivo, che il Papa non doveva parlare in quanto la Chiesa si affida a un'altra procedura di percorso e di ricerca rispetto a quella della ricerca scientifica, di cui l'università è tempio. Ma non si trattava di istituire una cattedra di Paleontologia cattolica, ovviamente una scemenza perché la paleontologia non è né atea né cattolica o luterana, bensì di ascoltare un discorso, il quale — a seconda del suo livello intellettuale e culturale, che non si poteva giudicare prima di averlo letto o sentito — poteva arricchire di poco, di molto, di moltissimo o di nulla (come tanti discorsi tenuti all'inaugurazione di anni accademici) l'uditorio. Del resto, se si fosse invitato invece il Dalai Lama — contro il quale giustamente nessuno ha né avrebbe sollevato obiezioni, che è giustamente visto con simpatia e stima per le sue opere, alcune delle quali ho letto con grande profitto — anch'egli avrebbe tenuto un discorso ispirato a una logica diversa da quella della ricerca scientifica occidentale.

Ma anche a questo proposito il laico sente sorgere qualche dubbio. Così come il Vangelo non è il solo testo religioso dell'umanità, ma ci sono pure il Corano, il Dhammapada buddhista e la Bhagavadgita induista, anche la scienza ha metodologie diverse. C'è la fisica e c'è la letteratura, che è pure oggetto di scienza — Literaturwissenschaft, scienza della letteratura, dicono i tedeschi — e la cui indagine si affida ad altri metodi, non necessariamente meno rigorosi ma diversi; la razionalità che presiede all'interpretazione di una poesia di Leopardi è diversa da quella che regola la dimostrazione di un teorema matematico o l'analisi di un periodo o di un fenomeno storico. E all'università si studiano appunto fisica, letteratura, storia e così via. Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all'università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola.

Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell'insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico quale Max Weber, tutto dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente, mettendo le carte in tavola, ossia dichiarando a priori le sue convinzioni, scientifiche e filosofiche, affinché gli altri sappiano che forse esse possono influenzare pure inconsciamente la sua ricerca, anche se egli onestamente fa di tutto per evitarlo. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un'esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento. Se, invece, si affermano arrogantemente verità date una volta per tutte, si è intolleranti totalitari, clericali.
Non conta se il discorso di Benedetto XVI letto alla Sapienza sia creativo e stimolante oppure rigidamente ingessato oppure — come accade in circostanze ufficiali e retoriche quali le inaugurazioni accademiche — dotto, beneducato e scialbo. So solo che — una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo — un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all'inaugurazione dell'anno accademico (come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.

Nei confronti di Benedetto XVI è scattato infatti un pregiudizio, assai poco scientifico. Si è detto che è inaccettabile l'opposizione della dottrina cattolica alle teorie di Darwin. Sto dalla parte di Darwin (le cui scoperte si pongono su un altro piano rispetto alla fede) e non di chi lo vorrebbe mettere al bando, come tentò un ministro del precedente governo, anche se la contrapposizione fra creazionismo e teoria della selezione non è più posta in termini rozzi e molte voci della Chiesa, in nome di una concezione del creazionismo più credibile e meno mitica, non sono più su quelle posizioni antidarwiniane. Ma Benedetto Croce criticò Darwin in modo molto più grossolano, rifiutando quella che gli pareva una riduzione dello studio dell'umanità alla zoologia e non essendo peraltro in grado, diversamente dalla Chiesa, di offrire una risposta alternativa alle domande sull'origine dell'uomo, pur sapendo che il Pitecantropo era diverso da suo zio filosofo Bertrando Spaventa. Anche alla matematica negava dignità di scienza, definendola «pseudoconcetto». Se l'invitato fosse stato Benedetto Croce, grande filosofo anche se più antiscientista di Benedetto XVI, si sarebbe fatto altrettanto baccano? Perché si fischia il Papa quando nega il matrimonio degli omosessuali e non si fischiano le ambasciate di quei Paesi arabi, filo- o anti-occidentali, in cui si decapitano gli omosessuali e si lapidano le donne incinte fuori dal matrimonio?
In quella trasmissione televisiva Pannella, oltre ad aver infelicemente accostato i professori protestatari della Sapienza ai professori che rifiutarono il giuramento fascista perdendo la cattedra, il posto e lo stipendio, ha fatto una giusta osservazione, denunciando ingerenze della Chiesa e la frequente supina sudditanza da parte dello Stato e degli organi di informazione nei loro riguardi. Se questo è vero, ed in parte è certo vero, è da laici adoperarsi per combattere quest'ingerenza, per dare alle altre confessioni religiose il pieno diritto all'espressione, per respingere ogni invadenza clericale, insomma per dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, principio laico che, come è noto, è proclamato nel Vangelo.
Ma questa doverosa battaglia per la laicità dello Stato non autorizza l'intolleranza in altra sede, come è accaduto alla Sapienza; se il mio vicino fa schiamazzi notturni, posso denunciarlo, ma non ammaccargli per rivalsa l'automobile.

Una cosa, in tutta questa vicenda balorda, è preoccupante per chi teme la regressione politica del Paese, i rigurgiti clericali e il possibile ritorno del devastante governo precedente. È preoccupante vedere come persone e forze che si dicono e certo si sentono sinceramente democratiche e dovrebbero dunque razionalmente operare tenendo presente la gravità della situazione politica e il pericolo di una regressione, sembrano colte da una febbre autodistruttiva, da un'allegra irresponsabilità, da una spensierata vocazione a una disastrosa sconfitta.

L'imprudenza politica della chiesa

BARBARA SPINELLI
È probabile che Camillo Ruini, che per molti anni ha presieduto la Conferenza episcopale italiana e ancora influenza la Chiesa nella sua qualità di vicario di Roma, gioirà di quello che oggi potrebbe accadere nella capitale: una moltitudine di cittadini romani e italiani, da lui incitata e inebriata, accorrerà sicuramente all’Angelus, in piazza San Pietro, per ascoltare il Papa e denunciare la persecuzione di cui sarebbe stato vittima. Persecuzione che lo avrebbe indotto a non pronunciare più nell’aula universitaria la prolusione che gli era stata - senza seria preparazione - affidata. Il brutto episodio finirà col trasformarsi in una giornata gloriosa per la Chiesa, questo il giudizio cui sembra esser giunto il cardinale, e il male ancora una volta si muterà provvidenzialmente in bene. Lui stesso s’è espresso in questo modo, venerdì alla televisione, ripetendo quanto già detto il 4 novembre a Aldo Cazzullo sul Corriere. La Chiesa (tali furono le sue parole) è attaccata quando vince: «Constato che quando l’impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa “perde”, tutto fila liscio».

Il rifiuto che numerosi scienziati e un gruppo di studenti hanno opposto al Pontefice, la ritirata strategica del Santo Padre: tutto questo non è, per una parte della gerarchia, un episodio increscioso, o come ha detto sull’Avvenire Souad Sbai, in nome dell’Islam italiano anti-integralista, un «giorno di tristezza».

Forse non è del tutto increscioso neppure per il Papa. Al giornalista Rai che l’interrogava, Ruini ha detto: «I rapporti tra Stato italiano e Chiesa possono migliorare, grazie a episodi come questo».

E ha sorriso sibillino, come si rallegrano quei militanti apocalittici che provocano tenebre e caos pensando che solo a queste condizioni rinasca la luce, che incitano a sfasciare (nel linguaggio brigatista si diceva «disarticolare») per generare palingenesi prerivoluzionarie. La sovversione ha in genere queste proprietà, avverse al filar liscio dei rapporti. Non a caso il sorriso di Ruini si accentua sino a tingersi di scherno, quando respinge l’accusa d’ingerenza nell’agenda politica e chiede - provocatoriamente, accendendo sorrisi complici nel giornalista - se ci sia oggi «qualcuno in Italia, capace di dettare agende politiche». Esiste insomma un modo di raccontare l’episodio della Sapienza, che deforma ogni cosa. Si falsifica quel che accade, si comprime il tempo che viviamo schiacciandolo tutto sul presente e togliendogli ogni profondità. Ci si racconta la storia di una Chiesa perseguitata, prendendo in prestito il linguaggio dell’esperienza ebraica; si denuncia e si irride la stasi della politica. In questo Ruini ha comportamenti sovversivi che singolarmente lo apparentano alla figura di Berlusconi.

Ma è un sovversivo che miete successi, e sono questi ultimi che conviene analizzare. Non è un successo religioso, perché l’indebolirsi delle fedi non si argina riempiendo piazze. Non è neppure in questione la libertà della religione cattolica, perché in Italia essa è garantita e ha un’estensione enorme. Nessuno l’ostacola, tanto meno la censura: se la fede è debole, quando è debole, lo è per cause spirituali o pastorali e non per cause esterne, di potere politico. Solo in Italia questa realtà è obnubilata. È sottratta allo sguardo dei cittadini anche dai commentatori che dovrebbero sapere e che sanno, senza però sentirsi in dovere di aiutare i fedeli a emettere giudizi adulti perché informati.

Quel che molti commentatori o intellettuali nascondono è il divario tra simili realtà e il modo di raccontarle. Il rapporto mimetico del cattolicesimo italiano con l’ebraismo è un non senso, nelle democrazie. Fuori dall’Italia, in Francia o Germania, Spagna o Inghilterra, esiste certo una nuova consapevolezza dell’importanza delle religioni (le parole e le esperienze personali di Sarkozy e Blair lo testimoniano), ma i mutamenti avvengono in contesti radicalmente diversi: in nessuno di questi Paesi la Chiesa ha il peso, il tempo di parola che ha in Italia. Venerdì, su questo giornale, Giacomo Galeazzi ha spiegato bene lo spazio abnorme che le viene dato: da quando è Papa, Benedetto XVI ha avuto un tempo d’antenna superiore a quello del premier e del Capo dello Stato, e appena inferiore a quello di tutti i ministri messi insieme. Non solo: la Chiesa cattolica ha il 99,8% dello spazio dell’informazione religiosa, lasciando briciole a altre fedi. Il vittimismo è storia senza sostanza. La Chiesa italiana non è imbavagliata ma piuttosto sovraesposta. L’idea che esistano comportamenti etici su cui lo Stato non può autonomamente legiferare perché appartenenti alla legge naturale, dunque iscritti dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura umana, dunque interpretabili e tutelabili solo dalla Chiesa, è idea diffusa. Chi contesta il diritto della Chiesa a imporre i suoi veti su famiglia, unioni di fatto, aborto, testamento biologico, ricerca biologica, è una minoranza.

È questa situazione che ha finito col generare rabbia gridata, e stupida perché perdente. Ma rabbia che comunque non nasce dal nulla. Ogni evento ha una storia, un tempo lungo in cui è iscritto ed è maturato: ha cause che dispiegano effetti, non è istante che fluttua nell’etere come piuma ed è infilabile in ogni tipo di racconto. Questa verità viene ignorata da parte della gerarchia, ma anche dal Pontefice nell’ultimo incidente italiano. È la verità di una Chiesa italiana che ancora non ha deciso che fare, dopo la perdita della Dc: se schierarsi con la destra o no, se far politica direttamente o privilegiare lo spirituale, il profetico-pastorale. È la verità di un Pontefice che sta mostrandosi incapace di sintesi, di delicatezza istituzionale. Di volta in volta Benedetto XVI aderisce a una corrente o all’altra della gerarchia, senza anticipare proprie soluzioni alte e meno italiane. Un giorno s’infiamma contro il «degrado» di Roma, e ventiquattr’ore dopo descrive una città accogliente e ben governata. Precipitosamente accetta di aprire l’anno accademico, poi rinuncia senza fugare il sospetto che la ritirata sia uno strumento - maneggiato da Ruini - per inasprire le tensioni anziché placarle. La sua opinione politica oscilla, diventa impreparazione, per forza vien chiamata inconsistente. È un’impreparazione che non solo ignora la dimensione del tempo ma che induce i vertici del Vaticano a sprezzare i significati profondi della laicità, dell’autonomia della politica, dello Stato neutrale. È assurdo doverlo ricordare alla presenza di un cattolicesimo che ha dato all’Europa questa separazione: ma laicità non è pensiero debole, non è visione relativista del mondo, dell’etica. Il laico non è, contrariamente a quello che Marcello Pera ha scritto su questo giornale, «chi non crede o non riesce a credere». Non è neppure chi non riesce a «conferire senso alla vita», a «interpretare il male» perché dotato del lume della ragione e non anche della fede. Il laico è colui che tra Chiesa e Stato sente di dover erigere, come diceva Thomas Jefferson, un alto «muro di separazione»: per proteggere sia la sovranità legiferante del popolo, sia le religioni. Diceva Jefferson che i poteri legislativi del governo «riguardano le azioni, non le opinioni» (Lettera ai Battisti di Danbury, 1802), e di azioni devono ancor oggi occuparsi i governi. La laicità non è un’opinione ma un metodo, uno spazio dove le convinzioni più diverse - anche integraliste - possono incontrarsi senza violenza e senza impedire leggi attente al bene comune. L’autonomia della politica (il «muro» di Jefferson) non appartiene al non cristiano: appartiene a ciascuno. Non esiste una forza esterna allo Stato cui viene delegata la «competenza delle competenze», come la chiama lo storico Giovanni Miccoli, e che può decidere le materie su cui lo Stato può o non può legiferare. Il muro di Jefferson in Italia è in permanenza fatiscente - anche se esiste nella sua Costituzione - e questo origina cronici disordini e l’alternarsi continuo di ingerenze e di contestazioni anti-papaline. Queste ultime son state definite malate, ma non meno malate son state le ingerenze degli ultimi anni: l’intera spirale necessita guarigione e correzione. Il chiaro muro divisorio non esisteva nemmeno nella Spagna di Franco, nel Portogallo di Salazar, e quella malattia ha prodotto la reazione di Zapatero e le sue misure di riordino e separazione laica.

In Italia siamo a un bivio simile, anche se con impressionante ritardo. È come se nella nostra Chiesa permanesse ancora il modello franchista spagnolo, come se il pensiero di cattolici come Rosmini e Maritain non avesse mai messo radice. Come se non ci fossero stati il Concilio Vaticano II e Paolo VI, difensore della laicità di Maritain contro gli integralisti del Vaticano. Come se fosse ancora vivo e forte il «partito romano» che per decenni, da dentro la Chiesa, cercò di suscitare uno Stato etico cristiano in Italia e mai si conciliò con papa Montini e la Dc autonoma di De Gasperi.

L’episodio della Sapienza non è caduto dal cielo, e non rendersene conto significa che una certa imprudentia politica sta divenendo la caratteristica del Pontefice. Dice ancora Pera che le vecchie regole laiche sono sorpassate, e forse lo pensa anche Benedetto XVI. Sono invece più che mai attuali, in un’Europa dove si è ormai insediato un Islam forte, in espansione. Senza Stato laico, che garantisca cattolici e non cattolici, atei e agnostici, avremmo in Europa guerre di religioni, intolleranze, pogrom. Avremmo catastrofi benefiche solo a chi non sa apprezzare quanto si stia bene, quando «tutto fila liscio».

lastampa.it

19.1.08

Il paese che non ce la fa

Galapagos

Poco più di due euro netti al giorno: a tanto ammontano le richieste dei metalmeccanici. Eppure il padronato non molla e - purtroppo - larga parte del paese è abbastanza indifferente alle lotte e molto seccato quando trova le strade e le autostrade bloccate dalle manifestazioni di chi rivendica un contratto scaduto da troppo tempo. Eppure basta guardare la bilancia commerciale: se l'Italia regge il merito è del settore manifatturiero e in particolare di quello metalmeccanico. Grazie al plusvalore da loro prodotto l'enorme disavanzo dei conti con l'estero viene bilanciato.
La lotta dei metalmeccanici assume una valenza ancora più grande alla luce dei dati diffusi ieri dall'Istat sulla distribuzione del reddito delle famiglie nel 2005. La media è di 2.311 euro al mese, «tuttavia il 61% ha conseguito un reddito inferiore all'importo medio a causa di una distribuzione diseguale». Questo significa che non bisogna farsi ingannare dalle medie visto che il i 2/3 delle famiglie hanno un reddito inferiore di 450 euro al mese della media. Non sappiamo esattamente cosa è successo nel 2006 e nel 2007, ma anche se non c'è più Berlusconi miracoli non sono stati fatti: la distribuzione del reddito seguita a essere infame.
Prendiamo i più ricchi e quelli più poveri: il 2% delle famiglie in fondo alla scala sociale dovrebbe riuscire a sopravvivere con meno di 6.358 euro l'anno, mentre il 5% di quelle più agiate vive con oltre 65 mila euro. Certo, stiamo parlando dei molto ricchi e dei molto poveri, ma allargando le percentuali al 10% o al 20% delle famiglie lo squilibrio si conferma. E chi sta al Sud sta molto peggio, mediamente di un 30%. Queste cifre ci dicono chiaramente che il fisco da solo non basta: per i meno abbienti serve un intervento diverso, «socialdemocratico», sperando che a sinistra nessuno si offenda.
C'è un dato - del 2006 - che colpisce: il 28,4% dei nuclei dichiara all'Istat di non essere in grado di affrontare una spesa «necessaria e imprevista» di 600 euro. E il disagio economico sale al 41,3% per le famiglie del sud. L'Italia è un popolo di risparmiatori, si è solito affermare. Falso: milioni di famiglie, decine di milioni di persone non hanno una lira da parte.
E qui torniamo ai metalmeccanici, ma non solo loro, visto che in piedi ci sono lotte molte più dure come quelle dei lavoratori del commercio che si scontrano con multinazionali o piccole aziende nelle quali lo sciopero è impossibile. Quei due euro al giorno sono necessari per sopravvivere un po' meno peggio. E per vivere un po' meno peggio serve restringere l'area della precarietà e della flessibilità che invece Federmeccanica vorrebbe allargare. Ma non basta: serve un fisco più selettivo che non premi l'evasione fiscale, per cui i lavoratori dipendenti guadagnano in media più del loro padrone. Forse i puristi del fisco neutrale storceranno la bocca, ma fino a quando il cancro dell'evasione non sarà estirpato è necessario «privilegiare» chi non può evadere destinando a questi soggetti deboli tutto l'extra gettito.
ilmanifesto.it

18.1.08

FINLANDIA - Gli insegnanti migliori

GUNNAR HERRMANN

Per capire perché gli studenti
finlandesi siano tra i più preparati al mondo basta dare un’occhiata alla qualità degli insegnanti, soprattutto nella scuola elementare. Secondo gli esperti è proprio nei primi anni di apprendimento che si gettano le basi per avere in futuro studenti brillanti. In Finlandia solo chi ha superato un duro processo di selezione può presentarsi di fronte a una classe di bambini. Quest’anno la scelta è stata particolarmente rigorosa e la competizione più dura del solito. “Avevamo 1.300 candidati per 120 posti”, spiega il professor Jukka Rantala, responsabile della formazione degli insegnanti all’università di Helsinki. Chi riesce a studiare con Rantala all’istituto di pedagogia applicata deve aver superato un esame scritto, che promuove solo 360 aspiranti insegnanti, e poi una prova orale. I futuri maestri tengono brevi relazioni di fronte a una commissione esaminatrice e svolgono alcuni compiti di gruppo. Ma soprattutto devono spiegare i motivi per cui vogliono diventare docenti. Gli esaminatori cercano di scoprire se la vocazione per l’insegnamento è abbastanza forte da spingerli ad affrontare classi difficili, bambini irrequieti e giornate di lavoro intense.
Chi supera le selezioni verrà formato per insegnare alle elementari, che in Finlandia durano nove anni. Per questo lavoro servono docenti preparati in tutte le materie, dalla letteratura finlandese alla chimica fino alla storia. Ma la materia principale è l’insegnamento stesso: psicologia, pedagogia e didattica compongono infatti buona parte del programma di studio per i futuri insegnanti. Anche la tesi di laurea deve riguardare le scienze dell’educazione.
La cosa più difficile da capire è perché la carriera scolastica sia così ambita. Neanche Rantala è riuscito a venire a capo di questo mistero. Solo di una cosa è certo: l’interesse dei giovani per l’insegnamento non dipende da una questione di soldi. “Lo stipendio degli insegnanti di scuola elementare è piuttosto basso”, spiega, “mentre i docenti delle superiori guadagnano meglio”. Eppure per quest’altro tipo di insegnamento i candidati sono molti di meno. “Forse la passione di tanti giovani”, afferma il professore, “è collegata ai ricordi piacevoli degli anni trascorsi alle elementari”.
internazionale.it

16.1.08

Lettere dei professori de La Sapienza in merito alla visita del Papa

Era il 14 novembre del 2007 quando il professor Cini inviò la seguente lettera aperta " Se la Sapienza chiama il Papa e lascia a casa Mussi", pubblicata sul Manifesto

Signor Rettore, apprendo da una nota del primo novembre dell'agenzia di stampaApcom che recita: «è cambiato il programma dell'inaugurazione del 705esìmo Anno Accademico dell'università di Roma La Sapienza, che in un primo momento prevedeva la presenza del ministro Mussi a ascoltare la Lectio Magistralis di papa Benedetto XVI». Il papa «ci sarà, ma dopo la cerimonia di inaugurazione, e il ministro dell'Università Fabio Mussi invece non ci sarà più».

Come professore emerito dell'università La Sapienza - ricorrono proprio in questi giorni cinquanta anni dalla mia chiamata a far parte della facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali su proposta dei fisici Edoardo Amaldi, Giorgio Salvini e Enrico Persico - non posso non esprimere pubblicamente la mia indignazione per la Sua proposta, comunicata al Senato accademico il 23 ottobre, goffamente riparata successivamente con una toppa che cerca di nascondere il buco e al tempo stesso ne mantiene sostanzialmente l'obiettivo politico e mediatico.

Non commento il triste fatto che Lei è stato eletto con il contributo determinante di un elettorato laico. Un cattolico democratico - rappresentato per tutti dall'esempio di Oscar Luigi Scalfaro nel corso del suo settennato di presidenza della Repubblica - non si sarebbe mai sognato di dimenticare che dal 20 settembre del 1870 Roma non è più la capitale dello stato pontificio. Mi soffermo piuttosto sull'incredibile violazione della tradizionale autonomia delle università - da più 705 anni incarnata nel mondo da La Sapienza dalla Sua iniziativa.

Sul piano formale, prima di tutto. Anche se nei primi secoli dopo la fondazione delle università la teologia è stata insegnata accanto alle discipline umanistiche, filosofiche, matematiche e naturali, non è da ieri che di questa disciplina non c'è più traccia nelle università moderne, per lo meno in quelle pubbliche degli stati non confessionali. Ignoro lo statuto dell'università di Ratisbona dove il professor Ratzinger ha tenuto la nota lectio magistralis sulla quale mi soffermerò più avanti, ma insisto che di regola essa fa parte esclusivamente degli insegnamenti impartiti nelle istituzioni universitarie religiose. I temi che sono stati oggetto degli studi del professor Ratzinger non dovrebbero comunque rientrare nell'ambito degli argomenti di una lezione, e tanto meno di una lectio magistralis tenuta in una università della Repubblica italiana. Soprattutto se si tiene conto che, fin dai tempi di Cartesio, si è addivenuti, per porre fine al conflitto fra conoscenza e fede culminato con la condanna di Galileo da parte del Santo ufficio, a una spartizione di sfere di competenza tra l'Accademia e la Chiesa. La sua clamorosa violazione nel corso dell'inaugurazione dell'anno accademico de La Sapienza sarebbe stata considerata, nel mondo, come un salto indietro nel tempo di trecento anni e più.

Sul piano sostanziale poi le implicazioni sarebbero state ancor più devastanti. Consideriamole partendo proprio dal testo della lectio magistralis del professor Ratzinger a Ratisbona, dalla quale presumibilmente non si sarebbe molto discostata quella di Roma. In essa viene spiegato chiaramente che la linea politica del papato di Benedetto XVI si fonda sulla tesi che la spartizione delle rispettive sfere di competenza fra fede e conoscenza non vale più: «Nel profondo.., si tratta - cito testualmente - dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'infima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio».

Non insisto sulla pericolosità di questo programma dal punto di vista politico e culturale: basta pensare alla reazione sollevata nel mondo islamico dall'accenno alla differenza che ci sarebbe tra il Dio cristiano e Allah - attribuita alla supposta razionalità del primo in confronto all'imprevedibile irrazionalità del secondo - che sarebbe a sua volta all'origine della mitezza dei cristiani e della violenza degli islamici. Ci vuole un bel coraggio sostenere questa tesi e nascondere sotto lo zerbino le Crociate, i pogrom contro gli ebrei, lo sterminio degli indigeni delle Americhe, la tratta degli schiavi, i roghi dell'Inquisizione che i cristiani hanno regalato al mondo. Qui mi interessa, però, il fatto che da questo incontro tra fede e ragione segue una concezione delle scienze come ambiti parziali di una conoscenza razionale più vasta e generale alla quale esse dovrebbero essere subordinate. «La moderna ragione propria delle scienze naturali - conclude infatti il papa - con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda {sui perché di questo dato di fatto) esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali a altri livelli e modi del pensare - alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi a essa significherebbe una riduzione inaccetabile del nostro ascoltare e rispondere».

Al di là di queste circonlocuzioni (i corsivi sono miei) il disegno mostra che nel suo nuovo ruolo l'ex capo del Sant'uffizio non ha dimenticato il compito che tradizionalmente a esso compete. Che è sempre stato e continua a essere l'espropriazione della sfera del sacro immanente nella profondità dei sentimenti e delle emozioni di ogni essere umano da parte di una istituzione che rivendica l'esclusività della mediazione fra l'umano e il divino. Un'appropriazione che ignora e svilisce le innumerevoli differenti forme storiche e geografiche di questa sfera così intima e delicata senza rispetto per la dignità personale e l'integrità morale di ogni individuo.

Ha tuttavia cambiato strategia. Non potendo più usare roghi e pene corporali ha imparato da Ulisse. Ha utilizzato l'effige della Dea Ragione degli illuministi come cavallo di Troia per entrare nella cittadella della conoscenza scientifica e metterla in riga. Non esagero. Che altro è, tanto per fare un esempio, l'appoggio esplicito del papa dato alla cosiddetta teoria del Disegno Intelligente se non il tentativo - condotto tra l'altro attraverso una maldestra negazione dell'evidenza storica, un volgare stravolgimento dei contenuti delle controversie interne alla comunità degli scienziati e il vecchio artificio della caricatura delle posizioni dell'avversario - di ricondurre la scienza sotto la pseudo-razionalità dei dogmi della religione? E come avrebbero dovuto reagire i colleghi biologi e i loro studenti di fronte a un attacco più o meno indiretto alla teoria danwiniana dell'evoluzione biologica che sta alla base, in tutto il mondo, della moderna biologia evolutiva?

Non desco a capire, quindi, le motivazioni della Sua proposta tanto improvvida e lesiva dell'immagine de La Sapienza nel mondo. Il risultato della Sua iniziativa, anche nella forma edulcorata della visita del papa (con «un saluto alla comunità universitaria») subito dopo una inaugurazione inevitabilmente clandestina, sarà comunque che i giornali del giorno dopo titoleranno (non si può pretendere che vadano tanto per il sottile): «Il Papa inaugura l'Anno Accademico dell'Università La Sapienza».

Congratulazioni, signor Rettore. Il Suo ritratto resterà accanto a quelli dei Suoi predecessori come. simbolo dell'autonomia, della cultura e del progresso delle scienze.

Marcello Cini

aprileonline.info



La lettera di 67 professori al Rettore de La Sapienza

Magnifico Rettore, con queste poche righe desideriamo portarLa a conoscenza del fatto che condividiamo appieno la lettera di critica che il collega Marcello Cini Le ha indirizzato sulla stampa a proposito della sconcertante iniziativa che prevedeva l'intervento di papa Benedetto XVI all'Inaugurazione dell'Anno Accademico alla Sapienza.

Nulla da aggiungere agli argomenti di Cini, salvo un particolare. Il 15 marzo 1990, ancora cardinale, in un discorso nella citta di Parma, Joseph Ratzinger ha ripreso un'affermazione di Feyerabend: ''All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto''.

Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano. In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora essere annullato.

15.1.08

Le incursioni di papa Ratzinger

Marcello Cini

Il «caso» della visita del papa, non si sa bene in che veste, per l'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza è scoppiato due giorni dopo quello della lavata di capo da lui rivolta al sindaco di Roma Veltroni come se fosse ancora il capo dello stato pontificio. Come già in altre occasioni non si sa se Ratzinger parli dalla cattedra di Pietro o da quella di professore di teologia, o magari dal trono di un re dell'ancien régime. E' un fuoco di fila di voluta confusione di ruoli che contrassegna il protagonismo di Benedetto XVI volto a riportare indietro di un paio di secoli l'orologio della storia. Un tentativo che, come ha ricordato Eugenio Scalfari, tende a «trasformare la gerarchia ecclesiastica e quello che pomposamente viene definito il Magistero in una lobby che chiede e promette favori e benefici, quanto di più lontano e disdicevole dall'attività pastorale e dall'approfondimernto culturale».
Questo disegno mostra che nel suo nuovo ruolo l'ex capo del Sant'Uffizio continua a interpretare il suo compito come espropriazione, con le buone o (come in passato) con le cattive, della sfera del sacro immanente nella profondità dei sentimenti e delle emozioni di ogni essere umano, da parte di una istituzione che rivendica l'esclusività della mediazione fra l'umano e il divino: espropriazione che ignora e svilisce le differenti forme storiche e geografiche di questa sfera così intima e delicata senza rispetto per la dignità personale e l'integrità morale di ogni individuo.
Come alcuni lettori del manifesto forse ricordano già in novembre avevo rivolto al rettore della Sapienza una lettera aperta, nella quale esponevo le ragioni della mia indignazione per un invito a tenere una lectio magistralis che mi appariva del tutto inappropriata nella forma e nella sostanza. Alcuni colleghi hanno voluto successivamente unire la loro voce alla mia e li ringrazio per averlo fatto. Siamo certamente una minoranza del corpo accademico, ma non credo purtroppo che la maggioranza dei miei colleghi si interessi molto alle questioni che non attengono direttamente alla loro attività professionale.
Anche se la proposta di lectio magistralis non è stata portata avanti, si è scoperto, guarda caso, che il papa si troverà a passare da quelle parti proprio lo stesso giorno dell'inaugurazione dell'anno accademico e dunque che sarebbe stato scortese non chiedergli di dire due parole. La sostanza è dunque che il papa inaugurerà giovedì l'anno accdemico dell'Università La Sapienza.
Perché ci indignamo tanto? Perché siamo così intolleranti e settari da non volergli dare la parola? Provo a spiegarlo in due parole. In primo luogo perchè le università, per lo meno quelle pubbliche, sono - negli stati non confessionali - una comunità di studiosi, docenti e discenti, di tutte le discipline universalmente riconosciute, di tutte le scuole di pensiero, di tutte le culture e gli orientamenti politici e religiosi, scelti dai loro pari per i loro contributi scientifici e culturali. Nessuno di loro può però accettare che qualcuno, per quanto vanti investiture dall'Alto, possa loro prescrivere cosa debbano o possano dire, fare o pensare. Ognuno ha la propria coscienza e la propria deontologia professionale. In particolare possiamo tollerare che il papa possa dire ai nostri colleghi biologi che non devono prendere sul serio Darwin? Oppure ai nostri colleghi filosofi che è «inammissibile» - parole del professor Ratzinger a Ratisbona - «rifiutarsi di ascoltare le tradizioni della fede cristiana»?
Concludo con una domanda semplice. Una cosa simile potrebbe mai accadere non dico nella Spagna di Zapatero ma anche in Francia in Germania, in Inghilterra o negli Stati Uniti?
ilmanifesto.it

11.12.07

Nichi Vendola agli Stati generali della Sinistra Arcobaleno di Roma

“E’ come se d’improvviso avvertissimo un sentimento oscuro di spaesamento, di smarrimento dei nostri punti cardinali, di perdita del peso specifico dei nostri alfabeti, di esodo dagli universi simbolici della nostra vita. E’ come se i nostri pensieri e il nostro fare abitassero sul ciglio di un crepaccio, dentro una frattura del senso delle cose, dentro uno smottamento in cui si schianta tutto lo spazio che abbiamo attraversato e in cui muore tutto il tempo – il tempo sociale, il tempo politico – che ha scandito le nostre storie. Vedevamo il futuro illuminato da una idea, da un sole, da una volontà corale. Oggi vediamo il presente illuminato da tanti roghi in cui bruciano le cose materiali e le cose simboliche: bruciano i nostri boschi insieme alla idea-chiave dei beni comuni e dell’interesse generale; brucia nella sua roulotte un bimbo rom e insieme a lui s’incenerisce una soglia della nostra civiltà e persino un ancestrale sentimento di pietà; brucia la carne giovane del nuovo proletariato della fabbrica planetaria e insieme brucia tutta una storia della coscienza operaia, tutto un mondo del lavoro che aveva, nel corso dell’intero novecento, guadagnato la sua trama di significato sociale, la sua rete di dignità e di diritto.
Ciascuno di questi roghi ha il potere di rivelare il vuoto della politica che si è barricata nel talk-show, la crisi di una discussione pubblica che si trascina stancamente in forma di guerra civile simulata, la perdita di autorevolezza di una sfera politico-istituzionale che appare una replica dell’isola dei famosi. Mentre fuori dalla politica, la società appare come certe spiagge quando c’è la bassa marea: con la battigia sporca di detriti, plastiche e alghe rinsecchite. Se togliamo l’audio al grande blob quotidiano sulla crisi di governo che appare e scompare come una lucina intermittente, sentiamo la voce degli esperti di banalità che danza sulla psiche dei nostri vicini-modello che hanno appena seviziato e straziato la vita di qualcuno, mentre il modello di padre e fratello e figlio perpetua il genio maschile della vitalistica onnipotenza dello stupro, mentre qualcuno dei nostri ragazzini videoregistra, col suo cellulare, un coetaneo che si toglie la vita. Eccoci qua. Sepolta senza elaborazione del lutto e senza rito funebre l’ideologia della speranza, avanza l’ideologia del tubo digerente, del consumo mordi e fuggi, dell’epica del mio ombelico. Sepolti, con una certa furia iconoclasta, i partiti di massa della democrazia novecentesca, avanzano i partiti di cassa organizzati tra le viscere della cronaca nera e l’apologia della televendita. E in questa post-modernità in cui domina la materia e il feticcio della merce, in cui i poteri si concentrano sempre più nello spazio trascendente del mercato mondiale, in cui la vita e la morte diventano accidenti fenomenici della biologia, cosa volete che sia la politica? Un frammento di casta, in un universo di frammenti e di poltiglia, di corporazioni e di lobbies e di residui solidi urbani.
C’è davvero una frattura multipla che racconta i perché del nostro perderci e anche delle nostre perdizioni. Frattura nella condizione di lavoro, appunto: cioè cesura tra il lavoratore e la sua condizione, solitudine tipica del suo contratto atipico, esternalizzazione della sua storia produttiva rispetto a qualunque codice della cittadinanza, precarietà come destino e come identità, il prestatore di braccia e di cervello a un ciclo economico che non intende più assumerlo come un interlocutore sociale ma come un ingrediente meccanico, o al massimo come solitaria risorsa umana o materiale rotabile, rottamabile, magari infiammabile. Del Welfare è questo il nuovo protocollo che non si può accettare: l’espulsione del lavoro dalla terra del diritto sociale e la sua regressione nella palude esistenziale della precarietà. E questo che oggi uccide, uccide metaforicamente quando ti toglie il senso delle cose, e ti uccide letteralmente, ogni giorno, quattro volte al giorno: una orribile morte proletaria che certo fa meno audience dei delitti di provincia consumati tra la noia adolescenziale e la paranoia televisiva.
C’è la frattura nella condizione del vivere urbano, in quella feroce distanza tra il lunapark del centro e l’inferno della periferia, in quella tracimazione del cemento che, alleando rendita fondiaria e speculazione edilizia, immaginò la crescita ipertrofica di città senza comunità, di luoghi senza qualità, di corpi edilizi incontinenti per corpi individuali spezzati e incomunicanti. E la periferia è diventata tutt’altro che un mondo residuale, ma la grammatica generale del vivere associato, anzi del vivere dissociato, il plastico urbano dell’ideologia totalitaria della precarietà.
C’è la frattura nella condizione della famiglia, disarticolata per fasce generazionali, con la fine della coabitazione delle tre generazioni che non mescolano più i loro saperi e le loro esperienze, con gli anziani esternalizzati in luoghi specializzati, gli adulti intenti sulle proprie carriere, l’infanzia affidata all’agenzia educativa del grande fratello o delle piccole chat.
In questa geografia dei nostri territori polverizzati e caotici, in questa antropologia orfana di polis e quindi disperatamente estranea alla politica, c’è un bisogno vitale, direi viscerale, di tornare a porci le domande giuste. Non le risposte giuste, quelle in cui ognuno diventa geloso della propria nostalgia e si presenta come il custode fallimentare della propria identità e della propria bandiera. Le domande giuste. Quelle sui poteri che ergono barriere architettoniche e sociali e culturali per dividere, per separare il genere umano, per dare nevrotiche appartenenze nei recinti angusti del proprio villaggio o della propria tribù o del proprio alfabeto. La precarietà e la nevrosi della sicurezza sono gli ingredienti decisivi dell’egemonia culturale della destra, e cioè del berlusconismo che trascende gli schieramenti politici e diviene lo spirito dei tempi: che celebre la religione della competitività e la liturgia della flessibilità; che è garantista con chi è garantito e giustizialista con chi è già stato giustiziato dal tribunale della globalizzazione; che mistifica le parole fino al punto di immaginare la pace economica in termini di guerra infinita; che vuole indurci nella tentazione della violenza affinché ogni idea di cambiamento (la rivoluzione) possa smarrire e mistificare se stessa.
E’ una società della paura, in cui l’ordine costituito delle corporation divora ogni ordine democratico e lo riduce a fiction televisiva.
Qui serve il coraggio di una nuova nascita. Non la sapienza di chi mette insieme tante piccole cose antiche. Serve che ciascuno e ciascuna lavori per questo cimento del futuro: un parto, un partire, non so se un partito.
Una costituente, non l’equilibrio precario di corpi costituiti. Un soggetto che sappia leggere nel cuore della nostra società, sappia sondarne i fondali melmosi, sappia coglierne il dolore sociale e le domande di senso. Una sinistra che non sia un riassunto, un bignami di ciò che fummo, ma una casa capace di ospitare quelle domande di libertà che chiedono di rompere la gabbia di tutte le precarietà e di tutte le solitudini socialmente programmate. Certo è doloroso uscire da se stessi, si ha paura di dissipare sentimenti e patrimoni messi assieme con tanti sacrifici. Ma è necessario farlo. C’è un verso di Pisolini che mi pare particolarmente adatto a indicare questa nostra condizione sentimentale e politica; dice così “Piange ciò che muta, anche per farsi migliore”. Appunto, compagni e compagne, è il dolore di un parto ma anche la curiosità e l’allegria di una nuova partenza”.
regione.puglia.it

3.12.07

Ma io mi tengo Voltaire

di Mino Fuccillo
Papa Ratzinger ha scritto che il tempo è venuto, il tempo della rivincita. Attesa da quasi tre secoli, rivincita sull'Illuminismo. E che sarà mai questo Illuminismo? Fu la fine delle monarchie per diritto divino e l'inizio dei governi legittimati dalla volontà popolare. La fine della scienza che doveva abiurare se vedeva nel cannocchiale la terra che girava intorno al sole. Fu l'inizio degli uomini tutti uguali davanti alla legge. Fu «libertà, eguaglianza e fraternità».
Fu il suffragio universale, fu il diritto di amare e procrare secondo individuale sentimento e non per precetto canonico. Fu detta l'epoca del «lumi» perché la ragione doveva guidare l'agire, nesso che oggi l'enciclica giudica sbagliato e pericoloso.
In Turchia vietano i libri di chi non crede in Maometto. In Sudan quindici giorni di galera, ma potevano essere sessanta con contorno di 40 frustate, per chi ha chiamato Maometto un orsetto. Lì l'Illuminismo non c'è, non c'è mai stato. Da noi un parroco giudica sacrilego uno spot dove gli angeli volano più in alto perchè bevono Red Bull e lo spot non va più in onda. Qui l'Illuminismo c'è stato, c'è, ma non gode di buona salute. Ci sarà ancora domani?

La Provincia Pavese sabato 1 novembre 07

18.11.07

Esistenze informi tradotte in geometrie romanzesche

Quando è la scrittura stessa di un'opera letteraria a sollecitare l'indagine sulla biografia dell'autore, la critica sembra riattualizzare la lezione della antropologia settecentesca, che per la prima volta stabilì un nesso tra due domande antiche: «che cos'è l'uomo?» e «che uomo sono io?» Le strategie della finzione osservate dalla sponda della vita dell'artista e la vita dell'artista indagata dalla prospettiva che fornisce l'opera
Roberto Gilodi

Che cos'è l'uomo? Che uomo sono io? Sono le due domande centrali dell'antropologia del Settecento. Singolarmente prese non sono domande nuove, ma hanno segnato storicamente lo spartiacque che separa due concezioni radicalmente differenti: alla prima domanda si sono applicate la metafisica e le filosofie sistematiche; alla seconda hanno dato risposte - talora incerte, in altri casi prevedibili - un variegato insieme di scritture, mosse da un bisogno o di natura religiosa, di sincerarsi di se stessi in relazione a Dio, oppure di perpetuarsi nella memoria dei posteri, attraverso i codici retorici dell'esemplarità, collaudati da una lunga tradizione di matrice classica o anch'essa religiosa.
Un fatto è certo: le due domande hanno seguito fin dall'antichità percorsi diversi, le risposte che di volta in volta sono state date non si sono quasi mai incontrate, la vita del singolo uomo aveva rilevanza solo a condizione di funzionare da exemplum per dimostrare le tesi che riguardavano la definizione dell'uomo all'interno delle partiture generali dei sistemi filosofici.
Al centro i dati biografici
Il cammino intrapreso dall'antropologia filosofica del Settecento, che si qualificò come nuova disciplina dell'uomo in relazione oppositiva alle metafisiche tradizionali, stabilì per la prima volta una connessione significativa tra le due domande: solo se scopro esattamente che uomo sono io, posso forse azzardare una risposta alla prima domanda: che cos'è l'uomo? Il momento centrale di questo rovesciamento di prospettiva è quello che il filosofo tedesco Odo Marquardt, con un prestito husserliano, ha chiamato la «Zuwendung zur Lebenswelt», ossia l'esplorazione della vita concretamente vissuta, la vita quindi del singolo individuo. Come tale essa si confronta con «l'uomo nella sua totalità», vale a dire come un insieme dotato di «corpo e anima».
Quanto questa nuova gnoseologia della soggettività individuale abbia avuto effetti sulla scrittura letteraria della modernità, in particolar modo sulla letteratura dell'Ottocento e, contestualmente, sulla critica letteraria, lo dimostra un saggio dello studioso Wolfgang Matz, titolato 1857... Flaubert, Baudelaire, Stifter, recentemente uscito in Germania da Fischer Verlag. Provocatoriamente minimalista nel titolo - quasi da voce di enciclopedia - il saggio rivela un'ambizione che può apparire a tutta prima anacronistica: fornire della modernità letteraria l'immagine di un processo graduale, in cui l'autocoscienza del fare artistico è intrecciata strettamente con le trasformazioni, che un tempo si chiamavano «storico-oggettive». Enunciato così, il progetto del libro corre tuttavia il rischio di dare un'impressione di deja vu, di ripresa di schemi interpretativi che non hanno retto al disincanto storiografico, portato con sé dalla fine delle ideologie.
La vita si fa stile
La novità del libro di Matz sta invece nella tessitura di un discorso critico, che pone al centro il dato biografico-esistenziale, la vita dell'autore e la sua trama di relazioni sociali, ma le osserva dalla specola delle sue realizzazioni letterarie. Non interessa la vita in sé, né la storia in quanto tale ma la «trasformazione della vita in letteratura». Di qui la centralità della relazione tra autobiografia e scrittura, a condizione però di tenere fermo un principio, spesso trascurato, secondo il quale «autobiografico è il procedimento letterario stesso» e non i dati oggettivi di una vita.
Questo orientamento ricorda da vicino un'idea di critica genetica che, come diceva Peter Szondi, tende a vedere non l'opera nella storia ma la storia nell'opera. Storia dunque, e in primo luogo storia di una vita nella sua relazione conflittuale con il mondo, vita che si fa stile, trasformando l'informe materia esistenziale nella geometria di un accadere compiuto.
Nella prima parte del saggio, dedicata a Flaubert, Matz segue con paziente acribia filologica lo sforzo quasi disperato dell'autore dell'Educazione sentimentale di fissare i contorni di quella che già Friedrich Schlegel auspicava come una mitologia della modernità. Seguendo le tappe del suo epistolario - e Matz le ripercorre tutte, a cominciare da quelle infantili in cui l'«idiota della famiglia» comincia a rendersi conto del fatto che solo attraverso la scrittura letteraria potrà dare al suo disagio una fisionomia riconoscibile - osserviamo l'evolversi dagli iniziali «esercizi di stile di un invasato» fino alla scommessa titanica di dare forma alla banalità di un male di vivere non più traducibile nei linguaggi consueti della scrittura letteraria.
Scrivere, per Flaubert, è innanzitutto inventare se stesso come scrittore e le sue creazioni letterarie sono esperienze vissute non in quanto trovano un corrispettivo nella realtà ma in quanto è lo scrivere stesso la sua realtà.
Ricostruire la genesi delle opere attraverso le testimonianze epistolari, intrecciare confession e invenzione letteraria è dunque per Matz un modo, anzi il solo modo di fissare i contorni di una poetica. C'è un esempio di questo procedimento singolare di antropologia letteraria che merita di essere citato. Matz ricorda l'«entusiasmo» provato da Flaubert leggendo la Femme de trente ans di Balzac - «Riportare alla luce nuovi tesori ... in ciò che era stato gettato via come inutile, scoprire nell'universo dell'amore un nuovo continente... non è forse geniale e sublime?» - e osserva come ad entusiasmare Flaubert non sia stato il romanzo in sé, che notoriamente non era gran cosa, ma la capacità di Balzac di unire psicologia e fisiologia. «Se Balzac definisce la sua eroina esclusivamente mediante l'età... un'età, che secondo le convenzioni e la psicologia di quel tempo si trovava già abbondantemente al di là della passione erotica, per tacere di quella sessuale, ciò significa che egli ha offerto alla letteratura una figura tipica fino ad allora sconosciuta, più vera dell'immagine femminile tradizionale.»
Il nuovo universo letterario, che si disegna con Madame Bovary, dimostra come la lezione di Balzac abbia affinato in Flaubert la capacità di cogliere nella fisiologia dei sentimenti, nella 'malattia dell'anima', negli scarti sentimentali, nei margini inespressi dell'odiata borghesia le nuove figurazioni letterarie, di cui le Lettere a Colet, registreranno in presa diretta le tappe più significative. Quanto alla storia, alle rivoluzioni, in particolare quella del '48, l'atteggiamento di Flaubert - ci spiega Matz - non è quello dell'analista politico ma quello di un «fenomenologo della nuova società»: le sue scienze antropologiche sono anzitutto la fisiognomica e l'estetica, quest'ultima intesa nel suo senso originario quale sapere della percezione sensibile.
E così, quando finalmente è di scena Madame Bovary, conta davvero non ciò che accade o ciò che essa fa ma i gesti dell'inazione, come quello celebre della punta del coltello con cui Emma disegnava distrattamente delle righe sulla tovaglia incerata mentre Charles «était long a manger» (ci metteva troppo a mangiare). Questa scena, già magistralmente analizzata da Auerbach in Mimesis, esprime sì la noia, la malinconia, Auerbach dice la «disperazione» di Emma ma è resa possibile perché il romanzo - come dichiara il suo autore a Louise Colet - è «opera della critica anzi dell'anatomia». E aggiunge: «Il lettore non si accorgerà (come spero) di tutto il lavoro psicologico nascosto sotto la forma ma ne avvertirà gli effetti».
La fredda anatomia delle passioni è per Flaubert uno strumento della critica, in cui è implicita, secondo Matz un'attitudine kantiana: il romanzo moderno, se aspira a cogliere la verità, deve, al pari della ragione, conoscere i suoi limiti e le sue possibilità. Se non lo fa, rimane schiavo di un dogmatismo poetico che vanifica le sue intenzioni. La domanda intorno al proprio fare letteratura accompagna come un'ombra ogni gesto poetico di Flaubert e inaugura una svolta nella coscienza moderna del romanzo europeo.
La lezione di Madame Bovary è dunque questa (per chi vorrà raccoglierla): l'autoriflessione critica del narratore non può più affidarsi ingenuamente alle interpolazioni saggistiche (che Flaubert detestava); se vorrà davvero essere efficace dovrà farsi opera essa stessa, trasformarsi in scrittura. «In questo senso un abisso epocale - sostiene giustamente Matz - separa Balzac da Flaubert, la Femme de trente ans da Madame Bovary.»
«Il martire della poesia» è il titolo della parte dedicata a Baudelaire. Il fil rouge è ancora lo stesso: da un lato la bancarotta storica delle grandi illusioni rivoluzionarie e la noia come sentimento dominante di una borghesia che si appresta a conquistare il mondo, dall'altra il desiderio di dare voce agli umori del mondo contemporaneo in tutte le forme disponibili: saggio, critica, traduzione, teatro, arte, musica e naturalmente poesia.
«Baudelaire vive da poeta già prima di esserlo», dichiara Matz, e a suffragio della sua tesi dipana un reticolo di testimonianze autobiografiche descrittive di un apprendistato poetico che è insieme apprendistato alla negatività della vita. Sarah, la prostituta conosciuta nel settembre del 1839, a cui è dedicata una delle prime poesie de Les Fleurs du Mal, contiene quella miscela di elementi che sarà tipica della sua poesia successiva: «lo splendore del brutto, l'erotismo della perversione, il dettaglio esplicitamente realistico, il tentativo di trascenderne il significato figurale, la povertà, la libidine, la provocazione e il blasfemo, l'impulso a salvare il reietto.» Anche qui vita e arte sono intrecciate non per dare voce a un generico disagio ma per distillare un lessico poetico che sappia cogliere, come dice Baudelaire nel Salon del 1846, «il lato epico della vita odierna».
Prospettive moltiplicate
Con Stifter il «disagio della civiltà» assume i connotati utopici di un cammino di formazione etica, che si sottrae e si contrappone provocatoriamente alle costrizioni della razionalità strumentale della società borghese. «L'ideale della libertà è per lungo tempo distrutto» scrive l'autore in una lettera datata 6 marzo 1849. Anche in questo caso la traccia biografica e l'evoluzione letteraria si richiamano in un complesso gioco di dissimulazioni incrociate e alla fine di questo tormentato percorso si distende una sorta di pessimistica liquidazione, tanto degli ideali rivoluzionari di libertà, uguaglianza, progresso, quanto delle mitologie dello stato di natura. E la compiutezza etica di Heinrich, l'eroe protagonista, della Tarda estate), la Bildung a cui aspira con docile sottomissione ha una valenza palesemente antistoricistica. Forse era questo tratto del romanzo che Nietzsche amava e di cui dirà, nel secondo volume di Umano troppo umano, che è fra le poche opere tedesche in prosa che «meritano di essere lette e rilette».
«La letteratura non è fatta di carta, non è una piramide, non è un giacimento immenso di libri, non è una biblioteca di Babilonia circondata di mura. Biblioteca sì ma con finestre e molteplici entrate e uscite attraverso le quali transitano svariate persone». Le parole conclusive dell'imponente lavoro di Wolfgang Matz, che si legge a tratti come un romanzo di romanzi, sono emblematiche di un metodo di cui si è persa la memoria: la critica, quando è vera critica, non è mai solo esercizio anatomico ma moltiplicazione di prospettive e potenziamento creativo delle opere a cui si applica. Perciò è difficile dare un nome a questo tipo di indagine, che unisce l'ermeneutica dell'indizio all'antropologia della scrittura, che osserva le strategie della finzione dalla sponda della vita dell'artista e la vita dell'artista dalla prospettiva dell'opera, in un continuo movimento di entrata e uscita che non approda a certezze apodittiche ma assume equilibrio e contraddizione come essenza ultima del fare letteratura.
La lezione che se ne può trarre è che l'indagine biografica non solo non pregiudica l' intelligenza del testo ma ne è al contrario la condizione indispensabile quando a sollecitarla è la scrittura stessa.

15.11.07

La luce di Faulkner nei vicoli di Nakagami

Finalmente riscattato dalla traduzione di Mario Materassi, esce per Adelphi «Luce d'agosto», un capolavoro che ha sparso semi ovunque. Per esempio nei bassifondi di Shingu di cui parla Nakagami Kenji in «Mille anni di piacere», appena uscito da Einaudi
Tommaso Pincio

Per troppo tempo il lettore italiano ha conosciuto uno dei più grandi romanzi del Ventesimo secolo in una traduzione che, seppure d'autore, non gli rende giustizia. Per errori, omissioni e gratuite invenzioni, il vecchio Luce d'agosto di Elio Vittorini rasenta infatti i confini dello scempio letterario. Finalmente, grazie alla cura di un fine conoscitore come Mario Materassi, questo capolavoro è stato ora restituito al suo originale splendore (Adelphi, pp. 425, euro 23). William Faulkner lo portò a compimento poco dopo essere diventato una celebrità. Fin dall'inizio della carriera si era guadagnato discrete e talvolta ottime recensioni, ma fu soltanto nell'autunno del 1931 che toccò con mano il successo. «Ho suscitato davvero molta sensazione» scrisse alla moglie rimasta in Mississippi riferendosi al clamore per Santuario, uscito una decina di mesi prima. «Adesso sono la più importante figura letteraria in America. Mi aspetta un grande futuro».
Genesi di un titolo
Fu in effetti un periodo molto intenso. Faulkner era un trentenne nel pieno delle forze. Aveva già dato alle stampe due romanzi del calibro di Mentre morivo e L'urlo e il furore. Da lì a poco avrebbe scritto anche Assalonne, Assalonne! e sarebbe andato a Hollywood. In California lavorò alla sceneggiatura del Grande Sonno e di un altro film tratto da un romanzo di Hemingway, diventò amico di Humphrey Bogart e Lauren Bacall, bevve molto come era suo costume da sempre e si fece una storia con la segretaria del regista Howard Hawks. Sul piano letterario, furono gli anni in cui diede corpo al mondo di Yoknapatawpha, l'immaginaria contea del Sud dove ha ambientato gran parte dei libri e che è ormai un luogo mitico del Novecento. Sperimentò inoltre parecchio, spingendo la forma romanzo ai suoi limiti estremi.
Sotto questo aspetto, Luce d'agosto rappresenta, almeno in parte, un'eccezione. Stilisticamente è forse il suo romanzo più accessibile. Una precisa ragione indusse Faulkner a servirsi di una lingua meno audace del solito, una ragione che va cercata proprio nel titolo. I biografi raccontano che lo trovò in una sera d'estate. Era seduto in veranda a contemplare il tramonto quando la moglie fece un commento del tipo «Non c'è nulla come la luce di agosto, vero?» Lo scrittore si alzò di scatto, si precipitò nel suo studio e dopo avere cancellato il titolo cui aveva pensato in un primo momento, Dark House, appuntò a matita in cima al dattiloscritto «Light in August», che in inglese ha un doppio significato: perché «light» vuol dire anche nascere, venire alla luce. Faulkner ha rivelato che cominciò a costruire la trama partendo per l'appunto dall'immagine di una ragazza povera e incinta, fermamente intenzionata a trovare il suo innamorato. E così si apre il romanzo: con Lena Grove che arriva a piedi dall'Alabama nella contea di Yoknapatawpha in cerca di Lucas Burch, il padre del bambino che porta in grembo. A quanto le è stato detto, costui dovrebbe lavorare in una segheria della piccola città di Jefferson. Giunta sul posto Lena trova un quasi omonimo, un certo Byron Bunch, il quale non ci mette molto a rendersi conto che l'uomo colpevole di avere sedotto e abbandonato la ragazza è in effetti un giovane contrabbandiere di alcol da lui conosciuto con il nome di Joe Brown e al momento rinchiuso nelle patrie galere in seguito all'omicidio di una donna, il cui responsabile è però un negro dalla pelle chiara destinato a fare una brutta fine. Quest'ultimo è il vero protagonista del romanzo, il perno attorno al quale Faulkner fa ruotare e precipitare i sentimenti più oscuri degli abitanti di Jefferson.
Misterioso e sfuggente, per metà bianco e per metà nero, carnefice e martire al tempo stesso, Joe Christmas è una sorta di Messia al negativo, un personaggio indimenticabile che, al pari del capitano Achab di Moby Dick e al Jay Gatsby di Fitzegerald, merita un posto nei piani più alti del pantheon degli antieroi della letteratura americana. Silenzioso, appartato, l'aria tranquilla e soddisfatta, Joe Christmas è tormentato al suo interno da forze tanto violente quanto di origine indefinita, restando perciò un enigma sia per se stesso che per gli altri, inclusi noi lettori. E questo nonostante le tante cose che vengono rivelate sul suo conto nel corso del romanzo. Ma come ebbe a sottolineare lo stesso Faulkner, l'idea tragica e centrale di questa storia consiste proprio nel fatto che egli non sa chi è, né ha possibilità di scoprirlo. Il suo incoerente e dubbio modo di agire diventa pienamente comprensibile se giudicato in questa prospettiva: non conoscere se stessi significa non poter mai essere la stessa persona, il che preclude anche la possibilità di un normale inserimento nel corpo sociale. È la sua dubbia identità - prima ancora del delitto di cui si macchia - a farne un paria. D'altra parte, la grandezza del romanzo consiste proprio nella sua ambiguità, nel lasciare solo il lettore con questioni enormi e irrisolvibili.
Una luce che viene dal mito
«Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall'oggi ma dall'età classica» dice lo scrittore a proposito del titolo. I personaggi di Luce d'agosto ci appaiono infatti vivere fuori dal tempo, sublimi e meschini come gli dèi dell'antica Grecia. Le loro miserevoli vicende ci parlano di una condizione universale e se Faulkner ha usato una lingua che sa di orale e antica semplicità è perché voleva restituirci il senso di una narrazione epica, frutto di un intrecciarsi di storie e voci che si rincorrono, contraddicono e sovrappongono, fino a condensarsi in un magma fluido, caldo e avvolgente, dove passato e presente, verità e menzogna, tragedia e commedia convivono.
Spesso in Luce d'agosto, quel che noi lettori dobbiamo sapere ci viene riferito non dal convenzionale narratore onnisciente di romanzesca fattura, bensì dal chiacchiericcio di persone senza volto, dallo sparlare della gente che crea da sé e senza quasi rendersene conto le leggende della sua piccola comunità. Insomma, la luce a cui pensa Faulkner è quella che emana dalla voce del mito e che fa dell'immaginaria contea di Yoknapatawpha un nuovo Olimpo. In virtù di questa voce percepiamo Jefferson come un'entità viva e pulsante, coro e cuore del mondo intero, e tanto più forte è questa percezione quanto più tragicamente palpabile diventano isolamento ed emarginazione di Joe Christmas e degli altri paria del romanzo come, per esempio, il reverendo Hightower.
Non ci sono parole sufficienti per dare a Faulkner quel che è di Faulkner. Semmai esiste un paradiso dei lettori, di sicuro è Luce d'agosto. L'influenza che ha esercitato in America nel corso degli anni è ovviamente incalcolabile. I capolavori lasciano semi ovunque, generano nuovi scrittori e nuove storie nei luoghi più inaspettati. In Giappone, per esempio.
Difficile immaginare un paese più distante per sensibilità e composizione sociale dal Mississippi razzista dei tempi del proibizionismo. Eppure esiste - o per meglio dire è esistito, visto che è scomparso nel 1992 - uno scrittore che ha ricavato dai bassifondi di Shingu, a est di Osaka, un mondo per molti versi assimilabile alla contea di Yoknapatawpha. Dimenticatevi dunque atmosfere rarefatte, essenzialità zen e scene di austera delicatezza, perché di ben altra pasta è fatta l'umanità che vive nei Vicoli descritti da Nakagami Kenji in Mille anni di piacere (Einaudi, a cura di Antonietta Pastore, pp. 274, euro 17,50). Esiste da secoli nell'impero del Sol Levante una minoranza discriminata, una comunità di emarginati sparsi per tutto il paese e bollati con l'etichetta di burakumin, che alla lettera significa semplicemente «abitanti di un villaggio» ma nei fatti indica i discendenti di una casta di schiavi costretti ai lavori più umilianti e segregati in ghetti lontani dalle città.
Sul finire dell'Ottocento, con l'apertura del paese all'Occidente, la divisione della popolazione in classi venne abolita per legge ma, come sovente accade in casi del genere, il pregiudizio perdurò nel tempo. Nonostante il forte impegno del Movimento di liberazione buraku, ancora oggi circolano liste di persone di discendenza «impura» e non è raro che i genitori ingaggino un investigatore per accertare le origini di un aspirante genero. Si tratta di una minoranza invisibile perché rappresenta un problema del quale si preferisce non parlare apertamente e soprattutto perché nulla tradisce all'apparenza l'identità di queste persone da tenere a distanza. Per Nakagami, nato nel 1946 in un villaggio buraku, fu dunque naturale appassionarsi al jazz, espressione dei reietti per eccellenza, i neri d'America, nonché all'opera di Faulkner che, insieme a Genet, considerava come uno scrittore rivoluzionario.
Un figlio della vergogna
È probabile che a colpirlo in modo particolare sia stato proprio un personaggio come Joe Christmas, nel quale il marchio della negritudine non è immediatamente visibile ma rappresenta comunque una maledizione. In modo analogo, i protagonisti di Mille anni di piacere sono uomini bellissimi e lussuriosi destinati a morte prematura per una colpa che non sanno di avere. La loro esistenza si compie in un mondo a parte fatto di miseria, ignoranza, sesso e violenza. Tanto sesso e tanta violenza, soprattutto. Nakagami non risparmia nulla al lettore: ogni dettaglio, non importa quanto disgustoso, viene descritto con impietosa minuzia, ogni pagina è un pugno nello stomaco. Ciò nonostante si ha l'impressione di immergersi in storie nobili e dal sapore epico. Questi bassifondi, che Nakagami chiama semplicemente Vicoli con la v maiuscola come fossero il centro dell'universo, assurgono a una dimensione mitica e assoluta, tanto più che a raccontare il fato degli sfortunati giovani è la loro levatrice, una vecchia che alla maniera dei poeti tiene tutto a mente, perché non conosce l'uso della scrittura. In un altro libro, Il mare degli alberi morti (pubblicato anni fa da Marsilio), la saga di una famiglia buraku il cui protagonista è un giovane ossessionato dalla figura paterna che ha avuto contemporaneamente tre figli da tre donne diverse, si consuma esattamente come una tragedia greca: nel sangue e nell'incesto, tra maldicenze e odi ancestrali. Per quanto possano sembrare estremi e inauditi, i Vicoli stanno alla realtà nella quale è cresciuto Nakagami Kenji come l'immaginaria contea di Yoknapatawpha sta al vero Mississippi dei tempi di Faulkner. In un'intervista rilasciata nel 1989 al quotidiano francese Liberation, l'autore si definì un «figlio della vergogna» che scrive per un pubblico che non può leggere i suoi libri.
«Mia madre, mia sorella, mio fratello sono analfabeti come tutti i burakumin. Io ho potuto imparare a leggere e scrivere dopo la guerra, perché con l'occupazione americana fu istituita l'istruzione obbligatoria per tutti. Mia madre mi proibiva di leggere, diceva che faceva diventare matti. Quando ripenso a questa formazione, mi viene da considerarla un lusso. La letteratura delle origini era di tipo narrativo, si fondava sulla tradizione orale. Il No e il Kabuki vengono proprio da lì, dalla tradizione in cui io ho sguazzato da piccolo».
Dal ghetto all'Olimpo
Prima di intraprendere la carriera letteraria, Nakagami fece vari lavori, operaio in una fabbrica di auto, scaricatore di bagagli in un aeroporto. Trasferitosi a Tokyo negli anni Sessanta iniziò a frequentare gli ambienti di estrema sinistra, dove scoprì il jazz e scrittori occidentali come per l'appunto Faulkner, al quale fu spesso accostato dalla critica non soltanto per le effettive affinità, ma anche per la difficoltà di collocare un'opera tanto brutale ed esplicita all'intero del panorama giapponese. Nel 1976 vinse comunque il prestigioso premio Akutagawa.
Purtroppo, come i suoi personaggi, era destinato a una morte prematura. Se ne andò per un tumore ad appena quarantasei anni, in tempo però per riuscire a riscattare il ghetto che lo aveva visto nascere ed essere considerato uno degli scrittori più importanti del Novecento giapponese.

3.11.07

Andirivieni di Hilary Putnam

I contributi del grande epistemologo americano alle concezioni della mente, in due prossimi incontri: sabato 3 novembre al Festival della scienza di Genova e martedì 6 all'Università Roma Tre, dove si svolgerà un convegno titolato «Il futuro della filosofia»
Francesco Ferretti

Ecco un problema semplice, almeno in apparenza. Prendete una tavola con due fori, uno quadrato col lato di due centimetri, e uno circolare col diametro di due centimetri. Ora prendete un piolo a base quadrata col lato di poco inferiore a due centimetri e provate a inserirlo nei fori. Entrerà in quello quadrato, ma non nel foro circolare. Perché? A sollevare il quesito è Hilary Putnam, filosofo di Harvard, senza dubbio il più grande epistemologo vivente, nei prossimi giorni in Italia per partecipare a due incontri: il Festival della scienza di Genova in cui terrà una lectio magistralis sabato 3 novembre (ore 18.00, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio) e il convegno internazionale organizzato il 6 novembre dall'Università Roma Tre con il titolo «Il futuro della filosofia» (ore 9.30, Rettorato dell'Università Roma Tre, Via Ostiense 159).
Il quesito posto da Putnam apre una questione decisiva rispetto al tema dei rapporti tra filosofia e scienza: la questione del riduzionismo - l'idea secondo cui le leggi delle scienze di «livello superiore» devono essere ridotte alle leggi delle scienze di «livello inferiore». Per un riduzionista i fatti sociali, ad esempio, devono essere analizzati in riferimento alla psicologia degli individui, quelli psichici in riferimento alla neuroscienza o alla biologia. La tesi di Putnam è che il riduzionismo non è adeguato sul piano esplicativo: per dar conto del perché il piolo entri soltanto nel foro quadrato, non è alla struttura atomica dei due oggetti che dobbiamo riferirci. Che il piolo e la tavola consistano di atomi organizzati in un certo modo fornisce senz'altro delle spiegazioni di alcuni fenomeni, ma non dà le informazioni richieste per rispondere alla domanda. Per risolvere il quesito, in effetti, l'informazione pertinente è quella che fa riferimento a proprietà (di macrolivello) quali la rigidità degli oggetti o la loro configurazione geometrica.
Passando a casi più concreti, l'idea di Putnam è che quando si affrontano questioni del tipo «le leggi della società capitalistica» o il concetto di «persona» l'analisi riduzionista conduce a esiti del tutto insoddisfacenti. Non è possibile descrivere le leggi del capitalismo deducendole dalle leggi della fisica o dallo studio del funzionamento del cervello umano. Ovviamente, gli esseri umani sono sistemi fisici: come tali, alcuni fenomeni che li riguardano possono essere descritti utilizzando le leggi della fisica. Da ciò, tuttavia, non deriva che tutti i fenomeni che li riguardano possano essere descritti in questo modo: le leggi del capitalismo si situano a un livello di descrizione che è autonomo da quello fornito dalla fisica, dalle neuroscienze o dalla biologia. Quando si trascura la possibilità di incontrare descrizioni della realtà che coinvolgono diversi livelli di analisi si incorre in quello che può essere considerato l'errore comune a tutte le forme di riduzionismo: trascurare i livelli alti di spiegazione, comportandosi di fatto come se questi non esistessero.
Ora, poiché lo stesso Putnam è stato in passato un fervente riduzionista, è ovvio che questa revisione di prospettiva (una delle tante che caratterizzano il suo percorso di ricerca) ha implicazioni anche in altri aspetti del suo sistema teorico: quella principale riguarda il ripudio del funzionalismo nella filosofia della mente.
Il funzionalismo - di cui Putnam è stato tra i padri fondatori - è l'idea secondo cui gli stati mentali si caratterizzano per il loro ruolo funzionale: ovvero, per il tipo di relazioni che intrattengono con gli input ambientali, gli output comportamentali e i legami causali che connettono gli stati mentali tra loro. Dal fatto che gli stati mentali siano concepiti in questo modo dipende un'altra importante caratteristica del funzionalismo: l'idea secondo cui la mente è in larga parte indipendente dal sostrato fisico che la realizza.
La possibilità di ipotizzare menti artificiali si regge, ovviamente, su questa importante caratteristica del funzionalismo: se la mente dipendesse in modo esclusivo dalla «materia cerebrale», infatti, verrebbe meno ogni pretesa di costruire sistemi artificiali pensanti.
Per quanto, negli anni '60 del '900, Putnam sia diventato famoso sostenendo che la macchina di Turing era un buon modello per spiegare ciò che avviene nella mente, oggi egli considera questa ipotesi viziata da un forte riduzionismo. Dal suo punto di vista attuale, infatti, deve essere totalmente rivista la convinzione per cui ciò che di più rilevante riguarda la mente avviene all'interno della testa degli individui. La critica a questa concezione «internista» è stata sferrata da Putnam tramite il cosidetto esperimento mentale «della Terra Gemella»: oltre alla Terra in cui viviamo, esisterebbe nell'universo una Terra Gemella. Le due terre - sostiene l'esperimento - sono identiche sino alla struttura atomica degli individui e degli oggetti che la popolano; allo stesso modo sono identici anche gli eventi che vi accadono: in questo momento, ad esempio, mentre voi state leggendo questo articolo, anche il vostro gemello su Terra Gemella, sta leggendo lo stesso articolo, il che implica stati mentali e cerebrali identici ai vostri. Solo una proprietà rende diverse la Terra e la Terra Gemella: la struttura chimica dell'acqua. Pur avendo la stessa apparenza, lo stesso sapore e la stessa funzione del liquido con cui noi tutti ci dissetiamo, la struttura chimica dell'acqua gemella è XYZ, non H2O.
Questa piccola diversità ha una portata decisiva nello studio della natura del contenuto mentale e del significato. Quando i due gemelli proferiscono un enunciato del tipo: «c'è dell'acqua nel bicchiere di fronte a me» quello che accade è che pur trovandosi (per definizione) nello stesso stato cerebrale e nello stesso stato mentale, si riferiscono a due entità diverse: ciò che avviene all'interno della scatola cranica non è dunque sufficiente a determinare il riferimento delle espressioni linguistiche - il significato, in altri termini, non sta nella testa dei parlanti. È una critica che ha avuto profonde ripercussioni nella filosofia della mente più vicina alla scienza cognitiva. Jerry Fodor, ad esempio, ha cercato di far fronte alle critiche di Putnam distinguendo il contenuto nella testa degli individui (narrow content) da quello che tiene conto delle relazioni causali col mondo esterno (broad content). Andy Clark, per citare solo un altro caso, ha sostenuto che la mente si deve intendere come estesa fuori della scatola cranica a inglobare l'ambiente esterno, considerato come una «impalcatura» su cui il cervello fa leva per rendere più efficaci i suoi processi di elaborazione.
Entrambe le argomentazioni, insieme a altre analoghe, invitano dunque a considerare il ruolo del mondo esterno - quello sociale e quello fisico - nella vita mentale degli individui, e la scienza cognitiva deve tenerne conto se vuole definire correttamente alcuni degli assunti centrali che la caratterizzano, con il risultato di approdare a un nuovo proficuo ripensamento dei rapporti tra filosofia e scienza.
ilmanifesto.it 02 novembre 2007

1.11.07

Copiare è un'arte

Una band in crisi di ispirazione. Che trova il successo grazie a un'idea rubata. Nel nuovo romanzo di Lethem. In guerra con il copyright
intervista a Jonathan Lethem

di Enrico Pedemonte

Tutti gli artisti copiano, dice Jonathan Lethem che a febbraio ha scritto un lungo saggio sulla rivista 'Harper's', difendendo la libertà artistica di 'appropriarsi' delle idee degli altri. Lethem compie una lunga requisitoria contro quella che lui definisce "la tirannia del copyright". Per sostenere la sua tesi Lethem ammette che quasi ogni riga scritta nel corso della sua prolifica vita di scrittore è stata copiata da qualche parte, e poi modificata, reinterpretata, reimpastata.

Anche la band protagonista del suo ultimo romanzo ('Non mi ami ancora', in uscita in Italia per i tipi del Saggiatore) non esita a copiare pur di raggiungere il successo. Si tratta di un quartetto di musicisti squinternati che non riescono a trovare né l'ispirazione artistica, né un nome per la band. Mattew, il cantante, lavora allo zoo di Los Angeles, rapisce un canguro e lo nasconde nel bagno di casa. Bedwin, il chitarrista, guarda ossessivamente un vecchio video di Fritz Lang. Denise, la batterista, vende giochi erotici. E Lucinda, la bassista che non ha inibizioni né con l'alcol né con il sesso, passa ore a rispondere al telefono di uno sportello reclami - che in realtà è un'installazione artistica - dove chiunque può sfogarsi raccontando le proprie delusioni, dalle fregature al ristorante ai rancori esistenziali. La storia ha una svolta quando Lucinda si imbatte nella creatività di un 'reclamante' che nel corso di alcune telefonate sconce le offre lo spunto per la prima canzone di successo della band. A questo punto la trama si concentra intorno a un interrogativo: a chi appartengono le idee? Il 'reclamante' ha diritto di pretendere la sua parte di successo?

Lethem pensa di no. Nel corso del romanzo non si dilunga in noiose dissertazioni sul plagio, ma negli ultimi mesi l'argomento è al centro della sua attenzione. La sua è insieme una battaglia culturale e una sperimentazione editoriale. A novembre sul suo sito Internet ha lanciato il 'progetto dei materiali promiscui', dove mette decine di sue opere a disposizione di altri artisti. Chi vuole utilizzarle, modificandole a piacere, deve versare un dollaro e firmare un contratto in cui si impegna a lasciar usare lo stesso materiale a chiunque altro. A 43 anni, dopo il successo ottenuto con 'La fortezza della solitudine' (Tropea editore), Lethem non è solo considerato uno dei più dotati scrittori della sua generazione, ma anche un intellettuale e un saggista di prim'ordine. Lo scrittore divide la sua vita tra Brooklyn, dove è nato, e Blue Hill, nel Maine, dove lo abbiamo intervistato, durante una lunga conversazione più volte interrotta dalle urla del suo bimbo di due mesi e mezzo.

Lei sostiene che gli artisti creano imitando e copiando.
"Non posso immaginare un altro modo possibile. L'imitazione era normale anche nelle botteghe rinascimentali, dove gli artisti creavano capolavori grazie a un processo di assimilazione e di appropriazione del lavoro di altri. Un artista ha l'istinto di un bambino che impara a parlare: prende a modello tutto quello che sente intorno a lui e di tutto fa imitazioni, parodie, collage... L'individualità può essere costruita solo a partire dalla cacofonia di voci che risuonano intorno a noi".

Nabokov prese in prestito Lolita da Heinz von Lichberg, mentre Bob Dylan ha saccheggiato Shakespeare e Scott Fitzgerald. E lei?
"Io ho preso molto da Nabokov e Bob Dylan, e poi da Philip Dick e Jack Kirby e John Cassavetes e molti altri. In particolare ho imparato a scrivere romanzi studiando Graham Greene e Kafka, ma il mio lavoro è chiaramente influenzato dal dibattito sull'arte pop. Alcune di queste influenze sono ovvie leggendo i miei libri, altre sono visibili solo a me".

Qual è il confine tra appropriazione e plagio?
"Si tratta di valutazioni istintive. Quando uso un riferimento, un elemento riconoscibile di un'altra opera, mi domando subito se - inserito in un nuovo contesto - quell'elemento sia sufficientemente trasformato, inaspettato ed emozionante. Poi mi chiedo se sia necessario riconoscere il mio debito. Ogni artista spera che chiunque si appropri di un elemento della sua opera lo riconosca, e non sorvoli sull'appropriazione".

Lei se la prende con Walt Disney...
"Le storie di Disney sono tratte dalle opere dei fratelli Grimm, dalle 'Mille e una notte' e altro ancora. Ma nonostante siano abituati a trovare altrove l'ispirazione, quelli della Disney impediscono a chiunque di usare le loro creazioni e di trasformarle. Io penso che la possibilità di appropriarsi di un'opera d'arte dev'essere libera. Per questo non solo ho scritto il saggio su 'Harper's', ma ho cercato di introdurre alcuni gradi di libertà nell'utilizzare le mie opere".

Infatti lei ha reso diverse sue opere disponibili gratis su Internet. Una scelta etica o un modello di business?
"Non credo che la mia strategia possa diventare un modello per altri. È più un gioco e una provocazione. È una soluzione personale che non raccomando a nessun altro".

Ha lanciato il 'progetto dei materiali promiscui' sul sito mentre scriveva il suo ultimo romanzo. Qualche riferimento alla promiscuità sessuale della protagonista Lucinda?
"Direi di sì, anche se mentre scrivevo il romanzo non ne ero conscio. C'è una compenetrazione tra la promiscuità dei corpi e quella del lavoro artistico".

Nel romanzo c'è uno sportello telefonico per i reclami che in realtà è una installazione...
"Non ho mai avuto problemi a pensare che un artista possa dichiarare artistico qualcosa di inaspettato mettendoci una cornice intorno. Nell'era dell'arte concettuale molte cose che non sembravano arte potevano essere definite artistiche anche se non erano tali".

Da dove nasce l'idea?
"Negli anni Settanta a New York c'era un tale che si faceva chiamare Mister Apology e aveva una linea telefonica che chiunque poteva chiamare per scusarsi di qualunque cosa avesse fatto. Mister Apology colpì la mia immaginazione, mi sembrava che meritasse un racconto. Ne ho approfittato per esplorare il mondo della realtà virtuale, che in questo caso è la cultura telefonica. Amo descrivere come si comporta la gente quando si incontra in questi spazi virtuali".

Perché i protagonisti del suo romanzo non sono neanche capaci di dare un nome alla loro band?
"Sono affascinato dal potere dei nomi. Nella 'Fortezza della solitudine' ogni personaggio ha diversi nomi. Dylan è soprannominato 'Dillinger' e 'D-man', alla fine assume le sembianze di un super-eroe, 'L'uomo freccia', e firma 'Dos' i suoi graffiti. C'era un eccesso di nomi, perché ogni cosa aveva diversi significati. Al contrario le vite dei personaggi del nuovo libro sono per certi versi così stupide, libere e arbitrarie, che c'è la difficoltà a trovarne anche un solo nome. Questo per me rappresenta la qualità senza forma delle loro esistenze".

Nei suoi romanzi compaiono spesso i canguri. Un simbolo o un gioco?
"Sono strani, mi affascinano. Vent'anni fa, quando ho scritto di canguri per la prima volta in 'Gun, With Occasional Music', non pensavo che lo avrei fatto ancora. Poi è diventato un gioco".

Perché ha ambientato il romanzo a Los Angeles?
"Volevo rompere con l'abitudine di scrivere su Brooklyn. La California è l'altro posto dove ho vissuto per parte della mia vita. Ma in realtà ho scelto Los Angeles, che per molti versi è per me un luogo ignoto e misterioso, perché si tratta di una città che mi genera curiosità e confusione. Volevo esplorare la stranezza della città".

Lei descrive un mondo senza scopo, senza significato...
"Non userei questa parola. Il significato delle cose è un fatto individuale e soggettivo. Certo le vite che descrivo sono proiettate in un universo assurdo".

È un universo senza utopie, dove tutto sembra accadere per caso... È questa la sua filosofia?
"Non ho una filosofia. Credo di avere fede solo nelle strutture concettuali costruite dall'uomo: la famiglie, le subculture. Sono luoghi che offrono opportunità e salvezza al di fuori del vuoto dell'universo".

Ha avuto esperienze negative vendendo alcune delle sue storie a Hollywood.
"Non è stata un'esperienza soddisfacente nel senso che i film non sono ancora stati prodotti. Ma è stata molto positiva perché i soldi garantiti da questi contratti mi hanno permesso di scrivere liberamente per parecchio tempo. E questo è esattamente quello di cui uno scrittore ha bisogno: la libertà di scrivere. Hollywood mi ha aiutato regalandomi questo tempo".

Ora due registi stanno girando film tratti da racconti da lei offerti liberamente su Internet. Uno a Chicago, un altro in Germania.
"Sono curioso di vedere il risultato finale. Molti hanno la tendenza a non mettere in discussione il modo in cui tradizionalmente si accordano autori e registi. Ma in realtà non c'è alcuna norma etica che dica di fare in quel modo. In fondo, come dice lei, si tratta solo di 'modelli di business'. Perché allora non guardarsi intorno e non creare accordi di altro tipo?".
(L'Espresso 31 ottobre 2007)