6.4.07

Le campagne anti-gay dell'Avvenire

Provocano danni molto gravi
come il razzismo americano dell'800


Piero Sansonetti

Un ragazzo di sedici anni si è suicidato perché i compagni di scuola lo prendevano in giro e gli dicevano che era gay. E' successo a Torino. La scuola frequentata da questo ragazzo è l'istituto tecnico "Sommelier", che è considerata una delle più prestigiose scuole di Torino. Non è frequentata dai bulli di borgata, ma dai figli della borghesia. Il ragazzo che si è suicidato invece non era borghese, i suoi genitori erano separati, lui viveva con la madre, che è filippina, immigrata, e fa la cameriera. Non conosciamo il suo nome, poniamo che si chiamasse Marco. Era bravo a scuola, e forse anche questo lo rendeva diverso agli occhi dei suoi compagni.
Adesso fermiamoci un attimo a riflettere, il più serenamente possibile, su questa morte. Senza voler dare la colpa a nessuno, anche perché tutti sappiamo benissimo che il suicidio di un adolescente non è un fatto rarissimo, che è molto difficile definirne le origini e le ragioni, che quasi sempre è legato a episodi di depressione, magari poco evidenti, o forse solo ad una valutazione pessimista e negativa sul valore della vita, cioè - diciamo così - a fattori "filosofici" molto alti e indecifrabili.
Però ci sono due elementi che hanno avuto un peso, evidentemente, in questa vicenda, dai quali è possibile trarre alcuni suggerimenti. Uno di questi elementi è il "fattore-scuola", l'altro elemento è il "fattore omosessualità".
Fattore scuola: la mamma di Marco più di un anno fa era andata a parlare coi responsabili della scuola e aveva segnalato la situazione difficile nella quale si trovava il suo ragazzo, per via del comportamento aggressivo, persecutorio dei suoi compagni. Se la scuola non riesce a impedire una situazione così, non è capace di intervenire, di spiegare, di educare, di prevenire, non è una buona scuola. E forse non lo è anche perché ormai da molti decenni è stata lasciata all'abbandono, ha perso le sue finalità, la spinta propulsiva di qualche decennio fa, e forse è tornata la scuola di quella "professoressa" della quale parlava Don Milani, che serve a selezionare, a discriminare, non a unire le generazioni e a distribuire equamente il sapere e le conoscenze.
Fattore omosessualità: Marco era gay? E' una domanda che non sta in piedi, Marco aveva 16 anni, viveva quella fase del sesso assai aperta, di transizione, di curiosità, che è l'adolescenza. E' il momento nel quale si definisce la propria sessualità, si stabilizzano i gusti. Il problema non è se marco fosse o no gay, è piuttosto come Marco vivesse questa eventualità. Che evidentemente considerava una sciagura, forse una condanna, una tragedia. Perché? Per due ragioni. La prima è che in Italia è difficile vivere bene la propria vita se si è gay, perché c'è un insieme di leggi, norme, abitudini e pregiudizi che non ti rendono facili le cose. La seconda ragione è che è in atto una campagna, guidata dal Vaticano, di demonizzazione e di persecuzione verso i gay e le lesbiche, che ha condizionato fortemente l'opinione pubblica, l'ha spinta indietro di decenni. Giusto l'altro ieri su un giornale serio come Avvenire , uno studioso prestigiosissimo come Carlo Cardia, (criticando i DiCo) scriveva (per dimostrare l'assurdità delle unioni civili) testualmente queste frasi: « Ai giovani la legge direbbe di essere indifferente alla forma che assumono le relazioni umane fondamentali...ai giovani la legge direbbe che eterosessualità e omosessualità sono la stessa cosa... che la famiglia non interessa più la collettività, che lo Stato le pone sullo stesso piano, che ciascuno può comportarsi come crede... ». Ai giovani del Sommelier di Torino, purtroppo, nessuno ha detto queste cose (che Cardia giudica orride e incivili), perciò quei ragazzi non hanno capito che siamo tutti uguali, che abbiamo gli stessi diritti, la stessa dignità. Non lo capivano neanche i razzisti bianchi americani, nell'ottocento (e dopo). Qualcuno di loro, in polemica con Lincoln e gli abolizionisti, avrebbe potuto scrivere: « Ai giovani la legge direbbe di essere indifferente alla forma che assumono le relazioni tra padrone e schiavo...ai giovani la legge direbbe che bianchi e negri sono la stessa cosa, che i diritti dei bianchi non interessano più la collettività, che lo stato pone sullo stesso piano la razze, che ciascuno, anche i negri, possono comportarsi come credono... ». L'omofobia che oggi pervade parti del clero e della borghesia assomiglia come una goccia d'acqua al razzismo dei padri del Ku Klux Klan.
(liberazione.it)

5.4.07

Wikipedia, epigoni ed errori

Dove va il colosso web con i suoi 6,8 milioni di voci (di cui 1,7 milioni nella versione inglese), 250 lingue diverse di pubblicazione, tra i primi dieci siti più visitati del mondo
Carola Frediani

Dalle Hawaii a Oxford. L'ultimo successo di Wikipedia - l'ormai popolare enciclopedia online - è stato l'inclusione del termine «wiki» nel dizionario di Oxford. Nel viaggio dalle isole americane al vocabolario britannico, la parola ha mutato significato: se in origine significava «veloce» oggi indica un sito web aperto al contributo degli utenti, ovvero facilmente modificabile dai navigatori, che possono aggiornare, correggere o cancellare i suoi contenuti. A trasformare l'esotico vocabolo nella nuova parola d'ordine del web, a farne cioè una hit planetaria è stata ovviamente Wikipedia, la prima enciclopedia scritta e continuamente riscritta dai suoi lettori. Ma più che l'inclusione nel dizionario, a consacrare la modalità wikipediana di creare informazione sono state le parole di Grame Diamond, redattore dell'Oxford English Dictionary: «Si può dire che l'atteggiamento di apertura del nostro dizionario verso il contributo del pubblico e il desiderio di incorporare le segnalazioni dei lettori nel testo suggeriscano un ethos non dissimile da quello del wiki». Ecco chi ha dettato la linea negli ultimi sei anni.
L'ethos di Wikipedia è stato un fiume che ha travolto il mondo online, fertilizzando la cultura della partecipazione, e obbligando strutture accademiche tradizionali - come l'Enciclopedia Britannica - a scomodi confronti. Del resto basta guardare i numeri di questa colosso web: 6,8 milioni di voci (di cui 1,7 milioni nella versione inglese), 250 lingue diverse di pubblicazione, tra i primi dieci siti più visitati. E il tutto a disposizione gratuitamente, senza nemmeno la pubblicità: come si sia riusciti ad arrivare a tanto forse nemmeno il suo creatore Jimmy Wales, l'ex-trader convertitosi alla collaborazione online, sa davvero spiegarlo. Bisogna però dargli atto di aver mantenuto il progetto coerente: «Due anni dopo aver fondato Wikipedia, l'ho donata alla fondazione Wikimedia (l'organizzazione no-profit che gestisce l'enciclopedia, ndr) - ha dichiarato Wales al New Scientist - Penso sia stata la cosa più stupida e insieme più intelligente che abbia mai fatto. Stupida perché ritengo che valga circa 3 miliardi di dollari, e io tutti quei soldi non ce li ho! Ma anche intelligente perché non avrebbe riscosso lo stesso successo se non fosse stata costruita in questo modo».
E tuttavia, malgrado questo percorso in discesa, oggi non è un momento buono per la creatura di Wales, esposta sempre più spesso a critiche, attacchi ed errori che potrebbero obbligarla ad alcuni ripensamenti. E' vero che alcune di queste bordate sono dei tentativi parassitari di ottenere visibilità, come nel caso di Conservapedia, un progetto wiki per costruire un'enciclopedia politicamente conservatrice, alternativo alla troppo liberal Wikipedia. Ma alcune sono invece il risultato di nodi non risolti: ne sa qualcosa Larry Sanger, co-fondatore di questa enciclopedia online insieme a Wales, ma successivamente allontanatosi perché in disaccordo con l'eccessiva apertura di Wikipedia, con il suo giacobinismo partecipativo. Sanger ha deciso di buttare l'acqua sporca e di tenere il bambino: ovvero di creare un «compendio dei cittadini», riducendo però il rischio di errori e vandalismi nelle voci. Ecco quindi, il 25 marzo, debuttare Citizendium, che chiede agli utenti di rinunciare all'anonimato (contrariamente a quanto possibile su Wikipedia) e che si appoggia a un gruppo di accademici perché supervisionino gli articoli. L'obbligo di identificarsi dovrebbe accrescere - questo è il ragionamento - l'accuratezza del sito, oltre che incentivare la partecipazione di utenti colti e di specialisti.
Citizendium cerca indubbiamente di migliorare il prodotto della collaborazione online, anche se va a ritoccare il dogma egualitario su cui, in ultima analisi, si è fondato l'exploit di Wikipedia.
D'altra parte Wales&company sono ormai consapevoli della necessità di trovare delle soluzioni agli errori e ai vandalismi - per altro sempre ben evidenziati dalla stampa mainstream, sadicamente compiaciuta di poter cogliere in fallo i wikipediani. Il punto di crisi sembra essere stato l'episodio di Ryan Jordan, un giovane amministratore di Wikipedia che si spacciava per professore di teologia e che è stato smascherato dalla rivista New Yorker. Wales ha dovuto allontanarlo mentre una bufera di interrogativi si scatenava sulla comunità wikipediana, e sulle credenziali di chi occupa al suo interno ruoli di responsabilità. Anche se bisogna riconoscere che tanta severità è un po' sospetta. In fondo anche il New York Times ha avuto un redattore disonesto, che addirittura s'inventava gli articoli: vi ricordate di Jayson Blair? Il quale naturalmente, proprio come il redattore di Wikipedia, è stato licenziato. Ma nessuno si è sognato di mettere in dubbio la professionalità del quotidiano americano.
Il punto è però ancora un altro, e a metterlo in luce è Seth Finkelstein, programmatore, attivista web e inflessibile critico di Wikipedia: «La retorica sulla peer-production (produzione-collaborazione tra pari) spesso evoca un qualche tipo di processo alchemico - scrive sul Guardian - in cui l'azione collettiva misticamente trasforma la spazzatura in oro. (...) La realtà è molto più terra terra. Spesso, quel che viene ingenuamente scambiato per generazione spontanea è infatti il prodotto di un piccolo numero di persone che sono state indotte a fornire un'enorme mole di lavoro non pagato».
Il giudizio di Finkelstein, fin troppo duro, ha il merito di riportare la discussione sul valore (in tutti i sensi) della peer production e sulla sua collocazione in un sistema dominato dal mercato. Tanto più che il fenomeno wiki ha ormai sfondato nell'economia reale, vezzeggiato da aziende ed economisti che decantano le virtù della partecipazione delle masse internet in tutte le loro diverse declinazioni, dal crowdsourcing alla wikinomics. Mentre c'è tutto un mondo corporate che ha adottato gli strumenti wiki per migliorare la produttività: da Intelpedia di Intel a WikiCentral di Ibm, da Nokia a Sony, progetti e documenti aziendali sono sempre più spesso sviluppati in modalità collaborative. Di sicuro c'è che l'avanzata del wiki prosegue rapida come il suo nome.
freddy@totem.to
(ilmanifesto.it)

Rapporti Nielsen e Technorati: web 2.0 e blog all'italiana

Il web 2.0, web sociale, o ancora My.internet, come lo chiamano i ricercatori di Nielsen//NetRatings, va a gonfie vele anche da noi. I dati sono incoraggianti, perché a gennaio di quest'anno più della metà dei navigatori italiani (il 56 per cento) sono entrati in siti 2.0. Sono soprattutto uomini e soprattutto giovani (dai 18 ai 34 anni). E' il primo profilo tracciato dal nuovo Osservatorio web 2.0 creato dalla società di ricerca, che d'ora in avanti darà dati e trend anche del web di seconda generazione all'italiana.

Che qualcosa si muova, con estrema velocità, nel web nostrano è sempre più lampante. Proprio oggi Technorati ha rilasciato il suo consueto rapporto trimestrale sullo stato della blogosfera mondiale, che riguarda, in questa uscita, l'ultimo trimestre del 2006. E, sorpresa, tra le nazionalità l'Italia risale la china, si accosta agli spagnoli, supera i francesi (che in passato sono stati più prolifici di noi) e si colloca al quarto posto tra le lingue parlate nei blog mondiali. La cui classifica recita così: lingua più parlata è il giapponese (37%); secondo posto per l'inglese (in discesa rispetto ai precedenti report, con il 36%); terzo posto per il cinese (8%); quarto, pari merito, per spagnolo e italiano (3%); quinto per francese, russo e portoghese (2%); sesto per tedesco e farsi, che entra per la prima volta nella top ten delle lingue più diffuse nei blog. Il fenomeno dilagante è dunque quello della diffusione della socialità e dei contenuti generati dagli utenti nel Medio Oriente.

In generale, mentre nel mondo si creano 1,4 blog al secondo ogni giorno, ovvero 120mila nuove entrate in rete ogni 24 ore, l'Italia tutto sommato reagisce con estremo interesse alla possibilità di inserire user generated contents. Nielsen//NetRatings distingue diverse tipologie di siti nella famiglia 2.0: dalle "community" formate da 8 milioni di utenti (la categoria più gettonata), al gruppo dei "giganti" formato dalla triade dei più noti, YouTube, MySpace e Wikipedia (con un totale di 7 milioni di navigatori), alla categoria dei "blog" e a scendere, ancora, i siti di video, quelli di sharing e hosting fotografico, quelli di social searching, quelli di virtual life.

(visionblog)

4.4.07

SECOND LIFE

SECOND LIFE/1 - Vita da newbie

Come promesso, ecco il primo di una serie di racconti con cui il mio avatar cercherà di descrivere le tappe principali della sua vita virtuale. Il secondo appuntamento è per mercoledì prossimo.

Divertente nascere in Second Life! Perché? Perché non è la natura a decidere che sesso avrai: sta a te scegliere se essere maschio o femmina, e comunque sia potrai decidere di cambiare sesso in qualsiasi momento della tua seconda esistenza. Io però non ho avuto dubbi: il mio fiocco doveva essere rosa, qualcosa (qualcuno?) mi diceva che in questo modo avrei avuto la vita un po' più facile.

Così, dopo aver registrato il mio nome all'anagrafe dei Linden e aver deciso di appartenere al genere della "ragazza della porta accanto", ero pronta per nascere. E così è stato.
Lentamente, ho cominciato a prendere forma e tutto quello che mi circondava è diventato via via più nitido e definito: un prato, degli alberi, cielo azzurro, un cartello di legno sul quale sono riuscita a leggere (so già leggere!) "Welcome to Orientation Island", un sentiero e poi... Altri avatar! Tutti appena nati, ma già adulti, come me, e molti perfettamente identici tra loro.

Ed è così che mi sono accorta di essere anche io una specie di clone, perché appena sono riuscita a vedermi ho realizzato che attorno a me c'erano almeno 5 mie sosia, e la cosa non mi ha fatto granché piacere, lo ammetto.
Tuttavia, una volta superato il piccolo trauma dell'arrivo, ho provato a muovere i primi passi, riuscendoci subito senza grande difficoltà. E camminando ho potuto avvicinarmi agli altri, guardarli in viso e notare che sul volto di ognuno era dipinta la stessa espressione, a metà tra l'indifferenza e la perplessità. Preoccupante, ho pensato.

Ma subito la mente è corsa a tutt'altro, perché qualcuno ha pronunciato il mio nome, attirando la mia attenzione. E allora mi sono resa conto che anche io avevo il dono della parola e potevo comunicare con chiunque, facilmente.La prima cosa che ho detto è stato "hi!", ciao, e da quel momento in poi non ho più smesso di parlare, e sono sicura che qualcuno dei miei SL friends, se potesse intervenire, direbbe che il governatore Linden (il padrone di questo mondo) dovrebbe inventare un limitatore di chiacchiere appositamente per me :- ).
"E ora che si fa?" ho chiesto a chi mi era accanto, e Bebe (appartenente al genere delle "ragazze da nightclub") ha proposto di fare un giro nei dintorni, per dare un'occhiata.
Così, assieme a un gruppetto di coetanei mi sono avventurata lungo il sentiero di Orientation Island, scoprendo una serie di cartelli che recitavano "click me": ho così appreso che posso toccare e spostare gli oggetti (posso farlo anche da lontano! La cosa richiede un po' di pratica, ma io imparo velocemente), modificare il mio aspetto fisico e gli abiti che indosso… Ho il potere di cambiare tutto, ogni minimo dettaglio, lasciandomi semplicemente guidare dalla fantasia (splendida scoperta della non omologazione!). Quindi, emozionata, ho domandato "Scusate, qualcuno sa indicarmi dove posso trovare qualche abito di ricambio? Magari un vestitino…", e la risposta è arrivata da un avatar completamente diverso da noi, sia nell'aspetto fisico che nell'abbigliamento.

"Ciao, io sono un mentore, sono qui per aiutare voi newbies. In SL troverai tutti gli abiti che desideri e molto di più, cerca i freebies. Ma devi essere paziente, hai tante cose da imparare prima di lasciare questa regione lol. Se hai bisogno chiamami pure. Feel free to explore!".
Mentre parlava l'ho passato ai raggi x, pensando "Wow!" (sì, perché intanto ho anche imparato a zoomare sugli oggetti e sulle persone, per guardare da vicino, se ne vale la pena), ma poi ho raccolto le idee e mi sono chiesta "Lol? Newbies? Freebies? Imparare? Uff! Lasciare questa regione per andare dove? Esplorare cosa?…".

E la scoperta più interessante è arrivata proprio a questo punto, stampata a chiare lettere sull'ultimo cartello alla fine del sentiero: flying.
…Volare? Posso volare?! :-D


Seconda puntata: Via dal nido
Terza puntata: A.A.A. Lavoro cercasi
Quarta puntata: Mettere radici
Quinta puntata: Home, sweet home
Sesta puntata: Tempo di business
Settima puntata: A spasso nel metamondo
Ottava puntata: Spazio ai sentimenti, quelli buoni
Nona puntata: La voce dei "vecchi" saggi. Sandy
Ultima puntata: La voce dei "vecchi" saggi. Winkler


(visionblog)

29.3.07

Libri eterni, ma on demand

«Dobbiamo uccidere il libro per salvare i libri». Finirà così nell'era digitale?
Gutenberg è vivo e lotta insieme a noi. Ma sparsi per il mondo ci sono migliaia di lavoratori a ore impegnati a scannerizzare, pagina dopo pagina, intere biblioteche per Google. E tra 5 anni potrebbero aver finito
Nicola Bruno

Doveva essere la prima vittima illustre della rivoluzione digitale, ma il libro è ancora qui con noi, vivo e vegeto. Rispetto ad altri supporti (l'album per la musica, la pellicola per il cinema), l'avanzata dei bit non è riuscita del tutto a stravolgerne la natura di «insieme di fogli stampati o manoscritti, (...) numerati e cuciti insieme in modo da formare un volume, fornito di copertina» (De Mauro).
Nell'ultimo decennio in molti (soprattutto tra gli editori) hanno ingenuamente pensato che fosse solo una questione di hardware. Che bastasse, cioè, spingere sul mercato un gadget vagamente interattivo e portatile, su cui trasferire lo stesso prodotto affidato da secoli alla carta, per seppellire definitivamente Gutenberg. Niente di più sbagliato. Come per l'audio e i video online, anche qui il cambiamento dovrà passare per una risocializzazione delle pratiche di produzione e consumo. La direzione verso cui guardare è semmai quella del software, dove il David sociale sta definitivamente uccidendo il Golia della cultura istituzionalizzata.
Sparsi per il mondo ci sono migliaia di lavoratori a ore impegnati a scannerizzare, pagina dopo pagina, intere biblioteche per Google. L'Economist parla di 3000 volumi al giorno solo a Berkeley, contratti simili con altre 11 istituzioni. A voler fare un calcolo prudente, si tratta di oltre 10 milioni di libri all'anno. Di questo passo l'intera produzione mondiale, stimata intorno ai 65 milioni di opere, nel giro di un quinquennio sarà interamente digitalizzata. Non avrà le stanze esagonali della Biblioteca di Babele borgesiana, né si estenderà lungo la Via Lattea come l'Enciclopedia Galattica di Asimov, ma sarà a portata di clic di chiunque e da qualunque parte del mondo, in qualsiasi momento. Gli editori potranno aggirare gli impietosi colli di bottiglia della distribuzione tradizionale: niente ristampe e volumi al macero, il mercato sarà completamente on-demand. Seppur in scala molto ridotta, tutto ciò è già realtà: da qualche anno su Google Books è possibile effettuare ricerche all'interno dei libri, visualizzare anteprime, ordinare una copia o stamparla direttamente da casa. Mentre i colossi editoriali italiani nicchiano, piccole case come Meltemi e Apogeo hanno colto la palla al balzo, iniziando a offrire gran parte del loro catalogo online.
E questa è solo una faccia della medaglia. L'altra è rappresentata dal self-publishing, destinato a produrre effetti ancora più dirompenti. La tendenza è stata inaugurata da Lulu.com, ma sono già tanti i cloni (come Blurb o l'italiano Boopen) che permettono di pubblicare e vendere qualsiasi contenuto digitale in totale fai-da-te. Basta iscriversi, caricare la propria opera, scegliere il formato e la copertina, stabilire il prezzo di vendita, et voilà, il libro è in commercio. Con buona pace delle diseconomie di scala delle case editrici, il cui modello, come dice il fondatore di Lulu, Bob Young, funziona solo per l'Harry Potter di turno. Almeno fino a quando la Rowling non deciderà di ricorrere a servizi simili: il che non rappresenta una possibilità tanto remota. Un precedente già esiste e arriva dall'Italia con Giuseppe Genna (si veda qua sotto).
Tutto qui? Il libro online sarà quindi solo un upgrade in salsa digitale di quanto abbiamo avuto fino ad ora? Non proprio. In molti sono convinti che la vera rivoluzione deve ancora arrivare. «Dobbiamo uccidere il libro per salvare i libri», afferma lo studioso Jeff Jarvis, convinto oppositore delle definizioni dei media troppo legate al supporto: il giornalismo non è fatto di carta, ma di idee e informazioni veicolabili con qualsiasi mezzo. Lo stesso per i libri. C'è poi chi, come gli analisti del Future of the Book Institute, di New York, da tempo teorizza l'avvento del «networked book», ovvero «il libro come software sociale, un'esperienza intellettuale strutturata, un attrattore di idee reinventato in un'ecologia peer-to-peer».
Più che a Google Book o Amazon, si pensa a un modello potenziato di Wikipedia, in grado di far crepare la struttura bidimensionale della pagina e andare oltre l'interazione muta tra scrittori e lettori. E' il percorso indicato da un autore come Neal Stephenson o l'approccio dei blook, opere nate su un blog, terreno di contaminazione creativa dei più diversi generi e formati.
Niente foglie morte o prodotti surgelati all'origine, ma punti di presenza di un network organico in cui la conoscenza, anche quella narrativa, diventa produzione collettiva. Ma questa è già un'altra storia, in cui Gutenberg non potrà avere molta voce in capitolo.
(ilmanifesto.it)

29.1.07

Ribelli dediti all'ozio nelle città del XXI secolo

Il nuovo profilo del flâneur, dalla descrizione che ce ne ha lasciato Baudelaire alle mutazioni indotte dalle società immateriali. In un libro titolato «Lo sguardo vagabondo» per il Mulino, Giampaolo Nuvolati ridisegna i caratteri di queste figure emblematiche aggiornando il loro significato
Enrico Livraghi
È possibile che la figura del «flâneur» oggi si ripresenti alla ribalta? È possibile una qualche nuova forma di «flânerie» nelle metropoli infestate dalle automobili, assediate dall'inquinamento, scorticate da un'edilizia predatoria, appiattite su un modello speculativo dominante e conformate a una sorta di «pensiero urbanistico unico»? La risposta sembrerebbe affermativa, almeno secondo la tesi che il sociologo dell'ambiente Giampaolo Nuvolati propone nel suo suggestivo Lo sguardo vagabondo. Il flâneur e la città da Baudelaire ai posmoderni (Il Mulino, pp. 184, euro 12). Scrive, Nuvolati: «In questo libro dedicheremo la nostra attenzione a una categoria specifica di individui: i flâneur. Il termine, ampiamente utilizzato a partire dall'Ottocento a proposito di poeti e intellettuali che, passeggiando tra la folla dei cittadini consumatori, ne osservano criticamente i comportamenti, è oggi tornato in voga anche per descrivere alcune pratiche di viaggio ed esplorazione dei luoghi, di relazione consapevole con le persone e i contesti».
Sarebbe proprio l'uniformità urbana dilagante a rimettere in campo la figura del flâneur, nelle vesti - però - di una specie postmoderna di ribelle, quasi un personaggio antagonista rispetto al processo di omologazione della città. È peraltro noto - dice ancora Novolati - che «il flâneur, anche nei suoi comportamenti più originali e bizzarri, segnati dalla solitudine e dall'ozio, costituisce da sempre una figura provocatoria». Dunque, in questa tarda modernità, l'attitudine essenzialmente metropolitana nominata «flânerie» dai tempi della «Parigi capitale del XIX secolo», per quanto mutata all'altezza del presente, sarebbe tutt'altro che scomparsa, e il flâneur, per quanto irriconoscibile, si aggirerebbe ancora vivo e vegeto con il suo occhio graffiante nello spazio urbano (e, a quanto pare, anche in quello extraurbano). Certo, non si tratta più di quella figura messa in gioco da Baudelaire e scolpita in forma indimenticabile nelle pagine «baudelairiane» di Walter Benjamin: quel personaggio che attraversava con aria febbrile e con foga sacrale le strade, i quartieri, i «passages» e i nuovi boulevard parigini. Né il contesto è più il centro della città, il suo «cuore pulsante», luogo del «pellegrinaggio al feticcio della merce», come diceva Benjamin: il moderno flâneur (ma si potrebbe ormai nominarlo in un qualsiasi altro modo) non subisce più lo spaesamento della folla, ma semmai si immerge nel sociale e ha piuttosto di mira le strade di periferia, gli spazi più decentrati e marginali (e borderline), spesso punteggiati dai monumenti riciclati dell'archeologia industriale, dove oggi si produce e insieme si distorce la socialità della metropoli, si costruisce e al tempo stesso si disgrega e si consuma il nesso sociale.
Secondo Nuvolati, «lo sguardo del flâneur...ci aiuta a vedere la storia e i problemi sociali del nostro paese». Infatti, sotto questa curvatura, il moderno flâneur si presenta come una figura sociologicamente rilevante, tanto più che l'orizzonte del suo errare si allarga verso le prospettive della cosiddetta «società immateriale» (il viaggiare, il navigare in rete, il comunicare in permanenza), intese come apertura verso un continente dell'immaginazione sconfinato e impensabile fino a poco tempo fa. Un'immaginazione (appunto sociologica) che parrebbe dunque costituire attualmente un passaggio cruciale, tale da offrire a questo emblematico personaggio una possibile via d'uscita da quello slittamento verso l'omologazione già individuato da Benjamin. Insomma, il moderno flâneur - al contrario del suo celebre antenato ottocentesco - sembrerebbe capace di sottrarre il suo prezioso sguardo al pericolo di una caduta «al servizio della vendita», evitando che la sua intelligenza sia anch'essa un qualcosa che «si è recata al mercato» (ancora Benjamin) divenendo preda della fantasmagoria della merce. A parere di Nuvolati, «se, in passato, le passeggiate del flâneur avevano come meta principale i luoghi del consumo nel cuore della città, sucessivamente questo campo d'azione è andato decentrandosi alla ricerca di eventi e significati anche in anfratti urbani marginali. La città di oggi è senza mappa, è un'entità per certi versi paradossale: esiste pur senza essere rappresentabile, o viceversa è virtuale, dunque rappresentata pur senza esistere».
Tuttavia, forse, proprio l'esercizio dello sguardo rappresenta la più grande insidia per il moderno flâneur (come, infine, per chiunque persegua la destabilizzazione del conformismo visivo imperante in questa città «senza mappa»). Perchè lo sguardo, che tenta di frantumare percettivamente l'omologazione, è invece bersagliato dalla fantasmagoria del mercato finto-immateriale che adesso incombe in ogni dove; ed è al tempo stesso sottoposto alla minaccia rappresentata da quella sorta di gigantesco laboratorio di costruzione dell'immagine-merce che infiltra l'intero spazio metropolitano - meglio se «virtuale» - dove regna l'imperativo di irretire lo sguardo stesso nel perenne processo di auto-valorizzazione del valore.
In un simile spettacolo fantasmagorico, esaltato all'ennesima potenza proprio dalla dimensione virtuale, lo sguardo - reso ipertrofico dalla simbologia e dai segni allusivi, disseminati in ogni angolo e in ogni interstizio della città - è ridotto esso stesso al livello di una pura merce, vale a dire al rango di pura audience, questa merce impalpabile, invisibile (come lo è lo sguardo), inattingibile nel suo sfuggente travestitismo, e che paradossalmente si autoproduce in quanto tale. Tanto che si può forse dire che in questa fase della tarda modernità detta anche globalizzazione (cioè sussunzione capitalistica del globo terracqueo), anche il flâneur è servito.

il manifesto

26.1.07

Il 'surfing' governato da leggi matematiche

Due ricercatori italiani scoprono un modello matematico nuovo

Due sono i parametri che regolano la navigazione: l'effetto memoria, cioe' il fatto che l'utente tende a guardare solo cose recenti, e l'attitudine degli internauti a usare per i tag parole gia' viste da altri utenti

Due studiosi italiani, dell'universita' La Sapienza di Roma Vittorio Loreto e Ciro Cattuto, si sono concentrati sul fenomeno del ''tagging'', cioe' sulla messa in comune da parte di grandi quantita' di internauti di informazioni su uno stesso tema, e hanno scoperto che si puo' descrivere il modo con cui le comunita' agiscono sulla base di due leggi molto semplici.

Ne e' venuto fuori un modello matematico che descrive il fenomeno che non sarebbe dettato dal caso. L'interazione tra milioni di persone che non si conoscono consente dinamiche complesse simili a quelli descritti dalle leggi della termodinamica, in cui non serve sapere la posizione di ogni singola particella ma bastano alcuni paramentri per descrivere il sistema.

Il programma scelto dai ricercatori e' quello fornito dal programma del.icio.us, ideato da un diciannovenne americano, che permette il cosiddetto ''tagging collaborativo''. Chiunque puo' collegarsi e associare ai contenuti del sito (foto, bookmark o musica), un ''tag'', cioe' un'informazione necessaria alla catalogazione. Del.icio.us è un software per social bookmark. Ti permette di aggiungere facilmente i siti che ti piaccioni nella tua collezione personale di link. Puoi organizzare i link utilizzando delle parole chiave (dette tag), e condividere la tua collezione non solo tra te ed il tuo browser ma anche con altri utenti.

Internet di per se' e' una struttura di pagine disorganizzate, caotiche dove diventa sempre piu' difficile navigare. A questo punto o si ripensa Internet oppure si organizzano dei percorsi preferenziali attrezzando sistemi di ricerca in grado di 'customizzare' al rete su misura di utente.

Alla fine navigare in rete non e' alro che esplorare una lista di link prestabiliti. Tutti i link organizzati secondo criteri di contenuto rappresentano un cospicuo capitale, una risorsa cui far riferimento. In effetti iscriversi alle banche dati di link gia' raggruppati e' un modo rapido di navigare conoscendo gia' la rotta tracciata da altri internauti.

Le leggi trovate dai ricercatori romani, che lavorano con il finanziamento di un progetto europeo in collaborazione con la Sony e alcune universita' europee: i parametri sono due, ma danno gia' risultati soddisfacenti: c'e' il cosiddetto effetto memoria, cioe' il fatto che l'utente tende a guardare solo cose recenti, e l'attitudine degli internauti a usare per i tag parole gia' viste da altri utenti.

Combinando queste due leggi e' venuto fuori un modello matematico che descrive con una buona approssimazione i comportamenti. Le applicazioni di questo lavoro sono sia pratiche che 'accademiche'. Ovviamente quando si individua bene come gli utenti usano un sito puoi modificarlo per andare incontro alle loro esigenze o prevenirle, e questo puo' valere per tutti i siti di tagging. Inoltre questo studio ha delle applicazioni nel campo delle scienze sociali perche' permette di sapere quali parole vengono associate a determinati contenuti.

Rai-news

12.12.06

Piazze piene e democrazia

di Gustavo Zagrebelsky (Repubblica, 12-12-2006)

La pubblicazione di un piccolo libro e una grande manifestazione popolare, pochi giorni fa, ci hanno messi di fronte a una domanda essenziale per la democrazia. Il libro è La democrazia che non c´è (Einaudi, pagg. 152, euro 8) di Paul Ginsborg, uno studioso assai noto al pubblico italiano per le indagini ch´egli ha dedicato alla realtà italiana con l´attenzione distaccata di chi viene di lontano, ma con la passione di chi è intimamente partecipe dei problemi del Paese che l´annovera tra i professori della sua Università. La manifestazione sono le centinaia di migliaia di persone convenute in piazza San Giovanni a Roma, per protestare contro la legge finanziaria e soprattutto per rinnovare il carisma del leader e di nuovo esibirlo coram populo. Un libro e una manifestazione di piazza: un accostamento già di per sé ricco di simboli rispetto alla domanda. La possiamo enunciare come segue.
La democrazia, nella versione rappresentativa che conosciamo, è una classe politica, scelta attraverso elezioni, che immette nelle istituzioni istanze della società per trasformarle in leggi. È dunque, nell´essenziale, un sistema di trasmissione e trasformazione di domande che si attua attraverso una sostituzione dei molti con i pochi: una classe politica al posto della società. Qui, piaccia o no, c´è la radice inestirpabile del carattere oligarchico della democrazia rappresentativa, carattere che per lo più viene occultato in rituali democratici ma che talora non ci si trattiene dall´esibire sfrontatamente. Ma, al di là di ipocrisia o arroganza, ciò che è decisivo è il rapporto di sostanza che si instaura tra questa oligarchia e la società. Dire "società" è però un parlare per astrazioni, perché essa, in concreto, è fatta di parti diverse tra le quali è inevitabile che la rappresentanza proceda per passaggi selettivi: dal popolo tutto intero agli elettori effettivi, dagli elettori alle assemblee parlamentari, dalle assemblee parlamentari alla loro maggioranza, dalla maggioranza al governo, dal governo al suo capo. Si dice spesso che la classe politica è uno specchio, né migliore né peggiore, del Paese che rappresenta, ma è una banale falsità auto-assolutoria.
La classe politica, ai suoi diversi livelli, è quello che è perché seleziona i suoi riferimenti sociali, illuminandone alcuni e oscurandone altri, stabilendo rapporti con i primi e tagliandoli con i secondi. Per questo, la classe politica non è e non può essere lo specchio della società. Se fosse un semplice rispecchiamento e non una selezione, sarebbe solo una miniatura, mentre la democrazia rappresentativa è tale perché della società la classe politica deve dare una rappresentazione, per poterla governare conseguentemente. Eccoci allora alla domanda: quali sono i riferimenti sociali della nostra classe politica? In breve: che cosa rappresentano i rappresentanti? Questo è il problema qualitativo della democrazia rappresentativa.
Guardiamoci attorno. La classe politica "pesca" dalla società le istanze ch´essa vuole rappresentare per ottenere i consensi necessari a mantenere o migliorare le proprie posizioni, secondo la legge ferrea dell´auto-conservazione delle élite. Che cosa trovano? Aspirazioni di massa al benessere materiale, esigenze di sviluppo e di tutela dei soggetti economici, affermazioni di "valori" immateriali della più diversa natura. Tante cose eterogenee e tanti soggetti sociali, conflittuali tra di loro e al loro stesso interno, che, con i mezzi più diversi, leciti e criminali, cercano di farsi strada e che la classe politica è chiamata a selezionare; un caos di istanze tra le quali si deve però fare una prima, fondamentale distinzione, a seconda della prospettiva in cui si collocano: individuale e immediata, oppure generale e duratura. In questa distinzione traspare il pericolo della catastrofe della democrazia, cui è esposta per cecità o incapacità di allargare e allungare lo sguardo.
Questa summa divisio fa oggi passare in seconda linea altre polarizzazioni politiche. Destra e sinistra, progressisti e conservatori, laici e credenti, sono divisioni importanti, ma vengono dopo e sono interne a quella principale, tra coloro che sanno interessarsi solo al loro presente e coloro che sanno concepirlo come premessa di un avvenire comune. È una tipologia del carattere degli esseri umani (la cicala e la formica) che oggi assume un significato eminentemente e drammaticamente politico, a fronte degli interrogativi che pesano sul mondo.
La grande manifestazione e il piccolo libro di cui si è detto all´inizio sono rappresentativi di questa alternativa.
Una parola d´ordine della grande manifestazione - libertà - ha riassunto tutte le altre, e non si è minimamente pensato di farla seguire da responsabilità. Libertà, da sola, significa una cosa soltanto: autorizzazione a curare illimitatamente i propri immediati interessi, a costo di dissipare i beni collettivi e permanenti che assicurano un avvenire. Solo la responsabilità può togliere alla libertà il suo veleno distruttivo. Ma, su questo, nessuna parola.
Un popolo di individui liberi e irresponsabili ha i nervi fragili di fronte all´insicurezza per l´avvenire perché avverte, al tempo stesso, di esserne causa senza avere strumenti per affrontarla. Per questo, più di tutto detesta i profeti di sventura e ama chi lo tranquillizza. La paura è uno strumento politico. Per legare a sé questo popolo, per un demagogo non c´è di meglio che, prima, diffondere paura e, poi, dissiparla. Al potere starà non il grande fratello ma il grande rassicuratore. Naturalmente, i motivi di paura reali, di cui non si ha il controllo, quelli occorre minimizzarli o occultarli. Le risorse energetiche sono alla fine? L´inquinamento ambientale è alle stelle? L´acqua scarseggia? I ghiacci polari si sciolgono? La desertificazione avanza? Niente paura. Gli scienziati non sono d´accordo nelle diagnosi e nelle prognosi. L´Aids continua a diffondersi? Nessun problema. Basta non parlarne più. Lo stesso per le inquietudini morali. Paesi interi dell´Africa tropicale muoiono? Le disuguaglianze nel mondo aumentano progressivamente? Forse non è così vero e, comunque, non ci deve importare, perché la colpa è loro e dei loro governi. Continuiamo così liberamente e non facciamoci domande inutili!
Nel nucleo del discorso sulla democrazia che non c´è di Ginsborg troviamo la nozione di società civile, il contrario di tutto questo. L´espressione ha ascendenze filosofiche, illuministiche, hegeliane e marxiane, liberali e gramsciane ma qui non è usata in nessuna di queste accezioni. Se ne prendono elementi diversi per costruire una nozione indicante un ambito di rapporti sociali che si collocano prima e fuori dei rapporti di potere pubblico ma si elevano al di sopra dei meri interessi particolari e pongono al potere politico disinteressate ma stringenti domande.
Per Ginsborg, la società civile è una «società civilizzata», portatrice di suoi valori sostenuti da libere energie di natura non egoistica; è il luogo di coloro che sanno alzare lo sguardo dalla loro pura e semplice convenienza individuale, per vedere più avanti e più in largo. È la società partecipante, che vince la passività e l´indifferenza per i problemi comuni, considerate il segno maggiore di malessere delle nostre democrazie, un segno non contraddetto, anzi semmai confermato dall´alta partecipazione a elezioni vissute come consegna delle difficoltà comuni a qualche grande rassicuratore. L´espressione che più frequentemente ritorna nel libro è «soggetti attivi e dissenzienti»: dissenzienti rispetto all´uniformità antropologica e alla improduttività spirituale indotte dalla società mondiale dei consumi; attivi nell´elaborare valori, punti di vista e bisogni differenziati rispetto a quelli dominanti. Il soggetto della società civile è l´individuo, in quanto però inserito in un «sistema aperto di connessioni». A condizione che possano sprigionare energie sociali al loro esterno, le strutture sociali comunitarie sono viste con favore: associazioni, circoli, club, movimenti di base, organizzazioni non governative nazionali e sopranazionali. L´accento, però, è posto sulla famiglia: una risorsa fondamentale se sa educare i suoi membri all´apertura e alla responsabilità verso i propri simili; un pericolo mortale se si chiude su se medesima coltivando egoismo familistico.
Questa società civile è più un obbiettivo da perseguire che un dato che possiamo constatare. In essa è riposta la speranza di una politica non di mera sopravvivenza a breve termine, non appiattita su suicidi interessi solo particolari. Non è un soggetto direttamente politico e sbaglierebbe quindi a candidarsi come forza di governo. È infatti un soggetto pre-politico, più un luogo di elaborazione e confronto di istanze sociali che un luogo di sintesi politica. Ma una classe politica non totalmente dedita alla propria auto-riproduzione farebbe bene a prestare attenzione e, anzi, a valorizzare questa risorsa della vita sociale. È lì che si possono trovare le energie che aiutano a vedere più in là delle piccole cerchie di interessi egoistici. Constatiamo le difficoltà che incontra un governo, quando chiede sacrifici nel presente, per ragioni che guardano al futuro. Dove può sperare di trovare il consenso necessario, se non in questo genere di società civile, ove sia coltivato il senso delle comuni responsabilità? L´alternativa è il circolo vizioso di forze in competizione particolaristica che si votano all´auto-distruzione, senza nemmeno rendersene conto.
In un capitolo del suo libro Collasso (Einaudi, 2005), il biologo e geografo Jared Diamond narra l´affascinante e terribile storia di Pasqua, l´isolotto in pieno Oceano Pacifico, al largo della costa cilena, un tempo rigoglioso di vita e risorse. I suoi abitanti furono presi da una razionale follia che si manifestava in una gara di potenza tra clan su chi costruisse e installasse le più mastodontiche raffigurazioni delle proprie fattezze umane, quelle statue che oggi presidiano insensatamente un paesaggio spettrale e dal mare verso terra fissano i visitatori con il loro sguardo di pietra. Nel corso di tre secoli, questa corsa al successo e al prestigio fece il deserto attorno a loro. Furono abbattuti i grandi banani il cui tronco serviva a muovere i massi scolpiti e a rizzarli nei campi. La vegetazione si ridusse ad arbusti e sparirono gli animali di terra; gli uccelli cambiarono rotta; senza i tronchi per le canoe, anche la pesca cessò.
Finirono con l´abbrutirsi mangiando i ratti e poi divorandosi tra loro. Ci si chiede come abbiano potuto trascinarsi così in basso, addirittura con i loro stessi sforzi, riducendo una terra feconda in un´infelice gabbia mortifera dalla quale, avendo distrutto anche l´ultimo albero che sarebbe servito per l´ultima imbarcazione, finirono per non poter andarsene via. Una società tanto cieca rispetto al suo avvenire, si dice debba essersi fidata fino all´ultimo delle parole di qualche grande assicuratore che, per non dispiacere al suo popolo e farlo credere libero di proseguire nella sua follia, non usava altro che parole di ottimismo, parole con le quali gli impedì di alzare la testa e aprire gli occhi.

14.11.06

Quella forza dei ragazzi senza cuore

di UMBERTO GALIMBERTI

MA ATTRAVERSO quali processi i nostri ragazzi costruiscono la loro identità e l'autostima di sé? Attraverso processi molto arcaici e primitivi, a giudicare dal fatto che tra i video più cliccati su Google c'è quello girato in una scuola superiore italiana da un gruppo di ragazzi che, senza pietà, menano e umiliano un compagno Down. Si sa che i Down sono molto miti e affettuosi, quasi la natura avesse compensato il loro difetto genetico con l'affetto che inducono con la loro gestualità impacciata ma commovente.

Commovente per tutti, ma non per quella moltitudine di ragazzi che traggono soddisfazione identificandosi con quei coetanei che pensano che la natura ci ha dato mani e piedi solo per menare il prossimo. Naturalmente quando il prossimo è ritenuto più debole di noi. L'umanità ha fatto un percorso lunghissimo per passare dalla violenza del gesto alla discussione con la parola.

Oggi stiamo spaventosamente regredendo. E costruendo fin dalla più tenera età ragazzi che cercano la loro identità nella forza. Non nella forza del carattere, e neppure nella forza del pensiero, ma, nella completa afasia del cuore e della mente, nella forza dei muscoli, naturalmente dopo aver opportunamente valutato che la propria forza superi quella dell'altro.

E nel loro cuore latita non dico l'amore, sentimento troppo sofisticato per i loro cuori, ma la commozione che non devi fare nessuno sforzo per trovare. Viene da sé, tocca il tuo cuore per il semplice fatto che di fronte a te hai un tuo simile, e per giunta più svantaggiato di te.

"Senza cuore" non è un'espressione patetica. Significa che in te non si è formato quel sentimento di appartenenza alla comunità umana già presente nel mondo animale, dove tendenzialmente il simile non attacca il simile. Il senso di appartenenza non è una conquista culturale, è un dato naturale che accomuna tutte le specie e, al loro interno, le salvaguarda.

Dobbiamo allora pensare che la nostra cultura sia così degradata da infrangere, sin dalla giovane età, non solo il precetto universale di amare il prossimo, presente in tutte le religioni, ma anche il ribrezzo naturale di accanirsi sul più debole? Sì, dobbiamo pensarlo se è vero che quel video è tra più visti sul Web.

E allora la scuola, prima delle discipline che è incaricata a insegnare, prima dell'educazione civica impartita per avviare all'osservanza della legge, dovrebbe incominciare a indagare se i fondamentali della natura umana sono ancora presenti e attivi nei ragazzi che ogni giorno vanno a scuola e poi a casa accendono il loro computer per identificarsi con quell'aggressività malsana che fraintende la crudeltà con la forza e l'affermazione della propria identità con l'accanimento fisico sul più debole e il più indifeso.

Scuola, scuola, scuola. So che i compiti che oggi vengono affidati agli insegnanti sono molti. Ma incominciamo da questo, perché senza il più elementare dei sentimenti umani, nessun processo culturale può partire.

la Repubblica
(12 novembre 2006)

6.7.06

La mela avvelenata di Alan Turing

Una macchina per aumentare la conoscenza dell'universo, un numero stellare di informazioni, senza interrogarsi sul loro possibile uso
Un frutto intriso di cianuro, lo strano suicidio del padre dell'intelligenza artificiale, l'uomo che aveva contribuito a decrittare i cifrari nazisti «Alan Turing. Una biografia» di Andrew Hodges. L'avventura esistenziale e intellettuale di un protagonista della matematica del XX secolo
Franco Voltaggio

Nel pomeriggio di martedì 8 giugno 1954 a Cambridge, Alan Turing, insigne matematico del King's College, fu trovato morto, compostamente disteso sul letto, dalla sua governante. La presenza di schiuma attorno alla bocca, il reperimento in casa di un recipiente contenente cianuro di potassio e di un barattolo di marmellata pieno di sali di cianuro, condussero gli inquirenti a ipotizzare un decesso per avvelenamento risalente alla notte di lunedì. Stranamente non fu data molta importanza ad una mela, trovata accanto al letto, e più volte morsicata. Il frutto non venne analizzato e non fu così riscontrato il fatto, decisamente probabile, che la mela era stata intinta nel cianuro sì che mangiandola lo scienziato aveva incontrato la morte. Chiusa l'inchiesta, il verdetto del coroner fu di suicidio «attuato in un momento di squilibrio mentale». A queste conclusioni il magistrato pervenne soprattutto sulla scorta di quanto si sapeva di Turing. Infelice, tendente alla depressione, in cura da uno psichiatra, Turing era stato processato due anni prima per omosessualità e condannato alla castrazione chimica, restandone sconvolto. Poco dopo la tragica scomparsa, che privava l'Inghilterra della straordinaria mente di un uomo ancora giovane - era nato nel 1912 - cominciarono a circolare voci inquietanti: Alan Turing non si era suicidato, ma, semmai, era stato suicidato da un qualche agente, inglese o americano, dei servizi segreti. Tanto l'«Intelligence Service» britannico quanto la Cia avevano il timore che Alan, il quale durante la guerra aveva collaborato in una posizione chiave alla decrittazione di «Enigma», il sistema dei cifrari della Germania nazista, e che continuava a lavorare in questo settore di ricerche, potesse divulgare, anche senza volerlo, contenuti coperti da segreto militare. Avrebbe potuto farlo e forse poteva averlo fatto proprio per le sue abitudini omosessuali che lo portavano a incontrare molti giovani nel corso di viaggi incontrollabili, prestandosi a facili ricatti o, più semplicemente, lasciandosi andare a imprudenti confidenze. Si era allora in piena guerra fredda e molti scienziati inglesi - alcuni dei quali, d'altronde, erano fuggiti in Unione Sovietica - erano sospettati di simpatizzare per il comunismo. Ma c'è di più. Nel pubblico inglese e americano, come anche in molti politici, si era creato il terrore di una triangolazione «viziosa», densa di pericolo per il «mondo libero», costituita dai tre angoli della «Big Science», dell'omosessualità e del filocomunismo. Non è allora per nulla inverosimile, anche se non provata, l'eventualità che Alan Turing fosse stato vittima, fra tanti altri, di questa odiosa versione di caccia alle streghe.
Un giovane tra scienza e amore
Questa ipotesi viene ora ventilata da un bel libro di Andrew Hodges, matematico inglese e collaboratore di Roger Penrose (il fisico che mira all'unificazione della meccanica quantistica e della teoria della relatività), Alan Turing. Una biografia (Bollati Boringhieri, pp. 762, euro 19). Va però detto, a merito di Hodges, che l'autore non si lascia sedurre dall'allettamento di scrivere una spy's story. La sua, nella cornice di una biografia documentatissima, è semmai un'implicita indagine sulla relazione tra vissuto dei sentimenti e avventura intellettuale in un protagonista della matematica del XX secolo, uno studio che, tra l'altro, getta una luce insospettata sulla sua omosessualità.
Alan, secondogenito di Julius, funzionario (sino al 1912) del governo indiano, e di Ethel Stoney, di origine in parte irlandese, apparteneva allo strato per così dire inferiore della high class inglese. La sua famiglia non rientrava a rigore né nella nobiltà terriera, né nei ranghi degli status allora ritenuti elevati, come la professione delle armi o quella ecclesiastica. Sotto un certo aspetto i Turing, nell'Inghilterra dell'età imperiale, erano degli outsider, che potevano sperare di uscire dalla loro condizione solo attraverso i figli, sempre che questi frequentassero una buona public school, ossia una scuola privata prestigiosa, che ne facesse dei gentiluomini i quali, una volta diplomati, potessero essere accolti a Oxford o a Cambridge. John, il primogenito, fu così iscritto nella public school di Marlborough e Alan in quella di Sherborne. Alan non riuscì ad adattarsi facilmente al sistema e ai contenuti dell'insegnamento di Sherborne. La scuola, che risaliva al 1550, era incentrata, come del resto tutte le public schools, sull'educazione umanistica: vi venivano impartite lezioni di latino e di greco e si dava la massima importanza a uno stile di composizione e di scrittura che permettesse agli allievi di acquisire una perfetta competenza nell'uso dell'inglese. Anche uno scritto di matematica o di quel tanto di scienza che vi si insegnava doveva rispondere agli stessi requisiti. Alan non solo non mostrava alcuna inclinazione per le lingue classiche, ma sembrava assolutamente insensibile alle regole dello stesso inglese, tanto che per anni i suoi lavori furono disseminati di errori di grammatica e di ortografia. Contemporaneamente mostrò, ancora prima di raggiungere l'adolescenza un forte interesse per la chimica - i suoi esperimenti destavano il dileggio dei compagni che lo vedevano immerso nelle «puzze» - per la natura vivente e per l'astronomia, associandovi una predisposizione per la matematica talmente spiccata da consentirgli di inventare addirittura nuove regole di calcolo e di impostazione dei problemi. Parallelamente, prese a nutrire una forte curiosità per il sesso o, come si diceva allora, per il mistero della vita, arrivando alla conclusione che solo la scienza gli avrebbe fornito le risposte che cercava.
Dalle pagine di Hodges emerge non il ritratto di uno scolaro sostanzialmente asociale e disadattato, infarcito di nozioni scientifiche mal digerite, un infelice che non sarebbe mai diventato un gentleman, ma l'immagine di un ragazzo assetato di conoscenza e di amore, un personaggio, decisamente fuori dagli schemi, che per molti versi ricorda il protagonista dei Turbamenti del giovane Törless di Musil. A 15 anni conobbe Christopher Morcom, di un anno più vecchio di lui, con il quale strinse una calda amicizia. Quando Chris, affetto da una gravissima malattia polmonare di origine virale, il 13 febbraio 1930 morì a Londra, Alan ne provò un dolore tanto forte da indurlo a fare dell'amico un oggetto di culto e della madre di Chris una seconda madre, se non addirittura la sua vera madre.
Da quel che ci dice Hodges non risulta che tra i due giovani vi fosse stata un'esplicita relazione omosessuale, ma non c'è dubbio che il sentimento nutrito da Alan per Chris non fosse tanto un'amicizia, quanto piuttosto un amore, per di più ricambiato. In realtà il luogo di incontro tra loro non era il corpo, né a spingerli l'uno verso l'altro l'eventuale (e naturale) pulsione omofila di due adolescenti, ma il mondo delle idee e degli interessi scientifici condivisi, culminanti nella ricerca della verità. Morto Chris, Alan ebbe più tardi, almeno sino al 1952, frequenti rapporti omosessuali che nascevano in parte dal bisogno di ritrovare in un altro uomo l'amico perduto, in parte dall'esigenza, crescente con l'avvento della maturità, di rompere una solitudine sempre più dolorosa, una volta accettata, non senza travaglio, la sua condizione di omosessuale. Poiché non risulta che in Alan vi fosse una marcata misoginia, la sua omosessualità non può neppure essere spiegata come l'epifenomeno di quella speciale forma di edonismo che contrassegnò in quegli stessi anni personalità eminenti quali l'economista Keynes o lo scrittore Forster. Fu un'altra cosa e, per taluni aspetti, fu il ritorno, nel complicato clima dell'Inghilterra tra le due guerre, dell'eros socratico-platonico in un uomo perso, come si direbbe a Roma, dietro a una visione vertiginosa e ideale della matematica, che invitava perentoriamente alla ricerca di un nuovo altro se stesso, quale era stato lo sfortunato Christopher Morcom, il vero specchio nel quale Alan poteva rispecchiarsi. A guidarci in questa convinzione è la teoria fondamentale del matematico inglese, la «macchina di Turing», alla quale Hodges dedica alcune tra le pagine più penetranti della biografia.
Risposte illegittime
Tra il 1936 e il 1937 Turing pubblicò un lavoro dal titolo On Computable Numbers, with an Application to the Entscheidungs problem («Sui numeri computabili con un'applicazione al problema della decisione», cioè della dimostrazione della congruenza di un sistema matematico). Ora che cosa significa «numero computabile»? E' un numero calcolabile da parte di una macchina. Naturalmente si tratta di una macchina ideale («macchina di Turing»). Seguendo per semplificare la lucida esposizione che ne dà Umberto Bottazzini (vedi «Gödel e gli sviluppi recenti della logica», in P. Rossi, Storia della scienza moderna e contemporanea, UTET, 1988), diciamo che «una macchina di Turing è una macchina capace di un numero finito di stati mentali - detti anche configurazioni - prefissati e dotata di un nastro potenzialmente infinito che l'attraversa in entrambe le direzioni». Il nastro è diviso in riquadri, ognuno dei quali può essere vuoto o contenere un simbolo. «In ogni istante c'è un solo riquadro "in esame" nella macchina e dunque c'è solo simbolo di cui la macchina sia per così dire consapevole. Tuttavia, cambiando la sua configurazione, la macchina può effettivamente ricordare alcuni dei simboli che ha "visto" (esaminato) in precedenza». In buona sostanza, la macchina riproduce schematicamente il meccanismo essenziale di un computer, il suo software, suscettibile di produrre un numero illimitato di operazioni. Sotto questo aspetto, la macchina di Turing costruisce schematicamente una intelligenza artificiale, intendendo con questa espressione una simulazione esaustiva dell'intelligenza propriamente detta, cioè umana. Naturalmente questa simulazione ha un limite preciso, consistente nel fatto che la macchina, se produce, riproduce e traduce informazioni, non contiene tuttavia una peculiarità dell'attività mentale, vale a dire l'intenzionalità. Ci spieghiamo. Se chiediamo a una persona «sai l'ora?», questa ci risponde le «12,22», mentre il computer ci risponde semplicemente «sì» senza darci l'informazione richiesta. Per ottenerla dobbiamo mutare quesito, ossia chiedere «che ora è?», in altre parole modificare la configurazione. A questo punto intervengono alcune riflessioni, alcune delle quali compiute dallo stesso Turing, specie nelle sue conversazioni con Wittgenstein. La prima è di merito. Una macchina di Turing, dotata di un software supportato da un hardware adeguato, può - è vero - aumentare enormemente le nostre conoscenze, ma rischia di fornire risposte illegittime a interrogativi sui quali man muss schweigen (bisogna tacere) come concludeva Wittgenstein nell'ultima proposizione del Tractatus Logico-philosophicus. Dobbiamo evincerne che tutte le questioni di merito, vale a dire le domande di tipo etico, giuridico, teologico, sono fuori - devono esserlo - della portata di una macchina di Turing, ossia dell'intelligenza artificiale. Per contro, se vogliamo avere informazioni sullo stato del mondo o informazioni su contesti di informazioni, la macchina è indispensabile. Lo è, tra l'altro, se vogliamo decifrare la reale natura di un sistema formale. Alla luce della macchina ideale, un sistema formale non è altro che un procedimento meccanico per generare teoremi. In altre parole, sotto il profilo del futuro sviluppo della matematica di essa non possiamo fare a meno. Ma c'è ancora un'altra cosa sulla quale intendiamo attirare l'attenzione del lettore. Dobbiamo chiederci se davvero le questioni di merito interessassero al nostro matematico. Se, in altre parole, non fosse animato da un'angoscia metafisica che non poteva che condurlo a una posizione diametralmente opposta a quella di Wittgenstein. Sospettiamo di sì. Vediamo perché.
La perdita dello specchio
Dalla dettagliata ricostruzione di Hodges apprendiamo che Alan Turing non solo collaborò attivamente alla decrittazione di «Enigma», ma contribuì in modo decisivo, con la messa a punto delle «bombe», cioè dei sistemi di decrittazione, a sottrarre il controllo dell'Oceano Atlantico da parte della Germania già a partire dalla fine del 1942 (pur restituendolo piuttosto agli Stati Uniti che all'Inghilterra che, anche per questa ragione, iniziò ad attraversare il suo declino, perdendo il vecchio ruolo di prima potenza mondiale). Molte delle «bombe» non erano che particolari applicazioni della sua macchina, talché non sarebbe azzardato affermare che uno dei vincitori della seconda guerra mondiale è stato proprio lui. Risulta allora singolare la desolazione e la depressione in cui cadde nei sette anni dalla fine della guerra alla morte. Abbiamo avuto l'impressione, leggendo il suo libro, che la causa prima di questo stato sia per Hodges riconducibile alla caduta di Alan in una sindrome assai simile a quella che afflisse Robert Oppenheimer pentito di aver partecipato al Progetto Manhattan, cioè alla costruzione della prima bomba atomica. Come dire che la macchina ideale si risolveva di fatto in un'usurpazione dei diritti della naturale intelligenza umana. In altre parole, una catastrofe umanitaria, come si direbbe oggi, persino più grave della distruzione di Hiroshima e Nagasaki. In realtà, non è così. Quello cui Alan aveva mirato, con la sua macchina ideale, era proprio pervenire ad aumentare a dismisura la conoscenza possibile dell'universo, accumulando un numero stellare di informazioni, senza chiedersi il perché del loro possibile uso. La macchina era stata per lui la riproduzione del delirio di onnipotenza conoscitiva della fanciullezza e della adolescenza, uno specchio di se stesso. L'utilizzazione pratica glielo aveva mandato in frantumi e, tra l'altro, essendo un tale specchio un sostituto dell'amico morto, aveva compromesso una difficile riparazione del lutto. Ammesso che Alan Turing si sia suicidato, probabilmente mangiando la mela avvelenata, verrebbe fatto di pensare che avesse voluto, lui ateo, ripercorrere a modo suo il mito biblico del frutto proibito. Morderlo non già per acquisire il dono della conoscenza, ma per punirsi di averla per sempre perduta. E' davvero sbagliato pensarlo?


ilmanifesto.it

4.7.06

Sadismo e solitudine nei racconti di Yates

Tassisti con ambizioni letterarie, sergenti addetti all'addestramento di reclute, malati di tubercolosi, coppie sull'orlo di un matrimonio sbagliato, bambini difficili: i personaggi dell'autore di «Revolutionary Road» si rendono visibili attraverso lo schermo del loro isolamento. E l'autore americano, tradotto da minimum fax, li racconta innestando la lezione di Fitzgerald su quella di Flaubert

Emanuele Trevi

Forse è un po' esagerata l'affermazione di Kurt Vonnegut, che definisce Undici solitudini di Richard Yates (prefazione di Paolo Cognetti, trad. di Maria Lucioni, minimum fax, pp.261, euro 10,00) addirittura «la migliore raccolta di racconti mai pubblicata da un autore americano». Quello che è certo, in ogni modo, è che si tratta di un'ulteriore dimostrazione della grandezza di questo scrittore nato nel 1926 e morto, dopo una vita non facile segnata da alcolismo e depressione, nel 1992. Spetta alla minimum fax il merito di aver riscoperto l'opera di Yates, non del tutto inedita ma rimasta sostanzialmente inosservata qui in Italia, iniziando a ripubblicarla a partire dal capolavoro del 1961, Revolutionary Road, che è anche il suo libro d'esordio, e proponendo in seguito Disturbo della quiete pubblica, uscito nel 1975. Ma anche negli Stati Uniti sembra in corso una rivalutazione postuma, che fa perno, più che sulla critica in senso stretto, sull'ammirazione professata da molti scrittori, come Richard Ford, Michael Chabon, Tobias Wolff. L'essere spesso considerato uno «scrittore per scrittori» a corto di un grande pubblico dovette essere un altro dei crucci che afflissero la vita di Yates, assieme a quello, ben più grave e paralizzante, della coincidenza tra il primo libro e il suo capolavoro, pubblicato a trentacinque anni e di fatto rimasto ineguagliato.
Undici solitudini uscì a Boston da Little & Brown nel 1962, un anno dopo Revolutionary Road, a confermare la presenza di un nuovo e straordinario talento sulla scena letteraria americana. Yates iniziò a collaborare con dei racconti a riviste letterarie negli anni cinquanta, e dunque questo libro contiene le prime prove della sua arte narrativa. Per rubare l'espressione a Thomas Pynchon (anche lui la usa a proposito dei racconti giovanili), si tratta di un vero e proprio slow learning, il lento apprendistato di uno scrittore alla ricerca del suo timbro, e impegnato a saggiare nel concreto le strategie di rappresentazione che gli dettano l'istinto e la cultura. Quanto a quest'ultimo punto, Yates stesso in più d'una occasione ha dichiarato di aver innestato la lezione di Fitzgerald su quella, fondamentale, di Flaubert. Pienamente flaubertiane, infatti, sono le premesse del suo libro d'esordio: Revolutionary Road è la Madame Bovary di una middle class nevrotica e alcolizzata, che vive nei placidi e lindi sobborghi familiari dove è facile far crescere i bambini e i vicini sono tutti amici e tutti simili, almeno in apparenza. I maschi, la mattina, abbandonano i sobborghi per andare a lavorare a Manhattan. Così come la signora Bovary è identica a migliaia di altre mogli di medici di provincia, anche i coniugi Wheeler sono gente perfettamente normale. Non fosse, tanto per l'eroina di Flaubert quanto per i suoi tragici epigoni inventati da Yates, che per un particolare: il veleno fatale dell'immaginazione, tanto più fatale quanto più debole è l'organismo mentale che deve sostenerlo e assimilarlo. Di questo pessimismo antropologico offrono già alcune splendide miniature certi racconti di Undici solitudini, forse con più efficacia dove Yates è già padrone della sua formidabile terza persona che quando usa la prima. Ma in tutti i racconti di questo libro c'è almeno qualche pagina già magistrale.
La loneliness che fin dal titolo dà unità alla raccolta più che fornirne l'argomento (che in effetti risulterebbe molto generico e pretestuosamente valido per tutto) è considerata e trattata da Yates come una tecnica narrativa, una possibilità della rappresentazione verbale. La solitudine, in altre parole, non è un sentimento, e tantomeno un valore incarnato da un personaggio o da una situazione. Non si carica di nessun significato particolare perché tutti i significati le convengono alla stessa maniera e con gli stessi diritti. Sergenti addetti all'addestramento di reclute, malati di tubercolosi in sanatorio, giovani coppie sull'orlo di un matrimonio sbagliato, bambini difficili, tassisti con ambizioni letterarie - le creature solitarie di Yates ci si rendono visibili e credibili solo attraverso lo schermo del loro isolamento. Paradossalmente, ciò che li condanna all'infelicità è anche ciò che (sul piano della scrittura) li rende vivi e possibili sul piano estetico. Molti lettori di Yates sono rimasti impressionati dalla sua impassibilità di narratore, da una sostanziale indifferenza al dolore senza riscatto delle sue creature.
Effettivamente, si può sospettare con buone ragioni una certa dose di sadismo in questo tipo di atteggiamento dello scrittore di fronte ai suoi propri fantasmi. In generale, potremmo considerare il sadismo una specie di padre nobile - e di eterno presupposto implicito - di ogni tipo di naturalismo. Nei racconti di Yates il ritmo necessario e implacabile che connette le cause agli effetti finisce sempre per ricordare, più che una semplice spiegazione logica del mondo, una kafkiana macchina per la tortura. E forse, viene da pensare leggendo questi bellissimi racconti, i più grandi scrittori sono quelli che suscitano in noi, di fronte al pathos delle situazioni, sentimenti di ambivalenza. Vorremmo sostituirci allo scrittore, e penetrando nello spazio della pagina, scrollarli per le spalle, i suoi poveri eroi, avvertirli della brutta figura o della catastrofe imminenti. E nello stesso tempo, godiamo della loro rovina, la magia della prosa di Yates è lì per farcela apprezzare come giusta e necessaria. Yates è sadico, tecnicamente sadico anche in questo: allo spessore vischioso dell'identificazione preferisce la distanza della scena, la sua lieve irrealtà, la sua isteria sempre imminente. Quanto al regista, egli lascia che le cose vadano come devono andare, e sorveglia imperterrito l'agghiacciante precisione dei particolari.
ilmanifesto.it

23.5.06

Perché sono crollate le Borse

dal BLOG di Beppe Turani

Questa mattina su "Repubblica" ho pubblicato il seguente commento, scritto a caldo, sul crollo delle Borse. Sarebbe interessante conoscere, sulle quattro teorie esposte nell'articolo, l'opinione dei lettori.

Ci sono almeno quattro teorie per spiegare il crollo di questi ultimi giorni delle Borse. Crollo che si è portato via alcune centinaia di miliardi di euro e che ha rimesso i listini, grosso modo, esattamente dove si trovavano a fine 2005.

1- La prima teoria è forse la più semplice e fa riferimento al fatto che i listini erano saliti troppo, e quindi sono tornati indietro. A marzo erano già raddoppiati rispetto al 2003. Ma la corsa è andata avanti. Poiché niente ha più successo del successo, i listini hanno continuato a correre. Un po’ come ciclisti impazziti o dopati. I crolli di questi giorni, quindi, rimettono solo le cose a posto. Un giorno o l’altro l’avanzata riprenderà. E allora operatori smaliziati e belle signore un po’ ingenue torneranno a contare i loro guadagni e a regalare e a regalarsi gioielli di Bulgari e di Cartier.

2- La seconda spiegazione è assai più sofisticata. Gli operatori più importanti, si dice, si sarebbero accorti che l’inflazione sta tornando e alla grande. E poiché i capi delle banche centrali considerano (giustamente) l’inflazione come il nemico numero uno della civiltà moderna, sono già pronti con i fucili spianati. Sono già pronti, cioè, a far salire ancora i tassi di interesse (cioè il costo del denaro) proprio quando un po’ tutti erano convinti che l’aumento dei tassi era ormai giunto alla fine. E si sa che le Borse non amano il rialzo del costo del denaro. Per una ragione molto semplice. Se il denaro costa di più, costa di più fare operazioni finanziarie con soldi presi a prestito. Ma peggiorano anche i conti delle aziende che hanno molti debiti.

Insomma, con l’inflazione che ritorna e i tassi che forse si rimettono a crescere, ci sono buoni motivi (compresi quelli psicologici) per mandare a picco i listini.

3- La terza teoria è ancora più complessa e tira in ballo le materie prime, che sono crollate. Sono andate giù, si dice, perché c’è aria di inflazione, ma anche (se non soprattutto) perché l’economia (dall’Asia all’America) è vista in fase frenante subito dopo l’estate, forse anche prima. E se l’economia rallenta, sarà difficile che le aziende (che in Borsa avevano già raggiunto livelli record) possano crescere ancora. Bene che vada, scenderanno. E quindi perché non anticipare qualcosa che è già scritto nelle previsioni sull’economia? Perché non vendere e mandare i listini a quel paese?

4- La quarta spiegazione è persino meglio del Codice Da Vinci e dei migliori galli in circolazione. Le Borse mondiali, si dice, sono ormai dominati dagli hedge fund (fondi di investimento ai quali non si può accedere se non si dispone almeno di qualche centinaio di migliaia di euro, una sorta di club dei super ricchi del pianeta). Questi fondi, si aggiunge, controllano non solo le Borse, ma anche un po’ tutti gli altri mercati, primo fra tutti quello delle materie prime.

E in questi anni sarebbero stati loro a spingere i mercati (materie prime e Borse) fino agli attuali eccessi. Sarebbero stati loro, gli hedge fund, a far triplicare e anche quadruplicare i prezzi di certe materie prime e a mandare le Borse al raddoppio oltre ogni ragionevole aspettativa.

E sarebbero sempre loro che in questi giorni hanno deciso di mandare a picco quella costruzione artificiale (l’insano rialzo di tutto) che essi stessi avevano eretto. Hanno deciso di abbattere il loro grattacielo artificiale perché hanno capito che non si poteva più andare avanti. Insomma, dopo aver raddoppiato le quotazioni in tre anni, hanno capito che non si poteva continuare. Prima o poi qualcuno si sarebbe accorto che era un bluff. E allora, meglio tagliare la corda per primi. E, quasi certamente, perché hanno capito che la stagione delle vacche grasse (crescita economica da boom) aveva i giorni contati. Naturalmente, si dice nelle sale operative di mezzo mondo, gli hedge fund hanno guadagnato prima e ci stanno guadagnando adesso, visto che hanno sempre condotto loro il gioco.

Quale scegliere fra queste quattro teorie? Difficile dare la risposta. Probabilmente c’è del vero in tutte e quattro. L’inflazione comincia a preoccupare di nuovo, i tassi forse non è vero che hanno finito di aumentare, l’economia rallenterà di sicuro e gli hedge fund (grazie anche all’uso dei derivati e di altre diavolerie finanziarie) sono effettivamente molto potenti e molto spregiudicati.

Che cosa succederà adesso? In questo caso le teorie sono soltanto due, anche se entrambe poco rassicuranti. La prima (la più moderata) sostiene che si andrà giù ancora del 5-6 per cento (forse addirittura del 10 per cento). Poi tutto si fermerà e si tornerà a ragionare. Le signore e gli operatori potranno tornare a comprare titoli in Borsa.

La seconda teoria è più amara e sostiene che i listini (salvo interventi straordinari della Federal Riserve, la banca centrale americana) andranno giù come mattoni ancora a lungo, anche del 20-30 per cento, fino a riportare i prezzi delle azioni verso livelli più ragionevoli e più accettabili.

Oggi, è impossibile dire chi ha ragione e quale sarà la teoria vincente. E cercare di fare gli stregoni.

Oggi, di fronte al massacro dei listini si può solo avere paura.

Citazioni

Il regista e Cerami si sono divertiti a mettere in bocca
ai personaggi del film una nutrita serie di citazioni famose
Benigni rivela: "Ecco tutti i poeti
che hanno scritto la mia Tigre"
di ROBERTO BENIGNI

IL TALMUD inizia a pagina 2 proprio per indicare al lettore che anche quando avrà finito di leggerlo non avrà ancora cominciato.

E Machiavelli dice: ci sono persone che sanno tutto, ma questo è tutto quello che sanno.
E allora perché leggere? Ma magari nel mondo, come nelle fiabe, c´è ancora qualcuno che fa una cosa che ci hanno insegnato quando eravamo piccoli piccoli e che tutti ci siamo dimenticati.

Che Dio ti benedica, caro lettore! Ma chi sei? Dove sei? Fatti vedere! Tu magari stai leggendo così, tranquillamente, senza renderti conto della tua unicità.
Ormai gli scrittori sono molto più numerosi dei lettori e tra poco sarà lo scrittore a chiedere l´autografo al lettore, diceva Shane tanto tempo fa.

Ma ora di lettori ne è rimasto solo uno: Tu. Che Dio ti conservi.
Borges diceva: io non sono orgoglioso dei libri che ho scritto, sono orgoglioso dei libri che ho letto. Altri tempi. Nessuno legge più. Nemmeno i critici, i quali sostengono che se leggessero un libro per poi recensirlo ciò altererebbe il loro giudizio, sarebbero condizionati da ciò che leggono, insomma non potrebbero scrivere quello che vogliono perché anche loro giustamente vogliono soprattutto scrivere e non leggere.

Forse perché siamo fatti a immagine e somiglianza del nostro Creatore. È pur vero, infatti, che anche il Padreterno non ha mai letto un libro ma ne ha scritto uno. Nel quale ci indica l´infallibile via per vivere in pace. E da come va il mondo si capisce, ancora una volta, che nessuno lo ha letto.


Sì, nessuno legge più. Nemmeno i coretori di bozze (se troverai scritto correttori con una sola "R" e una sola "T", ciò ne sarà la riprova).
Quindi, amato lettore, che Dio ti benedica ancora! Poiché tu stai leggendo. E una sceneggiatura, per giunta! E cos'è una sceneggiatura? Lo sceneggiatore è come lo Spirito Santo. Colui che ha soffiato nell'animo di Dio tutte le trame, gli intrecci, le battute e ha letto l'Eternità per poi scrivere quello che l'autore ha realizzato in sette giorni. E ora noi non facciamo che ripetere. Forse per questo nessuno legge più. Perché tutto è già stato detto. E anche che tutto è già stato detto è già stato detto. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole, diceva Qohélet. E allora forse bisognerà andare a vedere cosa c'è sopra il sole per trovare una novità.

Ma la novità, ha detto Prévert, è la cosa più vecchia che ci sia. E allora proviamo a rinnovarci con l'avanguardia. Ma Gore Vidal ha detto che al mondo tutto cambia tranne l'avanguardia. E allora? Che fare?, come diceva Lenin. Ah! Non se ne esce. Mi verrebbe da imprecare e urlare: "Merda!" se non dovessi pagare i diritti d'autore a Cambronne.

Ma tu, lettore beato, che non hai nulla da fare, puoi ben credermi se ti dico che questa sceneggiatura, figlia com'è del mio pensiero, è la più bella, la più brillante, la più geniale che si possa immaginare. Però non ho potuto sfuggire alle leggi della natura, e in natura ogni cosa ne produce un'altra simile a sé. L'autore deve soltanto giovarsi dell'imitazione; e tanto più perfetta sarà l'imitazione, tanto migliore sarà quel che scriverà (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, I, Prologo).
Addirittura Picasso ha detto: "Io non imito, copio".
E allora, caro lettore, goditela questa meravigliosa sceneggiatura che, come ogni seria opera d'arte, narra la genesi della propria creazione, come dice Jakobson.
Sì, perché anche noi abbiamo copiato tutto in questa sceneggiatura scritta, come direbbe Vincenzo Cerami, a quattro mani con Roberto Benigni. Ormai siamo diventati tutti come la dea Eco, quella che non sa parlare per prima, che non può tacere quando le si parla, che ripete solamente i suoni della voce che la colpisce, ha detto Ovidio.

E quindi ha ragione Karl Kraus quando scrive: chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia!
Ed è lo stesso Kraus a sostenere che la lingua è un sistema di citazioni. E io lo cito!

Voglio fare come Henry James, che meravigliosamente ha detto: la mia mente è talmente pura che non è stata mai sporcata da un'idea.

Anche Walter Benjamin sognava di pubblicare un libro interamente fatto di citazioni. "A me manca l'originalità necessaria", gli ha risposto George Steiner. Però sarebbe piaciuto perfino a lui. Infatti, subito dopo il creatore di una buona frase viene, in ordine di merito, il primo che lo cita. E anche se qualcuno può non essere d'accordo con questo pensiero di Ralph W. Emerson, come per esempio Roland Barthes che dice che non si può riprodurre ciò che è stato detto senza provare un certo senso di colpa, è pur vero che il semplice prelevamento di una citazione, la scelta nella quale la inserisco, il taglio che le dò, la trasforma e la fa diventare mia, come ha osservato Michel Butor.
Altrimenti cosa farebbero autori come Paul Celan, che ha detto: "Non ho mai saputo inventare"? E tu, caro lettore, credo che sarai d'accordo con me.
Anche perché le obiezioni spesso nascono dal fatto che chi le fa non è stato lui a trovare l'idea che attacca. E infatti io non ho nulla da obiettare a questa idea che ho appena esposto di Paul Valéry. Proprio per questo non mi sfiora neanche l'idea di avere delle idee, perché oltre a essere attaccati ci si mette anche nella condizione di essere citati, tanto per citare un pensiero di Jean Rostand. No, no, sono d'accordo con Morselli: voglio conoscere solo quello che so già. Soprattutto perché sono sicuro che se qualcuno oggi dice qualcosa di nuovo vuol dire che l'ha letto da qualche altra parte, ho letto in un libro di Kraus. Va bene, finisco qui perché ricordo che agli ambasciatori di Samo che avevano tenuto un lungo discorso, gli Spartani dissero: abbiamo dimenticato il principio e perciò non abbiamo capito la conclusione. Questo almeno racconta Plutarco.

Il lettore mi perdonerà e sarà finalmente libero di leggere questa meravigliosa storia dove, come ha confessato il divo Eco a proposito di Il nome della rosa, non c'è una parola di mio. E con questo, caro lettore, concludo. Dio ti dia salute e non si scordi di me. Vale.

P. S. L'ultima frase è ancora di Cervantes (Don Chisciotte, I, Prologo), citata da Stendhal in Il rosso e il nero.

repubblica.it

14.5.06

L'esercito dei "poveri", dieci milioni sotto i 6 mila euro

I Paperoni de´ Paperoni sono, sarebbero, una minoranza. I poveri, invece, tantissimi. Così gli italiani si raccontano al Fisco nella dichiarazione dei redditi. Il ministero dell´Economia (Dipartimento per le Politiche fiscali) rivela che solo 49.645 contribuenti incassano, o quantomeno dichiarano, più di 200 mila euro nel 2003. Sono lo 0,12% tra quanti hanno presentato "Unico" o il 730. Quattro gatti. Se guardiamo a chi dichiara oltre 100.000 euro, le fila dei benestanti si affollano di poco raggiungendo quota 0,61%. Mentre i cittadini che giurano di vivere con meno di 500 euro al mese (pari a 6 mila euro l´anno) sono 10 milioni. Rappresentano il 26% dei contribuenti. Di questi, 2,4 milioni denunciano redditi inferiori ai mille euro l´anno.

C´è poi il famoso ceto medio. La maggior parte dei contribuenti è concentrata in una fascia di reddito mediana che va dai 12 mila 500 ai 25 mila. Sono 14 milioni e mezzo. La fascia comprende il 64,5% di tutti i contribuenti se si considera chi va da 7 mila 500 ai 30 mila 990. Regione che vai, dichiarazione che trovi. I lombardi sono al primo posto nella classifica della generosità. In media denunciano al Fisco oltre 18 mila euro di reddito e ne versano 4 mila 600 euro, come Irpef. Pagano così 900 euro in più della media italiana. Ma i contribuenti del Lazio sono vicini. Dichiarano 17 mila 550 euro di reddito l´anno e pagano solo 100 euro in meno di Irpef (cioè 4.500 euro). Gli emiliani sono a quota 17 mila 200 euro.

Versano un´Irpef superiore alla media anche i trentini (3.880 euro), i piemontesi (3.870) e i liguri (3.830). A metà classifica Friuli (3.720) e Toscana (3.660). I calabri dichiarano meno di tutti: 11 mila 330 euro di reddito, ma pagano 2 mila 600 euro di imposta, 50 in più dei vicini della Basilicata. A proposito di Irpef battono un colpo anche gli Artigiani di Mestre. L´associazione calcola i risparmi che gli italiani hanno ottenuto nel 2005 (rispetto al 2004) in seguito alla riforma del governo Berlusconi. L´indagine conferma che la riforma ha premiato soprattutto i redditi alti e le famiglie più numerose. Un numero su tutti. Chi ha un reddito di assoluto rispetto, pari a 300 mila euro, e una moglie a carico, ha portato a casa uno sconto fiscale vicino ai 6 mila euro.

kataweb.it

13.5.06

Basta unilateralismi, parliamo di Jugoslavia

Peter Handke
Finalmente, dopo più di un decennio di un linguaggio giornalistico a senso (e a non-senso) unico, sembra che si stia creando un'apertura in Francia nella stampa (1), forse non soltanto in Francia, per parlare in modo diverso - o semplicemente per cominciare a parlare - della Jugoslavia.
Sembrano divenuti possibili un dibattito, una discussione, un discorso, una fruttuosa contesa, un interrogarsi comune, e narrazioni che si parlano...Prima c'era il nulla e ancora il nulla, diffamazioni al posto del dibattito, costruite con parole prefabbricate, ripetute all'infinito e utilizzate come armi automatiche.
Allarghiamo dunque questa breccia o apertura, questa primavera di parole. Ascoltiamoci finalmente gli uni e gli altri invece di urlare e abbaiare da due campi nemici. Ma non tolleriamo più nemmeno gli esseri(?), le anime (?) cattive (!) che, nel magico dilemma jugoslavo, continuano a lanciare parole-proiettili come «revisionismo», «apartheid», «Hitler», «dittatura sanguinaria», ecc. Fermiamo ogni paragone e parallelo su quello che riguarda la guerra nella Jugoslavia. Restiamo agli avvenimenti che, come avvenimenti di una guerra civile, innescata o almeno coprodotta da un'Europa in malafede o, almeno, ignorante, pure se già messi a nudo restano per tutte le parti comunque terribili. Smettiamola di paragonare Slobodan Milosevic a Hitler. Smettiamola di paragonare lui e sua moglie Mira Markovic a Macbeth e alla sua Lady o di fare paralleli tra la coppia e il dittatore Ceausescu e la sua donna. E non usiamo mai più per i campi disseminati nella guerra di secessione in Jugoslavia l'espressione «campi di concentramento».
E' vero: c'erano campi intollerabili tra il 1992 e il 1995 nel territorio delle Repubbliche jugoslave, soprattutto in Bosnia. Però smettiamo di legare meccanicamente nella nostra testa questi campi ai Serbobosniaci: c'erano anche campi croati e anche campi musulmani, e i crimini che vi sono stati commessi vengono e verranno giudicati dal Tribunale dell'Aja. E, finalmente, smettiamola di legare i massacri (dei quali - al plurale - quelli di Srebrenica del luglio 1995 sono di gran lunga i più atroci) alle forze armate o ai paramilitari serbi. Ascoltiamo anche - finalmente - i sopravvissuti ai massacri fatti dai musulmani nei numerosi villaggi serbi attorno a Srebrenica - musulmana - massacri commessi e ripetuti nei tre anni che precedettero la caduta di Srbrenica, stragi guidate dal comandante di Srebrenica che portarono nel luglio 1995 - una vendetta infernale e una vergogna incancellabile per i responsabili serbobosniaci - alla grande mattanza, e per una volta la parola che è stata spesso ripetuta è davvero giusta, «la più grande in Europa dopo la Seconda guerra mondiale». Aggiungendo questa informazione: che tutti i soldati e gli uomini di Srebrenica che sono fuggiti dalla Bosnia serba traversando il fiume Drina, la frontiera tra i due Stati, fuggivano in Serbia, paese all'epoca sotto l'autorità di Milosevic, che tutti questi soldati arrivando nella cosiddetta Serbia nemica venivano salvati, senza che lì si verificassero uccisioni o stragi.
Sì, ascoltiamo, dopo aver ascoltato «le madri di Srebrenica», anche le madri o una sola madre del vicino villaggio serbo di Kravica, raccontare il massacro del Natale ortodosso 1992-1993, perpetrato dalle forze musulmane di Srebrenica, un massacro anche contro le donne e i bambini di Kravica (il solo crimine per il quale vale la parola genocidio).
E smettiamola di associare gli «snipers» di Sarajevo ciecamente ai «Serbi»: la maggior parte dei caschi blu francesi uccisi a Sarajevo furono vittime dei cecchini musulmani. E smettiamola di collegare l'assedio (orribile, stupido, incomprensibile) di Sarajevo esclusivamente all'armata serbobosniaca: nella Sarajevo degli anni 1992-1995, decine di migliaia di civili serbi rimasero bloccati nei quartieri del centro, come Grbavica, che a loro volta erano assediati - eccome se lo erano! - dalle forze musulmane. E basta attribuire gli stupri soltanto ai serbi. Smettiamola di collegare le parole in modo unilaterale, alla maniera del cane di Pavlov. Allarghiamo l'apertura che ci si presenta. Che la breccia non sia più ostruita da parole marce e avvelenate. Resti fuori ogni mente malvagia. Abbandoniamo finalmente questo linguaggio. Impariamo l'arte della domanda, viaggiamo nel paese sonoro, in nome della Jugoslavia, in nome di un'altra Europa. Viva l'altra Europa. Viva la Jugoslavia. Zinela Jugoslavija.
(1)Tra gli altri, gli articoli di Brigitte Salino e di Anne Weber su Le Monde del 4 maggio, il commento di Pierre Marcabru nel Figaro dello stesso giorno e l'appello di Christian Salmon su Libération del 5.
Questo articolo dello scrittore e drammaturgo austriaco censurato dalla Comédie Française «perché è andato al funerale di Milosevic», è uscito mercoledì 10 su Libération, ed è stato pubblicato da il manifesto su autorizzazione dell'autore.
ilmanifesto.it

2.5.06

150 anni dopo. «Professor Freud, ma lei è mio papà»

Edoardo Sanguineti

Freud. Venga, venga avanti, la prego. Non deve mica sentirsi a disagio. Qui, i clienti, io li ricevo quando voglio. L´avrà vista, lì sull´uscio, la mia targhetta d´ottone, bella lucida, che dice: «consultazione perpetua, giorno e notte».
Sanguineti. Certamente, l´ho vista. Ma io, vede, non vengo mica qui in veste di paziente.
F. Lasciamola perdere, la veste. Perché, guardi, dicono tutti così. Ma siamo tutti pazienti, qui. Mi dica dunque quali disturbi l´affliggono.
S. Non si tratta di disturbi, illustre professore, anche se mi rendo conto, naturalmente, di disturbarla non poco. Si tratta semplicemente di alcune domande, assai discrete, che sarebbe mia intenzione sottoporre alla sua cortesia.
F. Gran brutto giro di parole, per incominciare. E sarà bene che io le dica immediatamente che le domande, se di domande si tratta, sarò io a porle, e non lei. Capirà bene, che è il mio mestiere. Ma perché se ne sta lì in piedi, titubante e perplesso? Si metta comodo qui, sopra questo lettino, bello disteso, come se dovesse farci una dormita, giù. Adesso si concentri, chiuda gli occhi, si rilassi, ecco, così. Parli pure, se ne ha voglia, ma si lasci andare. Io mi metto qui, fuori tiro, e se permette, prenderò soltanto qualche appunto,
S. Veramente, sì, ero io che volevo prendere qualche appunto.
F. Tutti così, benedett´uomo, tutti così: è un´epidemia. Ho pensato di definirla, questa sindrome qui, una «nevrosi da scambio». Come lei può constatare, consiste in un tentativo di inversione delle parti, per cui si vogliono alterare i ruoli e rovesciare i rapporti: è come se lei, tanto per dire, essendo un fratello di una sorella, volesse fare la sorella di suo fratello, cioè la sua sorella, di lei, e si convincesse che sua sorella, invece, è il fratello della sorella, cioè suo fratello, di lei sorella. Sono stato chiaro? Lei ha sorelle?
S. No, illustre professore: sono figlio unico.
F. Gran brutta situazione, altamente patogena, di norma. Penso al suo papà, poveretto, che ne avrà visto delle belle, immagino. Per non parlare della sua povera mamma, ahi, ahi, ahi. Ma ecco, torniamo alla nostra nevrosi da scambio. Si metta bene in testa, gentile visitatore, che il medico interroga, e che il paziente risponde. E che io sono qui per interrogare, sono qui per sapere, e che mi pagano, proprio per questo, anche qui, sissignore: che sono mantenuto, io, qui, per i miei punti interrogativi, non per altro. Capito?
S. Sì, chiarissimo. Quello che voglio dirle è tutt´altro: perché lei deve sapere che da tanto, tanto tempo io sognavo di poterla incontrare.
F. Benissimo, ci siamo, ci siamo. Guardi, con lei, che mi è simpatico, anche perché è piuttosto timido - e io, per i timidi, sa, per gli introversi, come diceva quel disgraziato - ma lasciamo perdere - ci ho una certa tenerezza - con lei io voglio giocare a carte scoperte - per quel che si può e che l´onore della professione permette. E insomma, nei limiti del lecito, procederemo confidenzialmente, come alla luce del sole: le va bene? Anzi, per non accrescere ulteriormente il suo manifesto stato di disagio, perché la vedo lì sopra il lettino, che si scontorce e si dibatte non poco, io parlerò di lei come di una terza persona, di cui noi andiamo familiarmente discorrendo, così fra di noi, per amore di pettegolezzo, per il piacere di chiacchierare: per esempio, diremo, il signor Zeta: le piace?
S. Sì, sì, benissimo.
F. - Or dunque, mi ascolti. Capita da me, un certo giorno, un certo signor Zeta, non meglio identificato, e due cose emergono subito. Primo, egli risulta affetto - già lo abbiamo accertato - dalla ben nota nevrosi da scambio, situabile sintomaticamente sull´asse interrogazione/risposta. Secondo, egli accenna, sebbene brevemente, a un sogno, probabilmente ricorrente, se non addirittura ossessivo, nel quale sono coinvolto io medesimo, il Freud: quanto a detto sogno, si sa per ora chr lo Zeta brama, pare da tempo, incontri onirici, non meglio definiti, con il Freud.
S. No, onirici no.
F. Non onirici?
S. No, no, incontri veri, come questo.
F. Sognava un incontro, in sogno.
S. Sognava in sogno, naturalmente: ma, nel sogno, l´incontro era ben reale. Sognava questo, che io mi vivo adesso, che lui si vive adesso, cioè, là, lo Zeta.
F. Scusi che prendo un appunto. (Il signor Zeta - lei, intanto, si distragga un po´, si rilassi - sogna di incontrarmi fuori del sogno, e parla di un incontro vero, virgola, che se lo vive adesso, punto. Alla luce della nevrosi di base sopra indicata, virgola, il soggetto dimostra un intenso desiderio di identificazione con il medesimo Freud, due punti: il rovesciamento interrogazione, sbarretta, risposta, può dunque chiarirsi come brama male repressa di sottoporre il Freud, fatto paziente, virgola, a oggetto di analisi, con corrispondente sostituzione di persona, punto). Ehm, ho scritto qui poche parole, non ci badi, e vada avanti.
S. Professore, io mi sento così inibito.
F. Ha detto inibito?
S. Certo, capirà, un uomo come lei con un uomo come me, vedermelo qui davanti, cioè dietro veramente, che mi ascolta, che mi risponde: io, ecco, non ho più parole. Mi sento un tale complesso di inferiorità.
F. Lei, questo Freud, come se lo vedeva, in sogno?
S. Ecco, io non so bene come spiegarle, quelle cose che vedevo: perché si vede che stanno come sepolte in me, dentro, sotto, nel profondo, giù. A me, già, mi pareva di conoscermelo come da sempre, il Freud, lì nel sogno.
F. (Notare l´impressione di virgolettato, déjà vu, fine del virgolettato, sottolineato il virgolettato). Dica, dica, non pensi a me.
S. Ci penso per forza, ci penso. Comunque, sì, io associavo la sua immagine alle figure più alte che avevo incontrato nella mia povera vita, e mi sentivo attratto verso di lei da un impulso infrenabile, e tuttavia accompagnato da una strana angoscia. La sua presenza mi pareva che dovesse sollevarmi tutto, in alto, sopra me stesso, sublimarmi, quasi. Per me, guardi, era come un padre, il Freud.
F. Eh, ho capito bene?
S. Capito che cosa?
F. Ha detto: come un padre?
S. Sì, e non saprei come dire diversamente.
F. Ahi, ahi, ahi.
S. Che cosa significa, questo lamento?
F. Significa, purtroppo, che il suo caso deve fermarsi qui. Perché significa, signore mio, che siamo già alle solite, al padre, cioè all´Edipo, cioè al triangolo, e a tutto. E quando siamo lì, a tutto, allora si chiude, e basta. Oh, poveretto lei, ma che caso semplice che è, che caso trasparente! Così, se lei vuole che il nostro incontro abbia un minimo di sviluppo, anche uno sviluppino soltanto, qui si deve fare marcia indietro, prima che ci arrivi anche la Giocasta, egregio dottore, e non ci sia più rimedio, per noi. Dunque, torniamo di corsa al sogno, e vediamo se ci troviamo una qualche scappatoia. Mi racconti, per filo e per segno, quello che si vedeva nel suo sogno, avanti.
S. Io sognavo così. Che mi vedevo davanti il Freud, cioè lei, di colpo, che mi diceva subito: «Venga, venga avanti, la prego». E mi faceva segno che venivo avanti. E mi faceva coraggio, e diceva: «Non deve mica sentirsi a disagio». E mi spiegava che i clienti, lui, se li riceveva quando voleva, ormai. E mi raccontava che ci aveva una targhetta d´ottone, sull´uscio suo, là nell´oltremondo, che diceva una cosa come questa, mi sembra: «consultazione perpetua, giorno e notte». E poi mi diceva se l´avevo vista, la targhetta. E io dicevo che l´avevo vista. Ma gli spiegavo, però, che non ero mica un paziente, io. Allora lui diceva che tutti dicevano così, che non erano pazienti e che invece erano tutti pazienti, da vivi e da morti, nell´oltremondo come nel mondo. E allora si metteva che voleva farmi delle domande, a me, che mi diceva che disturbi ci avevo. E io dicevo che non erano disturbi, ma che volevo fargli delle domande, io, e lo dicevo in un modo tutto gentile...
F. Mi scusi, caro Zeta, ma veniamo, la prego, così di un salto, di colpo, alla fine del sogno.
S. È che non l´ho mai vista, professor Freud, la fine. Mi sono svegliato, sempre, prima.
F. E allora, attento. È tutto secondo le regole, vedrà. Adesso lei solleva lentamente la sua testa, su, dal lettino, e poi il busto, su fino a portarsi in posizione seduta. Poi lei si volge indietro, e mi guarda. E io, come avviene di norma, per tutte le ombre dell´oltremondo, diventerò trasparente come l´acqua, e svanirò sereno, nel puro niente. E allora, dottor Zeta, lei alzerà un grido, terribile, di pianto, ma un grido sommesso, un po´ strozzato, e quasi livido, diafano, così, che farà come si sentirà, poi, come le verrà più spontaneo, e più naturale, come le sgorga proprio adesso, su dal profondo, guardi, attento, adesso che si gira, che mi cerca qui con gli occhi, ecco.
S. Papà, papà, papà, papà.

unità.it

Stiglitz a Grillo

Dal blog beppegrillo.it

Il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz mi ha inviato questa analisi sul mercato del lavoro in Italia .
Belin, un premio Nobel che scrive a un comico!

“Caro Beppe,
dall'Italia mi giungono notizie allarmanti: la legge sul primo impiego viene ritirata in Francia dopo poche settimane di mobilitazione studentesca e da voi la legge 30 resiste senza opponenti dopo anni. Permettimi allora una breve riflessione Nessuna opportunità è più importante dell'opportunità di avere un lavoro. Politiche volte all'aumento della flessibilità del lavoro, un tema che ha dominato il dibattito economico negli ultimi anni, hanno spesso portato a livelli salariali più bassi e ad una minore sicurezza dell'impiego. Tuttavia, esse non hanno mantenuto la promessa di garantire una crescita più alta e più bassi tassi di disoccupazione. Infatti, tali politiche hanno spesso conseguenze perverse sulla performance dell'economia, ad esempio una minor domanda di beni, sia a causa di più bassi livelli di reddito e maggiore incertezza, sia a causa di un aumento dell'indebitamento delle famiglie.

Una più bassa domanda aggregata a sua volta si tramuta in più bassi livelli occupazionali. Qualsiasi programma mirante alla crescita con giustizia sociale deve iniziare con un impegno mirante al pieno impiego delle risorse esistenti, e in particolare della risorsa più importante dell'Italia: la sua gente.
Sebbene negli ultimi 75 anni, la scienza economica ci ha detto come gestire meglio l'economia, in modo che le risorse fossero utilizzate appieno, e che le recessioni fossero meno frequenti e profonde, molte delle politiche realizzate non sono state all'altezza di tali aspirazioni. L'Italia necessita di migliori politiche volte a sostenere la domanda aggregata; ma ha anche bisogno di politiche strutturali che vadano oltre - e non facciano esclusivo affidamento sulla flessibilità del lavoro. Queste ultime includono interventi sui programmi di sviluppo dell'istruzione e della conoscenza, ed azioni dirette a facilitare la mobilità dei lavoratori.
Condividiamo l'idea per cui le rigidità che ostacolano la crescita di un'economia debbano essere ridotte. Tuttavia riteniamo anche che ogni riforma che comporti un aumento dell'insicurezza dei lavoratori debba essere accompagnata da un aumento delle misure di protezione sociale.

Senza queste la flessibilità si traduce in precarietà.

Tali misure sono ovviamente costose. La legislazione non può prevede che la flessibilità del lavoro si accompagni a salari più bassi; paradossalmente, maggiore la probabilità di essere licenziati, minori i salari, quando dovrebbe essere l'opposto. Perfino l'economia liberista insegna che se proprio volete comprare un bond ad alto rischio (tipo quelli argentini o Parmalat, ad alto rischio di trasformazione in carta straccia), vi devono pagare interessi molto alti.

I salari pagati ai lavoratori flessibili devono esser più alti e non più bassi, proprio perché più alta è la loro probabilità di licenziamento. In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato 9 volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, 5 volte minore e che fino al 40% dei lavoratori precari è laureato.
Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call center, perché spendere tanto per istruirli?
Grazie per l'ospitalità.”
Joseph E. Stiglitz