8.10.11

Siate curiosi siate folli

di Steve Jobs (testo integrale in italiano della celebre conferenza a Stanford - L'Espresso)

Nella vita le sconfitte sono le svolte migliori. Perché costringono a pensare in modo diverso e creativo. Il credo del capo di Apple
(27 dicembre 2006)

Voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie. La prima storia è su una cosa che io chiamo 'unire i puntini' di una vita. Quand'ero ragazzo, ho abbandonato l'università, il Reed College, dopo il primo semestre. Ho continuato a seguire alcuni corsi informalmente per un altro anno e mezzo, poi me ne sono andato del tutto. Perché l'ho fatto? è iniziato tutto prima che nascessi. La mia mamma biologica era una giovane studentessa universitaria non sposata e quando rimase incinta decise di darmi in adozione. Voleva assolutamente che io fossi adottato da una coppia di laureati, e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare sin dalla nascita da un avvocato e sua moglie. Però, quando arrivai io, questa coppia - all'ultimo minuto - disse che voleva adottare una femmina. Così, quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori adottivi, e che erano al secondo posto nella lista d'attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte che gli diceva: "C'è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete?". Loro risposero: "Certamente!". Più tardi la mia mamma biologica scoprì che questa coppia non era laureata: la donna non aveva mai finito il college e l'uomo non si era nemmeno diplomato al liceo. Allora la mia mamma biologica si rifiutò di firmare le ultime carte per l'adozione. Poi accettò di farlo, mesi dopo, solo quando i miei genitori adottivi promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college. Questo è stato l'inizio della mia vita.

Così, come stabilito, parecchi anni dopo, nel 1972, andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno troppo costoso, e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l'ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a trovarci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita.


Così decisi di mollare e di avere fiducia, che tutto sarebbe andato bene lo stesso.

Era molto difficile all'epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia.

Nel momento in cui abbandonai il college, smisi di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a entrare nelle classi che trovavo più interessanti.

Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio, ed ero costretto a dormire sul pavimento delle camere dei miei amici. Guadagnavo soldi riportando al venditore le bottiglie di Coca-Cola vuote per avere i cinque centesimi di deposito e potermi comprare da mangiare. Una volta la settimana, alla domenica sera, camminavo per sette miglia attraverso la città per avere finalmente un buon pasto al tempio degli Hare Krishna: l'unico della settimana. Ma tutto quel che ho trovato seguendo la mia curiosità e la mia intuizione è risultato essere senza prezzo, dopo. Vi faccio subito un esempio.

Il Reed College all'epoca offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del Paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri con e senza le 'grazie', capii la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, compresi che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era bello, ma anche artistico, storico, e io ne fui assolutamente affascinato.

Nessuna di queste cose, però, aveva alcuna speranza di trovare un'applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. è stato il primo computer dotato di capacità tipografiche evolute. Se non avessi lasciato i corsi ufficiali e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. Certamente, all'epoca in cui ero al college era impossibile per me 'unire i puntini' guardando il futuro. Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all'indietro.

Insomma, non è possibile 'unire i puntini' guardando avanti; si può unirli solo dopo, guardandoci all'indietro. Così, bisogna aver sempre fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Bisogna credere in qualcosa: il nostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Perché credere che alla fine i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore anche quando questo ci porterà lontano dalle strade più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita. Questo approccio non mi ha mai lasciato a piedi e, invece, ha sempre fatto la differenza nella mia vita.

La mia seconda storia è a proposito dell'amore e della perdita

Io sono stato fortunato: ho scoperto molto presto che cosa amo fare nella mia vita. Steve Wozniak e io abbiamo fondato Apple nel garage della casa dei miei genitori quando avevo appena 20 anni. Abbiamo lavorato duramente e in dieci anni Apple è diventata - da quell'aziendina con due ragazzi in un garage che era all'inizio - una compagnia da 2 miliardi di dollari con oltre 4 mila dipendenti.

Nel 1985 - io avevo appena compiuto 30 anni e da pochi mesi avevamo realizzato la nostra migliore creazione, il Macintosh - sono stato licenziato.

Come si fa a venir licenziati dall'azienda che hai creato? Beh, quando Apple era cresciuta, avevamo assunto qualcuno che ritenevo avesse molto talento e capacità per guidare l'azienda insieme a me, e per il primo anno le cose erano andate molto bene. Ma poi le nostre visioni del futuro hanno cominciato a divergere e alla fine abbiamo avuto uno scontro. Quando questo successe, il consiglio di amministrazione si schierò dalla sua parte. Quindi, a 30 anni io ero fuori. E in maniera plateale. Quello che era stato il principale scopo della mia vita adulta era saltato e io ero completamente devastato.

Per alcuni mesi non ho saputo davvero cosa fare. Mi sentivo come se avessi tradito la generazione di imprenditori prima di me; come se avessi lasciato cadere la fiaccola che mi era stata passata. Era stato un fallimento pubblico e io presi anche in considerazione l'ipotesi di scappare via dalla Silicon Valley.

Ma qualcosa lentamente cominciò a crescere in me: ancora amavo quello che avevo fatto. L'evolvere degli eventi con Apple non aveva cambiato di un bit questa cosa. Ero stato respinto, ma ero sempre innamorato. E per questo decisi di ricominciare da capo.

Non me ne accorsi allora, ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse succedere. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti, consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.

Durante i cinque anni successivi fondai un'azienda chiamata NeXT e poi un'altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una donna meravigliosa che sarebbe diventata mia moglie. Pixar si è rivelata in grado di creare il primo film in animazione digitale, 'Toy Story', e adesso è lo studio di animazione di maggior successo al mondo. In un significativo susseguirsi degli eventi, Apple ha comprato NeXT, io sono tornato ad Apple e la tecnologia sviluppata da NeXT è nel cuore dell'attuale rinascimento di Apple. Mia moglie Laurene e io abbiamo una splendida famiglia. Sono sicuro che niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi stato licenziato da Apple. è stata una medicina molto amara, ma ritengo che fosse necessaria per il paziente.

Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non bisogna perdere la fede, però. Sono convinto che l'unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l'amore per quello che ho fatto. Bisogna trovare quel che amiamo. E questo vale sia per il nostro lavoro che per i nostri affetti. Il nostro lavoro riempirà una buona parte della nostra vita, e l'unico modo per essere realmente soddisfatti è di fare quello che riteniamo essere un buon lavoro. E l'unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che facciamo. Chi ancora non l'ha trovato, deve continuare a cercare. Non accontentarsi. Con tutto il cuore, sono sicuro che capirete quando lo troverete. E, come in tutte le grandi storie d'amore, diventerà sempre migliore mano a mano che gli anni passano. Perciò, bisogna continuare a cercare sino a che non lo si è trovato. Senza accontentarsi.

La terza storia è a proposito della morte.

Quando avevo 17 anni lessi una citazione che suonava più o meno così: "Se vivrai ogni giorno come se fosse l'ultimo, un giorno avrai sicuramente ragione". Mi colpì molto e da allora, negli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: "Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?". E ogni qualvolta la risposta è no per troppi giorni di fila, capisco che c'è qualcosa che deve essere cambiato.

Ricordarmi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose - tutte le aspettative di eternità, tutto l'orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire - semplicemente svaniscono di fronte all'idea della morte, lasciando solo quello che c'è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che abbiamo sempre qualcosa da perdere. Siamo già nudi. Non c'è ragione, quindi, per non seguire il nostro cuore.

Più o meno un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Ho fatto la Tac alle sette e mezzo del mattino e questa ha mostrato chiaramente un tumore nel mio pancreas. Prima non sapevo neanche che cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che si trattava di un cancro che era quasi sicuramente di tipo incurabile, che sarei morto entro i prossimi tre, al massimo sei mesi. Quindi sarebbe stato meglio se avessi messo ordine nei miei affari (che è il codice dei dottori per dirti di prepararti a morire). Questo significa prepararsi a dire ai tuoi figli in pochi mesi tutto quello che pensavi di poter dire loro in dieci anni. Questo significa essere sicuri che tutto sia stato organizzato in modo tale che per la tua famiglia sia il più semplice possibile. Questo significa prepararsi a dire i tuoi addio.


Ho vissuto con il responso di quella diagnosi tutto il giorno. La sera tardi è arrivata la biopsia, cioè il risultato dell'analisi effettuata infilando un endoscopio giù per la mia gola, attraverso lo stomaco sino agli intestini, per inserire un ago nel mio pancreas e catturare poche cellule del mio tumore. Ero sotto anestesia ma mia moglie - che era là - mi ha detto che quando i medici hanno visto le cellule sotto il microscopio hanno cominciato a gridare, perché è saltato fuori che si trattava di un cancro al pancreas molto raro e curabile con un intervento chirurgico. Ho fatto l'intervento chirurgico e adesso, per fortuna, sto bene.

Questa è stata la volta in cui sono andato più vicino alla morte e spero che sia anche l'unica per qualche decennio. Essendoci passato attraverso, adesso posso parlarvi con un po' più di cognizione di causa di quando la morte per me era solo un concetto astratto

Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso, in realtà non vogliono morire per andarci. Ma la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. è l'agente di cambiamento della vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo.

Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.

Quando ero un ragazzo, c'era un giornale incredibile che si chiamava 'The Whole Earth Catalog', praticamente una delle bibbie della mia generazione. è stata creata da Stewart Brand non molto lontano da qui, a Menlo Park, e Stewart ci aveva messo dentro tutto il suo tocco poetico. è stato alla fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer e del desktop publishing, quando tutto era fatto con macchine per scrivere, forbici e foto Polaroid. è stata una specie di Google in formato cartaceo tascabile, 35 anni prima che ci fosse Google: era idealistica e sconvolgente, traboccante di concetti chiari e fantastiche nozioni.

Stewart e il suo gruppo pubblicarono vari numeri di 'The Whole Earth Catalog' e quando arrivarono alla fine del loro percorso, pubblicarono l'ultimo numero. Era più o meno la metà degli anni Settanta. Nell'ultima pagina di quel numero finale c'era la fotografia di una strada di campagna di prima mattina, il tipo di strada dove potreste trovarvi a fare l'autostop se siete dei tipi abbastanza avventurosi. Sotto la foto c'erano le parole: 'Stay Hungry. Stay Foolish', siate affamati, siate folli. Era il loro messaggio di addio. Stay Hungry. Stay Foolish: io me lo sono sempre augurato per me stesso. E adesso lo auguro a voi. Stay Hungry. Stay Foolish.

traduzione di Antonio Dini

7.10.11

Scuola: 10 BUGIE

Giuseppe Caliceti (da rete scuole)

Ci sono almeno 10 bugie sulla scuola ripetute ossessivamente ai genitori italiani dal ministro all'Istruzione-Pinocchio che ci ritroviamo. Vale la pena smascherarle: perchè i genitori degli studenti conoscano la verità.
1. Più merito a scuola? Falso. Prima che fosse – immeritatamente - Ministro all'Istruzione, la scuola primaria italiana era al 1° posto in Europa per qualità, ora al 13° (dati Ocse). Di che merito parla?
2. In Italia ci sono troppi insegnanti? Falso. Sono in media con gli altri paesi europei. Ma Gelmini non dice che conta anche i docenti di sostegno, in altri paesi pagati dal ministero all'istruzione: così falsifica un corretto confronto. Dire poi che ci sono più bidelli che carabinieri è tendenzioso: fortunatamente è ancora così in ogni paese del mondo. Lo scandalo sarebbe il contrario. Saremmo in un paese militarizzato.
3. Le scuole private sono meglio della pubblica? No. Nel 2007, dati Ocse, gli studenti usciti dalla pubblica erano mediamente più preparati di quelli usciti dalle private. Ma si è tagliato i fondi alla pubblica. Ancora: di che merito si parla?
4. Abbiamo una scuola più funzionale ed efficiente? No. Se un docente è assente, niente supplenti: gli studenti sono sparpagliati in altre classi senza svolgere il programma previsto. Gelmini ha inoltre ridotto il tempo scuola: ore a scuola degli studenti. E l'offerta formativa: ciò che viene loro insegnato. Per risparmiare.
5. Gli edifici scolastici sono a norma di sicurezza? Quasi la metà no. Anche quelle che lo erano, con le famose classi-pollaio, non lo sono più. In caso di terremoto o di incendio chi è responsabile della sicurezza? Nessuno lo sa. E più studenti ci sono per classe, meno qualità c'è a scuola: gli studenti hanno meno possibilità di essere seguiti dai docenti. Il resto sono chiacchiere.
6. La scuola è aperta a tutti? C'è un “tetto” massimo per classe del 30% di studenti di origine straniera. Considerando stranieri anche i nati e sempre vissuti in Italia, che parlano bene l'italiano. E' discriminante. E in Italia abbiamo già un record negativo sulla dispersione scolastica: studenti che abbandonano la scuola.
7. La nostra scuola è solidale? No. Il ministro ha ridotto le ore di aiuto agli studenti disabili. Attualmente si parla di sponsorizzazione dei disabili per pagar loro docenti di sostegno. Un disabile sponsorizzato dalla FIAT? No. Pagheranno di più i suoi genitori, pagheranno caro. E chi non ha denaro?
8. La scuola sa valutare? Con i test Invalsi la valutazione degli studenti è meno trasparente di una pagella. E' un sondaggio parziale e umiliante. E poi perché l'Invasi chiede anche titolo di studio e professione dei genitori dello studente? Se è di origine italiana o no? Se attualmente è disoccupato? E la privacy?
9. Gelmini aveva detto: Non toccherò il tempo pieno. Ma 'ha toccato: abolendo la compresenza e trasformandolo in un doposcuola. Paradosso: proprio chi lparlava di “maestro unico”, sottopone a ogni bambino un carosello di sei, otto, dieci docenti. Ha trasformato l'elementare in una media: la scuola in Italia più problematica.
10. L'Italia spende troppo per la scuola? Al contrario: spendiamo troppo poco. In rapporto al Pil, nelle spese per la scuola, in Europa, siamo al penultimo posto: dietro di noi c'è solo la Slovacchia. E i docenti sono tra i meno pagati al mondo. Si dice che in periodo di crisi occorre tagliare. Dipende sempre dalle scelte. Per esempio, le spese militari sono aumentate. Germania, Stati Uniti, India invece di tagliare, hanno aumentato le spese per la scuola. Strategicamente. Per il loro futuro di paese. Per quello dei loro giovani. la scuola di oggi non è più quella di cui si parla nella nostra Costituzione.

5.10.11

La nostra vergogna - Così il degrado del lavoro sta uccidendo la speranza

Luciano Gallino (La Repubblica)

Nella tragedia di Barletta sono presenti i peggiori ingredienti che un talento malvagio possa mettere insieme per farci provare dolore e vergogna.
Un edificio pieno di crepe, uno scantinato mal illuminato, mal aerato, senza uscite di sicurezza. Nel quale lavoravano una decina di donne, faticando fino a dieci ore al giorno. Però senza contratto di lavoro, e pagate 4 euro l´ora. Di laboratori del genere ce ne sono decine solo a Barletta, che diventano migliaia se si guarda all´insieme del Mezzogiorno, e decine di migliaia se lo sguardo si allargasse mai al Centro e al Nord.
Di laboratori e officine e cantieri in nero è piena tutta l´Italia, lo era prima della crisi e lo è ancora di più adesso che la crisi morde tutti e dovunque. Non tutti hanno sulla testa mura che si sgretolano. Però le condizioni di lavoro crudeli, il lavoro in nero e le paghe da quattro euro o meno sono per centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori l´esperienza di ogni giorno. Il sindaco di Barletta ha detto che non se la sente di attribuire alle persone alcuna responsabilità per le condizioni in cui avevano accettato di lavorare in nero entro quel laboratorio. E neanche alla famiglia dei titolari, che non firmavano contratti in regola, ma nel crollo hanno perso la giovanissima figlia. Dalle nostre parti, intendeva dire il sindaco, l´alternativa al lavoro nero è la disoccupazione e la fame (o l´ingresso nella truppa della criminalità). L´affermazione è politicamente poco opportuna. Il guaio – che è un guaio di tutti noi – è che il sindaco ha ragione. Fotografa una situazione. Il mercato del lavoro è stato lasciato marcire dai governi e dalle imprese in tutte le regioni d´Italia. La crisi ha accelerato il degrado, ma esso viene dall´interno del paese, non dall´esterno. Una intera generazione oppressa dalla precarietà lavora quando può, quando riesce a trovare uno straccio di occupazione. Stiamo uccidendo in essa la speranza.
Adesso milioni di italiani guarderanno i funerali di Barletta in tv, e molti proveranno una stretta al petto, e il giorno dopo torneranno al loro lavoro precario per legge, grazie alle riforme del mercato del lavoro, o precario perché del tutto in nero. Tuttavia qualcuno un po´ di vergogna potrebbe o dovrebbe pur provarla. Come può un paese in cui si vendono centinaia di migliaia di auto di lusso l´anno, in cui ci sono più negozi di moda che lampioni stradali, e milioni di famiglie hanno almeno due cellulari pro capite, permettere a sé stesso di lasciar morire sotto una casa malandata che crolla un gruppo di giovani donne che faticavano senza contratto per 4 euro l´ora? Le abbiamo costruite tutte noi, queste trappole fisicamente e giuridicamente infami, con le nostre scelte di vita, i nostri consumi, con lo squallore della nostra cultura politica e morale.

Titoli a picco

Marina Corradi (Avvenire)

Donne vere e un viso da copertina

Maria aveva 14 anni, faceva il primo anno di liceo classico e lunedì era uscita un’ora prima da scuola perché mancava un insegnante. Così è andata a trovare il padre, al maglificio di via Mura Spirito Santo, a Barletta. È rimasta sotto le macerie. Assieme a quattro operaie, in uno scantinato dove in quanti esattamente lavorassero non si sa; e dove le crepe aperte nei muri non erano bastate a far dichiarare l’edificio inagibile.

Ma questa tragedia del Sud, dal sapore così amaro e così antico, come la somma ineluttabile di endemici mali, ieri sulle prime pagine era eclissata dai titoli cubitali su Amanda Knox, assolta dall’accusa di omicidio dell’amica Meredith Kerch. Dopo un processo tanto seguito dai media, da essere diventato simile a una fiction; con la protagonista così bella e fotogenica da indurre a un inconscio equivoco – come se il delitto di Perugia, fosse solo un film.

Già, i giornali, alzerà la spalle qualcuno. Sì, i giornali, certo. Ma i giornali, oggi più scientificamente che mai, danno spazio a ciò che presumono che i lettori desiderino e che i lettori s’abituano a considerare il pane quotidiano dell’informazione. Dunque, è vero che il circo mediatico a volte va fuori controllo, ma è anche vero che lo fa per soddisfare la domanda (vera e indotta) del "mercato". Allora ci si può domandare che Paese è, quello in cui una sciagura che mescola irregolarità edilizie, inadempienze di controlli e lavoro in nero, e fa cinque morti, interessa tanto di meno del destino di una bella ragazza e del suo amico, in primo grado condannati per un omicidio terribile, e a torto o a ragione diventati quasi dei foschi eroi, nella penombra di incertezza che tuttora avvolge ciò che veramente avvenne quella notte, a Perugia. Se si misurasse aritmeticamente lo spazio occupato dai titoli su Amanda e su Barletta, ieri, si vedrebbe che la prima vince quattro a uno; e anche di più, se persino il più grande e il più rigoroso dei giornali "di sinistra" ieri per Maria e le altre non hanno trovato uno spicchio in prima pagina.

Del resto, anche le dieci pagine di sbobinatura di intercettazioni su escort e festini che ultimamente occupavano quotidianamente molti quotidiani, davvero, nella dovizia di particolari, rispondevano solo a un dovere di cronaca? Oppure soddisfare tutte le curiosità dei lettori rende – o da questa illusione – in termini di tiratura? Ma di nuovo, parlando di sistema mediatico, finiamo col parlare anche di chi giustifica e alimenta certe logiche. Perché ad Amanda i titoli di apertura e per quattro donne morte lavorando e per la giovanissima Maria un titoletto basso o anche niente? Forse perché l’omicidio di Perugia, già assurdo e strabiliante nei suoi dati, tanto è stato sezionato e romanzato da diventare agli occhi di chi legge un feuilletton nero, più estremo di ogni immaginazione, e dunque in fondo percepito come irreale. Come Avetrana, con quel Michele Misseri che ora in tv chiamano amabilmente "zio", come uno di casa; come se anche Sarah Scazzi fosse fiction, e non fosse morta per davvero.

L’audience premia, dicono, le storie utili a portarci altrove, lontano da noi – almeno per un po’. Mentre quel crollo di Barletta, dove donne "oscure" lavoravano disagiatamente in uno scantinato, per quattro soldi e senza garanzie, mentre la casa si crepava e i controlli tardavano, ecco, questa storia non va assolutamente bene per distrarsi, per evadere, per non pensare. E dunque niente o titolo basso, "di piede", come si dice in gergo giornalistico.

Non è che vogliamo fare moralismi. È che ci preoccupa, e quasi ci spaventa, un Paese in cui un delitto con una bella imputata diventa fiction e titolo cubitale, e un’amara sciagura di case mal costruite e burocrazia polverosa e cinque morti non interessa, o interessa molto meno. Ci preoccupa, come preoccuperebbe un amico che si isolasse davanti alla tv, ignorando che in casa il lavoro manca, l’affitto è in arretrato e i figli fanno tutte le notti le tre. E la realtà? E la volontà, e la fatica per cambiarla? A volte, sgradevole e insistente, ci afferra il pensiero che quella crisi morale che sempre addebitiamo solo alla politica, alla finanza, alle varie "gerarchie", in realtà tocchi anche, nel profondo, noi.

4.10.11

Il tifo della platea americana

Vittorio Zucconi (La Repubblica)

Amanda è innocente. Dunque l´America è innocente. Le campane a festa dei televisori americani si sono sciolte alle 9 e 50 della sera, nel finale di un dramma che ha assolto due innocenti e sembra aver lavato l´onore della nazione che l´aveva seguita come un´eroina.

«Drammatico! Drammatico!» esclamava agitato Wolf Blitzer della Cnn nel Te Deum collettivo di un´America che si era identificata con quella ragazza diventata legalmente e ingiustamente assassina, in terra straniera, come se le parole dovessero sottolineare quello che da quattro anni era stato costruito in un crescendo rossiniano. L´America che pretende il diritto di processare, giudicare a volte giustiziare anche cittadini stranieri come è accaduto in passato, aveva trovato in Amanda Knox il segno di un´offesa nazionalistica, ancor prima che giudiziario, vista la evidente precarietà degli indizi contro di lei e contro Raffaele Sollecito. E persino il Dipartimento di Stato ieri sera ha ritenuto di dover esprimere la propria soddisfazione per "l´attenta considerazione della vicenda nell´ambito del sistema giudiziario italiano".
L´America processa, ma non tollera di essere processata. Quella che nella narrazione dell´accusa era stata descritta come una diavolessa affamata di sesso e di orge, era cresciuta, in proporzione inversa nella opinione pubblica Usa, come una casta diva caduta in una ragnatela di uomini inetti e malvagi.
La veglia di una nazione eccitata da una giornata di «slow news», di scarse e banali notizie - un incendio in Texas, le udienze del processo per la morte di Michael Jackson e l´immancabile «prima neve» caduta sulla Pennsylvania - era cominciata con l´orazione autodifensiva della «Fanciulla del West», tradotta in simultanea su tutte le reti di notizie 24/7, a tutte le ore tutti i giorni.
Nella fame insaziabile delle reti televisive «all news», di notiziari continui come Cnn, Fox News, Msnbc, casi come questo processo al processo, dove la vera imputata era la Giustizia italiana e i suoi misteriosi riti, sono nutrimento perfetto per quella che i giornalisti delle tv chiamano «the beast», la belva che va continuamente alimentata. Casi come questo della studentessa impigliata nel fermaglio di un reggiseno e nel mondo crepuscolare di una città straniera sono stati perfetto melodramma, con prologo, coro, balletti, luci di riflettori accesi nella notte contro la facciata del Tribunale di Perugia, gabbioni, poliziotti e carabinieri in uniforme come in un film dell´orrore. Un film verità, con quinte, scenari, comparse, protagonisti, sangue, sesso e la perfetta «ingenue», la vittima travolta dal destino e salvata in extremis. «Dobbiamo capire che siamo di fronte a un sistema giudiziario completamente diverso dal nostro» spiegava James Tubin, l´esperto legale della Cnn ed ex magistrato lui stesso, illustrando i misteri del processo d´Appello italiano. L´elemento dell´esotico, la forza della penombra di un´antica, bellissima e innocente città umbra, sono stati scenari essenziali nella sceneggiatura di un dramma profondo e autentico nella sostanza di una vita stroncata, quella della vittime e di due vite appese a una sentenza, quella di Sollecito e della Knox.
Ed era curioso che nel tribunale dell´opinione pubblica americana, quello che ha processato e condannato la macchina delle indagini «approssimative», «contaminate nelle prove», «condotte con guanti sporchi» e «al di sotto degli standard minimi internazionali» secondo l´esperto dello Fbi e professore alla Boise State University, Greg Hampikian interpellato da ogni studo tv, non si accennasse mai alla sola vittima certa, Meredith Kercher. L´invocazione della vittima è uno dei mantra della giustizia americana, ma non per Meredith.
L´incubo di Amanda era diventato la delizia dei produttori di televisione, decisi a titillare e quindi tenersi stretto il pubblico con un conto alla rovescia durato le undici ore della Camera di Consiglio e rinfocolato dal sempre efficace trucco delle «breaking news». Quindici minuti, quattro minuti, annunciavano gli inviati e le inviate, narrando i dettagli delle ore in cella di Amanda «che recitava preghiere e intonava salmi e inni religiosi», elemento cruciale per il folto pubblico di devoti cristiani.
«Si terge le lacrime dal viso» mormorava l´anchor woman di Fox News, con il groppo lei stessa in gola, mentre la segretaria del gruppo di sostegno e di ascolto a Seattle, «Friends of Amanda» raccontava che nella città sul Pacifico gli amici e i sostenitori innocentisti «si erano raccolti alle quattro e mezza del mattino», a nove fusi orari da Perugia, «per fare colazione insieme, farsi coraggio e ascoltare le parole di Amanda». Alla fine, un processo a una cultura diversa, uno scontro di culture, prima che un caso giudiziario. Se un sonoro resterà per sempre nella memoria dei telespettatori americani che hanno seguito il lancio dell´assoluzione alla una del pomeriggio di Seattle sarà il coro di «buuuu» e di «vergogna» udito all´uscita dall´aula, mescolato alle grida di «vittoria, vittoria», secondo lo schema del tifo calcistico e delle curve. Amanda, appena avrà il proprio passaporto convalidato, volerà verso le isole, le foreste e gli istmi del Nord Ovest. «Ma perchè gli italiani non vogliono credere che questa ragazza sia innocente?» si domandava Wolf Blitzer. Dimenticando che sono stati giudici e giurati italiani a scrivere il lieto fino del melodramma.

30.9.11

L’Iva sale di 1 punto, i prezzi anche del 7%

Dai pedaggi ai cd, alla benzina: aumenti oltre l’incremento di impostaDe

Il 17 settembre è scattato, per effetto della manovra, l'aumento dell'Iva. Sono passati dal 20 al 21% i detersivi, i giocattoli, le tv ma anche auto, moto, abbigliamento, scarpe, computer, vino, cioccolata, calzature e una serie di altri servizi. E da un giorno all'altro sono aumentati i prezzi. Dell'1%, penserà il più ingenuo. Non proprio. L'effetto dell'operazione, scattata per rimpinguare le casse dello Stato tra i 4 e i 5 miliardi l'anno, sta diventando un po' più complessa. Soprattutto per i consumatori.

Le associazioni lo avevano annunciato: il rischio è un aumento indiscriminato dei prezzi. Tant'è. La benzina è subito volata a 1,7 euro al litro (per poi ripiegare: ieri oscillava tra 1,63 e 1,64 euro), le sigarette sono aumentate in media del 4%, con punte del 15% per il tabacco trinciato. Ma non solo. L'Adoc, l'associazione per la difesa e l'orientamento dei consumatori, ha preso carta e penna e con l'aiuto dei suoi volontari, ha monitorato alcuni negozi in tutta Italia prima e dopo l'innalzamento dell'aliquota. Il risultato? Oggi per fare un corso in piscina potremmo spendere al mese il 5,4% in più e per l'aperitivo con gli amici, aumenti del 3,2%. Certo, si tratta solo di un campione e alcuni prezzi (come nel caso degli aperitivi) sono solo una media di quelli rilevati sul territorio nazionale (nessuno ha mai pagato per un happy hour 7,75 euro). Ma dai risultati finali si ha un'idea di quanto, l'aumento dell'imposta sul valore aggiunto, stia impattando sui nostri acquisti.

Il Codacons poi fa notare: «Se l'Iva passa dal 20 al 21%, non significa che un bene che prima veniva 1 euro ora passa a 1,01 euro. Bisogna scorporare e considerare il prezzo del bene senza Iva, e su quello applicare l'Iva maggiore al 21%». Giusto. Lo abbiamo fatto, ma anche così i conti non tornano. Lo dimostrano, oltre ai calcoli (nella tabella sopra) le decine e decine di segnalazioni arrivate proprio all'associazione presieduta da Carlo Rienzi. Simile a questa: «Stamattina al solito bar, la tazzina di espresso - scrive un consumatore di Roma - mi è stata fatta pagare 0,90 euro contro gli ottanta centesimi pre-Iva. È una truffa».

Un caso tutto particolare è quello dei cd musicali, un mercato che con l'avvento della musica digitale è sempre più in crisi. Innumerevoli gli appelli degli artisti che negli anni passati hanno implorato di far scendere l'aliquota Iva sui cd dal 20 al 4%. Al danno, oggi, si aggiunge la beffa. «A questo punto auspichiamo una decisione sotto il 5% a livello comunitario» commenta Enzo Mazza, presidente della Fimi (Federazione industria musicale italiana). Nel frattempo i prezzi dei cd, anziché scendere per contrastare il fenomeno del download (illegale) e della pirateria, sono saliti. Nei negozi monitorati dall'associazione, al netto delle offerte e delle promozioni, sono passati da 19,40 euro a 20,90 euro.

Con un incremento lontano da quell'uno per cento. E vediamo perché: il prezzo medio dei cd prima del 17 settembre, era di 19,40 euro. Scorporando l'Iva si arriva a un prezzo base di 16,16 euro. Applicando l'Iva al 21%, il risultato è di 19,55 euro. Eppure il prezzo finale al consumatore è di 20,90 euro. Il 7,7% in più se confrontiamo il prezzo prima e dopo l'aumento dell'imposta. Il 6,9% in più se confrontiamo il prezzo del cd per come doveva essere con l'Iva al 21% (19,55 euro) e com'è invece oggi (20,90 euro). «Questo non aiuta né il commercio né i consumatori - aggiunge Carlo Pileri, presidente dell'Adoc -, che in alcuni casi rinunciano all'acquisto. Senza parlare delle sigarette, una vera e propria speculazione di Stato. E a parlare è un non fumatore: a fronte dell'aumento dell'Iva sono stati alzate anche le accise per un totale di 15-20 centesimi a pacchetto». E poi ci sono le autostrade. A sollevare il caso è stata questa volta Altroconsumo: «I pedaggi autostradali - spiegano dall'associazione - sono una delle categorie di servizi interessati dal recente aumento dell'Iva. Nulla di strano, quindi, se sono state adeguate le tariffe. Peccato che sia stato fatto per scaglioni di 10 centesimi e non applicando matematicamente l'1% in più come previsto dalla manovra finanziaria. Cosa significa? Che a Como, ad esempio il pedaggio è passato da 1,90 euro a 2,00 euro, con un incremento reale del 5,26%».
«Un arrotondamento disciplinato dal decreto interministeriale 10440/28/133 del 12 novembre 2001, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e del Ministero dell'Economia e delle Finanze» fanno sapere da Autostrade per l'Italia. «In pratica, su una cifra da uno a dieci - spiegano - se l'incremento dell'Iva fa arrivare la tariffa a quattro, si arrotonda per difetto (zero). Ma se l'incremento fa arrivare il pedaggio a sei, si arrotonda per eccesso (dieci)». E così ci sono caselli dove l'aumento dell'Iva non ha fatto registrare alcun tipo di incremento (ad esempio Lainate) e altri dove invece il pedaggio è aumentato per eccesso. I comaschi si rassegnino.

Qualche giorno fa è intervenuto sull'argomento anche Mr Prezzi, Roberto Sambuco che ha avviato, in coordinamento con la Guardia di Finanza e gli uffici del Mise, delle azioni di verifica e ispezione. Oltre a un tavolo anti-speculazione. Subito sono seguiti i commenti sarcastici del Codacons: «Mister Prezzi si è svegliato dal letargo in cui sembrava essere caduto - ha detto Rienzi -. Peccato però che i controlli di cui parla andavano realizzati molti giorni fa, ossia ancor prima dell'entrata in vigore dell'aumento». Dall'altra parte, quella delle aziende, c'è chi ha deciso di farsi carico dell'aumento senza alzare i prezzi dei cartellini. Zara, Esselunga, Benetton, solo per citarne alcuni, assorbiranno l'incremento dell'imposta senza riversarla sui consumatori. Almeno per ora.

Corinna De Cesare

29.9.11

Lettera Draghi - Trichet a Berlusconi: «C'è l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita»

Francoforte/Roma, 5 Agosto 2011
Caro Primo Ministro,
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.
Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali.
Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti.

Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.
a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C'è anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.

2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.
b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.
c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo.

Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.
3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali.
Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate.
Con la migliore considerazione,

Mario Draghi, Jean-Claude Trichet

27.9.11

Non possumus

di BARBARA SPINELLI

PARLANDO in nome della Chiesa italiana, il cardinale Bagnasco ha usato parole molto chiare, ieri, davanti al Consiglio permanente dei vescovi. Il nome del presidente del Consiglio non viene fatto, ma è di Berlusconi che parla: quando denuncia "i comportamenti licenziosi e le relazioni improprie", quando ricorda il "danno sociale (che essi producono) a prescindere dalla loro notorietà".

Quando cita l'articolo 54 della Costituzione e proclama: "Chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell'onore". Non è la prima volta che il Presidente della Cei critica l'immoralità insediatasi ai vertici del governo italiano, ma questa volta le parole sono più precise e dure, il tono si fa drammatico perché il Vaticano ormai ne è consapevole: la personalità stessa del premier è elemento della crisi economica che sta catturando l'Italia, e all'estero la sua figura non è più giudicata affidabile. Tra le righe, Bagnasco fa capire che le dimissioni sarebbero la via più opportuna: "Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili. La storia ne darà atto".

Come in altre occasioni, non manca la critica parallela alla magistratura: critica che Berlusconi ha abilmente sfruttato a proprio favore, per lungo tempo, presentandosi come politico vicino alla Chiesa e da essa appoggiato. Il Cardinale ha dubbi "sull'ingente mole di strumenti di indagine messa in campo, quando altri restano disattesi e indisturbati" e giunge sino a dirsi "colpito dalla dovizia delle cronache a ciò dedicate": sono dubbi e sbigottimenti non del tutto comprensibili, perché è pur sempre grazie alla magistratura e alla dovizia delle cronache che la Chiesa stessa, infine, ha dovuto constatare i "comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui"; "l'improprio sfruttamento della funzione pubblica"; i "comitati d'affari che, non previsti dall'ordinamento, si autoimpongono attraverso il reticolo clientelare, andando a intasare la vita pubblica con remunerazioni, in genere, tutt'altro che popolari"; l'evasione fiscale infine, "questo cancro sociale" non sufficientemente combattuto. Senza le inchieste della stampa indipendente, senza le intercettazioni ordinate dai pubblici ministeri, senza la documentazione sugli innumerevoli reati imputati al premier, la Chiesa non potrebbe fondatamente pronunciare, oggi, il suo "non possumus".

Anche in questo caso tuttavia, Bagnasco cambia tono rispetto agli anni scorsi. Pur esprimendo dubbi su magistrati e giornalisti, si rifiuta di metter sullo stesso piano le condotte degli uni e degli altri: "La responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé, a prescindere dalle strumentalizzazioni che pur non mancano (...) La questione morale, complessivamente intesa, non è un'invenzione mediatica: nella dimensione politica, come in ciascun altro ambito privato o pubblico, essa è un'evenienza grave, che ha in sé un appello urgente".

La questione morale non è un'invenzione mediatica: lo dicono da tempo tanti cattolici, laici e non, e la Chiesa italiana sembra volerli ascoltare, meno riottosamente di ieri. Si capisce che non faccia nomi espliciti, che non usi l'arma ultima che è la richiesta esplicita di dimissioni: sarebbe un'interferenza nella politica italiana, non promettente per il futuro anche se comprensibilmente invocata da molti. La Chiesa già interviene molto sulle scelte delle nostre istituzioni (il testamento biologico è un esempio), e non sarebbe male se in tutti gli ambiti osservasse la prudenza politica che manifesta verso Berlusconi, non nominandolo espressamente. Forse la condanna che oggi pronuncia - che questo giornale ha chiesto con forza - non può che essere spirituale, al momento: il cristiano non compra l'amore, non compra il consenso, non mente, non inganna, non privilegia i ricchi contro i poveri, non presta falsa testimonianza. Su questi e altri peccati ce ne sono, di cose da dire.

La vera questione, a questo punto, concerne i cattolici che sono nella maggioranza, e che dovranno giustificare ora le innumerevoli connivenze, i silenzi così tenaci e vili. Cosa pensano Formigoni, o Giovanardi, delle parole che vengono dal vertice della Conferenza episcopale italiana? Con che faccia il ministro Rotondi parla di Berlusconi come di un "santo puttaniere"? Perché "santo"? Per tutti costoro, più che per la Chiesa, vale oggi il comandamento di Gesù: "Sia invece il vostro parlare "sì sì", "no no", il di più viene dal maligno". Il Cardinale sembra avere in mente questi politici quando constata: "Colpisce la riluttanza a riconoscere l'esatta serietà della situazione al di là di strumentalizzazioni e partigianerie; amareggia il metodo scombinato con cui a tratti si procede, dando l'impressione che il regolamento dei conti personali sia prevalente rispetto ai compiti istituzionali e al portamento richiesto dalla scena pubblica, specialmente in tempi di austerità".

Non è escluso che il Papa abbia avuto il suo peso, nel linguaggio più aguzzo cui la Chiesa italiana ricorre. Da quando si è inasprita la crisi, Benedetto XVI ha usato parole di grande severità contro le ingiustizie e le diseguaglianze che lo sconquasso economico sta dilatando. Va in questa direzione l'omelia pronunciata l'11 settembre a Ancona. E nel viaggio in Germania il Pontefice non ha esitato ad ammettere che la Chiesa per prima è oggi scossa alle fondamenta: che per sopravvivere e rinascere deve "demondanizzare" se stessa, deve farsi scandalosa. Nel discorso al Konzerthaus di Friburgo ha ricordato che uno dei tanti fattori che rendono "poco credibile" la Chiesa è il suo apparato, e sono le sue ricchezze materiali.

Demondanizzarsi, riscoprire l'umiltà e la povertà: è un progetto di vita alto, è l'antica denuncia che Antonio Rosmini fece nelle Cinque Piaghe della Chiesa (inizialmente la Sacra Congregazione dell'Indice condannò il grande libro, nel 1849). "La Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?" lo ha chiesto a Friburgo il Papa, stavolta, e quel che ha chiesto è importante anche per l'Italia, alla cui costruzione e alla cui unità tanti cattolici laici hanno contribuito. Così come è essenziale anche il discorso sulla povertà. È già un passo non irrilevante la disponibilità di Bagnasco a farsi giudicare, sulle sovvenzioni che la Chiesa riceve dallo Stato italiano: "Facciamo notare che per noi, sacerdoti e vescovi, e per la nostra sussistenza, basta in realtà poco. Così come per la gestione degli enti dipendenti dalle diocesi. Se abusi si dovessero accertare, siano perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti".

26.9.11

Censurare Internet per salvare il premier

Guido Scorza (Il Fatto Quotidiano)

Per sottrarre il premier alla giustizia questa volta, la Rete italiana rischia la censura.

Se, infatti, come appare ormai probabile nelle prossime ore il Parlamento riprenderà l’esame del famigerato ddl intercettazioni e il Governo ricorrerà, ancora una volta, al voto di fiducia, il nostro ordinamento si arricchirà di una nuova disposizione in forza della quale tutti i gestori di siti informatici saranno tenuti a disporre la rettifica di ogni informazione pubblicata online entro 48 ore dall’eventuale richiesta, fondata o infondata che sia.

In assenza di tempestiva rettifica, la sanzione sarà quella di una multa sino a 12 mila euro.

E’ questo il contenuto del comma 29 dell’art. 1 del disegno di legge n. 1611 che già la scorsa estate aveva minacciato di mettere un enorme cerotto sulla bocca – o meglio sulla tastiera – della blogosfera italiana.

In occasione del precedente dibattito parlamentare sul ddl – dibattito che questa volta potrebbe addirittura non esserci complice il voto di fiducia – nonostante l’ampio movimento di opinione sollevatosi contro l’approvazione della norma, nessuno, in Parlamento, aveva ritenuto di intervenire in modo determinato per eliminare dal testo “ammazza informazione”, almeno la norma c.d. “ammazza blog”.

Questa volta le speranze di un intervento in extremis per salvare, almeno, l’informazione libera che corre in Rete, appaiono ancora di meno perché maggiore è il bisogno della maggioranza – o di ciò che resta del clan dei compagni di merenda del premier – di disporre delle nuove regole anti-intercettazioni e perché, comunque, il Governo ha già manifestato l’intenzione di ricorre al voto di fiducia.

L’entrata in vigore del ddl e, in particolare, del comma 29 dell’art. 1 nella sua attuale formulazione ridisegnerebbe, in maniera importante e in chiave restrittiva e censorea, la mappa dell’informazione libera sul web.

Il punto, come ho già scritto in altre occasioni, non è sottrarre il blogger alla responsabilità per quello che scrive perché è, anzi, sacrosanto che ne risponda ma, più semplicemente riconoscere la differenza abissale che c’è tra un blog e un giornale o una televisione e tra un blogger – magari ragazzino – e un giornalista, una redazione o, piuttosto, un editore.

Il primo – salvo eccezioni – sarà portato a rettificare “per paura” e non già perché certo di dover rettificare mentre i secondi, dinanzi a una richiesta di rettifica, ci pensano, ci riflettono, la esaminano, la fanno esaminare e poi solo se sono davvero convinti di dovervi procedere, vi provvedono.

Imporre un obbligo di rettifica a tutti i produttori “non professionali” di informazione, significa fornire ai nemici della libertà di informazione, una straordinaria arma di pressione – se non di minaccia – per mettere a tacere le poche voci fuori dal coro, quelle non raggiungibili, neppure nel nostro Paese, attraverso una telefonata all’editore e/o al principale investitore pubblicitario.

Sarebbe davvero una sciagura per la libertà di parola sul web se, preoccupato di assecondare l’urgenza della maggioranza nell’approvazione del ddl, il Parlamento licenziasse il testo nella sua attuale formulazione.

Inutile ripetere che le conseguenze dell’entrata in vigore della norma sarebbero gravissime: ogni contenuto, informazione o opinione non gradita ai potenti dell’economia o della politica sarebbe destinata a vita breve sul web e ad essere rimossa – lecita o illecita che ne sia la sua pubblicazione – a seguito dell’invio di una semplice mail contenente una richiesta di rettifica.

25.9.11

Facebook mostra il suo profilo migliore

Timeline in luogo dei profili per raccontare l'evoluzione dell'attività social dei singoli utenti. E ancora, app in collaborazione con sviluppatori terzi, editori e media per l'intrattenimento in blu

Dopo il redesign della sua homepage vi sono altre novità in vista per Facebook: proprio in questi giorni sta ospitando la conferenza f8 e in questa sede ha incontrato gli sviluppatori, parlato di piattaforme e in particolare di Open Graph, il sistema che integra app terze e contenuti nel flusso di notifiche e di aggiornamenti delle pagine.

Fra le maggiori novità presentate vi è Timeline: con l'idea di vedere quanto è cambiato il profilo di ogni utente da quando si è iscritto a Facebook, il social network in blu sta introducendo questa pagina che ospita contenuti in ordine cronologico e raccoglie tutto quello che si è condiviso nella propria vita su Facebook.

Si tratta, in pratica, di una sorta di album dei ricordi dedicato al proprio passato sul social network, o meglio a raccontare la propria storia, e andrà a sostituire l'attuale profilo.

L'aggiornamento, che sarà disponibile dalle prossime settimane, è stato pensato peri fornire un mezzo per guardare agli aggiornamenti più recenti senza perdere però le cose più importanti del passato: il social network sembra quasi voler sottolineare di far parte della vita dell'utente da ormai più di qualche anno e che è stato il testimone e il custode di tanti ricordi preziosi.

Al contempo, dopo aver modificato nei giorni scorsi la homepage, dimostra di voler dare una sterzata al suo look, e cambia così anche l'altro pilastro cui si fondavano le abitudini degli utenti: resta il dubbio se, senza profilo e notizie più recenti/più popolari, gli utenti sentiranno più l'aria fresca della novità o il vento gelido di un cambiamento non richiesto.

Visivamente Timeline ha il suo appeal: offre una pagina più larga del normale profilo e molti più contenuti da consultare. In alto a destra c'è posto per una grande foto che funge da copertina e che l'utente può scegliere, in basso vi sono gli eventi e le immagini passate in ordine cronologico e personalizzabili manualmente.

L'utente, poi, può arricchire questa pagina con social app, chiamate per il momento Lifestyle apps, che permettono di condividere la musica che si ascolta/ascolta, le ricette cucinate ecc.

Gli sviluppatori (o chiunque per avere l'anteprima si voglia spacciare per tale) hanno ottenuto accesso ad una versione in anteprima di Timeline proprio per far sì che possano testare le loro app.

Non solo: proprio sulle app Facebook dimostra di voler operare e, oltre all'introduzione di Timeline, ha iniziato a collaborare con diversi operatori dei media ed editori per portare applicazioni ad hoc sul social network.

A collaborare con Facebook ci sono, tra gli altri, Spotify, con un'app per ascoltare musica sul social network, Netflix, che permette così la visione di film in streaming come già sperimentato da Warner Bros, e News Corp che porta le pagine del suo The Daily sulla piattaforma blu.

Queste app, peraltro, saranno direttamente accessibili dagli utenti senza la normale procedura di installazione, la necessità di dare i permessi per pubblicare e accedere alla propria bacheca e senza dover lasciare Facebook: la novità è possibile per l'integrazione data da Open Graph e rappresenta l'intenzione di Zuckerberg di monopolizzare definitivamente il tempo degli utenti online.

Al contempo, peraltro, sembrerebbe trattarsi di un'agevolazione che rischia, se non bilanciata da un qualche tipo di funzione personalizzabile, di aggrovigliare nuovi nodi in materia di privacy.

23.9.11

Slipping into darkness

Italy’s tottering prime minister (The Economist)

How much longer can Silvio Berlusconi go on?

SILVIO BERLUSCONI and his coalition ally, Umberto Bossi, look increasingly like Butch Cassidy and the Sundance Kid in the last scene of the 1969 Western: wounded, doomed, yet seemingly unaware of the sheer numbers ranged against them.

Already rocked by thousands of pages of evidence detailing his alleged whoremongering, Italy’s prime minister took a more serious hit on September 20th when Standard & Poor’s, a ratings agency, downgraded Italy and expressed grave doubts about the government’s ability to respond effectively to the crisis in the euro zone. Such views are widely shared in Italy. Most Italians seem to have realised that their prime minister is a liability. His approval rating has slumped below 25%. He lost the unions a long time ago; now employers have lost faith in his right-wing government’s handling of the economy.

After S&P’s downgrade Il Sole-24 Ore, a business newspaper owned by Confindustria, the bosses’ federation, said it was time for Mr Berlusconi to go. Italy, it argued, was now the euro-zone country most likely to follow Greece into turmoil. It blamed, among other things, “the fragility of its governing coalition, the embarrassing chain of scandals that directly affect the prime minister, his ministers and their immediate associates, [and a] persistent inability to take painful but necessary decisions.”

Even this is not the end of Mr Berlusconi’s troubles. He is a defendant in three trials: one on charges of embezzlement, tax-dodging and false accounting, one in which he stands accused of paying an under-age prostitute and one for alleged bribery. (He denies all the charges.) The third, in which he is accused of corrupting his former legal adviser, David Mills, is the one he is said to fear most. On September 19th the judges overseeing the case shortened the list of witnesses, making it more likely that a verdict will be reached before Mr Berlusconi is saved, as he has so often been before, by a statute of limitations.

Just as damaging are two investigations in which the prime minister is not a suspect. One involves claims that he was blackmailed by Giampaolo Tarantini, a businessman from the southern city of Bari who is alleged to have supplied more than 100 women, including numerous prostitutes, for parties at Mr Berlusconi’s homes. The other, which focuses on Mr Tarantini’s alleged pimping, led on September 15th to the release of some 5,000 pages of evidence. Besides plenty of titillation, these included claims that the prime minister had acted in ways that were not just unseemly but illicit. It was already known that one of his guests was the girlfriend of a gangster—but not that he had put an official plane at the disposal of his alleged pimp, that he had obtained a visa for him to visit China, that he had found work for one of his shapely young guests on the publicly owned RAI television network and that he had arranged for Mr Tarantini to discuss juicy contracts with senior executives of Finmeccanica, a defence firm partly owned by the state.

In most democracies any of these allegations would surely be enough to remove the prime minister. Yet although Mr Berlusconi’s position has become untenable, the manner and timing of his departure remain unclear. A recent editorial in Corriere della Sera, a daily, suggested he might follow the example of his Spanish counterpart, José Luis Rodríguez Zapatero, and call an early election at which he would not stand, clearing the way for co-operation between government and opposition.

If the prime minister refuses to budge, he could be removed by President Giorgio Napolitano (although the head of state has said he will do this only if the government loses the confidence of parliament). Or he might be deserted by his coalition allies in the Northern League (but Mr Bossi has vowed to remain loyal). Or he might fall to a rebellion in his People of Freedom (PdL) party. But with many of its members owing their positions and livelihoods to Mr Berlusconi, that will be difficult.

This week brought signs of a possible movement in the logjam. On the day of the rating downgrade the government lost five parliamentary votes, largely because some PdL deputies failed to turn up. On the same day Mr Napolitano held meetings with senior political figures that looked like a sounding-out of opinion in anticipation of a possible government crisis.

A new government would be no panacea. As S&P’s analysts noted, resistance to the structural economic reforms that Italy so desperately needs is rife among trade unions, professional bodies, incumbent monopolies and the public sector. Ditching Mr Berlusconi might be a good start. But it would be no more than that.t would be no more than that.

19.9.11

Prima lezione di democrazia

Gherardo Colombo - La Repubblica
(per leggere l'articolo cliccare sul titolo del post)

Il dovere civico di testimoniare e le scelte del Premier

Luigi Ferrarella

Il braccio di ferro indica che il premier vuole scegliersi le regole, senza seguire quelle che valgono in tutti i tribunali

Non è un capriccio del premier o un'impuntatura dei pm il braccio di ferro sulla testimonianza che Berlusconi, convocato dalla Procura di Napoli, si rifiuta di rendere se non gli verrà consentito di farsi accompagnare dai suoi avvocati e quindi di potersi avvalere delle facoltà (compresa quella di non rispondere o di mentire) che il codice riconosce agli indagati in procedimenti connessi e non ai testimoni, obbligati invece a rispondere e a dire la verità.

La posta in gioco è molto più alta dell'orgoglio delle parti in causa, e perfino della sorte della singola inchiesta: è invece l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, e perciò è affare di tutti e non soltanto di Berlusconi o dei suoi pm, dell'arrestato Tarantini o del latitante Lavitola, la cui sorte è appesa proprio ai chiarimenti che la parte offesa Berlusconi potrebbe dare con la propria deposizione. È insomma la possibilità stessa di celebrare un procedimento secondo le regole valide per ricchi e poveri, potenti e diseredati.

Tutti i giorni, infatti, in tutti i palazzi di giustizia d'Italia ci sono persone che, citate come testimoni, vorrebbero tanto farne a meno: lamentano di dover sacrificare impegni lavorativi e personali, sbuffano per il fatto di dover sobbarcarsi magari anche lunghe trasferte a fronte di miserrimi rimborsi chilometrici, si chiedono perché non possano cavarsela spedendo una memoria scritta, e nei casi più delicati mandano (proprio come Berlusconi) il proprio avvocato a chiedere di essere ascoltati con le facoltà degli indagati anziché con gli obblighi dei testi. E tutti i giorni, in tutti i palazzi di giustizia d'Italia, queste persone si sottopongono infine alle decisioni dei vari soggetti previsti dalla legge (di volta in volta Procure, Tribunali, Corti d'Appello), pena l'ordine ai carabinieri di accompagnare coattivamente il teste recalcitrante.

Ecco perché il braccio di ferro sulla testimonianza va ben oltre la contingenza dell'inchiesta di Napoli: pretendendo per sé regole diverse da quelle che valgono per tutti gli altri cittadini chiamati ogni giorno come lui ad adempiere al dovere civico di testimoniare, il presidente del Consiglio vuole scegliersi le regole del deporre, proprio come già ha voluto scegliersi i giudici (legge Cirami sul legittimo sospetto e conflitti di attribuzione su Ruby), le prove (legge sulle rogatorie e ddl sulle intercettazioni), i reati (legge sul falso in bilancio), i tempi (legge ex Cirielli sulla prescrizione e ddl processo lungo), le impugnazioni (legge Pecorella), le immunità (legge Schifani e legge Alfano). Ecco perché, a prescindere dal merito dell'indagine, è una sconfitta il fatto che oggi il premier, invece di concordare con i pm napoletani la data della propria testimonianza che la legge gli consente di rendere stando a Palazzo Chigi, preferisca farsi scudo di una sonnolenta miniudienza (si comincia addirittura alle ore 11 e c'è un solo teste minore da ascoltare) di un processo-zombie come il processo Mills, la cui prescrizione tra quattro mesi è ormai da tempo assicurata dalla combinazione tra vecchie leggi ad personam e attuali impasse procedurali, amplificate dall'accordo informale richiesto mesi fa da Berlusconi e concessogli dalla presidenza del Tribunale per procedere di norma con udienze soltanto il lunedì.

A meno che il premier non abbia un sussulto e, per rendere più credibili i suoi «non mollo», oggi venga al processo Mills, dove lo si accusa di aver corrotto un testimone in giudizio, per annunciare la sua decisione di rinunciare a godere in febbraio della sicura prescrizione. Proprio quello, peraltro, che il partito del premier reclama a gran voce dall'indagato pd Filippo Penati.

12.9.11

Le nostre metamorfosi

Barbara Spinelli (La Repubblica 12.09.2011)

Giovedì, in una discussione su La7 che ha fatto seguito al film di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, “Silvio Forever”, il direttore del Foglio ha detto una cosa importante. Ha detto che, grazie agli anni che portano l’impronta di Berlusconi, l’Italia avrebbe vissuto una “liberazione psicologica”. Si è sbarazzata di vecchie incrostazioni moraliste, di una democrazia con troppe regole, di tendenze micragnose, formalistiche. L’ora dei consuntivi sta arrivando, e nella valutazione dei diciassette anni passati c’è anche questo giudizio sull’avventura berlusconiana, imperturbabilmente positivo: quali che siano i loro esiti, vi sono fenomeni grandiosamente anomali che fanno magnifica la storia, in Italia e altrove.
È significativo che negli stessi giorni si celebri il decimo anniversario dell’11 settembre, perché anche qui fu un fenomeno prodigiosamente anomalo a trasfigurare la storia. I rivoluzionari amano questi prodigi, sia quando li incensano sia quando li demonizzano, perché il Grande Fenomeno fa tabula rasa, crea nuove classi dirigenti, interrompe quel che nella democrazia è lento e monotono, formalistico e incastonato in regole. Il tempo d’un tratto s’arresta, il rivoluzionario prova l’estasi dell’istante liberatorio. Il musicista Karlheinz Stockhausen s’estasiò, il 16 settembre 2001, davanti alla “più grandiosa opera d’arte nella storia cosmica”.

Nella discussione diretta da Enrico Mentana, spiccava la figura di Eugenio Scalfari. L’anomalia berlusconiana non gli appariva affatto grandiosa. Il giudizio era gelido, non magato neppure nelle pieghe, allergico all’inconcreto. Faceva impressione la sua presenza perché lo sguardo sul presente era ben più lungo dello sguardo dei colleghi. Il fenomeno Berlusconi (ma avrebbe potuto parlare anche dell’11 settembre, o della crisi economica) non era descritto come un botto improvviso, che fa piazza pulita e crea nuovi mondi. S’iscriveva in una storia lunga, che ancora ci tocca esplorare e che lui scruta dai tempi della prima repubblica con penna precisa. Mi sono chiesta come mai un giornalista con tanti anni di vita e d’esperienza sembrasse non solo il più acuto osservatore del presente, ma il più giovane.
La chiave penso sia la sua curiosità. Il curioso, lo dice l’etimologia, ha cura di quel che a prima vista pare enigmatico. Non gli basta vedere la pelle delle cose, ha brama di investigare, di tuffarsi molto a fondo, immergendosi con la testa come la balena narrata da Melville. Non si accontenta, e in genere usa poco questo tiepido aggettivo: contento. Il suo modo d’essere gli consente di intuire, nelle parole e negli eventi, quel che è altro dalla parola o dall’evento subito percepibili. Heidegger scrive cose simili, sulla tecnica: “L’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico. Non apprenderemo mai la nostra relazione con la sua essenza, fino a quando rappresenteremo e praticheremo solo la tecnica. Sempre rimarremo, non liberi, incatenati alla tecnica: sia che l’approviamo con entusiasmo, sia che la neghiamo”.

Nel raccontare l’epoca che abbiamo alle spalle, Scalfari ragionava allo stesso modo: “La questione davvero importante non è Berlusconi. È come l’Italia abbia potuto sopportare un personaggio così per 17 anni. Chi siamo noi è la questione”. L’essenza di Berlusconi non è Berlusconi, così come l’essenza dell’11 settembre non è l’11 settembre ma la risposta che all’attentato venne data e la torpida genealogia dell’accadimento. In Italia l’essenza è la misteriosa, sempre ambigua metamorfosi dell’uomo e del suo mondo: il mondo che egli crea e quello che da fuori lo pigia e lo mette alla prova. Che lo spaventa anche, inducendolo a bendarsi gli occhi e seguire chimere per non vedere i precipizi verso cui sta correndo.

Se cito Scalfari a proposito dei bilanci che si stanno facendo (del berlusconismo, dell’11 settembre) è perché la metamorfosi è parte centrale del suo ultimo libro (Scuote l’anima mia Eros, Einaudi 2011) e perché i concetti di cui il testo è disseminato aiutano a capire la crisi che viviamo: la metamorfosi in primis ma anche la guerra fra gli istinti, l’amore di sé e dell’altro, la morte che impronta la vita e dunque viene prima della vita. E l’avarizia infine, una parola che mi ha colpito perché stranamente si è diradata nel dialogo fra le persone. Nel libro è evocata almeno tre volte. Una prima volta quando l’autore s’interroga sul segno (“più lieve della traccia che una lepre fuggitiva lascia sulla neve”) che resta delle singole vicende umane. Proprio perché la nostra è una “piccola vita circondata dal sonno”, scrive citando Shakespeare: “Non dilapidatela, non difendetela con avarizia (…) Vivetela con intensa passione, con speranza ed allegria”. Queste cose si imparano nell’adolescenza, quando sei in trasformazione e provi a cambiare in meglio il tuo Io. S’imparano anche in vecchiaia: se vissuta bene, è anch’essa metamorfosi. Ricordo il bellissimo disegno di Goya, al Prado. Un vecchio cammina appoggiato a due faticosi bastoni e sotto è scritto: Aùn aprendo, Ancora sto imparando.

Il secondo accenno all’avarizia è quando i mortali sono descritti come centauri, metà bestie metà uomini, sempre esposti al sopravvento del cavallo. L’avarizia di sé è figlia di questo rachitismo spirituale: dimentichi quel che fa dell’uomo un uomo, sei sopraffatto, rattrappisci. C’è infine un terzo passaggio, in cui ingeneroso è chi crede in una sola verità, e diviene avaro di sé.
L’avaro somiglia molto all’incurioso, che si fascia gli occhi per paura di disperdere quel che ammonticchia per sé. Anch’egli non ha cura dell’altro. Quando gli va incontro, è uno specchio che cerca: dunque vede solo se stesso. Giustamente è stato evocato, nella discussione, il narcisismo che affligge Berlusconi e l’Italia che l’ha scelto come modello. L’avaro incurioso vede l’Uno (la propria verità); al Due non arriva. Quando erano più sferzanti, i critici americani di G. W. Bush lo chiamavano incurious.

Non che sia mancata, subito dopo l’11 settembre, la sete di sapere. “Perché ci odiano?”, ripetevano sgomenti i politici Usa. Ma la domanda non era mai rivolta a se stessi, il male assurdo era sempre fuori. Anche Berlusconi chiede, di continuo: “Perché mi odiano?”, come se la sua persona fosse satanicamente osteggiata per motivi estranei a quel che lui è e fa. Anche qui è elusa la vera domanda: come avviene la seduzione? Cosa ha prodotto? E in America: come è potuto accadere che la guerra totale al terrore, lanciata caoticamente nel 2001, stia accelerando il crollo della potenza americana?
Dice Scalfari che gli italiani hanno un terzo istinto, oltre a quello buono e cattivo: un istinto anarcoide, antipolitico. Credo non sia un vizio solo italiano: penso alle civiltà suicide descritte da Jared Diamond nel libro Collasso, agli abitanti dell’isola di Pasqua, allo spirito anarcoide con cui distrussero tutti gli alberi fino a non poter costruire una sola barca per andare a pescare e nutrirsi.

In Italia come in America, l’evento cui abbiamo assistito è la morte della politica, il trionfo di poteri paralleli e sommersi che nemmeno Obama riesce a frenare. E la storia di questo trionfo è molto più lunga dei dieci anni che ci separano dall’11 settembre, o dei diciassette che ci separano dal Berlusconi politico. Negli Stati Uniti la dismisura, la hybris, culminò nel Progetto per il nuovo secolo americano, che i neoconservatori scrissero nel ’97, in collaborazione con l’industria militare: finita la guerra fredda l’America doveva trasformarsi in unica superpotenza, senza più rivali. L’orrore omicida dell’11 settembre permise al progetto di affermarsi. In Italia la hybris è radicata nella storia della P2, che ebbe il Premier tra i suoi affiliati. I fenomeni grandiosamente anomali hanno tutto un pedigree, e non solo: hanno effetti – sulla vita dei cittadini e sul futuro – che il giudizio finale deve incorporare. L’effetto in America è stato il collasso del potere mondiale. Quanto all’Italia, cosa ha prodotto la talentuosa conquista berlusconiana dei consensi? È ancora Scalfari che parla: “Il risultato lo si vede: siamo ridotti in mutande”.

Ascoltiamo quel che disse della P2 Tina Anselmi, il 9 gennaio ’86 in una Camera semivuota: “Ciò che dobbiamo chiederci è se accanto alla politica ufficiale, gestita nei modi e nelle forme che l’ordinamento consente, possa esistere una politica sommersa. Se (…) possa esistere un versante occulto, nel quale programmi e azioni destinate a incidere nella vita della collettività vengono elaborati al di fuori, non dico di ogni controllo ma della stessa conoscenza dell’opinione pubblica (…) Se sia possibile coltivare l’illusione di una correzione del sistema democratico attraverso meccanismi compensativi che, operando in maniera occulta o riservata, sarebbero in grado di assicurargli la necessaria stabilità” (Anna Vinci, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere 2011). Sotto forme diverse (P2, P3, P4) la politica sommersa continua.

Chi siamo noi è la questione. È la sola che conti. Non si tratta di dividersi tra benpensanti e malpensanti. Qui c’è bisogno di pensanti, tout court. Di trasformatori, consapevoli con Nietzsche che “Noi, cercatori della conoscenza, siamo a noi stessi degli sconosciuti, per il semplice motivo che non ci siamo mai cercati”.

Dialogo sulla Scuola che insegna a vivere

Cesare Segre e Irene Gianotti (Corriere 12.09.2011)

«Cari studenti, anche se pare non più di moda, vi auguro un buon anno scolastico. Imparare è un piacere, ma anche una fatica che un giorno vi ripagherà dell’impegno…». «Caro professore, conosco l’importanza dello studio, ma in una scuola sempre più sganciata dalla realtà vivo con l’angoscia del futuro…». Sul senso della scuola che inizia, dialogo tra un prof e uno studente.

Cari studenti, tra i banchi imparate la ricchezza delle differenze
di CESARE SEGRE
Cari studenti,
anche se dirlo non pare più di moda, l’inizio dell’anno scolastico è sempre un evento importante nella vostra vita. Vi auguro che sia per voi molto felice. Voi entrate, o rientrate, in quella “società degli studi” che, secondo un progetto messo a punto nel corso dei secoli, dovrebbe fornirvi le conoscenze che vi saranno utili nella vita. Non parlo solo dell’utilità pratica, certo importante, ma anche di quella che consiste nel saper godere di tutti i piaceri che l’esercizio dell’intelligenza e della sensibilità può fornire. La vostra fortuna nel futuro può essere maggiore o minore; ma voi potrete sempre, se trarrete profitto dagli anni di scuola, ricorrere al tesoro costituito dall’acquisita capacità di comprendere i fatti e di saper riflettere sulla realtà. Poi, la “società degli studi” dovrebbe fornirvi non solo conoscenze, ma anche strumenti per l’interpretazione, persino la capacità di apprezzare la bellezza e la sensibilità per l’equilibrio del nostro ecosistema. Leggendo un libro — è vitale continuare a farlo — penserete con gratitudine a chi vi ha insegnato a leggere e capire; vedendo una pittura o un edificio, sarete in grado di apprezzarne le qualità. Avrete sempre maggiori curiosità per il mondo che vi circonda.
Imparare è un piacere, ma è anche una fatica. Pedagoghi troppo indulgenti hanno cercato di trasformare questa fatica in divertimento, o di alleggerirla. Ma c’è poco da fare. Perché le nuove conoscenze entrino nelle nostre teste, è necessario un impegno, dunque uno sforzo; solo poi, una volta assimilate queste conoscenze, sentiamo il sollievo, anzi la gioia di chi ha fatto una conquista. Se ci pensate bene, sforzo e sollievo sono analoghi a quelli di chi esercita uno sport: eliminarli sarebbe come offuscare la realtà dello sport. Notate poi che l’allenamento aumenta la capacità di allargare il nostro orizzonte, sinché apprendere diventa quasi un’abitudine.
Da oggi, voi farete parte di classi in cui incomincerete a esercitare l’arte della convivenza sociale: i rapporti con gli altri studenti, con i docenti, con le autorità scolastiche, sono un piccolo modello di Stato. Vi accorgerete che seguendo i principi della giustizia, e magari della carità, questi rapporti si rivelano scorrevoli; e l’impegno comune (insegnamento e apprendimento) li garantisce. Non incominciate nemmeno per leggerezza a praticare la prepotenza, peggio se in gruppo. La parola vigliaccheria, parente di vergogna, dovrebbe farvi detestare qualunque cedimento a questa tentazione, anche perché questi cedimenti vi priverebbero moralmente dei vostri diritti entro la comunità. Quanto poi alla furbizia, ricordatevi che è l’arma dei deboli, lasciatela perdere.
Soprattutto se siete in una scuola di Stato, constaterete differenze di opinione tra i docenti. È una grande ricchezza. Perché potrete riflettere su queste differenze, e farvi un’opinione personale. Da tutti si può imparare; nessuno va condannato per le sue idee. Tenete presente che lo spirito critico vi mette al sicuro dagli impostori grandi e piccoli, che ci insidiano tutti. E ricordatevi che anche i mass media, preziosa fonte di notizie e spettacoli e modi d’essere, vanno sempre, dico sempre, sottoposti a verifica, facile per chi è un po’ scaltrito. Utilizziamo tutti Internet; ma dobbiamo renderci conto che qualunque dato o notizia che fornisce è soggetto a errori o mistificazioni, e va controllato.
E non dobbiamo chiudere gli occhi. Sono in atto cambiamenti nell’organizzazione degli studi: non sappiamo ancora come funzioneranno, e occorre una certa duttilità, oltre che la capacità di segnalare con fermezza gli errori di programmazione. Per di più, i cambiamenti hanno luogo in un momento di crisi economica europea, e particolarmente italiana. Questo significa, non nascondiamocelo, gravissime riduzioni di spesa e di personale, in un ambito nel quale il nostro Paese è già molto arretrato. Qui non è possibile dare suggerimenti. Bisogna comunque farsi sentire a tutti i livelli degli organismi scolastici, insistendo soprattutto sul fatto che dalla nostra scuola verranno fuori i futuri cittadini e cittadine, che la vostra generazione costituirà il fulcro dell’Italia di domani. Anche in questo caso la lucidità e la forza delle idee potrà essere una buona base.

Cari prof, troppo distacco tra i manuali e il mondo fuori dall’aula
di IRENE GIANOTTI *
Cari professori,
sto per cominciare l’ultimo dei cinque anni di liceo. Conosco bene le raccomandazioni che vengono fatte ogni volta che si torna in classe: studia, a scuola si impara a vivere, la tua fatica sui libri sarà ripagata nella vita.
Ma oggi ho molti dubbi: in classe mi sembra di vivere fuori dal mondo reale. Penso a quelli della mia età, che fanno i conti con le cose fatte e le occasioni perdute. Quale futuro avremo?
Personalmente uscirò cambiata dalla lezione ricevuta dal confronto continuo, non sempre facile, con i compagni di classe, e con i diversi professori. Una abitudine a far gruppo che mi mancherà all’università, perché, a quello che ho sentito, almeno negli atenei italiani, l’impegno è soprattutto individuale. Né conterà più il sostegno dei genitori.
Voi che venite da un mondo fatto di maggiori sacrifici ci rimproverate di non essere disposti all’impegno. Vi assicuriamo che non è così. In cinque anni, nessuno ci ha regalato nulla: abbiamo studiato dalla matematica al greco antico, dalla storia alla filosofia, dalla biologia alla letteratura.
Cinque o sei ore in classe al mattino e almeno quattro ore per i compiti a casa. Tutti i giorni per nove mesi. Ma sono contenta perché consapevole che una preparazione come quella che dà il liceo statale italiano trova pochi riscontri nelle scuole di pari grado americane o anche europee.
Certo, leggo che le scuole che funzionano davvero sono minoranza, ma voglio dire che non mi sento di appartenere a una «casta inferiore», come spesso viene dipinta la popolazione scolastica italiana.
Sono dunque grata al liceo classico per avermi dato l’opportunità di una cultura generale vasta, ma mi rendo conto che certi punti, credo anche per un problema di costi, siano stati trascurati. Mi riferisco ai computer (non ci sono pc in classe ma una sala computer per tutta la scuola) e a un uso critico di Internet, che, anche se malvisto da alcuni professori «conservatori», domina nel mondo esterno.
Alcune facoltà richiedono un «patentino informatico» tra i requisiti per la laurea. Non si potrebbe anticipare questo passo alla scuola secondaria?
Un altro punto, cari professori, è il distacco tra l’aula del liceo e quello che sta fuori. Il liceo ci dà una «cultura universale» e noi ne siamo ben contenti.
Ma l’universo che abbiamo appreso (e amato) sui manuali e sui testi dei classici (da Tacito a Dante, da Svevo a Pavese) che ci avete spinto a leggere durante tutte le scorse estati sa un po’ di «orticello chiuso».
In un’ora di storia civica, poi, non si ha certo il tempo non dico per approfondire ma per sfiorare la cultura delle civiltà che stanno sfidando e mettendo in crisi la nostra.
Mi riferisco alla Cina e all’India e alla loro storia millenaria. Dovremmo avere gli strumenti per dialogare con le ragazze e i ragazzi di Shangai o di Bangalore, già oggi protagonisti di un mercato globale e nostri futuri concorrenti.
Alla fine di quest’anno dirò arrivederci ai miei compagni di Quinta B (anche se secondo la vecchia divisione del liceo classico, in vigore sino all’anno scorso, saremmo nella Terza F).
Dieci maschi e diciotto femmine: due o tre faranno giurisprudenza, molti, ho sentito, tenteranno di entrare a medicina, uno a lettere moderne, un paio faranno i test per la facoltà di economia e commercio, io forse mi iscriverò ad architettura. Come vedete, sono scelte molto diverse.
Una cosa ci accomuna: il futuro incerto. Negli anni Settanta, quando i nostri genitori uscivano dalla scuola secondaria, non avevano questo tipo di angoscia.
Chi andava a lavorare subito, chi si iscriveva all’università, nella certezza che avrebbe trovato un posto di lavoro. Oggi in Italia non è più così. E questa, forse, è la nostra preoccupazione più grande.
Un’angoscia che non pretende risposte certe al mille per mille, ma almeno un quadro più solido entro il quale muoversi. Come avviene all’estero.
* Liceo class ico Tito Livio di Milano (Quinta B)

Scuola: ha fatto l'Italia, può renderla multiculturale

Tullio De Mauro

Un geniale architetto e urbanista italiano, Luigi Piccinato, per sdrammatizzare il contrasto tra città e campagna ripeteva un bon mot: «Tutte le città sono nate in campagna». Quando si parla di alieni, forestieri, migranti, meticci, vale la pena ricordare che siamo tutti alieni e forestieri per qualcuno, tutti abbiamo il dna di qualcuno venuto da fuori, foresto, nel luogo in cui siamo e dunque tutti siamo un po’ meticci, basta risalire a volte anche poco nel tempo e nelle generazioni.

La bimbetta che con aria solenne dice: «Noi a casa nostra facciamo così» e si riferisce a qualche azione assolutamente comune, ma poi è attenta e curiosa al nuovo e all’ignoto, o il grande, famoso discorso con cui, secondo Tucidide, Pericle esaltava l’orgoglio di essere ateniesi perché cittadini di una città sempre pronta a ospitare gli altri venuti da fuori, riflettono l’ambivalenza che ci accompagna. Siamo noi perché altri, anche assai diversi da noi, ci hanno fatto e fanno così come siamo: vale per le singole persone e per i grandi gruppi umani.

Le mille e mille lingue del mondo riflettono questa ambivalenza. Chi viene da fuori fu, per i Latini, partendo dalla stessa etimologia, hospes e hostis, «ospite» e «nemico». L’estraneo fu ekhthròs e xénos, «esterno» per i Greci, ma poi si dicevano xénia i regali, tipicamente da destinare inizialmente a chi veniva da fuori. Nella Roma primitiva, quelli di fuori porta, stanziati al di là dell’originaria cinta muraria, in opposizione ai nativi interni, gli inquilini, furono detti exquilini. Ma poi le mura si ampliarono e l’Esquilino divenne uno dei sacri Sette Colli. Del resto, sta nei miti delle origini di Roma il deliberato meticciato. E nella parola italiana ospite, «ospitante» e «ospitato», vive ancora un’antica e non rara ambivalenza etimologica altrettanto presente in altre lingue: sembra certo che in latino hospes sia stato dapprima il «padrone di casa che accoglie gli hostes stranieri», l’ospitante, e solo poi l’ospitato.

Se le migrazioni non segnassero la storia del genere umano saremmo ancora arrampicati sugli alberi di una savana nel centro dell’Africa, incerti se scendere e camminare dritti sul suolo. Alcuni milioni di anni fa scegliemmo – scelsero per noi – di scendere. E da allora le generazioni successive di ominidi, ormai bipedi deambulanti, a ondate successive lasciarono il cuore dell’Africa per diffondersi nei continenti. Ultimi, un po’ più di duecentomila anni fa – già il fuoco veniva acceso e sfruttato e spento e riacceso in Asia ed Europa, già vi erano tecniche sofisticate per costruire strumenti preziosi al vivere, già tutti gli altri ominidi sapevano comunicare e istruire per segni – gli homines sapientes sapientes, quali noi dovremmo onorarci di essere; attraverso il Sinai, intorno a centomila anni fa passarono in Asia e in Europa, in tempi più recenti, attraverso le Aleutine, si spinsero nel continente americano. E sempre conservarono l’ambivalenza: formavano gruppi diversi per sopperire solidalmente alle necessità del vivere e ciascun gruppo, nato da altri, tornava ad aprirsi e fondersi con altri ancora; costruivano lingue diverse per parlare tra loro nel gruppo, ma ogni lingua era ed è la chiave per entrare in ogni altra e capirla, e dalle altre lingue trae ricchezza di espressioni e di nuovi significati.

Questa storia naturale del migrare sta scritta nella struttura più profonda della nostra specie e nella lunga storia di cui siamo figlie e figli. Non dovremmo mai dimenticarlo. Qua e là nell’Europa di oggi c’è chi cerca di dimenticarlo e farlo dimenticare. C’è chi alimenta la paura di altri nuovi e la sfrutta per carpire qualche voto. Capita perfino in Paesi che sono stati e sono Paesi di larga e civile ospitalità, dalla Francia ai Paesi scandinavi. E capita in Italia. Ma non capita in generale nelle nostre scuole.

Bisogna, per la verità, dire che lo sfruttamento a fini elettorali delle paure è cominciato in Italia relativamente tardi. Sergio Mattarella, ministro dell’Istruzione del sesto governo Andreotti, tra il 1989 e il 1991, mentre era ormai chiaro ai più attenti che l’Italia, antico Paese di emigrazione, stava diventando, anzi era diventata terra di immigrazione, emanò un primo testo normativo, una «circolare», indirizzata alle scuole perché predisponessero quanto era necessario all’accoglienza dei bimbi e ragazzi immigrati o figli di immigrati. Le scuole già erano su questa lunghezza d’onda e, anche se forse più nessuno ricorda quel benemerito atto, lo sono rimaste. E un altro tratto importante del ceto dirigente è il comportamento delle università, che dagli anni Novanta, e in qualche caso già anni prima, si sono attrezzate per studiare sistematicamente gli aspetti demografici, sociologici, linguistici e educativi della crescente immigrazione, da Pavia a Siena (l’Università per Stranieri), da Bergamo e Venezia (Università Ca’ Foscari) a Napoli e «Roma Tre», da Palermo all’udinese Centro per il Plurilinguismo, per ricordare almeno alcuni dei centri più attivi.

Vinicio Ongini va al concreto e viaggia attraverso le scuole italiane documentando difficoltà, scacchi e successi della scuola multiculturale. Chi, dall’informazione corrente, è frastornato da notizie di casi di xenofobia farebbe bene a seguirlo nel suo viaggio, a leggere i suoi concreti e suggestivi «casi di studio».

Non è l’unico aspetto per cui la scuola non si può dire che rifletta meccanicamente tendenze e umori appariscenti nella società o, per dir meglio, se riflette la società è capace di espungere e spurgare quanto c’è in essa di deteriore. Prendete il caso della lettura. Ormai dagli anni Sessanta possiamo seguire i progressi (lenti, è vero) dell’abitudine alla lettura nel nostro Paese. E a ogni indagine si verifica che bambini e giovani leggono assai più delle generazioni anziane. Le alte percentuali, quasi europee, di lettura di libri non scolastici tra ragazze e ragazzi declinano tra gli adulti che hanno varcato la soglia dei trent’anni. Queste percentuali positive non possono avere altra matrice che l’impegno educativo delle scuole. Oppure prendete il caso della comprensione dei testi. Fanno notizia, ma danno luogo a sciocchezze (anche di qualche ministro), i dati periodici che l’OCSE accerta e diffonde ogni tre anni sulle capacità di comprensione di testi tra i quindicenni. Alti lai perché il 40% dei ragazzi mostra difficoltà di comprensione. Certo, bisognerà che migliorino. Ma attenzione: gli adulti con analoghe difficoltà, tra i 18 e i 65 anni, non sono il 40%, sono una percentuale che, secondo l’ultima indagine comparativa internazionale, raggiunge e supera l’80%. Il doppio dei ragazzi a scuola. Se la scuola registrasse meccanicamente le (in)competenze degli adulti dealfabetizzati e non leggenti, le percentuali OCSE dovrebbero darci l’80% di ragazzi in difficoltà. Il 40% di scarto esprime l’enorme lavoro in salita che la nostra scuola sa fare e fa. Potrebbe aumentare se ci decidessimo a investire di più nella e per la scuola: di più in termini di finanziamento e di più in termini di attenzione simpatetica, circostanziata e fattiva come quella, esemplare, di Vinicio Ongini.

Se un rimprovero si può muovere alla nostra scuola è che non sempre essa è ben consapevole di quanto ha fatto, sa fare e fa per l’intero Paese. Il libro di Ongini, tra gli altri meriti, può essere d’aiuto, può stimolare il giusto orgoglio della nostra scuola pubblica.

9.9.11

“Silvio Forever”. Speriamo di no

Stefano Corradino

“Stare a Palazzo Chigi mi ha danneggiato”. E’ una delle tante massime del presidente Berlusconi raccolte dagli sceneggiatori di Silvio Forever. Danneggiato a tal punto che come lo stesso film riporta nel cartello finale, il premier, secondo la rivista Forbes, dalla sua discesa in campo nel 1994 ad oggi ha quintuplicato la sua ricchezza…

Ieri ho rivisto con attenzione questa autobiografia non autorizzata diretta da Roberto Faenza e Filippo Macelloni e sceneggiata dagli autori de La Casta Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Il film che La7 ha avuto l’ardire di trasmettere in prima serata altro non è che un mosaico della storia pubblica e privata di Silvio Berlusconi, dai primi vagiti alle leggi ad personam.

Come ci insegna la psicoanalisi, scavare nell’infanzia e nell’adolescenza può aiutarci a comprendere la personalità dell’uomo adulto; e il film ci offre numerosi spunti interessanti attraverso i racconti dello stesso Berlusconi, che evidenziano come l’arte della speculazione e della truffa si impari già in tenera età: “A scuola – racconta Berlusconi - mi facevo pagare per aiutare i compagni nei compiti salvo poi rimborsarli (dice lui) se non ottenevano almeno un 6-”.

“Alla fine dell’Università mio padre acquistò un terreno e costruimmo le prime quattro case. Ma il mercato si bloccò. Allora andai a Roma al fondo di previdenza e convinsi gli ispettori a venire a vedere le case. Arrivò la Commissione ma bisognava fargli vedere che c’era già un interesse del mercato all’affitto degli appartamenti. Allora telefonai a tutti i miei parenti per farli venire. Ma scoprirono l’inghippo…”

Il lato privato di Silvio Berlusconi che traspare dal film è ancora più inquietante e arricchisce il materiale per lo studio della schizofrenia patologica del premier: “Tutti mi amano, perchè sono simpatico e divertente, per il mio incredibile charm”. Poi, come in ogni sindrome bipolare, l’affermazione contraria: “Ho avuto sempre la sinistra contro: a 12 anni mentre sulla scala attaccavo i manifesti della Democrazia Cristiana alcuni ragazzi comunisti cominciarono a scuotere violentemente la scala e a strattonarmi…”

Un’esistenza vissuta tra delirio di onnipotenza e manie di persecuzione. Dall’Italia “paese che amo“, all’Italiapaese di m…. Silvio forever, speriamo di no…

Ps: Il film è stato accompagnato da un dibattito interessante sulla figura di Silvio Berlusconi tra Enrico Mentana, Eugenio Scalfari, Giuliano Ferrara e Paolo Mieli. Se venisse ripristinata, e non solo su La7, l’abitudine a trasmettere un film o un documentario per poi svilupparne una discussione sarebbe un modo intelligente di fare televisione.

Editoria: 20 milioni in sette anni a Lavitola

Beppe Lopez (Il Fatto Quotidiano)
Tutti sanno che di mestiere fa il faccendiere (nel suo caso, un pallido eufemismo). Tutti sanno che sta al giornalismo come Berlusconi al libero mercato. Tutti sanno che la testata Avanti!, organo del partito socialista, è morta e sepolta nel 1994. Tutti sanno che l’Avanti! è una testata-imbroglio e comunque è un giornale-fantasma buono solo per acquisire i contributi per l’editoria. Eppure, su tutti i giornali, Valter Lavitola continua ad essere definito “direttore dell’Avanti!“. Lo stesso Ordine dei Giornalisti lo sospende dalla professione – certificando paradossalmente la sua piena, legittima appartenenza ad essa – in base all’articolo 39 della legge n.69 del 1963, secondo capoverso, che stabilisce: “Ove sia emesso ordine o mandato di cattura gli effetti dell’iscrizione sono sospesi di diritto fino alla revoca del mandato o dell’ordine”.

Il problema sta nel fatto che si sa da sempre il mestiere di Lavitola (possiamo pure dire: dei Lavitola). Che si sa da sempre che, insieme a molte altre false cooperative, falsi organi di partito e falsi editori, Lavitola prende quattrini dal Dipartimento Editoria della Presidenza del Consiglio (cioè dalle nostre tasche) illegittimamente, illecitamente, immoralmente, anche se in base a una legge dello Stato e a specifiche decisioni che fanno capo direttamente a Palazzo Chigi. E non si tratta di pochi quattrini. Basti pensare alla cifra scandalosa - 800 mila euro – di cui si parla in questi giorni a proposito dei suoi traffici tra Berlusconi e Tarantini. Ebbene, solo in un anno, dal Dipartimento, Lavitola ne prende più di 2 milioni e mezzo, per un giornale che nessuno conosce o vede, e a valere sui fondi per “quotidiani editi da cooperative di giornalisti”.

Ci voleva molto a capire e a dimostrare che l’”International Press Società Cooperativa di Lavoro Arl” non è una vera cooperativa e a stabilire nei regolamenti che cosa significa essere vera cooperativa (che l’azienda è controllata e amministrata da coloro che lavorano nell’azienda)?

Vi ricordate il caso Ciarrapico? Com’era successo anni prima con una cricca che si era impadronita della testata Il Giornale d’Italia, dovette intervenire la magistratura per rilevare che, tra il 2002 e il 2005, l’ex uomo di Andreotti e senatore del Pdl aveva incassato indebitamente 25 milioni di euro in contributi pubblici. Secondo i pm, Ciarrapico avrebbe fatto figurare “artatamente” che le due società amministratrici degli otto giornali locali da lui controllati avevano gestioni separate e avrebbe “attestato falsamente” che il loro capitale sociale era controllato da cooperati. Non lo verificò il Dipartimento. Così come non l’ha mai verificato per tutti gli altri, Lavitola compreso.

Vi ricordate che fine facevano i soldi date al Campanile del partito di Mastella? Anche in quel caso dovette intervenire la magistratura.

Solo a valere sugli anni compresi fra il 2003 e il 2009, vale a dire in sette anni, Lavitola ha incassato sette volte una cifra sempre superiore ai 2 milioni e mezzo: vale a dire, complessivamente, una cifra di poco sotto i 20 milioni. Altro che gli 800 mila da dividere con Gianpi e Nicla! E non è escluso – ed è ovviamente auspicabile – che ancora una volta si arrivi a smascherare una truffa commessa ai danni (e con la “collaborazione tecnica”) del Dipartimento, anche se per intervento casuale ed esterno della magistratura.

Nemmeno l’obbligo dei tagli, imposti dalla crisi e dall’Europa, ha suggerito al governo (o alla opposizione) di dare un’occhiata agli sprechi, diciamo così, del Dipartimento.

In base agli ultimi dati (anno di riferimento 2009), le “cooperative” che, in quanto tali, prendono soldi dal Dipartimento sono circa una trentina e ci costano una cinquantina di milioni. Basta scorrerne l’elenco per avere netta la sensazione che le vere e proprie cooperative si contino sulle dita di una sola mano. Che la quasi totalità delle testate siano proprietà di singoli. Che queste testate (titolari del contributo) si siano trasformate col tempo in una sinecura, spesso oggetto di compravendita.

Diciassette testate che dovrebbero far capo a “cooperative, fondazioni o enti morali” ingoiano, poi, circa 45 milioni. Ma siamo proprio sicuri che – a parte i 2/3 miliardi di esenzioni fiscali – dobbiamo assicurare alla Chiesa italiana anche poco meno di 6 milioni di euro l’anno per l’Avvenire? E che alla Cisl, a parte tutto il resto, dobbiamo pagare più di 3 milioni per finanziarle Conquiste del Lavoro? E che dire – in un Paese che, come afferma ogni giorno ItaliaOggi, deve emanciparsi dall’assistenzialismo e che, come pretendono la crisi e l’Europa, deve tagliare privilegi e servizi – dei 5 milioni e passa l’anno che regaliamo a ItaliaOggi?

Per non parlare, naturalmente, dei tagli alla politica (rinviati) e ai finanziamenti ai partiti (che nessun partito ha nemmeno preso in considerazione). Nel bilancio del Dipartimento, ci sono 22 testate “organi di partiti e movimenti politici che abbiano il proprio gruppo parlamentare in una delle Camere o rappresentanze nel Parlamento europeo o che siano espressione di minoranze linguistiche riconosciute, avendo almeno un rappresentante in un ramo del Parlamento ovvero che, essendo state in possesso di tali requisiti, abbiano percepito i contributi alla data del 31.12.2006″. Si dividono una quarantina di milioni l’anno.

Quell’“ovvero ecc.”, da solo, ci sosta una trentina di milioni. Senza quell’“ovvero ecc.”, infatti, passerebbe alla cassa praticamente solo La Padania (quasi 4 milioni l’anno). E invece ci tocca continuare a tenere sulle spalle decine di testate che non sono più proprietà di partiti e che facevano riferimento a partiti ormai inesistenti, o che già erano finti “movimenti” prima del dicembre 2006: tutti (più o meno) rispettabili aziende e persone che, per una serie di ragioni storiche abbondantemente esauritesi da anni, si ritrovano a godere di un privilegio ragionevolmente immotivato (se non dal rispetto di tradizioni e occupazione da un canto, e da protervia prepotenza di regime dall’altro). Si va dai due giornali “del Pd”, in effetti ambedue di privatissimi assetti editoriali e redazionali (l’Unità 6 milioni 377 mila, Europa 3 milioni e mezzo), ai 3 milioni e mezzo con cui dobbiamo finanziare Giuliano Ferrara e il suo Foglio, e ai 2 milioni che continuano a tenere in piedi l’Opinione di Arturo Diaconale, passando per i 3 milioni al Secolo d’Italia gasparrizzato, i 3 milioni e mezzo per Liberazione, i quasi 3 milioni per Cronache di Liberal, ai 2 milioni e mezzo del Denaro di Napoli…

Purtroppo nell’elenco dei beneficati dal Dipartimento ci sono, insieme, gentiluomini e truffatori di tutti i “colori”. Come nelle Province. E forse di più. I tagli all’editoria sono riusciti infatti non solo ad evitarli ma persino a non citarli, senza nemmeno l’alibi di “dover rinviare tutto perché si tratta di cambiare la Costituzione”. E nonostante che, proprio in questi giorni, per caso (e grazie alla magistratura), la cronaca ci abbia ancora una volta svelato le truffe e i ladrocinii che avvengono sotto l’insegna dei “contributi pubblici all’editoria”.