6.2.13

Se pure Keynes è un estremista

BARBARA SPINELLI - la Repubblica

I principi che ci governano, il Fondo Monetario, i capi europei che domani si riuniranno per discutere le future spese comuni dell’Unione, dovrebbero fermarsi qualche minuto davanti alla scritta apparsa giorni fa sui muri di Atene: «Non salvateci più!», e meditare sul terribile monito, che suggella un rigetto diffuso e al tempo stesso uno scacco dell’Europa intera. Si fa presto a bollare come populista la rabbia di parte della sinistra, oltre che di certe destre, e a non vedere in essa che arcaismo anti-moderno.
A differenza del Syriza greco le sinistre radicali non si sono unite (sono presenti nel Sel di Vendola, nella lista Ingroia, in parte del Pd, nello stesso Movimento 5 Stelle), ma un presagio pare accomunarle: la questione sociale, sorta nell’800 dall’industrializzazione, rinasce in tempi di disindustrializzazione e non trova stavolta né dighe né ascolto. Berlusconi sfrutta il malessere per offrire il suo orizzonte: più disuguaglianze, più condoni ai ricchi, e in Europa un futile isolamento.
Sul Messaggero del 30 gennaio, il matematico Giorgio Israel denuncia l’astrattezza di chi immagina «che un paese possa riprendersi mentre i suoi cittadini vegetano depressi e senza prospettive, affidati passivamente alle cure di chi ne sa». Non diversa l’accusa di Paul Krugman: i governanti, soprattutto se dottrinari del neoliberismo, hanno dimenticato che «l’economia è un sistema sociale creato dalle persone per le persone». Questo dice il graffito greco: se è per impoverirci, per usarci come cavie di politiche ritenute deleterie nello stesso Fmi, di grazia non salvateci. Non è demagogia, non è il comunismo che constata di nuovo il destino di fatale pauperizzazione del capitalismo. È una rivolta contro le incorporee certezze di chi in nome del futuro sacrifica le generazioni presenti, ed è stato accecato dall’esito della guerra fredda.
Da quella guerra il comunismo uscì polverizzato, ma la vittoria delle economie di mercato fu breve, e ingannevole. Specie in Europa, la sfida dell’avversario aveva plasmato e trasformato il capitalismo profondamente: lo Stato sociale, il piano Marshall del dopoguerra, il peso di sindacati e socialdemocrazie potenti, l’Unione infine tra Europei negli anni ’50, furono la risposta escogitata per evitare che i popoli venissero tentati dalle malie comuniste. Dopo la caduta del Muro quella molla s’allentò, fino a svanire, e disinvoltamente si disse che la questione sociale era tramontata, bastava ritoccarla appena un po’.
È la sorte che tocca ai vincitori, in ogni guerra: il successo li rende ebbri, immemori. Facilmente degenera in maledizione. Le forze accumulate nella battaglia scemano: distruggendo il consenso creatosi attorno a esse (in particolare il consenso keynesiano, durato fino agli anni ’70) e riducendo la propensione a inventare il nuovo. Forse questo intendeva Georgij Arbatov, consigliere di politica estera di molti capi sovietici, quando disse alla fine degli anni ’80: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”. Quando nel 2007-2008 cominciò la grande crisi, e nel 2010 lambì l’Europa, economisti e governanti si ritrovarono del tutto impreparati, sorpassati, non diversamente dal comunismo reale travolto dai movimenti nell’89.
È il dramma che fa da sfondo alle tante invettive che prorompono nella campagna elettorale: gli attacchi dei centristi a Niki Vendola e alla Cgil in primis, ma anche al radicalismo della lista Ingroia, a certe collere sociali del Movimento 5 stelle, non sono una novità nell’Italia dell’ultimo quarto di secolo. Sono la versione meno rozza della retorica anticomunista che favorì l’irresistibile ascesa di Berlusconi, poco dopo la fine del-l’Urss, e ancora lo favorisce. Il nemico andava artificiosamente tenuto in vita, o rimodellato, affinché il malaugurio di Arbatov non s’inverasse. Se la crisi economica è una guerra, perché privarsi di avversari così comodi, e provvidenzialmente disuniti? Quando Vendola dice a Monti che occorrerà accordarsi sul programma, nel caso in cui la sinistra governasse col centro, il presidente del Consiglio alza stupefatto gli occhi e replica: «Ma stiamo scherzando?», quasi un impudente eretico avesse cercato di piazzare il suo Vangelo gnostico nel canone biblico. Anche i difensori di Keynes sono additati al disprezzo: non sanno, costoro, che la guerra l’hanno persa anch’essi, nelle accademie e dappertutto?
In realtà non è affatto vero che l’hanno persa, e che lo spettro combattuto da Keynes sia finito in chiusi cassetti. Quando in Europa riaffiora la questione sociale – la povertà, la disoccupazione di massa – non puoi liquidarla come fosse una teoria defunta. È una questione terribilmente moderna, purtroppo. La ricetta comunista è fallita, ma il capitalismo sta messo abbastanza male (non quello della guerra fredda: quello decerebrato e svuotato dalla fine della guerra fredda). Non è rovinato come il comunismo sovietico, ma di scacco si tratta pur sempre.
È un fallimento non riuscire ad ascoltare e integrare le sinistre che in tantissime forme (anche limitandosi a combattere illegalità e corruzione politica) segnalano il ritorno non di una dottrina ma di un ben tangibile impoverimento. Prodi aveva visto giusto quando scommise sulla loro responsabilizzazione, e li immise nel governo. Fu abbattuto dalla propaganda televisiva di Berlusconi, ma la sua domanda non perde valore: come fronteggiare le crisi se non si coinvolge il malcontento, compreso quello morale? Ancor più oggi, nella recessione europea che perdura: difficile sormontarla senza il rispetto, e se possibile il consenso, dei nuovi dannati della terra.
Forse abbiamo un’idea falsa delle modernità. Moderno non è chi sbandiera un’idead’avanguardia. È, molto semplicemente, la storia che ci è contemporanea: che succede nei modi del tempo presente. Se la questione sociale ricompare, questa è modernità e moderni tornano a essere il sindacalismo, la socialdemocrazia, che per antico mestiere tentano di drizzare le storture capitaliste – con il welfare, la protezione dei più deboli. Sono correzioni, queste sì riformatrici, che non hanno distrutto, ma vivificato e potenziato il capitalismo. È la più moderna delle risposte, oggi come nel dopoguerra quando le democrazie del continente si unirono. Non a caso viene dal più forte sindacato d’Europa, il Dgb tedesco, una delle più innovative proposte anti-crisi: un piano Marshall per l’Europa, gestito dall’Unione, simile al New Deal di Roosevelt negli anni ’30.
Dicono che i vecchi rimedi keynesiani – welfare, cura del bene pubblico – accrescono l’irresponsabilità individuale e degli Stati, assuefacendoli all’assistenza. Paventato è l’azzardo morale: bestia nera per chi oggi esige duro rigore. L’economista Albert Hirschman ha spiegato come le retoriche reazionarie abbiano tentato, dal ’700-800, di bloccare ogni progresso civile o sociale (Retoriche dell’intransigenza, Il Mulino). Fra gli argomenti prediletti ve ne sono due, che nonostante le smentite restano attualissimi: la tesi della perversità, e della messa a repentaglio.
Ogni passo avanti (suffragio universale, welfare, diritti individuali) perfidamente produce regresso, o mette a rischio conquiste precedenti. «Questo ucciderà quello», così Victor Hugo narra l’avvento del libro stampato che uccise le cattedrali. Oggi si direbbe: welfare o redditi minimi garantiti creano irresponsabilità. Quanto ai matrimoni gay, è la cattedrale dell’unione uomo-donna a soccombere, chissà perché.
Non è scritto da nessuna parte che la storia vada fatalmente in tale direzione. In astratto magari sì, ma se smettiamo di dissertare di «capitale umano» e parliamo di persone, forse l’azzardo morale diventa una scommessa vincente, come vincente dimostrò di essere nei secoli passati.

26.1.13

Sulle banche più vigilanza da Bruxelles

Stefano Lepri (La Stampa)

Nell'Europa continentale le banche che hanno combinato più guai sono quelle vicine al potere politico locale: le Landesbanken (banche regionali) tedesche, le Cajas de ahorro (Casse di risparmio) spagnole, il Monte dei Paschi. Per fortuna le dimensioni del caso italiano, pur grave in sé, appaiono assai inferiori a quanto accaduto negli altri due Paesi, dove è questione di svariate decine di miliardi di euro.
Se è così è fuori luogo che si indigni chi, come Giulio Tremonti e la Lega Nord, appena dieci anni fa intendeva accrescere in tutte le Fondazioni bancarie il peso degli enti locali (li fermò la Corte Costituzionale). Ancor più è paradossale proporre di nazionalizzare il Mps: per sottrarlo all'influenza dei dirigenti locali del Pd lo si' restituirebbe ad accordi spartitori tra tutti i partiti nazionali, come negli Anni 80. Il problema di un controllo esiste. Se le banche vengono sorrette con denaro dei contribuenti, occorre dissipare anche il più piccolo sospetto che si faccia un regalo ai banchieri. I 3,9 miliardi al Monte regalo non sono, sono un prestito a tassi di interesse assai alti, dunque il Tesoro ci guadagna; però occorre la garanzia che gli sbagli non si ripetano. Le vecchie ricette si rivelano tutte inadeguate. Il grande disordine della finanza mondiale nasce dall'illusione, di marca ultraliberista, che quel mercato così complicato e oscuro potesse regolarsi da solo. Ma se poi i banchieri di Wall Street quando volevano piazzare i titoli più tossici trovavano facile rifilarli alle Landesbanken, vuol dire che anche l'intrusione del potere politico nell'economia provoca danni gravissimi. Ovvero, gli alti rischi della finanza sregolata hanno attirato cattivi banchieri che sugli affari normali guadagnavano poco perché prestavano agli amici degli amici. Ancor peggio, una parte delle difficoltà dell'area curo si deve alle complicità tra governi e poteri bancari nazionali nel loro insieme. Per due anni almeno la Spagna si era rifiutata di riconoscere l'ampiezza del buco nelle sue Cajas: Tuttora la Germania resiste a una sorveglianza comune europea sulle sue banche medio-piccole, dopo averne lavato in casa i panni sporchi. Avremmo meglio avviato a soluzione la crisi dell'euro se una sola autorità sovrannazionale avesse potuto decidere quali banche in difficoltà chiudere e quali soccorrere, in modo trasparente, sotto controllo collettivo. Le controindicazioni del controllo politico sono minori se Io si esercita al livello più alto possibile. Invece l'intreccio troppo stretto fra Stati e banche fa sì che le fragilità degli uni si riflettano sulle altre, e viceversa. Resta vero che le banche italiane hanno sbagliato assai meno di altre, grazie alla vigilanza della Banca d'Italia. La lunga crisi le ha tuttavia messe in difficoltà; potrebbero prestare più soldi alle imprese se fossero più capitalizzate, ma il sistema proprietario che si regge sulle Fondazioni ha abbastanza esaurito le energie. I suoi limiti risaltano anche nell'apprendere che ora il più qualificato aspirante alla presidenza dell'Associazione bancaria è un ex politico. La vicenda anomala del Mps mostra inoltre in versione politicizzata i difetti del più asfittico capitalismo familiare all'italiana: rifiutare gli apporti di capitale esterni per paura di diluire il proprio controllo, strapagare acquisizioni valutate in termini di potere più che di guadagno. Far parte di una unione monetaria richiede banche non necessariamente grandi (le economie di scala sono dubbie), ma aperte oltre i confini nazionali.

20.1.13

Sì, no, anzi: probabilmente

di Carlo Rovelli

Nell’istituto dove lavoravo qualche anno fa, una malattia rara non infettiva colpì cinque colleghi, a poco tempo l’uno dall’altro. L’allarme fu forte e si cercò la causa del problema. Pensammo ci fossero contaminazioni chimiche nei locali dell’istituto, ma non fu trovato niente. L’apprensione crebbe e qualcuno, spaventato, cercò lavoro altrove. Una sera raccontai questi eventi a una cena, e un amico matematico si mise a ridere. «Ci sono 400 piastrelle sul pavimento di questa stanza; se lancio 100 chicchi di riso per terra – ci chiese -, troveremo cinque chicchi sulla stessa mattonella?». Rispondemmo di no: ci sarebbe stato solo un chicco ogni 4 piastrelle. Sbagliavamo: provammo molte volte a lanciare davvero il riso e c’era sempre qualche mattonella con due, tre, e anche cinque o più chicchi. Perché mai? Perché chicchi “lanciati a caso” non si dispongono in bell’ordine, a eguale distanza l’uno dall’altro. Atterrano, appunto, a caso, e ci sono sempre chicchi disordinati che arrivano su piastrelle dove sono arrivati anche altri chicchi. D’un tratto, il problema dei cinque colleghi malati prese tutt’altro aspetto. Cinque chicchi di riso sulla stessa mattonella non significano che la mattonella possieda forze attira-riso. Cinque persone malate non significano affatto che il nostro istituto fosse contaminato.
La mancanza di familiarità con le idee della statistica è molto diffusa, anche fra persone colte, e deleteria. L’istituto dove lavoravo era un dipartimento universitario. Noi professori sapientoni eravamo caduti in un grossolano errore di statistica. Ci eravamo convinti che il numero “fuori media” di malati richiedesse una causa. Avevamo confuso la media con la varianza. Qualcuno aveva addirittura cambiato lavoro, per niente. Di storie simili è piena la vita quotidiana
Non è raro sentire un telegiornale riportare con rilievo il fatto che in un certa località la percentuale di qualcosa sia superiore alla media. La percentuale di qualunque cosa è superiore alla media in più o meno metà delle località (inferiore nell’altra metà). Qualche anno fa gli italiani si commossero vedendo in televisione malati di cancro guariti dopo la cura Di Bella. Quale prova migliore dell’efficacia di questa cura, che non vedere guariti dei malati di tumori gravissimi? E invece era una sciocchezza. Con o senza cura, ci sono guarigioni naturali anche nei tumori più gravi. Esibire guarigioni, anche se numerose, non significa affatto che la cura abbia avuto effetto. Per sapere se la cura è efficace bisogna contare quante volte ha funzionato e quante non ha funzionato, e confrontare i risultati con quelli di malati non curati, o curati in altro modo. Se non facciamo così, tanto vale che danziamo per fare scendere la pioggia, come facevamo nella preistoria: ci saranno sempre giorni in cui la danza è effettivamente seguita dalla pioggia, e potremo esibire questi giorni a dimostrazione dell’efficacia della nostra danza… È l’incomprensione della statistica che porta molti a stupirsi per le guarigioni a Lourdes, a curarsi con medicine fatte di acqua e zucchero, o a morire in giochi pericolosi dopo aver visto altri giocare senza farsi male
Eviteremmo molte sciocchezze, e la società avrebbe vantaggi significativi se le idee di base della teoria della probabilità e della statistica fossero insegnate in maniera approfondita a scuola: in forma semplice nelle scuole elementari, in modo articolato nelle scuole medie e superiori. Ragionamenti di tipo probabilistico e statistico sono uno strumento della ragione potente e affilato. Non disporne ci lascia indifesi. Non avere chiarezza su nozioni come media, varianza, fluttuazioni e correlazioni, come purtroppo molti di noi non abbiamo, è un po’ come non sapere usare la moltiplicazione o la divisione. La poca familiarità con la statistica porta a confondere la probabilità con l’imprecisione. Al contrario, probabilità e statistica sono strumenti precisi, che ci permettono di rispondere in modo attendibile a domande precise. Senza di esse non avremmo l’efficacia della medicina moderna, la meccanica quantistica, le previsioni del tempo, la sociologia… Anzi, non avremmo l’intera scienza sperimentale, dalla chimica all’astronomia. Senza la statistica avremmo idee molto più vaghe su come funzionano gli atomi, le nostre società e le galassie. È stata la statistica, solo per fare un esempio, a permetterci di comprendere che fumare fa male e l’amianto uccide.
Noi usiamo ogni giorno ragionamenti probabilistici. Prima di prendere una decisione, valutiamo la probabilità che segua questo o quello. Abbiamo un’idea del prezzo medio della benzina, e della sua varianza, cioè quanto singoli distributori si discostino dal prezzo medio. Sappiamo intuitivamente che due variabili sono correlate (i distributori più vicini al centro sono generalmente più cari). Distinguiamo fatti molto improbabili e poco improbabili: la probabilità di essere coinvolti in un disastro ferroviario è molto piccola, quindi prendiamo il treno; la probabilità di finire sotto il treno attraversando un passaggio a livello chiuso è piccola anch’essa (la maggioranza degli sconsiderati che lo fanno sopravvive) ma è sufficientemente significativa per sconsigliarci vivamente dal farlo. E ancora, capiamo bene la differenza fra coincidenze avvenute “per caso” e fatti legati “da una ragione”, eccetera. Ma usiamo queste idee in modo approssimativo, spesso commettendo errori. La statistica affina queste nozioni, ne dà una definizione precisa, e ci permette per esempio di valutare in maniera affidabile se un farmaco o un ponte siano pericolosi oppure no. Lo fa trattando in maniera quantitativa e rigorosa la nozione di probabilità.
Ma cos’è la probabilità? Nonostante l’efficacia della statistica, la natura della probabilità è questione dibattuta, e un capitolo vivace della filosofia. Una definizione tradizionale è basata sulla “frequenza”: se lancio un dado molte volte, un sesto delle volte verrà il numero uno; quindi dico che la probabilità che venga “uno” è un sesto. Questa definizione è debole. Per esempio, usiamo la probabilità anche in situazioni dove non si può ripetere la prova. Penso che ci sia buona probabilità (non certezza) che il responsabile di questo supplemento pubblichi questo articolo; ma non ha senso pensare di mandargli l’articolo molte volte, perché la seconda volta non lo pubblicherebbe di certo. Un’alternativa è l’interpretazione della probabilità come “propensione”. Un atomo radioattivo, secondo alcuni fisici, ha una “propensione” a decadere durante la prossima mezz’ora, che viene valutata esprimendo la probabilità che questo accada. Neanche questa interpretazione è molto soddisfacente: suona un po’ come le virtù dormitive” della scolastica presa in giro da Molière nel Malato immaginario: il sonnifero ci fa dormire perché ha la virtù dormitiva e l’atomo decade perché ha la propensione a decadere.
La chiarezza sul concetto di probabilità è, a mio giudizio, il merito di un grande intellettuale italiano, forse non apprezzato in Italia quanto meriterebbe: il matematico e filosofo Bruno de Finetti (1906-1985). Negli anni Trenta del secolo scorso, de Finetti introduce l’idea che si rivela la chiave per comprendere la probabilità: la probabilità non si riferisce al sistema in sé (il dado, il responsabile della Domenica, l’atomo che decade, il tempo di domani), bensì alla conoscenza che io ho di questo sistema. Se dico che la probabilità che domani piova è uno su tre, non sto dicendo qualcosa che pertiene alle nubi, che possono essere già determinate dalla situazione attuale dei venti. Sto caratterizzando il mio grado di conoscenza-ignoranza sullo stato dell’atmosfera.
La geniale intuizione di de Finetti diventa concreta grazie a un teorema dimostrato nel diciottesimo secolo dal matematico inglese Thomas Bayes, e pubblicato per la prima volta due anni dopo la sua morte, nel 1763. Il teorema di Bayes fornisce una formula per calcolare come cambia la probabilità da attribuire a un evento, quando vengo a sapere qualcosa di più. Usando ripetutamente il teorema, le stime di probabilità soggettive convergono a una valutazione affidabile della possibilità di un evento. Pensiamo a un detective che abbia cinque sospetti. All’inizio dirà che la probabilità che ciascuno sia l’assassino è uno su cinque. Poi vari indizi renderanno maggiore la probabilità che il colpevole sia uno o un altro. La probabilità cambia perché il detective sa più cose, non perché siano cambiati i sospetti. Il teorema di Bayes, che fornisce la formula precisa per correggere la probabilità a ogni nuova informazione, ha trovato applicazioni dalla medicina alla fisica, e si pone al cuore della corrente soggettivista della filosofia della probabilità. Esso ci offre chiarezza sul significato della probabilità: la probabilità è la gestione oculata e razionale della nostra ignoranza.
Noi viviamo in un universo di ignoranza. Sappiamo tante cose, ma sono di più quelle che non sappiamo. Non sappiamo chi incontreremo domani per strada, non conosciamo le cause di molte malattie, non conosciamo le leggi fisiche ultime dell’universo, non sappiamo chi vincerà le prossime elezioni, non sappiamo cosa ci faccia davvero bene e cosa ci faccia male. Non sappiamo se domani ci sarà un terremoto. In questo mondo incerto, chiedere certezze assolute è una sciocchezza. Chi esibisce risposte certe è di solito il meno affidabile. Ma non per questo siamo nel buio. Fra certezza e totale incertezza vi è un prezioso spazio intermedio, ed è in questo spazio intermedio che si svolge la nostra vita e il nostro pensiero. Gestire queste conoscenze parziali è più facile se abbiamo idee chiare su probabilità e statistica.
Questo significa, per esempio, comprendere che una probabilità del 2%, cioè uno su cinquanta, che ci sia un terremoto all’Aquila la prossima settimana significa che è decisamente più probabile che il terremoto non avvenga, ma il rischio è lo stesso altissimo, e quindi richiede precauzioni. Nessuno si sognerebbe di prendere un aereo, se la probabilità che cadesse fosse il 2%, cioè se sapesse che in media si sfracella un aereo ogni cinquanta che partono. Il 2% è più o meno la probabilità di un evento maggiore valutata dalla Commissione Grandi Rischi prima del terremoto del 2009. In una società educata a pensare in termini statistici si potrebbe dire qualcosa di diverso che non: “Ci sarà un terremoto”, oppure “Non c’è pericolo: non ci sarà un terremoto”, oppure “Non sappiamo nulla sui terremoti”, tre alternative tutte sciocche. Sarebbe una società che non si farebbe abbindolare dai casi rari. Una società, con un potente strumento concettuale in più a disposizione. Per questo, dovremmo offrire una solida cultura di base di probabilità e statistica ai nostri ragazzi.

10.1.13

L’ e-commerce della droga? Funziona, vi spieghiamo come

Gabriele Martini (La Stampa)

Online è possibile acquistare decine di droghe sintetiche provenienti oltre che dal Nord America anche dalla Russia, dal Brasile e dai Pesi dell’Est Europa

Viaggio nei segreti del più grande sito di spaccio al mondo: l’ impunità è garantita


Come Scampia, più di Scampia. C’è una piazza di spaccio aperta 24 ore su 24, sette giorni su sette, dove migliaia di pusher vendono, impuniti, qualsiasi tipo di droga. Possibile? Sì, possibile. Provare per credere.

Il Paese dei balocchi per tossici è un sito internet. Si chiama «Silk Road», via della seta. Intendiamoci: arrivarci non è facile. Questo ebay della droga all’apparenza non esiste: se si digita l’indirizzo sul browser non si ottiene nulla. Ma il sito esiste, eccome. Sta nascosto in un angolo buio della rete: l’Internet sommerso, il «Darknet». Per entrare in questo mondo virtuale parallelo bisogna utilizzare «Tor», un software gratuito che rende anonima la navigazione. È lo stesso sistema che permette agli attivisti iraniani di scambiare informazioni o ai blogger cinesi di aggirare la censura. Si carica il programma e dopo pochi minuti il gioco è fatto: si naviga nell’immensa zona franca senza controlli né regole, dove nessuno sa chi fa cosa.

Silk Road sembra Amazon. Ci sono foto della merce, prezzi, tempi di consegna e recensioni dei compratori. Il logo è un beduino su un cammello. Da qualche mese sono sparite le armi. Bandite. Tutto il resto è lì, a portata di clic. Abiti contraffatti, medicine, sostanze dopanti, passaporti falsi, materiale pornografico. Briciole rispetto alle 4.400 droghe in vendita. La moda del momento sono le nuove sostanze sintetiche: 4-MMC e Crystal meth. Incolori, inodori e insapori. Preparate in modo artigianale, a volte si rivelano mix letali. Falciano giovani vite nelle periferie di Mosca, nelle discoteche di Ibiza e ai rave party sulle spiagge brasiliane. E’ lo sballo globalizzato: abbatte frontiere e viaggia in piccoli pacchi da un continente all’altro seminando dipendenza.

Su Silk Road i pagamenti avvengono in Bitcoin, la moneta elettronica che non lascia tracce. Si tratta di soldi virtuali generati automaticamente da una serie di computer in rete tra loro. Per comprarli basta una carta di credito. Si versiamo i Bitcoin sull’account ed ecco che tutto è pronto per l’acquisto, protetti dall’anonimato più assoluto. Molti spacciatori rifiutano di spedire ai nuovi arrivati. Non sempre il primo tentativo funziona: il rischio è finire nella lista nera dei «compratori sospetti». Ma conquistata la fiducia dei venditori, non resta che passare allo shopping. Dopo qualche giorno i pacchetti di droga arrivano a destinazione.
«Quello di Silk Road è un contesto smaterializzato, difficilmente aggredibile», ammettono gli investigatori. L’offerta di droga cresce con trend esponenziale. C’è chi spaccia pochi grammi di erba, ma c’è anche chi vende fino a un chilo di cocaina o centinaia di pasticche di ecstasy alla volta. Non sono numeri da piccoli spacciatori. Andrea Ceccobelli, Capitano del Nucleo frodi tecnologiche della Finanza, lancia l’allarme: «C’è il rischio concreto che la criminalità organizzata utilizzi questi nuovi canali. In altri Paesi sta già succedendo: in Russia da anni le mafie arruolano laureati in informatica». Carlo Solimene, direttore della Divisione investigativa della Polizia Postale e delle Comunicazioni, non si sbilancia: «Il fenomeno nel nostro Paese non sembra ancora particolarmente esteso». Sui trafficanti italiani il riserbo è massimo: «Posso solo dire – spiega Solimene – che ci sono attività investigative in corso».

In sei mesi il numero di venditori su «Silk Road» è più che che raddoppiato. Secondo uno studio della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, il volume d’affari nel primo semestre del 2012 è stato di 1,5 milioni di euro al mese. Sarà felice il misterioso amministratore del sito, che incassa una commissione del 6% su ogni transazione. Si fa chiamare «Dread Pirate Roberts» (come il simpatico pirata di un film fantasy). Definisce «eroi» i venditori. Da mesi l’Agenzia federale antidroga Usa gli dà la caccia. Inutilmente. Anche lui è un nickname su un sito che non esiste.

7.1.13

Come aiutarci

Gad Lerner (la Repubblica)

Dopo più di quattro anni di crisi ininterrotta, ciascuno di noi ha almeno un parente o un amico in difficoltà perché ha perso il lavoro; il traguardo della pensione appare distante; i figli restano a carico. Facciamo i conti con i problemi immediati del reddito venuto a mancare e col turbamento determinato da un inatteso cambiamento di status sociale. Senza contare i giovani, che ormai ci siamo abituati a sopportare precari per definizione. Come aiutarli, come aiutarci? Impossibile voltare le spalle: anche i fortunati hanno relazioni che li coinvolgono in un dramma fino a ieri vissuto privatamente, con vergogna; ma che ora s' impone dappertutto come esperienza da condividere. Come aiutarli, come aiutarci? L' urgenza degli interrogativi pratici non trova certo risposta nelle futuribili riforme degli ammortizzatori sociali propagandate nelle agende della campagna elettorale: sussidio di disoccupazione, reddito minimo garantito (o di sopravvivenza)... per ora sono solo chiacchiere. Intanto che si fa? Si calcolano i risparmi, la possibilità di sospendere il mutuo, quanto dureranno i soldi della liquidazione, ospitalità provvisorie, lavoretti-tampone, durata ulteriore delle spese universitarie, vendita di beni superflui. La società reagisce allo smottamento attivando spontanee reti di sostegno molecolare che naturalmente funzionano meglio là dove si erano distribuite in passato quote significative della ricchezza nazionale. Percepiamo di dover fronteggiare ancora a lungo una stagione di penuria. Quali che siano le previsioni "macro" degli esperti sulla crescita del Pil, vera e propria mitologica araba fenice, è la dimensione «micro» dell' economia che s' impone nella quotidianità delle persone. Fin troppo facile sarebbe ironizzare sul distacco fra questo dato esistenziale e le diatribe interne della politica (o dell' antipolitica). Più rilevante a me pare indagare le contromisure già in atto, dettate dall' urgenza, nei reticoli di un organismo sociale disomogeneo e sofferente ma tutto sommato consapevole di dover fare da sé. È chiaro che il compito prioritario della politica nel 2013 e negli anni a venire dovrà essere l' organizzazione di una risposta collettiva all' impoverimento causato dalla perdita del lavoro e dalle sofferenze che essa comporta. Anche in termini di lacerazioni familiari, oltre che di compressione dei consumi e sconvolgimento delle abitudini di vita. Il governo e la classe politica saranno chiamati a dedicarsi alla ricostruzione di uno spirito comunitario senza cui non c' è protezione sociale che tenga. Ma su quali energie vitali, su quale sensibilità civile potrà far leva la buona politica, per assolvere a un compito che si presenta immane in un' Italia che ha già visto l' 85% delle famiglie tagliare i consumi e perderà altre centinaia di migliaia di posti di lavoro nei prossimi mesi? Fu nel 1932 che Roosevelt si presentò alla società americana sconvolta dalla Grande Depressione cominciata tre anni prima come il leader intenzionato a «preoccuparsi dell' uomo dimenticato in fondo alla piramide economica», dichiarando la volontà di trasferire nella sfera politica l' impulso religioso della carità per porre fine all' «epoca dell' egoismo», dominata dai "sultani della proprietà". Roosevelt denunciava la "mancanza di comprensione dei principi elementari della giustiziae dell' equità" di cui si erano macchiati i detentori di grandi ricchezze; da ribaltare - in un' epoca di scarsità permanente - sotto forma di nuovo spirito pubblico: l' America doveva stringersi intorno ai suoi poveri e riorganizzarsi come società solidale nel New Deal. I suoi toni e i suoi argomenti nell' Italia contemporanea sarebbero forse tacciati di estremismo anticapitalista, ma esercitarono dentro alla crisi, che pure si prolungò drammaticamente per tutto il decennio, un effetto culturale straordinario: legittimarono uno spirito di resistenza che si fondava dal basso sul senso di comunità; più precisamente su una galassia di comunità riunitesi intorno alla cura dei soggetti precipitati nell' indigenza. Avvertiamo la mancanza di un tale impeto nel nostro discorso pubblico. Ma anche queste sono solo parole, suggestioni storiche. Meglio chiederci, allora, quali insegnamenti trarre dalle pratiche già in atto di auto-aiuto tra persone e famiglie in difficoltà. Per usare una parola antica e gloriosa del lessico cooperativo: restituiamo il valore che merita all' esperienza del mutuo soccorso. È vero che, un secolo dopo, in una collettività come la nostra che ha mitizzato il lusso alla portata di tutti e trasformato i bisogni in desideri di consumo, la disperazione sociale può dare luogo a reazioni inconsulte. Ce lo confermano i pellegrinaggi nei centri commerciali divenuti luoghi di ritrovo anche per chi ha essiccato la sua carta di credito (o non l' ha mai posseduta). Giungono come avvertimenti sinistri i saccheggi perpetrati da bande di giovani dropouts nei negozi di elettronica per impossessarsi dei tablets e degli altri status symbol, a Londra come in Argentina. E domani, chissà, forse anche nella nostra penisola: non c' è solo l' Italia degli operai licenziati e dei precari del pubblico impiego; siamo anche il paese dei forconi, dei clan, delle corporazioni, degli allevatori e dei camionisti affiliati a un sindacalismo intrecciato con poteri opachi. La sistematica delegittimazione dei corpi intermedi della nostra società - dalle strutture democratiche dei partiti all' associazionismo solidale fino alle organizzazioni di base del lavoro dipendente - ha lasciato un vuoto di cui oggi avvertiamo i danni. A chi rivolgersi, nel momento della necessità? Eppure l' aspirazione a una nuova socialità diffusa sta già esprimendosi, lontano dalla ribalta mediatica in cui predominano la politica e l' antipolitica. Intorno ai nostri amici e ai nostri parenti che hanno perso il lavoro si manifesta, con il bisogno, la pulsione spontanea a rigenerare comunità fra simili. Una nuova società più conviviale nella quale ritrovare il modo di aiutarci, la trasformazione delle sedi pubbliche mortificate dalla burocrazia in luoghi comunitari, non sono un' utopia ma una necessità vitale. Qui e ora, coinvolgendo le troppe energie rimaste a spasso. La politica potrà trarne insegnamento, ritrovare il senso della comune cittadinanza che nasce - nella penuria - dall' obbligo del mutuo soccorso.

11.12.12

Il partito del suicidio finanziario

Mario Deaglio (La Stampa)

Borsa che scende, «spread» che sale. Può sembrare una alchimia finanziaria lontana dalla vita di tutti i giorni, dai bilanci di imprese e famiglie. Purtroppo non è così, come abbiamo sperimentato negli ultimi cinque anni. Forse il modo migliore per rendersi conto dell’importanza di quest’infausta congiunzione consiste nel partire da una constatazione semplice e apparentemente incredibile: mediamente l’Italia deve restituire ai suoi creditori un miliardo di euro al giorno, domeniche escluse, ossia circa 300 miliardi l’anno per i prossimi 6-7 anni.

Come fa l’Italia a restituire somme così ingenti? Immediatamente prima della scadenza, «rifinanzia» il debito, ossia si fa prestare, con le aste sul debito pubblico, una somma all’incirca pari a quella in scadenza, con questa rimborsa Btp, Cct, Bot e quant’altro, giunti al termine della loro vita. Sono ormai vent’anni che l’Italia fa così e ha gestito tutto sommato in maniera soddisfacente, dal punto di vista finanziario, un debito enorme.

Grazie all’euro, il mercato ha a lungo attribuito il medesimo rischio al debito sovrano di tutti paesi della nuova moneta, e, per conseguenza, il costo di questo rifinanziamento è stato relativamente moderato.

In un certo senso ci siamo fatti scudo dei bassi tassi applicati ai tedeschi.

Dalla metà del 2011 le cosa sono cambiate, sotto la spinta delle crisi greca, irlandese, portoghese e spagnola: i mercati hanno cominciato a guardare dentro alle strutture finanziarie dei paesi debitori. E quello che hanno visto per l’Italia proprio non li ha soddisfatti. Per conseguenza, il rifinanziamento del debito ha cominciato a costarci molto più caro di prima. Si consideri che, per ogni miliardo preso a prestito dallo Stato italiano - e quindi per ogni giorno lavorativo - 100 punti in più di «spread» equivalgono a un costo addizionale di 10 milioni di euro. 500 punti di spread si traducono in un aggravio di circa 50 milioni al giorno, ossia 18 miliardi l’anno: per procurarseli, lo Stato deve tagliare le spese o aumentare le entrate. A luglio 2011 si profilò un’ulteriore complicazione: alle aste si presentarono assai pochi aspiranti compratori, divenne difficile, anche a tassi estremamente elevati, trovare chi, un giorno dopo l’altro, volesse prestar soldi allo Stato italiano.

Questo è il baratro finanziario in cui l’Italia non è caduta perché è riuscita contemporaneamente a ridurre lo spread e migliorare i propri conti pubblici. La minaccia è però sempre lì, una sorta di infezione in agguato che può attaccare il «sistema nervoso centrale» della finanza pubblica e far precipitare nel caos il paese in poche settimane.

Di fronte a questa situazione viene sussurrata, ma a voce sempre più alta, da alcune forze politiche l’eventualità di non pagare, di non restituire il debito in scadenza, una sorta di rinascita del «menefreghismo» di marca fascista che, in una canzonetta di quel regime, proponeva precisamente la non restituzione del debito («Albione, la dea della sterlina/ s’ostina vuol sempre lei ragione/ ma Benito Mussolini/ se l’italici destini/ sono in gioco può ripetere così:/ me ne frego non so se ben mi spiego»).

Il menefreghismo applicato al debito rappresenterebbe il suicidio finanziario, e non solo, del Paese per almeno tre motivi. Il primo - del quale si è avuto un segno premonitore con le forti cadute dei titoli bancari nella giornata di ieri - sarebbe rappresentato dal crollo delle banche, che hanno investito gran parte delle risorse finanziarie a loro disposizione precisamente in titoli del debito pubblico italiano, il cui valore precipiterebbe. Il secondo sarebbe la distruzione della cospicua parte dei risparmi finanziari degli italiani, investita in titoli statali. Il terzo sarebbe l’evidente difficoltà del Paese a trovare all’estero nuovi prestatori, dei quali avrebbe disperato bisogno.

L’Italia sarebbe costretta a riadottare la lira - o una nuova moneta nazionale - che si svaluterebbe immediatamente nei confronti dell’euro e del dollaro.

A questo punto, i risparmi non divorati dalla svalutazione del debito pubblico sarebbero distrutti da un’inflazione galoppante in quanto i prezzi dei beni importati andrebbero alle stelle, a cominciare da quelli dei prodotti petroliferi. Certo, le merci italiane ritornerebbero temporaneamente competitive, ma le imprese dovrebbero rapidamente rialzare i prezzi per l’aumento dei costi delle materie prime importate. La messa al bando dall’Unione Europea e la chiusura delle frontiere dei nostri partners alle merci italiane ne sarebbero ulteriori, possibili conseguenze.

Dietro al baratro finanziario si profilerebbe così un abisso economico-sociale, e quindi anche politico, un’eventualità della quale i cittadini devono prendere coscienza. Il segretario del Pdl, Angelino Alfano ha affermato che il suo partito non vuole «mandare il paese a scatafascio». A scatafascio però sicuramente andrebbe se il suo partito imboccasse la deriva populista, eco sinistra di un menefreghismo lontano e disastroso. Il che, allo stato degli atti, non sembra proprio di poter escludere.

3.12.12

L’età dell’abbondanza (di informazioni)

Prosegue il viaggio de «La Stampa»
nel nuovo mondo digitale per scoprire come la tecnologia sta trasformando le nostre vite e quali sono e saranno le sfide e le opportunità che offre a ciascuno di noi. Questa quarta puntata dell’inchiesta è dedicata
alla cultura e all’informazione.

Giuseppe Granieri (La Stampa)

Noi siamo i nuovi consumatori - ha scritto recentemente Craig Mod - siamo i nuovi lettori, i nuovi scrittori, i nuovi editori. Con questa affermazione, Craig, uno dei più affermati book designer e una delle voci più attente all’innovazione nel mondo dell’editoria, non dice una cosa nuova. Già nel 2005 Kevin Kelly, un altro gigante dell’analisi del mondo contemporaneo, aveva scritto su «Wired» che entro una decina di anni tutti scriveremo il nostro libro, comporremo la nostra canzone e produrremo il nostro film.

Se vogliamo provare a ricostruire il senso di una cultura che sta iniziando a funzionare in un modo nuovo, questa è una delle possibili narrazioni. La tecnologia, che per anni abbiamo trattato come una sottocultura per «appassionati di computer» - magari anche un po’ sociopatici - sta abilitando milioni di persone a produrre contenuti. Detto in un altro modo, i costi di pubblicazione e di distribuzione tendono a zero. E l’accesso ai prodotti culturali sta diventando più semplice ed economico.

Veniamo da secoli in cui l’informazione (in tutte le sue forme, anche più universali, dal libro alla notizia) era un bene scarso. Era costosissimo produrla e distribuirla, farla circolare fisicamente, dare ai cittadini la possibilità di incontrarla. Tutta l’industria culturale si era disegnata intorno a questo limite funzionale. Un canale televisivo costa, un giornale è una grande avventura imprenditoriale, il vantaggio competitivo di un grande editore era la capacità di distribuire fisicamente un libro in tutte le librerie.

Poi nel giro di pochi anni, straordinariamente pochi, questo modello è andato in crisi. È cambiato il nostro modo di informarci e di leggere, abbiamo fatto amicizia con YouTube, il giornalismo sta imparando dai blogger la grammatica della Rete. E si stima che l’anno prossimo, con la facilità di produrre e distribuire ebook, si pubblicheranno tra i 10 e i 15 milioni di libri.

La previsione di Kelly non era un gesto visionario. Già oggi, semplicemente inclusi nel sistema operativo dei computer, anche quelli più a buon mercato, abbiamo software che ci consentono di fare produzione video. E solo pochi anni fa uno studio di montaggio richiedeva investimenti per decine di milioni di vecchie lire. Oggi possiamo scrivere un romanzo, dargli la forma dell’ebook e distribuirlo in tutto il mondo in pochi minuti. «La pubblicazione - scriveva Clay Shirky qualche mese fa - è diventata un pulsante». Il tastino Publish che trovi su Amazon, il tastino Post che trovi sui blog. O il tastino Upload che ci propone Youtube.

Tecnicamente, dunque, possiamo farlo tutti. Quello che ci manca è il dominio dei linguaggi espressivi. Posso produrre facilmente un video, ma non è detto che io sappia farlo. Posso mettere in vendita il mio libro, ma non è detto che io sappia scrivere. Qui subentra un altro fattore critico: la maggior lentezza della cultura rispetto alla tecnologia. Ma - lo abbiamo visto accadere con i blog e con il self-publishing negli Stati Uniti - la Rete diventa una formidabile comunità di pratiche. Si osservano i casi di successo, si condividono dati e consigli, si guarda a ciò che fanno i migliori. E si cresce.

Così l’idea stessa di alfabetizzazione tende a diventare più complessa. In un mondo come quello contemporaneo, essere alfabetizzati non significa più solo saper leggere e scrivere. Significa, piuttosto, essere in grado di navigare tra le informazioni, di usare nuovi strumenti, di saper riportare su se stessi il ruolo di «mediazione culturale» che prima delegavamo ai pochi che erano abilitati a diffondere cultura.

In tempi veloci come i nostri, il purista è per definizione un conservatore. Siamo nel mezzo di una grande «volgarizzazione» della cultura. Ma non è una volgarizzazione che possiamo raccontarci con una trama simile a quella dell’invasione dei barbari. È un processo che non accade per la prima volta: la stampa, per esempio, deve essere sembrata una specie di macchina infernale agli amanuensi. Il problema, se vogliamo, è che la «ferraglia per stampare libri» ci ha messo secoli per cambiare la grammatica culturale e portare, per esempio, al pensiero scientifico moderno e all’illuminismo. E all’idea di enciclopedia, che è un grande tentativo di mettere ordine nella conoscenza.

Internet e le tecnologie digitali sono molto più veloci. In un battito d’ali hanno costretto l’intera industria culturale a inseguire nuove regole del gioco. E noi stessi, da almeno 15 anni, stiamo raccontando il cambiamento dopo averlo visto accadere. La Rete fa un lavoro semplice da descrivere, ma bellissimo e potente. Consente a chiunque di immettere innovazione da ogni punto. E ogni innovazione apre nuove idee, ci fa pensare che possiamo fare le cose in modo diverso o che possiamo fare cose nuove. E, per quanto abbiamo visto finora, se dai a milioni di persone la possibilità di far cose che prima non potevano fare, le persone le fanno.

La nostra cultura ha sempre lavorato verso le volgarizzazioni. Ha sempre cercato di essere più efficiente nella circolazione e nell’accesso alla conoscenza. Ciò che alla gente del tempo sembrava volgare (i romanzi a puntate sui giornali) per noi oggi è diventato un classico: vedi alla voce Balzac o Hugo. Poi, certo, nuove soluzioni portano sempre nuovi problemi, un po’ come la ricerca scientifica - alla fine - produce solo nuove domande. Così ci troviamo di fronte a un modello - quello dell’abbondanza - che mette in crisi diversi punti di riferimento con cui siamo cresciuti. L’abbondanza di prodotto culturale ci obbliga a cambiare il nostro approccio (siamo noi a scegliere cosa ci interessa quando ci interessa) e ci richiede capacità nuove, tutte da imparare.

Ma, soprattutto, ridefinisce l’idea del valore del prodotto culturale. Prima era scarso, e pagavamo il supporto. Oggi è abbondante e tendiamo ad aspettarci che costi sempre meno. Ma qui, a cascata, arrivano i problemi: come si pagherà il lavoro di chi produce cultura? Alcuni mesi fa, in un’intervista a La Stampa, l’editore americano Richard Nash spiegava che difficilmente nei prossimi anni si faranno soldi vendendo i contenuti. Non sappiamo se è vero. Ma la cultura sta cambiando e tutti noi dobbiamo essere capaci di pensarla in modo diverso, di produrla invece di inseguirla.

1.12.12

Dopo le primarie, reinventare la politica

Rossana Rossanda (sbilanciamoci.info)

Le primarie del Pd obbligano a riflettere. Prima di tutto sulla infondatezza del ritornello secondo il quale gli italiani ne avevano abbastanza della politica e dei suoi riti, sommo dei quali sembrano le elezioni. Più di tre milioni di persone sono andati a esprimere un parere su chi doveva essere il candidato sfidante della sinistra, istituzionalmente non più che una raccomandazione, e per un esito non scontato. Lo stesso fenomeno si era verificato in Francia, dove si attendeva un vasto astensionismo alle presidenziali, mentre la partecipazione è stata elevata. Se ai politici si deve rimproverare la scarsa vicinanza alla popolazione, non è che giornalisti ne sentano meglio il polso. La gente è ancora interessata alla politica, se ne emoziona ancora, la premia o la punisce, e alcuni di noi si ostinano a credere che se le si offrissero argomenti e ragionamenti più persuasivi di quelli che le scodellano le tv, sarebbe pronta ad accoglierli.
Secondo oggetto di riflessione sono i risultati: il bacino dell’ex Pci e delle sinistre, dal quale venivano i votanti, si è diviso in tre culture. Culture, non personaggi. Bersani, il più noto, è passato in testa, è prevedibile che vi resterà; ma si trova alla sua sinistra e a destra due personaggi fra loro diversissimi e diversi anche da lui. Certo non pacifici compagni di strada. Il più seguito, il sindaco di Firenze Matteo Renzi, è una versione inedita del populismo di sinistra in veste italica, anzi propriamente toscana; il populismo classico raccoglie e indirizza a destra lembi di popolo lasciati a margine dallo sviluppo, o furiosi per le scelte deludenti della sinistra, gente insomma che ha di che lamentarsi, mentre quello di Renzi è soprattutto un giovanilismo senza troppi interrogativi e senza complessi: spostatevi, vecchi e incapaci, e fateci posto. Non me la sento neanche di rimproverargli l’effetto che il giovanilismo fa a chi si ricorda “Giovinezza giovinezza” da piccolo, perché il fascismo aveva un carico di contenuti che Renzi non ha, salvo forse un certo disprezzo, ai limiti del turpiloquio anch’esso toscano. Per il resto il renzismo non vuol dire nulla, salvo una smania di cambiare il personale politico, resa dubbia dall’essere tutti e inevitabilmente circondati da giovani intelligenti e vecchi scemi o viceversa, praticamente in eguale misura. Il solo movimento generazionale che ha scosso la società è stato il 68.
L’altro sfidante di Bersani, Nichi Vendola, è uscito terzo con il 15 per cento dei voti, prova che una voglia di sinistra coerente c’è. Se quel 15 percento si esprimesse anche su scala nazionale sarebbe non poco. Ma che cosa occorre oggi per essere in grado di contare? Da Rifondazione sono piovuti su Vendola molti fulmini, come se fosse in partenza un traditore; ma bisogna ammettere che il piede messo dentro la porta non garantisce di per sé quel quindici per cento del peso politico che il governatore della Puglia si propone e del quale ha bisogno per reggere.
E questo per due ragioni di fondo, che nelle primarie non sono state troppo esplicitate. La prima è che la linea di Monti è un blocco compatto, non facilmente emendabile neanche sotto aspetti minori; la seconda è che non è chiaro se e quanto, una volta premier, Bersani la vorrebbe emendare. Fra i guai prodotti da Berlusconi è che ha permesso a molti di credere che un governo, liberato dalle sue illegalità e sozzure, sarebbe andato ovviamente a sinistra sul piano politico e su quello economico. Cosa niente affatto vera. Monti era esente da questo ordine di pattume e appunto con lui una destra nuda e cruda è uscita in tutto il suo, diciamo così, splendore. Monti è la versione italiana di Angela Merkel, è più intelligente di Cameron, e il suo progetto non presenta interstizi nei quali infilare un po’ di ammorbidente ovatta. Far rimandare il rimborso del debito o ringoiare l’art.18 non sono modeste varianti, e anche ammesso che Monti, magari da presidente della repubblica, non vi si opponga, il muro che chi le propone si troverà davanti è immediatamente l’Europa.
La schiera dei paesi del nord, quelli per intenderci virtuosi, è quella che comanda. Se a Monti è stata risparmiata la troika, cioè sentirsi le zampe dell’Europa monetaria direttamente addosso, non sarà risparmiata certo a Bersani. Un vero cambiamento d’indirizzo, almeno in senso keynesiano o socialdemocratico sul serio, implicherebbe un’alleanza dei paesi del sud, sorretta da una solida sinistra. Della quale non vedo traccia né in Portogallo, né in Spagna, soltanto l’alternativa di Syriza in Grecia. E in Italia? La domanda può essere espressa anche così: quanto è lontano Bersani dalla filosofia di Monti e della Merkel? Bersani non come persona ma come Pd, come ex Pds, come ex Pci – fin dove è andato nella mutazione subita ormai più di venti anni fa? Una mutazione ideale, prima ancora che politica, l’adesione all’inevitabilità del capitalismo e ormai anche l’incapacità di opporsi almeno alla sua forma liberista. Questo è il problema che Alberto Asor Rosa lascia in penombra. Contro il liberismo si sollevano, ora come ora, soltanto alcuni singoli, vecchi o giovani, un sindacato, i movimenti, le occupazioni, la collera della gente, ma i governi appena insediati smettono di vederli e, se li vedono, gli scagliano addosso polizia e manganelli.
Contro questa Europa sentiamo voci autorevoli, sia dagli Stati Uniti, sia da noi; ma, ahimè, isolate. Siamo lontani da quella lunga marcia all’interno delle istituzioni, fra le quali metto anche la cultura “democratica” dominante, di cui parlava Rudi Dutschke. Ma questo è il punto, già reso evidente dalla china rovinosa delle politiche europee, per il resto tutto da reinventare, e che va molto oltre una mera occupazione elettorale dei palazzi del potere.

28.11.12

La scuola è giusta? Paese al top

Cristina Taglietti (Corriere)

In Finlandia e Corea sistemi d'insegnamento opposti ma vincenti

I modelli sono Finlandia e Corea del Sud: sono queste le superpotenze dell'istruzione, come emerge da una corposa ricerca sui sistemi educativi di 50 Paesi, realizzata dall'Economist Intelligence Unit per la multinazionale dell'educazione Pearson. Lo studio viene presentato oggi a Londra e ha come obiettivo principale supportare politici, dirigenti scolastici e ricercatori universitari nell'individuare i fattori chiave di miglioramento della scuola.
L'idea è che, per quanto sia difficile da quantificare, c'è un collegamento evidente tra le conoscenze e le competenze con cui i giovani entrano nel modo del lavoro e la competitività economica di un Paese a lungo termine. Lo studio ha prodotto un database pubblico e open-source (da oggi consultabile al link http://thelearningcurve.pearson.com) che raccoglie oltre 60 indici comparativi da 50 Paesi: dati come spesa pubblica nell'istruzione, salari dei docenti, tasso di alfabetizzazione, raggiungimento del diploma e della laurea, tasso di disoccupazione, Pil e via dicendo.

La classifica, che vede l'Italia al ventiquattresimo posto, propone un nuovo parametro di valutazione, l'«Indice globale sulle capacità conoscitive e il raggiungimento del livello di istruzione», basato su test internazionali (quello dell'Ocs-Pisa, le valutazioni Timms e Pirls), ma anche dati nazionali sulla media di conseguimento di diploma e laurea. Hong Kong, Giappone e Singapore sono nelle posizioni più alte, mentre negli ultimi posti si trovano Messico, Brasile e Indonesia, pur essendo, queste ultime, economie in veloce via di sviluppo. I due Paesi al vertice della classifica, Finlandia e Corea del Sud, propongono due sistemi educativi completamente diversi: mentre quello coreano è rigido, basato su verifiche, test, apprendimento mnemonico e obbliga gli studenti a investire molto tempo nella loro istruzione (oltre il 60 per cento dopo la scuola segue lezioni private), quello finlandese è molto più duttile e soft: le ore di scuola sono inferiori rispetto a molti altri Paesi (in Italia il tempo passato sui banchi è superiore di tre anni), non vengono assegnati compiti a casa, viene privilegiata la creatività sull'apprendimento mnemonico.
Ciò che accomuna i due Paesi è l'importanza attribuita all'insegnamento. La ricerca evidenzia che entrambi danno grande importanza all'arruolamento e all'aggiornamento della classe docente (Finlandia e Corea del Sud scelgono gli insegnanti tra i migliori laureati). Entrambi fanno leva sul senso di responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi e sono caratterizzati da un'idea morale diffusa nella società che motiva docenti e studenti (in entrambe le società il rispetto per l'insegnante è considerato fondamentale).
D'altro canto l'importanza dell'insegnamento è l'indicazione principale che emerge dalla ricerca e si basa soprattutto sul riconoscimento del ruolo sociale, mentre il salario degli insegnanti sembra avere scarsa rilevanza sui successi scolastici e pochi collegamenti con lo sviluppo della capacità cognitive misurate secondo i test internazionali. Uno studio su due milioni e mezzo di americani ha stabilito che gli studenti che hanno avuto insegnanti migliori hanno più probabilità di frequentare college prestigiosi, guadagnano di più, vivono in quartieri di migliore status economico-sociale, risparmiano di più per la pensione e, addirittura, hanno meno probabilità di avere gravidanze adolescenziali.
Da un punto di vista generale, dice la ricerca, l'investimento economico sull'istruzione sembra sì importante nel raggiungimento di risultati positivi, ma ancora più importante è una cultura di supporto all'educazione. Non è un caso che, negli Stati Uniti, a seconda della cultura d'origine, ci sono forti differenze, per cui è statisticamente provato che studenti provenienti da famiglie di Hong Kong o Singapore fanno meglio di studenti che vengono dall'America latina o da Haiti. La questione dell'istruzione appropriata in vista di una futura crescita economica, in grado di offrire agli studenti gli strumenti per affrontare un futuro incerto sono il cuore di alcune riforme scolastiche sopratutto in Asia. Il fatto di anticipare, nella formazione, quelli che saranno i lavori di domani, ha fatto sì che il sistema educativo di Singapore, per esempio, fin dal 1997, sia passato da una forma di apprendimento tradizionale, con grande attenzione allo studio mnemonico, a una formazione che si basa su matematica, scienza e cultura generale combinata con l'apprendimento di come applicare le informazioni che si acquisiscono. I sistemi scolastici di alcuni dei Paesi che si collocano più in alto nella classifica si basano su un'enfasi maggiore sullo sviluppo di «creatività, personalità e collaborazione».
Dallo studio emerge che insegnare a lavorare in squadra, a interagire ed empatizzare con gli altri è la sfida della scuola di domani, tanto che un gruppo di lavoro che include i ministeri dell'Educazione di alcuni Stati stanno cercando di elaborare un metro di valutazione per queste abilità, che verrà introdotto nel programma di valutazione internazionale Pisa del 2015.

26.11.12

Un anno dopo, Monti e a capo

Rossana Rossanda  (da sbilanciamoci.info)

È giusto un anno che il parlamento italiano, auspice il presidente della repubblica, si è consegnato mani e piedi a un illustre “tecnico” e al governo da lui interamente scelto (se no non avrebbe accettato l’incarico) per smettere con le fanfaluche politiche e risanare i conti del nostro bilancio, primo fra tutti l’indebitamento. Si sa che la politica non è “oggettiva”, quando va bene risponde a una parte sociale, quando va male risponde a interessi privati, mentre la “tecnica” non guarda in faccia a nessuno, è neutra e, come il professor Monti ama ripetere, è assolutamente super partes.
Risultato? L’analisi di Pitagora, (“L'anno perduto di Mario Monti”, Sbilanciamoci.info 20 novembre 2012) ha dimostrato nel modo che più chiaro non potrebbe essere, che il nostro debito è aumento, crescita, occupazione ed entrate pubbliche sono calati. (E non parliamo del contorno di corruzione che sembra incrostato nelle nostre istituzioni, non è per colpa specificamente di questo governo). I fautori delle somme e delle sottrazioni contabili possono soltanto dirci: “È vero. Niente di fatto. Ma se non avessimo applicato questa terapia da cavallo chissà dove saremmo finiti. E avremmo dovuto chiedere un prestito accettando di passare sotto il controllo della troika, cosa che il nostro premier, essendo uno della stessa famiglia, ha evitato”. Dunque il debito è cresciuto ma politicamente a bocce ferme; l’equilibrio sociale fra chi ha e chi non ha non è stato toccato.
E invece no. L’essere Monti e il suo governo super partes, senza il fardello delle ideologie, ha preteso che alcune parti, che sarebbero state finora favorite, cioè i meno abbienti, abbiano pagato più delle altre, in soldi e diritti. Oggi siamo informati che il governo tecnico sta riuscendo ad abolire quel che nemmeno a Berlusconi era riuscito, il contratto nazionale di lavoro (la Cgil non è d’accordo, ma non importa, Cisl e Uil sì, ma era ovvio). Sarebbe stata la tecnica a esigerlo, rivelandosi curiosamente in feeling con la Confindustria. Il grimaldello per dare una botta decisiva al salariato, che si cercava di imporre già dagli anni ottanta del secolo scorso è stata la nostra competitività sui mercati, troppo debole per colpa dell’alto costo del lavoro (una volta si diceva lacci e lacciuoli). Il lavoro in Italia costa troppo, per via dei salari diretti e indiretti, imposti a tutte le aziende di tutto il paese; mentre se essi variassero fra le aziende prospere e quelle meno prospere, come sarebbe oggettivamente giusto, Costituzione e altre fantasie a parte, sarebbe a più buon prezzo. Se la contrattazione fra lavoratori e padroni venisse riportata per legge soltanto su scala aziendale, senza pari trattamento tra chi vende meno e chi vende di più, diventeremmo più competitivi. Non proprio come la Cina, sfortunatamente, ma si darebbe un bel colpo in quella direzione. Il paesaggio degli equilibri sociali si modificherebbe e i nostri prodotti costerebbero meno.
Non è entrato nella cultura del governo che ci sono due modi di essere competitivi, offrire prodotti a basso prezzo o offrire prodotti a migliore qualità grazie all’innovazione. Neanche tenendo conto che è il caso della Germania. Monti non segue la strada della sua amica Merkel e di qualcuno che la ha preceduta (perfino abbassando l’orario di lavoro), per cui oggi anche una povera diavola come me compra più volentieri una lavapanni tedesca, e non parliamo di merci di più elevata tecnologia. Ricordo come venticinque anni fa lo ripetesse Sergio Cofferati, e quanto poco il Pds lo stava a sentire. Sta di fatto che i conti non tornano e i lavoratori dipendenti sono stati e saranno ulteriormente penalizzati. Va da sé che i precari stanno ancora peggio – perfino i miti studenti della Bocconi hanno ululato contro il loro ex rettore in casa sua. Insomma la neutralità sociale della tecnica è sconfessata una settimana dopo l’altra.
Nel suo Dna sta un gene padronale. Il governo tecnico ammette una sola variante politica: non toccare gli abbienti, non tassare la rendita, non infastidire troppo la finanza, se no queste “parti sociali” se ne vanno verso altri lidi. Negli Stati Uniti perderebbero anche la cittadinanza, in Europa no. Vien da pensare che hanno ragione coloro che ci ammoniscono, badate che ormai l’economia è diventata più forte della politica. È lei che ha vinto, e ogni giorno azzanna qualche lembo di potere che pareva ancora del dominio politico, in soldi e diritti. È cosi? Non credo. I poteri che sono passati alla proprietà non sono stati strappati a mano armata ai governi; questi – finora espressione della politica – glieli hanno consegnati. E non sempre e solo i governi di destra; quando Cofferati trascinava con sé qualche milione di italiani al Circo Massimo il governo era di Berlusconi, ma quando Rifondazione ha fatto cadere un Prodi che stava andando in questa direzione, tutta l’Italia l’ha coperta di obbrobrio. Ma veniamo ad oggi: la famosa competitività sta spingendo sulla stessa strada anche il socialista Hollande, che non vi è ancora approdato come noi, ma su cui preme la tesi che, se si vuol fare soldi sui mercati, conviene abbassare il costo del lavoro, invece che migliorare, innovandolo, il prodotto. Del resto l’Europa monetaria e l’Organizzazione mondiale del commercio pretendono che gli stati possano legiferare sul costo diretto e indiretto del lavoro (su cui si pagano istruzione e sanità) ma non abbiano diritto di intervenire sugli investimenti. Se no dove va a finire la libertà d’impresa? La libertà dell’operaio o del salariato, come è noto, non è un problema.
E poi, che cosa è l’”economia”? Che ha a che vedere con la tecnica? Sempre di questi giorni è successo che la Francia ha perduto una delle sue tre A nel giudizio di quegli organismi tecnici e oggettivi che sarebbero le agenzie di rating, nel caso Moody’s. Ma quel che è successo ad altri paesi così severamente sanzionati – borse in convulsione, cadute, tassi sui prestiti alle stelle – non è successo affatto: le borse non hanno battuto ciglio e il costo del denaro, invece che salire di due cifre, è aumentato di due decimi di punto. Non dovevano essere penalizzati dalla mano invisibile del mercato? Com’è che la Francia e il suo governo, assai poco amato, se la sono cavata così a buon prezzo? È successo che la Germania finisce per trovarsi, con le sue tre A, sola fra le già grandi potenze fondatrici dell’Europa, in compagnia di Finlandia, Danimarca e simili. Strana Europa: Italia, Francia, Spagna disastrate assieme a Portogallo e Grecia, sana fra i fondatori solo la Germania, fulgida fra un mucchio di pezzenti. Immediato passo indietro, le A intere restano, ma nulla ne consegue. Meglio tenere per una manica la Francia fra i debitori di cui ci si fida, mollarle i soldi a un tasso più basso di tutta l’Europa del sud, una considerazione del tutto politica. La gretta Moody’s ha preso sul serio che la politica non conta, mentre l’economia è il respiro della società, libero o soffocato. Sono i governi a deciderlo; è sul territorio della politica, che ogni tanto – come da trent’anni a questa parte – perde la bussola.
In capo a due mesi, votata una finanziaria sicuramente montiana, il nostro presidente della repubblica scioglierà le camere, mandandoci alle elezioni che, come è noto, di tecnico e oggettivo non hanno niente, ridanno voce ai partiti e premono il pedale delle emozioni. La famosa ideologia riprende posto e si vedrà che cosa ha maturato nell’anno in cui è stata sotto la tutela del professore. Potrebbe, per esempio, ribaltare quell’occhio di riguardo che aveva per i più abbienti, e spostarlo verso i lavoratori, pensionati, precari, disoccupati; potrebbe essere questo il discorso della sinistra. Ma è verosimile? Il bifido Pd ha nelle sue tre anime due culture assolutamente montiane (o peggio) e una, quella bersaniana, di un montismo appena emendato. Una passione travolgente lo spinge verso il premier, che non vedrebbe male – ma come confessarlo? – mantenere il suo mandato o ancora meglio, dato che scade anche il presidente della repubblica, andare al posto di Giorgio Napolitano. Che cosa speri di ottenere Nichi Vendola salendo su questa barca non mi è chiaro. A sinistra del Pd si affollano sigle e candidati, impegnati a strappare uno strapuntino di minoranza, cosa del tutto legittima se dal medesimo riuscissero ad esprimere un programma, che non abbia da pretendersi ipocritamente oggettivo e super partes, e abbia il coraggio di dire da che parte sta. Per ora non vedo.
Noi, nel nostro piccolo di gente che non mira a essere deputato, abbiamo detto che siamo per un’Europa che faccia abbassare la cresta alla finanza, unifichi il suo disorientato fisco, investa sulla crescita selettiva ed ecologica, non solo difenda ma riprenda i diritti del lavoro. Non piacerà a tutti. Ma chi ci sta?

17.11.12

Guida a sinistra. Ora e sempre uguaglianza

Il filosofo americano spiega, in un nuovo saggio-conversazione, quale sia l’obiettivo politico per i progressisti di oggi

di Michael Walzer (La Repubblica)

Se la mia vita e il mio lavoro sono stati segnati da una passione politica, questa è l’egualitarismo: una profonda avversione a qualsiasi forma di gerarchia, all’arroganza che quest’ultima alimenta in chi sta al potere e alla deferenza e all’umiltà che incute in quanti occupano gli ultimi posti. Sono insofferente verso le pretese elitarie ovunque si manifestino, nelle organizzazioni di sinistra come nel mondo accademico. È difficile conservare la stessa passione per oltre cinquant’anni, specialmente se è una passione monogama (nel mio caso, la fedeltà alla sinistra).
La disuguaglianza è una caratteristica essenziale delle società capitaliste? Sì. Ma a ben vedere è stata prodotta da molti sistemi politici ed economici diversi, non solo dal capitalismo. La società feudale era gerarchica, e così pure quella romana, quella dell’antica Grecia e quella cinese. Si tratta di un modello ricorrente che assume forme diverse in tempi e luoghi diversi; una sorta di struttura gerarchica di base, tuttavia, è stata prodotta più e più volte nel corso della storia dell’uomo. Tanto che si è portati a pensare che il desiderio di differenziarsi, di raggiungere un certo status sociale, di essere migliori, più ricchi e politicamente più influenti dei propri vicini sia profondamente radicato nella natura umana. Robert Michels avanzò una teoria di questo tipo, sostenendo – sulla base dei suoi studi sulle organizzazioni socialiste – che vi sia una tendenza costante a creare forme di autorità e gerarchia persino all’interno di un sindacato o di un partito socialista. Non ho una teoria completa sulla natura umana, ma sono convinto che vi sia una sorta di desiderio ricorrente di differenziazione: per questo la difesa dell’uguaglianza è l’eterna missione della sinistra. Non è una battaglia; è una guerra infinita contro la disuguaglianza, la gerarchia, l’arroganza e le pretese elitarie. Le nostre organizzazioni non sono immuni da tutto ciò, per cui la lotta è al tempo stesso locale e globale; dobbiamo combattere nel nostro stesso campo, ma anche contro altre forze politiche. È importante riflettere sulla natura di questa guerra. In un certo senso, è quello che Irving Howe definì un “lavoro stabile”, riferendosi a una storiella ebraica. Questa: la comunità ebraica di una cittadina polacca incarica un tizio di stazionare all’ingresso dell’abitato in attesa del Messia, in modo che, quando lo vedrà arrivare, possa dire a tutti gli ebrei di prepararsi. Qualcuno chiede all’uomo: «E questo sarebbe un lavoro? Stare fermi in attesa della venuta del Messia?». Al che lui risponde: «Sì, è un lavoro. Il compenso non è un granché, ma è un lavoro stabile». Anche l’egualitarismo è un “lavoro stabile” e poco remunerativo. Al tempo stesso, ciò che ne garantisce di tanto in tanto la buona riuscita è una certa forma di instabilità. La lotta contro la disuguaglianza, le gerarchie e l’autoritarismo richiede momenti di insurrezione e mobilitazione popolare: basti pensare al movimento sindacale americano negli anni Trenta del secolo scorso, alle campagne per i diritti civili negli anni Sessanta o alle battaglie femministe nei Settanta. Momenti in cui particolari forme di gerarchia sono state sfidate da una sorta di esplosione di rabbia e ostilità; non mi riferisco necessariamente a un evento rivoluzionario, ma a un periodo di intensa attività politica. Ai miei occhi, la lotta per l’uguaglianza è un “lavoro stabile” inframmezzato da quei momenti di insurrezione, e non credo che assisteremo a cambiamenti in tal senso. Non esiste un traguardo utopico raggiunto il quale l’uguaglianza potrà regnare incontrastata per il resto della storia dell’uomo. Non è così che funziona. (…) Nel XIX secolo, lo Stato-nazione garantiva uno spazio di contestazione politica e la socialdemocrazia era una forza politica attiva in molti Paesi. Dov’è tale spazio nella società globale? Deve esserci, così come deve esserci un modo per sviluppare una socialdemocrazia internazionale in grado di contrastare il capitalismo globale, proprio come la socialdemocrazia del XIX e del XX secolo mise in discussione il capitalismo nazionale; ma non l’abbiamo ancora trovato. L’anti-globalizzazione è molto simile all’anti-industrializzazione del XIX secolo. Non credo che sia la giusta soluzione. La globalizzazione racchiude una grande promessa, ma comporta anche molti rischi. Per ora, si direbbe che il suo effetto a breve termine sia stato un aumento delle disuguaglianze sociali a livello internazionale. Ma la globalizzazione potrebbe anche favorire una maggiore uguaglianza, se l’Organizzazione mondiale del commercio e il Fondo monetario internazionale adotteranno politiche socialdemocratiche anziché neoliberali.
Quale forma dovrebbe assumere una socialdemocrazia globale? Purtroppo non esiste nulla di simile, neppure lontanamente, a uno Stato mondiale o a un governo politico globale. Il Consiglio di sicurezza e l'Assemblea generale delle Nazioni Unite sono assolutamente inefficaci, e questo è una parte del problema.
Quel che vediamo, però, è che lo Stato-nazione garantisce ancora, almeno in parte, la possibilità di adottare misure a tutela della propria comunità. Uno Stato giusto ed efficiente è molto utile. Ma occorre anche riflettere, per esempio, su come il diritto del lavoro internazionale abbia facilitato l’organizzazione di sindacati in Paesi come la Cina comunista. I sindacati indipendenti possono essere un fattore di uguaglianza nella misura in cui favoriscono un aumento dei salari e un miglioramento dei servizi sociali a beneficio dei lavoratori cinesi, oltre che lo sviluppo del mercato interno, riducendo il divario con i loro colleghi del Messico, dell’Indonesia o addirittura del Bangladesh. Così chi oggi cerca idee per la sinistra anche di questo, dei diritti globali dei lavoratori, non può non tenere conto.

13.11.12

Alle sbarre Dirceu, braccio destro di Lula

Condannato a 11 anni l'uomo forte  del primo governo di sinistra della storia in Brasile

  (Corriere)

RIO DE JANEIRO - E' stato l'uomo forte del primo governo di sinistra della storia in Brasile, il braccio destro di Lula, il compagno di una vita dell'ex operaio poi diventato un leader mondiale. José Dirceu, 66 anni, primo ministro tra il 2003 e il 2005, è stato condannato lunedì a quasi 11 anni di prigione per lo scandalo di compravendita di voti parlamentari che quasi travolse Lula. La condanna è assai dura e probabilmente Dirceu trascorrerà almeno una parte della pena in un carcere comune, a partire dal prossimo anno. Sentenza esemplare, e non solo per un Paese sudamericano a lungo considerato sinonimo di impunità nella politica.
L'OPPOSITORE - Dirceu è stato un giovane oppositore negli anni della dittatura militare, militanza pagata con il carcere e l'esilio. Ha fondato poi il Pt (Partito dei Lavoratori) insieme a Lula. Ma la Corte Suprema brasiliana non ha avuto riguardi: la sentenza parla di corruzione attiva e associazione a delinquere, e senza attenuanti per evitare il carcere. La vicenda risale agli anni del primo governo Lula, quando Dirceu era il ministro della Casa Civil, coordinatore dell'esecutivo, il “capitano della mia squadra”, lo definiva il presidente. Poiché il partito di Lula non aveva la maggioranza in Parlamento, a Dirceu spettava il compito di tenere i rapporti con i riottosi parlamentari della maggioranza per far approvare leggi e decreti.
IL DENARO - Anche con modi spiccioli, come foraggiarli di denaro per uso personale e per le rispettive campagne elettorali. Lo scandalo esplose all'epoca, e si venne a sapere che il Pt aveva messo in piedi un colossale riciclo di denaro che proveniva da banche e imprese pubbliche verso i parlamentari “amici”. Lo scandalo venne denominato “mensalão” perchè ai deputati veniva corrisposto un “regalo” mensile, e Lula riuscì a non esserne coinvolto solo perché tutti i coinvolti dichiararono che non ne sapeva nulla. La sentenza è giunta soltanto oggi per le lungaggini del sistema giudiziario brasiliano.
LA CONDANNA - Dure condanne, oltre per Dirceu, sono arrivate per José Genoino, all'epoca segretario del Pt e per il tesoriere Delubio Soares. José Dirceu, considerato una delle mente politiche più raffinate del Brasile, fu leader studentesco negli anni Sessanta ed entrò in clandestinità con la repressione militare. Arrestato, venne rilasciato quando i militari cedettero allo scambio chiesto da guerriglieri che avevano sequestrato l'ambasciatore Usa Charles Elbrick. Dirceu fu tra i 15 prigionieri politici rilasciati e si trasferì a Cuba. Dall'isola, tornò clandestinamente in Brasile dopo una plastica facciale, e visse con nome falso fino alla fine degli anni Settanta, quando giunse l'amnistia politica. Persino la moglie ignorava la sua vera identità. Poi la fondazione del Pt e la lunga marcia per portare Lula alla presidenza della Repubblica, avvenuta nel 2002 dopo tre tentativi. Vittima infine della sua stessa spregiudicatezza e dell'enorme potere che si ritrovò tra le mani dopo una vita passata ad inseguirlo con ogni mezzo.

4.11.12

L'alternativa Grillo, catastrofe annunciata

di EUGENIO SCALFARI

Beppe Grillo e la televisione: questo è il vero fenomeno che va studiato con attenzione perché è da qui che il Movimento 5 Stelle diventa un problema politico del quale le elezioni siciliane hanno dato il primo segnale.

La sera di giovedì scorso Michele Santoro ha dato inizio al suo "Servizio Pubblico" trasmettendo l'attraversamento dello Stretto di Messina del comico leader del populismo e dell'antipolitica dopo due ore di nuoto. Il "Servizio Pubblico" ha dedicato alla nuotata e al comizio effettuato appena toccata terra parecchi minuti e altrettanti e forse più al comizio successivo infarcito di parolacce ("cazzo", "coglioni" e "vaffa" punteggiavano quasi ogni frase).

L'ascolto ha avuto il 10,37 di share pari a 2 milioni e quattrocentomila spettatori; poi lo share è salito al 18 per cento restando tuttavia al terzo posto dopo Canale 5 e RaiUno. Non è moltissimo ma sono comunque cifre significative. Il fenomeno consiste nel fatto che Grillo non vuole a nessun patto andare in tv e rimbrotta, anzi scomunica, i pochi tra i suoi seguaci che trasgrediscono a quell'ordine.

Non vuole andare in tv perché sarebbe costretto a confrontarsi e a rispondere a domande e non vuole. Vuole soltanto monologare e se un giornalista lo insegue lo copre di contumelie. Quindi fugge dalla televisione ma le televisioni lo inseguono, lo riprendono, lo trasmettono. La Rete è gremita di video sul Grillo comiziante e monologante registrando milioni e milioni di contatti.

Conclusione: Beppe Grillo gode d'una posizione mediatica incomparabilmente superiore a quella di qualunque altro leader politico di oggi e di ieri. Una posizione che non gli costa nulla, neppure un centesimo, e gli garantisce un ascolto che si ripete fino al prossimo comizio del quale sarà lui a decidere il giorno, l'ora e il luogo. In Sicilia il suo candidato ha avuto il 18 per cento dei voti e il suo Movimento il 14. I sondaggi successivi al voto siciliano lo collocano attorno al 22 per cento. Quale sia il programma del M5S resta un mistero salvo che vuole mandare tutti i politici di qualunque partito a casa o meglio ancora in galera perché "cazzo, hanno rubato tutti, sono tutti ladri". Monti "è un rompicoglioni che affama il popolo". E "Napolitano gli tiene bordone". Sul suo "blog" uno dei suoi seguaci ha già costruito la futura architettura politica: al Quirinale Di Pietro, capo del governo e ministro dell'Economia Beppe in persona, De Magistris all'Interno, Ingroia alla Giustizia, Saviano all'Istruzione. Quest'ultimo nome sarebbe una buona idea ma penso che il nostro amico non accetterebbe quella compagnia. Per gli altri c'è da rabbrividire e chi può farebbe bene ad espatriare. Resta da capire perché mai alcune emittenti televisive si siano trasformate in amplificatori di questo populismo eversivo. Resta la domanda: perché lo fanno?

* * *
La risposta l'ha data una persona che ha un suo ruolo nella cultura italiana anche se ha sempre dato prova di notevole bizzarria (uso un eufemismo) intellettuale: Paolo Flores d'Arcais in un articolo sul Fatto quotidiano di qualche giorno fa intitolato "Matteo Renzi è pessimo ma io lo voterò" racconta le sue intenzioni delle prossime settimane. Nella prima metà dell'articolo dimostra, citando fatti, dichiarazioni e testi, perché Renzi a suo giudizio è quanto di peggio e di più lontano da una sinistra radicale e riformista.

Fornita questa dimostrazione Flores dice che proprio questa è la ragione per cui darà il suo voto nelle primarie del prossimo 25 novembre a Matteo Renzi: perché se Renzi vincerà il Pd si sfascerà e questo è l'obiettivo desiderato da Flores, il quale alle elezioni (così prosegue il suo articolo) voterà per Grillo. Ma perché? Perché Grillo sfascerà tutto e manderà tutti a casa o in galera, da Napolitano a Bersani ad Alfano a Casini, da Berlusconi a D'Alema a Bossi, fino a Monti, Passera, Fornero, Montezemolo... insomma tutti. La palingenesi? Esattamente, la palingenesi. E poi? Poi verrà finalmente il partito d'azione, quello vagheggiato dai fratelli Rosselli e da pochi altri. Verrà e sarà un partito di massa. Guidato da lui? Questo Flores non lo dice. E con chi? Ma naturalmente con Travaglio, con Santoro e con tanti altri che hanno in testa disegni così ardimentosi.
A me sembrano alquanto disturbati o bizzarri che dir si voglia, altro non dico.

* * *
Resta ancora in piedi il problema di Mario Monti e della sua cosiddetta agenda. Le Cancellerie europee e Obama (con un fervido "in bocca al lupo" per lui) lo vorrebbero ancora alla guida del futuro governo, ma la volontà degli elettori italiani non può esser condizionata da governi stranieri sia pure strettamente a noi alleati. Sulla sua credibilità l'attuale classe dirigente è interamente d'accordo, ma sulla sua agenda ci sono molte riserve. Quanto a Grillo la sua opposizione a Monti è totale. Faccio in proposito le seguenti riflessioni.

1. La credibilità di Monti è strettamente legata alla sua agenda, in parte già attuata in parte non ancora. Se il futuro governo dovesse smantellare la politica economica di Monti la credibilità dell'Italia crollerebbe con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. Un esempio per tutti: se futuri investimenti dovranno essere finanziati con un deficit di bilancio e quindi con un ulteriore aumento del debito pubblico, i mercati porterebbero lo spread ad altezze vertiginose con effetti devastanti sul valore del nostro debito, sulla solidità del nostro sistema bancario e sui tassi d'interesse.

2. Il fallimento della Grecia può essere sopportato sia pure con molte difficoltà dall'Europa ma l'eventuale default dell'Italia no, perché porterebbe con sé il fallimento dell'intera Unione. Quindi metterebbe in moto un vero e proprio commissariamento del nostro Paese o la nascita di un euro a doppia velocità nel quale noi saremmo relegati nel girone di serie B. Un disastro di proporzioni enormi, come o peggio d'una guerra perduta.

3. Lo Stato italiano ha assunto una fitta rete di impegni con l'Unione europea e li ha recepiti nella nostra Costituzione. Il mancato rispetto di quegli impegni sconvolgerebbe dunque non solo l'economia ma anche il nostro assetto giuridico e costituzionale.

Ce n'è abbastanza per concludere: in gioco non c'è Monti ma l'Italia. Esistono ovviamente margini di discrezionalità per accelerare il bilancio economico e l'equità sociale, ma il solo modo per renderli compatibili con la situazione esistente è di operare sulla crescita della produttività, su una ridistribuzione importante del reddito e della vendita di un parte del patrimonio pubblico. Non vedo altre vie per il semplice fatto che non esistono.

Occorre però che il futuro governo abbia il suo asse nel Centro e nella Sinistra democratica. Si chiama appunto centro sinistra, che unisca in unico disegno riformisti e moderati liberali. A Casini riesce ancora difficile congiungere la parola liberale con quella di moderato, ma bisogna che lo faccia intendendo per liberali non quelli di Oscar Giannino ma i liberal.

Ho sentito pochi giorni fa che Vendola dichiara come punto di riferimento per lui la politica del Roosevelt del 1933. Se questo è vero, il punto di riferimento italiano sarebbe Ugo La Malfa e quello francese Mendés France. Se così stanno le cose Vendola entri nel Pd, quello che nacque cinque anni fa al Lingotto di Torino e che Bersani attualmente rappresenta: un partito che, nel rispetto degli impegni europei, vuole costruire un Paese più produttivo, più equo e che abbia il lavoro come sua prima priorità. L'alternativa, se questo disegno fosse sconfitto, è chiara: ritorno alla lira, discesa del reddito reale a livelli ancora più bassi, disoccupazione endemica, mafie e lobby onnipotenti, democrazia puramente nominale. La scelta la farà il popolo sovrano e speriamo sia quella giusta.

28.10.12

Matteo Renzi è pessimo, quindi lo voterò

di Paolo Flores d'Arcais (Il Fatto Quotidiano)

Il programma di Matteo Renzi è pessimo, il suo stile insopportabile. Il 25 novembre alle primarie voterò Matteo Renzi, firmando anche il “giuramento” per il centrosinistra alle elezioni di primavera. Nelle quali invece, hic stantibus rebus, voterò Grillo. Non mi sentirò in contraddizione e meno che mai disonesto.

Infatti. Il programma di Renzi è pessimo: i diritti dei lavoratori, per i quali si batte ormai solo la Fiom, non esistono. Eppure se si vogliono le primarie, si dovrebbe volere pure il voto dei lavoratori per eleggere i delegati e approvare o respingere gli accordi sindacali. Ma Renzi è un fan di Marchionne stile curva-sud. Anzi era: ora che ha insultato Firenze fa l’offeso, finché calpesta gli operai va benissimo.

Renzi ciancia di tolleranza zero contro la corruzione, e anzi propone perfino il reato di traffico di influenze (lo fa anche la Severino) e il ripristino del falso in bilancio, ma lascia le pene nel vago, e resta il bonus di tre anni della famigerata legge bipartisan. Non una parola sull’abrogazione di tutte le leggi ad personam, sulla prescrizione dopo il rinvio a giudizio, su pene effettivamente deterrenti (cioè anni di galera effettivamente scontati) per l’autoriciclaggio, l’evasione fiscale e soprattutto l’intralcio alla giustizia, e sull’eccetera tante volte analiticamente esposto su questo giornale: la lotta alla corruzione resta grida manzoniana. Eppure le cifre di un solo anno di corruzione, evasione e mafie corrispondono alle manovre “lacrime e sangue” di un’intera legislatura. Ci sarebbero soldi sia per ridurre il debito pubblico, sia per aumentare il welfare (anziché ucciderlo), sia per ridurre le tasse.

Quanto allo stile, la democrazia avrebbe bisogno di vedere al suo centro il primato dell’argomentazione razionale, una sorta di illuminismo di massa, che faccia da antidoto ai veleni della politica spettacolo con cui la democrazia è stata inquinata fino allo sfinimento e alla degenerazione. Mentre lo stile di Renzi è media-set puro, un “format” di spettacolo replicato in ogni teatro con scenografie, spezzoni di filmati e un caravanserraglio di effetti speciali e battute ad effetto. Esattamente come lo spot con cui vendere un’auto o un profumo. Ma il voto non è una merce, la democrazia non è “consumo” ma cittadinanza attiva.

Perché allora votare questo Berlusconi formato pupo, che per soprammercato vuole turlupinarci parlando (di tanto in tanto) di “sinistra”? Perché la sua vittoria distruggerebbe il Pd, lo manderebbe letteralmente in pezzi, lo disperderebbe come un sacchetto di coriandoli. E in questo modo i milioni di elettori animati da volontà di “giustizia e libertà” e dall’intenzione di realizzare la Costituzione (tranne l’articolo 7, da abrogare), elettori che credo siano una decisa maggioranza nel paese, non sarebbero più imbrigliati, congelati, manipolati, usati dalla nomenklatura partitocratica (il Pd, ma anche Idv, Sel e residui rifondazionisti). Una situazione del genere sarebbe rischiosa, ovviamente. Ne potrebbe scaturire un peggio.

Ma a forza di “male minore” abbiamo un governo Napolitano-Monti che realizza una legge pro-concussori chiamandola “anticorruzione” e una legge-bavaglio che non era riuscita a Berlusconi.

Al ricatto del “rischio peggio” bisogna sottrarsi, perciò. Solo sulla tabula rasa del fu centro-sinistra potrebbe infatti nascere una forza “giustizia e libertà”, un “partito d’azione” di massa anziché d’élite, propiziato dalla Fiom, dalle testate non allineate, dai movimenti di opinione della società civile in lotta (e da tanti quadri locali del Pd, anch’essi “liberati”).

Quanto alla “immoralità” di sottoscrivere il documento del centrosinistra già programmando lo “spergiuro” di un voto per altra lista (M5S), credo sia venuto il momento di praticare in forma sistematica il cinismo costituzionale. L’articolo 49 stabilisce che i partiti sono un nostro strumento, quello tramite cui (strumento) i cittadini (soggetto) “concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. I partiti hanno rovesciato di fatto questo dettame costituzionale, sono diventati i padroni della politica, e noi i loro strumenti.

Vanno di nuovo strumentalizzati. Usandoli come taxi (lo teorizzava Enrico Mattei, ma da posizioni di potere, non di cittadinanza) e salendo secondo le nostre esigenze, visto che per la Costituzione i sovrani siamo noi.

26.10.12

Ultima fermata Dallas

Massimo Gramellini (La Stampa)

Dopo Silvio, anche J. R. ha fatto un passo indietro, precipitando in un burrone di sbadigli che ha costretto Canale 5 a sospendere la nuova serie di Dallas già alla seconda puntata. Ogni tanto la vita sa offrire coincidenze ineffabili. Chi fra voi è diversamente giovane ricorderà come la saga dei petrolieri texani abbia segnato il destino pubblico del Cavaliere. Prima di Dallas, un imprenditore in carriera come tanti. Dopo Dallas, il rabdomante dei gusti popolari che acquista uno sceneggiato americano rottamato dalla Rai e trasforma Canale 5 e se stesso in fenomeni televisivi di massa. Esagerando un po’, ma neppure troppo, senza Dallas non avremmo avuto il ventennio berlusconiano. Fu quel telefilm a lanciare la tv commerciale in Italia e a rieducare al ribasso i palati degli italiani, abituandoli al lusso volgare, alla ricchezza ostentata, al cinismo simpatico e agli altri stereotipi con cui la cultura pop degli Anni Ottanta ha innervato la proposta politica del berlusconismo.

La riproposizione, trent’anni dopo, di quei valori di sfrontato materialismo va letto come l’ultimo tentativo di restare aggrappati a un mondo della memoria. L’esito è stato inevitabilmente patetico. La seconda serie di Dallas, con i divi incartapecoriti che si muovevano fra giovani affamati di denaro e potere, restituiva l’atmosfera falsamente allegra di certe «cene eleganti» o, nei momenti peggiori, dei vertici di palazzo Grazioli. E la faccia liftata dell’ottantenne J.R. richiamava inesorabilmente quella che ieri, col sopracciglio sinistro ormai paralizzato dal bisturi, ha letto sul gobbo di una telecamera il suo testamento politico.

14.10.12

L'austerità e la rivincita di Keynes

di Fabrizio Galimberti (ilsole24ore)

«Le idee degli economisti e dei filosofi della politica, sia quando son giuste che quando son sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. In verità, son loro che governano il mondo. Gli uomini di azione, che si credono esenti da ogni influenza intellettuale, son di solito schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, che odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da scribacchini accademici di qualche anno fa…». Dure parole, queste di John Maynard Keynes. Ma son parole che tornano alla mente guardando al dibattito fra sostenitori dell'austerità e i sostenitori della crescita.
Il problema è questo. Quando una crisi economica colpisce un Paese, il suo bilancio pubblico ne soffre. Si tratta di una sofferenza "voluta", dato che con la crisi si riducono le entrate da una parte, e dall'altra aumentano le spese di sostegno al reddito. Il bilancio pubblico vira così "automaticamente" verso il deficit, e fa da baluardo all'involuzione del ciclo: una tendenza, questa, che si chiama appunto «stabilizzazione automatica». Questa virata verso l'inchiostro rosso dei conti è stata forte negli ultimi anni, che hanno visto la peggior crisi economica dagli anni Trenta. Il supporto all'economia è andato al di là degli automatismi: tutti i Paesi hanno preso anche misure discrezionali di supporto.

Ne sono risultati grossi disavanzi che sono appunto alla radice dell'attuale «crisi da debiti sovrani». Come fare per uscire da deficit e debiti? Le economie sono ancora deboli, e le misure ovvie - aumentare le entrate e diminuire le spese - rischiano di mettere sale sulle ferite della crisi. O no?
A questo punto si apre quel dibattito che avrebbe fatto cascare le braccia a Keynes. C'è - o, per fortuna, c'era - una scuola di pensiero dell'«austerità espansionista» che suona così: riducete il deficit e l'economia ripartirà, perché famiglie e imprese, confortate da queste «coraggiose» misure, ritroveranno fiducia e voglia di spendere: la maggiore spesa privata si sostituirà alla minore spesa pubblica e l'economia, alleggerita e salubre, ritroverà la via della crescita. Questa è stata specialmente la posizione della Germania. «Per i tedeschi l'economia è una branca della filosofia morale»: la battuta di Mario Monti evoca una governante arcigna che intende premiare la buona condotta e punire i cattivi, ignorando quel calcolo delle forze e delle resistenze senza il quale, come scrisse Massimo d'Azeglio, «neppure si fa girare la macina d'un mulino».

Le cose, come sappiamo, non stanno andando così. Nei Paesi dove è stata più forte l'austerità imposta da quella improbabile scuola di pensiero l'economia sta soffrendo di più. La polemica sull'eccesso di austerità si è riaccesa a causa di un capitoletto nell'ultimo World Economic Outlook del Fondo monetario. Il box, di cui è autore lo stesso capo-economista del Fmi, Olivier Blanchard, sostiene che i moltiplicatori fiscali sono stati sottostimati. Cosa vuol dire? Vuol dire che quando si prendono misure restrittive, per ridurre il deficit, mettiamo, di 100, si sa che l'economia ne sarà, in prima battuta, danneggiata, poco o tanto. E questo danno veniva quantificato in genere con un moltiplicatore di 0,5: cioè a dire, una riduzione del deficit di 100 riduceva il Pil di 50. Un sacrificio, dicevano i fan dell'austerità, accettabile se vale a riportare i conti sulla retta via. Ma cosa succede se invece il moltiplicatore è di 1,5? Se una riduzione di 100 del deficit riduce il Pil di 150?
Succede che il bilancio non si risana mai, perché il Pil minore riduce le entrate fiscali e crea disoccupazione, con le conseguenze che già sappiamo. E il Fmi ha appunto calcolato che, col senno di poi, i moltiplicatori fiscali possono essere stimati a livelli fra 0,9 e 1,7!

Tutto questo rappresenta una grande rivendicazione delle teorie keynesiane. Un tempo passate di moda, sono tornate in auge per la forza delle cose. Quando la Grande recessione ha colpito, tutti i Paesi hanno adottato risposte keynesiane: aumento del deficit di bilancio. Quando la casa brucia, è inutile discettare di aspettative razionali e altre digressioni teoriche: bisogna far lavorare gli idranti. E ora che bisognava affrontare la coda velenosa della Grande recessione - la crisi da debiti sovrani - il fallimento dell'austerità fine a se stessa è andato suonando come un'altra affermazione delle teorie keynesiane: ridurre la spesa e aumentare le entrate debilita l'economia, non la rafforza.
Ma anche questa affermazione è vera sempre e in tutti i casi? I sostenitori dell'austerità espansionista hanno sempre torto? Andrew Lo, un economista del Mit, affermò un giorno che «la fisica ha tre leggi che spiegano il 99% dei fenomeni, e l'economia ha 99 leggi che spiegano il 3% dei fenomeni». Per far funzionare l'austerità espansionista ci vorrebbero molte condizioni di contorno: la politica economica dovrebbe irradiare concordia e determinazione, spargere fiducia, comunicare sicurezza, rimuovere incertezza... Se i governanti europei non irradiano, non spargono e non comunicano, sappiamo perché l'austerità non funziona

1.10.12

In Italy, a comedian is getting the last laugh (Washington Post)

by Anthony Faiola (Washington Post)

PARMA, Italy — He looks like Jerry Garcia, jokes like Jon Stewart and says the world has nothing to fear from Italy’s funniest man. So why is Europe trembling from the political earthquake that is Beppe Grillo?
For answers, look no further than the TV comedian-turned-political phenomenon’s recent address in this ancient city renowned for wheels of Parmesan cheese and slabs of prosciutto, and now the epicenter of the “Grillo revolution.” Four months after his Five Star Movement swept into government here in a surprise victory that sent his national profile soaring, he stood in a town square and delivered a breathless tirade against “the forces” seeking to destroy Italian society.

In the country that could make or break the future of the euro with its next election, he described Germany and France as European paymasters who would bleed Italy dry. He called for a referendum on the euro and said Rome should follow in the footsteps of Argentina and Ecuador by suspending payments on the national debt. He called Mario Monti — Italy’s interim prime minister hailed by European leaders for pushing painful economic reforms on a reluctant nation — the “Rigor Monti,” a pun on rigor mortis, that is turning Italy into a corpse.

Last year, opinion polls showed support for Grillo’s movement hovering below 4 percent. But as he fills the political vacuum here, more recent surveys suggest that almost one in five Italians now back it, placing his movement only single digits behind the nation’s two leading parties in popularity. He is touting his Italy-first revolution from open piazzas across the nation, drawing inevitable comparisons to Benito Mussolini. But Grillo, whose left-leaning anti-corruption message more closely mirrors that of American liberal Michael Moore, says those who accuse him of echoing Il Duce are missing the point.
“They are calling me a populist, calling us Nazis, calling me Hitler, but they do not understand,” he said in an interview. “What is happening is that our movement is filling a similar space as the Nazis did in Germany or [nationalist Marine] Le Pen has in France. But we are nothing like them. We are moderate, beautiful people, and we are the only thing left standing between Italy and the real extremists.”

In populist company

Mired in debt, locked in a cycle of austerity and confronting a crisis of leadership, parts of Europe are facing a period of economic and political upheaval that some liken to the disenchantment of the 1930s, when the Nazis rose to power. Across the region, unconventional and unpredictable political forces are taking root. On the streets of broken Greece, the right-wing pseudo-militias of the Golden Dawn organization are menacing immigrants, racial minorities and political opponents. In Austria, the 80-year-old anti-euro billionaire Frank Stronach has 10 percent support in the polls despite not even having launched an official party. Over the past year in France and Finland, nationalists have posted their strongest election results ever.
But here in Italy, Grillo’s core followers are anything but a mob of Il Duce-loving extremists. Rather, his movement began in the mid-2000s as a group of netizens linked by social media and united by a shared disgust with Italian political elites, including chauffeur-driven lawmakers with criminal records and CEO-level compensation. Nevertheless, pundits see his rise as underscoring the political uncertainty in Italy that is quickly becoming one of the biggest wild cards of the European debt crisis.

In a nation that — unlike Greece — is considered too big to fail, last year’s emergency appointment of Monti, a technocrat and former university president, to take over for the sullied playboy Silvio Berlusconi was seen as Europe’s saving grace. Just as Italy was falling off a cliff, Monti forced through tough austerity measures that reassured investors and pulled Rome back from the brink.
Last week, Monti did not rule out continuing as prime minister if asked, though whether he would be depends largely on whether those who support him in Italy’s center-right parties win at the ballot box. But he added that he would not run as a candidate, effectively leaving the premiership up for grabs.

Even as Europe appears to be getting a grip on its three-year-old crisis, Italians in the coming months could open its most troubling chapter yet. They are ditching traditional political parties in droves, with the fracturing political landscape making the scenario of a weak, divided parliament or one skeptical of Monti’s reforms increasingly likely.

Grillo’s call for a referendum on the euro in Italy and his anti-austerity message put him in similar company as an array of populist leaders in Europe, including Le Pen in France, Stronach in Austria and Geert Wilders in the Netherlands. But although few — including Grillo himself — expect the wild-haired, acerbic comedian to rise to national office, political leaders say anything is possible in the current climate.
“Grillo represents a sort of blurring of the far left and far right,” said Massimo Franco, political columnist for Corriere della Sera. “He is a thermometer of Italy’s political temperature, and the success of a demagogue like him would send a dangerous message to our allies in Europe that credibility and sacrifice are no longer on Italy’s agenda.”

Transition to activism
 
Yet, to a segment of Italians, the funny man and anti-corruption crusader from the musty port of Genoa has seemed almost prophetic. In September, a scandal broke over allegations that local lawmakers from Berlusconi’s People of Freedom party embezzled funds and hosted lavish toga parties. Leaked images of party elites being fed grapes and cavorting in pig masks with women only seemed to prove Grillo’s point that Italy’s political class is morally bankrupt and beyond salvation.
Enter Grillo. The 64-year-old comedian rose to national fame in the 1970s and 1980s. His lampooning and disrespect of the political class led to his blacklisting by state television in 1987. When Italy’s then-Prime Minister Bettino Craxi, a Socialist, was on a visit to China, Grillo joked that a party colleague had queried of Craxi: “If all the Chinese are socialists, too, who do they steal from?”
Today, the father of four from two marriages, including his current one to a half-Iranian wife, lives in Genoa in a gracious villa befitting a man who became one of Italy’s best-known celebrities.
The funny man transitioned to full-fledged activism in the 2000s, launching a popular blog (200,000 hits a day) and forming a Web-based community that held “revenge” protests in which the public gathered to chastise traditional politicians.

After winning a series of minor victories in local elections, Grillo’s movement harnessed the economic crisis as an issue, scoring its biggest victory in May, when its candidate won the mayoral seat in Parma, a city of about 413,000. Victory came despite the party’s decision to reject state funding for political parties, instead operating the mayoral race on a shoestring budget of $7,500 raised through T-shirt and book sales and the aid of Grillo’s personal fortune.
Qualms have arisen since then. With the movement as shocked as anyone by its success, it took the new mayor, former computer technician Federico Pizzarotti, about 40 days to pull together a working cabinet. Though pundits in the city say it is too early to tell whether the party can deliver on its promises — including a pledge to stop a new incinerator from opening — it is also too early to determine whether it will fail.

Pizzarotti may be mayor, but Grillo is the star of the show. Grillo’s growing popularity and strong skepticism about the euro are sending jitters through Europe’s political establishment. On a visit to Italy last month, Martin Schulz, the German socialist and president of the European Parliament, said, “I think it is more dangerous when comedians become politicians than when politicians go to see a comedy.”
In an interview, Grillo called himself the “spokesman,” rather than the leader, of a freethinking movement. But the strongest accusations yet that he brooks no dissent in the organization surfaced recently. Giovanni Favia, 31, a regional council member from the movement, was caught off-camera complaining of a lack of freedom to act independently within the movement. In response, Grillo cut off all contact with Favia. The young council member said he has since received death threats from the movement’s followers, including one posted on Facebook saying he should have his throat slit in public.
Yet even Favia says he still sees Grillo as the only instrument in Italy capable of ushering in real change.
“He is the only one brave enough to break the grip of the old parties,” Favia said. “The figure of Beppe Grillo is a necessity if Italy is going to be a different place.”