15.4.09

Il dopo terremoto. Ricostruire senza deroghe e condoni

La Provincia Pavese, mercoledì 15 aprile 2009

Terremoto. Day after. Dopo una simile catastrofe resta ben poco da dire. Alla distruzione e ai morti si aggiunge la tragedia umana dei sopravvissuti. Tutti, senza distinzioni di credo o colore politico, partecipano al cordoglio, tutti si danno da fare. Società civile e volontariato sono a pieni giri e Berlusconi, con l'orgoglio tipico delle mentalità autarchiche, rifiuta aiuti dall'estero.
A noi, che siamo altrove e in una zona sismica relativamente sicura, non resta che sperare in una rapida ricostruzione perché è questo che vorremmo se avessimo perso la nostra casa, i nostri ospedali, le nostre scuole. Purtroppo sappiamo che non è stato così dopo altri terremoti. Allo stesso modo sappiamo che altrove, in Giappone ad esempio, scosse sismiche di simile violenza non hanno gli stessi effetti e lo stesso numero di vittime. La ragione è semplice: si fa prevenzione. I terremoti non saranno prevedibili, come continua a sottolineare stizzosamente Bertolaso - personaggio abbastanza discusso - in sintonia con la maggioranza degli esperti. Però una settimana prima Giampaolo Giuliani, ricercatore e tecnico di fisica dei laboratori dell'Infin del Gran Sasso - non un rabdomante dunque - aveva messo in guardia sul rischio. Lo hanno ridicolizzato ed indagato per procurato allarme. In realtà, da quel che è dato capire, non si sarebbe potuto fare granché comunque. Non avendo certezze di ora e di luogo non sembra attuabile l'evacuazione preventiva di vaste zone densamente popolate. Da qui a tranquillizzare la popolazione sostenendo che non ci sono pericoli ce ne corre. I pericoli nelle zone sismiche ci sono sempre, si sa, e l'unica possibilità è una seria prevenzione. Il citato Giappone costruisce da tempo case antisismiche. A Pavia c'è un centro di ricerca universitario d'avanguardia che studia la resistenza delle strutture, riproducendo terremoti in laboratorio. Edificare case a basso rischio di crollo si può. Perché non lo si è fatto in Abruzzo dove a cedere non sono stati solo edifici medioevali, ma anche costruzioni recenti? Siamo alle solite. Da noi si vagheggia di arditi ponti sullo stretto di Messina (zona sismica quante altre mai!), ma poi non si rispettano neppure le leggi esistenti per costruire in modo sicuro, permettendo deroghe e condoni in cambio di bustarelle e voti. Patti scellerati tra una popolazione abituata ad arrangiarsi, avidi speculatori, costruttori senza scrupoli e un ceto politico-amministrativo colluso con ogni fonte di facile guadagno.
Ci vuole ottimismo per aver fiducia che le cose cambieranno nell'immediato futuro. Più facile prevedere che alla prossima catastrofe si ripeterà la medesima corsa alla solidarietà, seguita da polemiche, accuse, controaccuse e sfilza di buoni propositi.

brizigrafo

12.4.09

UNA CHANCE ECOLOGICA PER IL LIBRO - INCHIESTA/3

di Maria Teresa Carbone

Piccoli editori OLTRE LA CRISI
La congiuntura economica si combatte con le armi di buoni progetti editoriali: una veloce ricognizione sul campo dell'editoria minore, i cui protagonisti confermano come il libro sia un bene-rifugio, non colpito da forti flessioni
Per raccontare come i piccoli editori in Italia fanno fronte alla crisi, si potrebbe, prendendo le cose alla lontana, partire da Giuseppe e dal sogno delle vacche grasse e delle vacche magre. Siamo, come si ricorderà, nel primo libro della Bibbia, la Genesi, e Giuseppe, figlio prediletto di Giacobbe e per questo detestato dai fratelli, è stato venduto come schiavo. Per una serie di vicende tutt'altro che marginali Giuseppe si è ritrovato innocente in un carcere egizio, dal quale uscirà presto grazie alla sua capacità di interpretare un sogno del Faraone: «Salirono dal Nilo sette vacche, belle di aspetto e grasse e si misero a pascolare tra i giunchi. Ed ecco, dopo quelle, sette altre vacche salirono dal Nilo, brutte di aspetto e magre, e si fermarono accanto alle prime... Ma le vacche brutte di aspetto e magre divorarono le sette vacche belle di aspetto e grasse». Giuseppe non solo decodifica il sogno, annunciando che l'Egitto avrà sette anni di prosperità, seguiti da sette di carestia, ma - ed è quello che qui conta - suggerisce una soluzione per affrontare le avversità: nella fase delle vacche grasse si preleverà un quinto del raccolto, da utilizzare come riserva negli anni difficili, gli anni della crisi, appunto.
Esercizi di storica prudenza
Ora, non è dato sapere se i piccoli editori italiani abbiano nel ventennio scorso riletto con profitto la storia di Giuseppe, ma - per intelligenza e per intuito e magari per una dose di fortuna - tutti o quasi tra quelli che abbiamo interpellato hanno saputo costruirsi un tesoretto più o meno cospicuo (di autori, di titoli e in certi casi di denari sonanti) che consente loro di guardare agli anni delle vacche magre con un atteggiamento certo preoccupato, ma almeno all'apparenza meno timoroso di quello di tanti responsabili delle grandi case editrici.
Parlano volentieri, questi editori «non grandi», anche perché con lo stato di crisi - cioè con la necessità quotidiana di operare, a causa delle dimensioni ristrette, secondo rigide scale di priorità - convivono da sempre, e hanno sviluppato la reattività dei piccoli animali costretti a condividere il territorio con giganteschi predatori. Ora, osservando lo spaesamento dei tirannosauri, sono incerti se temere mortiferi colpi di coda o se invece proprio la recessione scombinerà le carte e rappresenterà per loro, i piccoli, un terreno di riequilibro, se non di riscossa. Anzi, Marco Cassini, direttore editoriale di minimum fax e recente autore per Laterza di un volumetto, Refusi, che descrive molto bene i patemi e le gioie di un piccolo editore, parla esplicitamente di una nuova «ecologia» del mondo editoriale, soprattutto se si riuscirà a far passare quella legge, tante volte annunciata e sempre svanita nel nulla, che determini per i libri un prezzo fisso, o se non altro precisi limiti di sconto, mettendo al riparo le sigle indipendenti dagli effetti rovinosi delle campagne promozionali dei grandi.
«Per noi piccoli sostenere una situazione del genere è davvero complicato, e l'unica strada che possiamo battere è quella delle alleanze», afferma Ginevra Bompiani, direttore editoriale di nottetempo, che difatti insieme ad altre case editrici di dimensioni più o meno esigue (e con il sostegno ovviamente caloroso delle librerie indipendenti) sta tessendo una rete di contatti e di iniziative appunto per riesumare, e far finalmente approvare, la legge sul prezzo dei libri.
Ma soprattutto, la crisi vista dalla parte dei piccoli editori sembra fornire l'occasione per mettere meglio a fuoco il progetto su cui ognuna di queste sigle ha costruito la sua storia e la sua personalità, perché proprio il progetto coincide poi, in sostanza, con il patrimonio accumulato tenacemente e faticosamente negli anni delle vacche grasse. Così Daniela Di Sora, direttore editoriale di Voland, spiega di avere finora avuto segnali solo indiretti della crisi, un po' perché «venivamo da un anno pessimo per problemi di distribuzione e il fatto di averli risolti ci ha aiutato molto», ma soprattutto perché a febbraio (e come ogni febbraio) è uscito l'ultimo romanzo di Amélie Nothomb, vero e proprio tesoretto della casa editrice romana con la quale l'autrice franco-belga ha instaurato un rapporto di stima consolidata.
Ragion per cui, dice Di Sora, «sebbene i segnali di crisi non manchino (per esempio siamo stati subissati di curricula mandati da persone, anche capaci, che si erano ritrovate a corto di lavoro), possiamo affrontare i prossimi mesi con relativa calma: così abbiamo deciso di limitarci a rinviare la pubblicazione di due testi all'anno prossimo. Anzi, essendo convinta che in casi come questi, o chiudi o rilanci, ci siamo procurati tre titoli forti su cui puntare nel 2009: un saggio autobiografico di André Schiffrin, che parla proprio di editoria e uscirà a maggio, per la Fiera del libro di Torino, un romanzo di Esther Freud e una Guida della Parigi ribelle».
Se il gruzzolo di Voland si chiama Amélie Nothomb, quello di e/o si incarna in uno volume leggero, L'eleganza del riccio, della francese Muriel Barbéry, che con le sue quasi ottocentomila copie vendute in Italia ha consolidato l'appartenenza della casa editrice romana a una «fascia media», che si sta facendo sempre più affollata. «In effetti - nota Sandro Ferri, direttore editoriale di e/o - dopo una lunga immobilità qualcosa si sta muovendo nel mercato editoriale italiano : nell'arco degli ultimi anni, o addirittura degli ultimi mesi, case editrici come la nostra, ma anche come Sellerio, con il fenomeno Camilleri, o come Fazi, con i vampiri di Twilight, si sono ritrovate in una dimensione nuova, che presenta indubbi vantaggi, ma anche problemi non da poco, perché dobbiamo competere con le majors, senza averne le disponibilità finanziarie». Abituata a long seller come Cassandra di Christa Wolf o I giorni dell'abbandono di Elena Ferrante, che avevano superato la soglia delle centomila copie vendute, ma nell'arco di anni, e/o - nella persona di Ferri - non sembra incline a farsi travolgere dall'euforia: «Certo, il dopo-Barbéry ci permette di affrontare la crisi - che comunque c'è e si sente - con relativa tranquillità. Ma questo in sostanza vuol dire che possiamo continuare a pubblicare i nostri libri, quelli per cui i lettori hanno imparato a conoscerci, senza tagliare la programmazione. Del resto, nonostante le pressioni in questo senso, non ci eravamo gonfiati a dismisura e abbiamo mantenuto una media più o meno costante di circa venticinque novità l'anno». E dunque, gli autori su cui e/o punta in questo vero o presunto annus horribilis sono poi gli «autori di casa», Massimo Carlotto che dopo qualche anno torna con un nuovo caso dell'Alligatore o l'algerino di lingua italiana Amara Lakhous, protagonista a suo tempo di un piccolo caso editoriale con Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. «Più che usare il ricavato dell'Eleganza del riccio spendendolo in anticipi stratosferici, preferiamo investire nella qualità, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con le librerie», osserva il prudente Ferri.
Autori, anzi autrici, di casa anche per nottetempo, che conta molto sull'uscita, a settembre, del nuovo libro di Milena Agus, forziere della sigla romana con Mal di pietre. E altre scrittrici italiane promette nell'immediato futuro Ginevra Bompiani, convinta, come i colleghi, che la strategia migliore consista nel non snaturarsi, ma cauta nell'azzardare previsioni: «Non so se quella che abbiamo davanti è la crisi, o la paura della crisi. Nel nostro caso, in autunno le librerie avevano ridotto gli ordini, tranne poi accorgersi che avevano sbagliato i calcoli, costringendoci a rapide e costose ristampe. Del resto, la Fiera della piccola editoria in dicembre a Roma è andata benissimo e così poche settimane fa il Salon du Livre a Parigi, a dimostrazione che il libro è un bene-rifugio, che costa poco e nei momenti difficili non subisce flessioni. C'è solo da sperare che anche le catene di librerie, i distributori e i grandi editori si rendano conto che la politica del bestseller ad ogni costo è un vicolo cieco, che serve solo a inquinare il mercato».
Malgrado la prepotenza dei grandi
Per minimum fax l'antidoto alla crisi si chiama Revolutionary Road, che con le sue quasi trentamila copie vendute da gennaio, grazie anche al film uscito in parallelo, permette a Marco Cassini di guardare al 2009 senza affanni (anche se il graduale passaggio a Einaudi dei libri di quello che è stato finora il nome-bandiera della casa editrice, Raymond Carver, «non ci fa certo piacere»). In genere Cassini è persuaso che nelle fasi di crisi i lettori si privino solo dei libri «superflui», un fatto questo che danneggerebbe i grandi editori, propensi a pubblicare opere dalla vita breve, e premierebbe i piccoli, che hanno, come si diceva, un «progetto». E a chi gli fa notare che forse questo è un pio desiderio, più che un dato di fatto, il direttore editoriale di minimum fax segnala che per la prima volta le classifiche dei libri più venduti comprendono, accanto ai giganti editoriali, diversi titoli usciti per sigle piccole, un tempo escluse dalle top ten. Così, naturalmente, il libro forte dell'anno sarà, accanto a un nuovo romanzo di Richard Yates finora inedito in Italia, una antologia in puro stile minimum fax, Anteprima nazionale, racconti sull'Italia del futuro, come la vedono gli scrittori più o meno «giovani».
E non può che puntare sul suo tesoro, un catalogo tutto costruito sulla migliore letteratura scandinava, e nordica in generale, Emilia Lodigiani, direttore editoriale di Iperborea, che nei prossimi giorni manderà i suoi libri a «Caffè Amsterdam», il Festival della letteratura olandese in corso dal 15 aprile a Milano. «Noi ragioniamo su tempi lunghi, se non altro perché le traduzioni dallo svedese o dal finlandese non si improvvisano in pochi mesi, ma guarda caso abbiamo già pronta la nostra misura anticrisi, una collana di gialli e noir nordici che uscirà a settembre, e che segna la nostra entrata nel campo della letteratura di genere, un'entrata tardiva ma caratterizzata da titoli di grande qualità che si inseriscono benissimo nel nostro catalogo».
In questo coro misuratamente ottimista, suona dissonante la voce di Marco Vicentini, della padovana Meridiano Zero, che prevede a breve termine «un ulteriore sfoltimento del panorama editoriale, con chiusura di diversi piccoli editori e ridimensionamento dei medi, la chiusura di tante librerie indipendenti.» Previsioni fosche, che non impediscono a Vicentini di cercare di «tamponare» la situazione («sulle misure anticrisi sono scettico») aprendo il suo catalogo, finora centrato soprattutto sul noir, anche alla musica e puntando sui tascabili. Tradotta in altri termini è quella che Vincenzo Sicchio, direttore editoriale della minuscola sigla di audiolibri Full Color Sound, ha definito spiritosamente «la strategia Coco Chanel» - oggetti di qualità a buon mercato, che nel suo caso cercheranno addirittura di espugnare uno dei fortilizi più difficili e più ambiti, l'edicola.
ilmanifesto.it

9.4.09

L'editoria malgrado la crisi - INCHIESTA/2 -

di Francesca Borrelli

IL MERCATO DEL LIBRO PASSA PER QUESTE PORTE
Alcuni tra i responsabili della editoria maggiore parlano degli effetti razionalizzanti della attuale congiuntura economica. La messa in scena delle aste selvagge, con cifre a sei zeri e tempi di scelta dei titoli ridotti a poche ore, è finita. All'altro capo della filiera, però, si accentua la tendenza delle librerie a fare ruotare l'esposizione dei libri a una velocità proibitiva, danneggiando sia i piccoli editori che i lettori
Nel mondo dell'Ancien Régime successe all'editoria qualcosa di simile a quel che oggi accade nel sistema immobiliare: la prima crisi libraria, a Rivoluzione appena scoppiata, coincise in fondo con una crisi finanziaria, perché la maggior parte degli affari era condotta a credito e una parte notevole delle entrate di una impresa poteva essere costituita da cambiali commerciali, effetti all'ordine e lettere di cambio. Lo spiega Frédéric Barbier nella sua Storia del libro. Dall'antichità al XX secolo (Dedalo 2004), commentando il pericolo che era a quel tempo all'ordine del giorno. «Ebbene, non soltanto questi effetti circolano con firme di credito sulle quali non è sempre possibile avere informazioni precise, ma il fallimento di un attore abbastanza importante può far vacillare, con una reazione a catena, tutto l'equilibrio finanziario della catena.»
Sono passati più di due secoli e le minacce che oggi affliggono il mondo dell'editoria sembrano essere di tutt'altra natura. Certo è che tra i due estremi del book on demand, ossia il libro in una sola copia stampata su ordinazione e il mercato dei bestseller, ovvero i libri che superano le 30.000 copie vendute, l'industria editoriale ha conosciuto cambiamenti più forti negli ultimi quindici anni di quelli avvenuti lungo tutto il corso del XX secolo.
Radiografia del dopo Schiffrin
La fotografia della situazione al tempo stesso più avvincente, e più puntuale ce la restituì, alcuni anni fa André Schiffrin in due suoi pregevoli libri - Editoria senza editori, 2000 e Il controllo della parola, 2006 (entrambi di Bollati Boringhieri) quando si propose di seguire la parabola del libro e il suo rapido passaggio da prodotto di una attività di carattere artigianale a concentrato di profitti perseguiti da marchi editoriali via via assorbiti dai grandi gruppi internazionali. Le conseguenze più evidenti che Schiffrin denunciava erano la rinuncia a un progetto culturale, le scorciatoie nella acquisizione del prestigio realizzate saccheggiando i cataloghi altrui, l'accaparramento di autori della concorrenza a suon di anticipi, e soprattutto la rincorsa a margini di profitto tradizionalmente estranei al mondo dell'editoria: se una volta si limitavano al 4 per cento, oggi si pretendono tra il 12 e il 15 per cento. «Contrariamente a ciò che ci si vorrebbe far credere, il controllo dei media e del nostro modo di pensare da parte dei grandi gruppi non è una ineluttabile fatalità legata alla globalizzazione, bensì un processo politico al quale ci si può opporre, e con successo»: così André Schiffrin concludeva, circa quattro anni fa, il suo ultimo pamphlet.
Sul fronte dell'editoria, la battaglia è da tempo ingaggiata: ne sono protagoniste le più valide tra le piccole case editrici indipendenti (alle quali dedicheremo la prossima puntata di questa inchiesta, il 12 aprile) che cercano di competere come possono e di ritagliarsi uno spazio di visibilità, mentre non solo le grandi concentrazioni incalzano, ma monta la minaccia del ricorso alla stampa digitale, che oggi è in grado di sfornare all'incirca mille pagine al minuto. Confrontata con la sofferenza del mondo imprenditoriale, la crisi patita dalla editoria maggiore in coincidenza con la attuale recessione viene dichiarata come inesistente: i bilanci dell'anno passato saranno resi noti più o meno in coincidenza con la Fiera del libro di Torino, nel frattempo l'amministratore delegato della Mondadori, Gian Arturo Ferrari, si fa negare e declina l'invito a parlare anche il direttore editoriale della Einaudi, Ernesto Franco, probabilmente convinti - non senza ragioni - che i giornali abbiano una vocazione allarmista alla quale è opportuno non fornire esche. Eppure, la situazione complessiva è tutt'altro che tragica: lo conferma Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato della GeMs (Gruppo Mauri Spagnol), che pubblica all'incirca 900 novità all'anno (di cui 400 sono riedizioni e delle 500 opere mai apparse sul mercato italiano all'incirca 150 sono di nuovi autori).
«Nel settembre scorso la crisi nera dei mercati ha indotto a contenere le prenotazioni delle novità in libreria, eppure io guardavo il sell out su Nielsen e anche nelle settimane di calo più insistente della Borsa constatavo che le vendite delle librerie non diminuivano. Poi siamo andati alla Buchmesse di Francoforte, una fiera importante non tanto per l'acquisto dei diritti, che si fa tutto l'anno via Internet, ma per tastare il polso della produzione mondiale, e l'impressione che la crisi finanziaria non si riflettesse sul mercato dei libri è stata confermata. Certo, non circolano più gli anticipi irrazionali che hanno girato fino all'anno passato, con esordienti costati più di centomila euro: la crisi ha imposto una razionalizzazione dei costi, i librai sono più cauti nel prenotare le novità, e gli agenti tengono da parte i loro goielli, perché sanno che gli editori sono meno propensi a spendere. Dunque, tutto assume un carattere di incertezza maggiore, ma poiché noi editori lavoriamo sul medio periodo, il nostro futuro dipenderà da quel che abbiamo fatto negli anni passati, ossia - per esempio - da quella che è stata la nostra capacità di coltivare gli autori a cui teniamo».
La prudenza innanzi tutto
Dall'osservatorio di Stefano Mauri, che è tra quelli con una presa diretta sul ventaglio dell'editoria più a ampio raggio, si sono avvertiti spostamenti di gusto negli ultimi anni? «Mi sembra che dopo l'11 settembre si sia sviluppato un po' di più l'interesse per la saggistica: viviamo in una contingenza storica connotata da violenti scossoni e repentini cambiamenti, di conseguenza i lettori sono più attenti a capire cosa sta succedendo in questo mondo globalizzato; d'altra parte, nel campo della narrativa abbiamo assistito, più o meno a partire dal 2000, a una maggior fiducia del pubblico nella nuova generazione degli autori italiani, che per parte loro sono più attenti alla dimensione dell'entertainment di quanto non lo fossero i loro padri.»
È un argomento, questo, del tutto estraneo alla Bollati Boringhieri, che l'anno passato ha fatto 112 novità e 132 ristampe, e per l'anno in corso si prepara a ridimensionare il numero dei titoli passando a 85 novità e 90 ristampe, restando fedele alla promozione del libro destinato a durare nel tempo. Soprattutto le collane scientifiche possono contare su lettori appassionati, dunque - dice Alberto Conte, membro del comitato scientifico e del consiglio di amministrazione della Bollati Boringhieri - tanto meglio se questa congiuntura porterà a eliminare qualche scoria. Quest'anno, nelle collane scientifiche faremo poche novità in meno e qualche riproposta in più dal catalogo, ma soprattutto per ragioni di contenuti, per esempio perché il succedersi dell'anniversario di Darwin e poi di Galilei ci ha consentito di riproporre qualche nostro classico.» Certo, poiché la sua strategia non è quella di inseguire il bestseller, anche per quanto riguarda gli anticipi la casa editrice torinese si è sempre comportata in modo molto parsimonioso, e dunque non è questo il capitolo al quale guardare per un eventuale contenimento dei costi: «mentre altri editori non esitano a pagare fino a venti, trentamila dollari anche per libri scientifici, noi non abbiamo mai proposto anticipi che andassero oltre i due-tremila dollari; e cerchiamo sempre di più di contenere i prezzi dei titoli.»
Diversamente morigerati, ma tradizionalmente restii a gettarsi nelle aste a sei zeri, anche gli editor della Feltrinelli confermano la loro politica «conservatrice». Fabio Muzi Falconi, responsabile della narrativa straniera ricorda, con l'orgoglio di chi riesce a fare bene con poco, che «da sempre siamo stati quelli che davano gli anticipi più bassi, fatte salve le eccezioni: per esempio per una autrice come Isabel Allende, i cui diritti vengono trattati direttamente da Carlo Feltrinelli, siamo nell'ordine delle centinaia di migliaia di euro, però bisogna considerare che ne vendiamo davvero tante copie. In genere, la nostra è una politica piuttosto realista, nella peggiore delle ipotesi ogni nostro libro, almeno per quel che riguarda la narrativa straniera, deve andare in pareggio. Quest'anno taglieremo forse due o tre titoli, quelli che si vendono meno, ma non intendiamo penalizzare libri di qualità, infatti - per esempio - continueremo a pubblicare un autore difficile come Lobo Antunes, sebbene ne vendiamo pochissime copie.»
Anche per Muzi Falconi la crisi si presenta, dunque, più come una occasione razionalizzante che come una difficoltà: «pubblichiamo tra le cento e le centoventi novità l'anno, cinquanta tra narrativa italiana e straniera, il resto di saggistica e tra giugno e settembre cambieremo distribuzione passando alla pde, dunque salteremo due o tre lanci estivi, ma per motivi che, appunto, nulla hanno che vedere con la crisi.» La storica cautela della Feltrinelli viene confermata anche dal responsabile della narrativa italiana, Alberto Rollo: «è tempo di stare con i piedi per terra e l'immaginazione viva. Abbiamo la necessità di meditare meglio e al tempo stesso di privilegiare la continuità, coltivando i nostri autori di bandiera, e cercando voci più giovani. Siamo incoraggiati dal fatto che sta tornando, anche presso gli esordienti italiani, l'attenzione alla trama, in passato spesso proiettata sullo sfondo a vantaggio della tessitura linguistica, dello stile: ci si è affrancati da quel leit motiv avanguardista per cui noi italiani non saremmo portati per il romanzo.»
La storia, anche nel campo dell'editoria, presenta i suoi ricorsi e poche sorprese: tra queste, la fortuna incontrata dal genere reportage scritto in uno stile marcatamente narrativo. È stata una delle scommesse, vincenti, di Matteo Codignola, che racconta come alla Adelphi, pur non risentendo della congiuntura critica, ci si accordi tuttavia alla pratica generale della prudenza: «facciamo 80-90 titoli tra novità e riproposte, e non ridurremmo il numero perché il tentativo di non strafare è per noi una costante: la lotta è sempre per cercare di pubblicare due libri in meno piuttosto che due in più. È vero che il genere del reportage incontra una buona risposta dei lettori ma, paradossalmente, questi che abbiamo pubblicato nella collana dei Casi sono un po' scrittori per scrittori, la gran parte del pubblico continua a essere più interessato alla narrativa.»
Quel che cambia nella filiera
E se dovesse segnalare le novità più significative degli ultimi anni nella filiera del libro Matteo Codignola a cosa penserebbe? «Da un certo punto di vista il mutamento più importante sta nel rapporto con le librerie, che si è molto complicato: la velocità, la rotazione ossessiva dei titoli, hanno trasformato le librerie in locali di passaggio dove i libri transitano con tempi molto rapidi, e con un meccanismo che penalizza fortissimamente i piccoli editori; ma anche dalla parte di chi legge si lamenta la mancanza di tempo per orientarsi. Questa, però, è una fase di passaggio, non bisogna mai dare le cose per eterne. Per esempio negli ultimi tempi, già a partire dal salone del libro di Londra dell'anno passato e di più a Francoforte abbiamo visto, grazie al cielo, lo sgonfiamento di una bolla internazionale che scimmiottava in modo un po' patetico la finanza d'assalto: parlo di tutta quella messa in scena determinata dalle aste selvagge, con tempi di scelta ridotti a ore per comprare libri presentati - ogni volta - come il caso del decennio. La situazione stava virando verso il grottesco puro, anche perché i libri non sono diamanti, né armi, né droga, è inutile far finta che muovano grandi quantità di denaro. Anche le cifre per gli anticipi e per la acquisizione dei diritti si sono sgonfiate, tutto è stato riportato, finalmente, a una vaga sensazione di realtà.»
Punti di riferimento internazionali
Dunque, almeno per quanto riguarda la grande editoria italiana, la crisi mondiale sembrerebbe piuttosto riscattarla da una certa arroganza degli agenti, che risultano alla fine dei conti i veri penalizzati in un mercato che non può più concedersi all'euforia. Anche Paolo Zaninoni, direttore editoriale della Rizzoli e della Bur, dice che «almeno fino alla fine di febbraio il mercato librario non ha dato segni di cedimento; ma non è detto che debba restare così per tutto il 2009, perciò navighiamo a vista. Tra Rizzoli e Bur facciamo circa 500 novità l'anno, più o meno il 30 per cento sono manuali, libri illustrati, arte e varia, il 10 per cento sono libri per ragazzi e il restante 60 è diviso in maniere paritetica tra fiction e saggistica. Quest'anno abbiamo solo un po' modificato il rapporto tra novità rilegate e tascabili, ma dipende dal fatto che ricorre il sessantesimo anniversario della Bur.» Anche Zaninoni è d'accordo sul fatto che gli autori italiani si sono guadagnati una maggior fiducia negli ultimi anni? «Sì, e una delle ragioni principali credo stia nel distacco da un certo condizionamento della nostra tradizione letteraria, e nel fatto che i punti di riferimento sono diventati più internazionali.»
«C'è una koiné narrativa globalizzata che attinge a fonti esterne ai nostri confini. Inoltre, si è formata una lingua media priva delle scollature tra alto e basso che hanno caratterizzato gli anni passati.» Ma forse è vero che se si vuole andare a cercare quali siano i cambiamenti più recenti nella industria del libro, gli aspetti ai quali bisogna guardare sono soprattutto «i canali di distribuzione e di vendita »: ne è convinta Elisabetta Sgarbi, direttore editoriale della Bompiani, per la quale «la figura del libraio che suggerisce il titolo di cui si innamora, al di là della pressione commerciale dell'editore, rischia di essere un romantico ricordo. E qualche libro, anche qualche bel libro, ne soffre. Però, il lettore forte, oggi come ieri, va a cercare le sue letture ovunque con estrema attenzione, per esempio sul web, dove ci si scambiano segnalazioni, critiche e consigli.»
Anche per Elisabetta Sgarbi, in fondo, la crisi agisce come motore di razionalizzazione: «in un clima di sfiducia nel mercato si chiede attenzione ai ricavi effettivi e il ridimensionamento delle uscite è una strada inevitabile, sebbene la Bompiani non abbia mai forzato il numero dei titoli e abbia sempre misurato il numero delle novità sull'intento di lavorare al meglio i libri pubblicati.» Anche voi avete investito di più sugli autori italiani? La Bompiani ha una tradizione di narrativa straniera che continua a essere ostinatamente coltivata, e a buon diritto; ma è anche vero che l'attenzione prestata agli autori italiani è andata crescendo negli ultimi anni, e lo si deve proprio al fatto che la nostra narrativa ha attinto nuove forze dal cuore stesso della società, che sta cambiando a ritmi vertiginosi. Molti scrittori lamentavano di non aver quasi più nulla da dire, e ora si sono come risvegliati, scoprendo un mondo imprevisto e imprevedibile che aspettava di essere raccontato.»
ilmanifesto.it

2.4.09

Il virus del «capitalista egoista»

di Benedetto Vecchi
Negli ormai innumerevoli scaffali dedicati al capitalismo contemporaneo questo saggio dello psicologo Oliver James occupa sicuramente il posto che spetta alle analisi che non pretendono di fornire un'analisi esaustiva della realtà indagata. E tuttavia come tutti gli studi interessati a sondarne solo un «frammento» ha il pregio di esemplificare tendenze profonde delle società capitaliste. Oliver James è infatti convinto che lo «stress» emotivo non è da considerare una manifestazione di disagio individuale, quanto l'espressione di un mutamento antropologico che ha caratterizzato le società industrializzate dalla seconda metà del Novecento ai nostri giorni.Il capitalista egoista (Codice edizioni, pp. 150, euro 18) di cui scrive James non è infatti una figura idealtipica, ma un virus che lentamente si è diffuso nel corpo sociale fino a «infettarlo» completamente. Un virus che spinge uomini e donne a consumare, a lottare per il successo, la fama, ad «avere invece di essere», come scrive più volte, facendo riferimento agli studi di Eric Fromm sulla psicoanalisi del capitalismo affluente. Con un significativo apparato di tabelle e grafici, lo studioso inglese mostra come l'infelicità, l'anomia, la depressione, la paura di essere messi ai margini siano diventati i sentimenti che caratterizzano la vita sociale. Sentimenti «malati», sostiene lo studioso, che hanno come cura il consumo di merci sempre più deperibili e tuttavia impregnati di significati simbolici che vanno ben al di là del loro «valore d'uso». E tanto più gli uomini e donne consumano, tanto più aumenta lo stress, perché il rito del consumo attenua i sintomi, ma non cura le cause dello «stress» emotivo.L'universo di infelicità messo in evidenza da James coinvolge trasversalmente tutte le classi sociali. Dal manager al «colletto bianco», dal broker all'operaio tutti sono colpiti dagli stessi sintomi. L'autore tuttavia introduce una distinzione: chi deve fare i conti con il regno della necessità è affetto da «materialismo della sopravvivenza»; chi ha invece soddisfatto i bisogni primari è in preda al «materialismo del superfluo»; allo stesso tempo chi vive in una metropoli è sottoposto a una pressione psicologica che rende l'esistenza quasi insopportabile, mentre chi vive in campagna è meno propenso a farsi avvolgere nelle spire della «vita moderna». L'analisi del «capitalista egoista» è permeata da molte ingenuità e da una sorta di invito alla frugalità, a una «decrescita» che guarda con sospetto qualsiasi propensione al consumo. Ma non sono queste ingenuità che rendono piacevole la lettura del volume. La parte più interessante è quella in cui analizza la trasmigrazione del pensiero darwiniano attorno l'evoluzione al pensiero politico e economico. «Il capitalista egoista», infatti, è legittimato dal principio che solo i più forti, i più meritevoli, i più cinici, i più opportunisti hanno la possibilità di adattarsi a un ambiente competitivo e le risorse scarse. CONTINUAPAGINA14 Più o meno come recita la vulgata evoluzionista attorno alla selezione delle specie. Soltanto che James mette in rilievo una contraddizione: gli studiosi di Charles Darwin sono generalmente simpatizzanti per teorie politiche incentrate sulla triade «libertà, uguaglianza, fraternità», mentre il darwinismo è stato uno dei potenti dispositivi culturali che ha legittimato politiche neoliberiste dove non c'è spazio né per la fraternità né tantomeno per l'ugualitarismo. L'uso delle teorie darwiniane da parte dei sostenitori del «capitalismo egoista» è stato efficace perché considerava il capitalismo un fatto naturale e non un prodotto sociale, e quindi transitorio, della vità in società. È su questo crinale che si addensano le pagine più riuscite del saggio, laddove l'autore parla appunto delle psicopatologie che dilagano oltrepassando i confini invisibili ma tuttavia ferrei tra le classi sociali, le etnie, i generi sessuali. Psicopatologie che vengono curate attraverso l'operato dei media, che come novelli apprendisti stregoni riescono a persuadere uomini a donne a consumare; oppure con la diffusione di farmaci e antidepressivi che rendono tollerante l'inferno dove si vive. La storia della «lineare» diffusione del «capitalista egoista» che l'autore propone sarebbe ben diversa se fosse stata evocata la quantità di violenza necessaria affinché potesse propagarsi. L'autore ricorda solo l'aumento dei «disturbi mentali» dopo l'inizio della guerra in Iraq. Effetto collaterale di quella produzione di paura e incertezza a mezzo di propaganda che ha comunque ridimensionato le forme di resistenza che pure si erano manifestate. Una piccola scommessa è d'obbligo: la crisi attuale fermerà il virus del «capitalista egoista»? Domanda non peregrina, visto che la paura, l'insicurezza e la il culto dei «migliori» continuano a essere il vangelo delle società contemporanee.
ilmanifesto.it

1.4.09

Comunicazione e controllo, parla Armand Mattelart. Tracce di sorveglianza

di Giuliano Battiston
Secondo il teorico belga, autore di una «Storia dell'utopia planetaria», una diversa società dell'informazione sarà possibile solo negando alle tecnologie il privilegio di rappresentare il fattore esclusivo del cambiamento
«Nessuna appropriazione del medium tecnologico da parte del cittadino si può sottrarre alla critica delle parole che, teoricamente apolidi, si insinuano di continuo nel linguaggio comune», sostiene Armand Mattelart. E coerente con questa convinzione l'autore di Storia dell'utopia planetaria rifiuta di adottare formule come «villaggio globale» o «società globale dell'informazione», preferendo affidarsi a una «archeologia dei concetti» che faccia emergere i significati e gli usi politico-sociali sedimentati in ogni termine. Se «villaggio globale» rimanda alla «rappresentazione "ugualitarista" del pianeta», alla «visione fideistica di una società planetaria» orizzontale e flessibile, «comunicazione-mondo» è invece un termine che secondo le intenzioni di Mattelart permette di guardare alla mondializzazione in atto senza mitizzarla, perché nasce dalla consapevolezza che «la disuguaglianza degli scambi continua a segnare l'universalizzazione del sistema produttivo e tecnico-scientifico». Per Mattelart infatti «tra i discorsi utopici sulle promesse di un mondo migliore per mezzo della tecnica e la realtà delle lotte per il controllo dei mezzi di comunicazione esiste un contrasto impressionante». Un contrasto di cui occorre tener conto se vogliamo costruire una diversa società dell'informazione, che sarà realizzabile a condizione di negare alla tecnologia «il privilegio di rappresentare il fattore esclusivo del cambiamento», e di fare in modo che siano i cittadini, e non le logiche statali securitarie, a definire gli impieghi macrosociali delle nuove tecnologie. Abbiamo incontrato Armand Mattelart a Roma, dove è stato invitato per presentare il volume Democrazia e concentrazione dei media (a cura di Maurizio Torrealta, Edup, euro 15).Giorni fa è stato pubblicato il rapporto annuale sullo stato del giornalismo americano (State of the News Media, a cura del Pew Project for Excellence in Journalism), in cui vengono analizzate tra le altre cose le ripercussioni della crisi economica sul sistema mediatico. Ritiene che la crisi possa ulteriormente compromettere il pluralismo dell'informazione?La crisi economica non ha fatto altro che accelerare alcune logiche già presenti nelle società di natura capitalistica, e si è andata a combinare con un altro importante elemento di accelerazione, la guerra al terrorismo. I media sono stati infatti strumenti indispensabili per legittimare l'idea della guerra e per giustificare la tesi che esistessero armi di distruzione di massa in Iraq. Il problema del pluralismo dell'informazione dunque è diventato allarmante già con la guerra al terrorismo, a partire dal 2001, e oggi viene aggravato dalla crisi economica. Vari governi hanno cercato di approfittare della situazione per assicurarsi una «presa» più solida sui sistemi mediatici, e con ciò intendo il sistema audiovisivo e quello dei nuovi media, internet incluso. Oggi nelle democrazie liberali mi sembra che si tenda a legittimare l'idea che gli Stati devono disporre di maggiore potere sui media. Le porto un esempio concreto: in Francia Sarkozy ha deciso di eliminare la pubblicità dalla televisione pubblica, ma dietro questa scelta si nasconde il tentativo di introdurre un meccanismo con il quale la presidenza si vuole assicurare la nomina dei responsabili del servizio pubblico, rafforzando il potere che esercita sulla tv pubblica. Questo esempio, insieme a tanti altri, rivela l'emergere sempre più evidente di logiche autoritarie, ed è alla luce di tali logiche che dovremmo analizzare la questione del pluralismo dei media. Per questo è così importante che i movimenti e le forze sociali di opposizione intervengano non tanto sui media di per sé, o a partire dai media, ma a partire dalle strade, dalle manifestazioni. Solo in questo modo potremmo contestare il tentativo di instaurare un rigido controllo statale sui media. In Storia dell'utopia planetaria lei scrive che «la chiave di volta del modello tecnoglobale di riorganizzazione delle società» secondo il modello neoliberista è la sicurezza, e proprio alle società della sorveglianza e alla diffusione delle logiche securitarie ha dedicato uno dei suoi ultimi libri, La globalisation de la surveillance. Aux origines de l'ordre sécuritaire (La Découverte 2007). Ci vuole spiegare qual è la tesi principale del suo libro? La diffusione delle politiche securitarie è una questione essenziale, perché rimanda al modo stesso in cui definiamo le società nelle quali viviamo. Una volta si parlava di società industriali, poi di società disciplinari - basti pensare a Foucault, o a Deleuze, che evocava la «società del controllo», o ancora le società manageriali, quelle società in cui i principi di organizzazione manageriale si estendono a ogni istituzione della società. A partire dal 2001 mi sembra invece che la «necessità» di intervenire contro il terrorismo abbia costituito il pretesto per affermare un altro tipo di società: la società del sospetto. In questo modo, nelle democrazie liberali il problema della sicurezza trova sempre più spesso una «soluzione» attraverso il ricorso alla tecnologia, dalla videosorveglianza ai test del Dna, ai passaporti elettronici. Siamo entrati in un'era in cui il modo di governare e l'esercizio del potere si basano sulla tracciabilità degli individui e dei gruppi sociali. Contestualmente, è in atto una profonda trasformazione nell'idea stessa dello Stato e nei modi in cui si esercita la sua autorità, attraverso una radicale revisione del diritto penale e grazie alla configurazione di un nuovo «profilo giuridico statale». Lo Stato sempre più spesso viene ristrutturato a partire da una nozione, quella di sicurezza nazionale, che contraddice l'idea della separazione dei poteri e privilegia il potere esecutivo su quello legislativo e giudiziario. Soltanto considerando questa riconfigurazione possiamo comprendere le nuove forme di sorveglianza. Cercherò di spiegare questo fenomeno, che è di natura generale, con un esempio: un anno fa in Francia è stato pubblicato il rapporto sulla sicurezza nazionale; la cosa interessante di quel rapporto è che si fa riferimento alla nozione di sicurezza nazionale a partire dall'idea del rischio internazionale, in altri termini Al Qaeda. In Francia, dunque, come nelle altre democrazie liberali, si viene affermando l'idea che la questione della sicurezza interna e di quella esterna siano intimamente legate. Questo tra l'altro equivale a dire che la funzione dell'esercito si definisce sempre più come una funzione di controllo del territorio, dando vita a fenomeni come quello raccontato dal film Tropa de elite, nel quale col pretesto della lotta al narcotraffico i corpi speciali dell'esercito brasiliano intervengono nelle favelas. Lei è sempre stato critico verso quanti attribuiscono virtù taumaturgiche alle tecnologie e credono che le reti di informazione possano di per sé rivoluzionare i rapporti sociali e sconfiggere le logiche di emarginazione sociale e politica. Il pericolo, secondo la sua analisi, è che la diffusione delle reti di informazione possa trasformare la marginalizzazione in apartheid. Ci spiega meglio cosa intende? A partire dal telegrafo, tutte le tecnologie hanno contribuito a «dischiudere» il mondo. Se analizziamo la storia della comunicazione ci accorgiamo che i sistemi di comunicazione hanno reso possibili i flussi di merci, persone e idee, e in questo senso la comunicazione ha senz'altro un valore positivo. Le società liberali, però, si fondano sull'idea di ordine, che implica un controllo dei flussi: parliamo tanto di libertà di comunicazione e d'informazione, ma nelle democrazie liberali non si può effettuare davvero una libera scelta se questa contraddice i capisaldi del liberalismo, la ragione di Stato e quella di mercato. Per tornare alla sua domanda, sin dall'inizio della storia della comunicazione è esistita una «ideologia della comunicazione», secondo cui gli sviluppi della tecnologia automaticamente favoriscono la democrazia. Personalmente credo si tratti di un'ideologia salvifica, redentrice, che definisco «tecno-determinismo». Non mi convince l'idea che le reti dell'informazione di per sé possano garantire maggiore democrazia: del resto, il contributo di Internet alla rivitalizzazione dello spazio pubblico è di portata molto ridotta se paragonato agli altri usi dello stesso strumento, mentre negli ultimi dieci anni poco o nulla è stato fatto per risolvere la questione del digital divide. Per quanto riguarda il potenziale democratico della rete, credo che la rete decentralizzi, ma sono anche convinto che a partire dalla decentralizzazione si possano produrre nuove forme di potere ed emarginazione. Per questo ritengo che oggi sia importante contrastare l'ideologia della comunicazione sostenuta da quanti ripongono tutte le proprie speranze nella tecnologia di per sé, e che allo stesso tempo sia essenziale un lavoro di riappropriazione sociale delle tecnologie. La possibilità di appropriarsi e di gestire socialmente la tecnologia è una questione di natura strategica, fondamentale. Lei è uno dei maggiori studiosi della mondializzazione dei sistemi di comunicazione, ma a differenza di altri esperti in materia ha sempre rifiutato polemicamente quello che definisce come «il mito tecnoliberista dello Stato-nazione». In Storia della società dell'informazione rimprovera per esempio a Nicholas Negroponte di «non smettere di battere il tasto della fine di quel mediatore collettivo che è lo Stato-nazione». Qual è la sua posizione? Quello del post-nazionale è un mito che ha impedito di comprendere le forze geopolitiche che hanno operato, e operano, nelle società contemporanee. È una nozione molto vaga, che si ritrova nei documenti ufficiali dell'Unesco, negli scritti dei teorici della sinistra e in quelli dei «dottrinari tecnocratici» come Negroponte. Soprattutto, è un'idea che porta con sé il rischio che vengano negati i recenti processi di riconfigurazione delle funzioni dello Stato, per lungo tempo scomparsi dall'orizzonte critico. Secondo questo mito, oggi da un lato ci sarebbe la società civile e dall'altro gli attori economici transnazionali, mentre il futuro ci riserverebbe soltanto lo scontro tra queste due forze. Ciò che manca è il ruolo che svolge e continuerà a svolgere lo Stato, che prova a ridefinirsi proprio a partire dal divario tra questi due attori. Come abbiamo visto, nella misura in cui lo Stato rafforza le funzioni dell'esercito, recupera il diritto all'uso della forza e della violenza e si pone di nuovo come regolatore del sistema internazionale, il mito della fine dello Stato-nazione si scontra con l'evidenza dei fatti. Ma rimane un pericolo: che nel nuovo interventismo dello Stato o nelle nazionalizzazioni delle banche si riconosca un elemento necessariamente positivo. Lo Stato regolatore invece è un falso progresso: è vero, abbiamo bisogno di regole e occorre regolare il funzionamento dei circuiti bancari, ma affinché la regolamentazione serva davvero a rivitalizzare la democrazia, occorre che venga associata a nuovi attori sociopolitici, quelli finora rimasti esclusi. Bisogna ritrovare le radici della sovranità popolare, perché altrimenti le nuove forme di regolamentazione tenderanno inevitabilmente a rinforzare il potere dello Stato sui cittadini. Dobbiamo individuare nuove forme di partecipazione alla società: se non le troveremo, la soluzione delle grandi questioni poste dalla crisi climatica, dalla crisi finanziaria (che è una vera e propria crise de civilisation), dalla crisi alimentare, ci porterà verso società ancor più autoritarie.
ilmanifesto.it

28.3.09

La tela del ragno. Reti organizzate per sfuggire al controllo

di Benedetto Vecchi
Un percorso di lettura dedicato a Internet, a partire dal volume di Ned Rossiter. Nel frattempo, l'Europa invita gli stati nazionali a considerare l'accesso al web come un diritto di cittadinanza, mentre oggi a Roma è «Festa dei Pirati»
Sono bastati pochi anni affinché l'utopia del World Wide Web vissuto come regno della libertà lasciasse il posto alla visione di Internet come ultima frontiera da colonizzare per «fare affari». E altrettanto breve è stato il periodo in cui le imprese operanti nelle Rete sono fallite, lasciando sul campo pochi sopravvissuti. Tra questi i soliti noti - Microsoft, Oracle, Sun, Ibm, Dell -, mentre i nuovi arrivati erano nomi conosciuti solo dagli «addetti ai lavori». Google era infatti solo una piccola impresa conosciuta nei collages o nel caotico mondo dei virtuosi della programmazione. La crisi che aveva sconvolto il World Wide Web tra il 1999 e il 2001 era generalmente letta come un necessario processo di selezione «naturale» in un ambiente fortemente competitivo, dove le risorse cominciavano a scarseggiare. Ciò che gli analisti del settore non potevano immaginare è che dagli angoli meno conosciuti della rete cominciavano appunto a farsi avanti realtà che rivendicavano una sorta di ritorno alle origini di Internet, una tecnologia propedeutica alla condivisione di materiali digitali - testi, immagini, suoni - e alla comunicazione sociale.Il social networking, il peer to peer sono solo due degli esempi di questo radicale mutamento di scenario che ha caratterizzato la Rete dopo la deflagrazione delle dot-com. Il successo planetario di Google e, in misura minore di Yahoo!, era letto come il segnale che il web poteva essere comunque un habitat che favoriva gli affari, a patto però che le imprese fossero saldamente ancorate al social networking. È a queste new entry che è dedicato il volume di Nicholas Carr Il lato oscuro della rete (Rizzoli-Etas, pp. 270, euro 20), saggio utile proprio per comprendere cosa accade nella produzione high-tech, quali sono i modelli produttivi emergenti, quale il rapporto che intercorre tra imprese e cooperazione sociale. E maggiormente significativa è la pubblicazione del libro Reti organizzate di Ned Rossiter (manifestolibri, pp. 255, euro 28), densa analisi dei rapporti sociali dentro e fuori la Rete, con il pregio di prestarsi a ulteriori percorsi di ricerca.Problemi di savoir faireL'autore de Il lato oscuro della Rete, Nicholas Carr, è stato direttore di Harvard Business Review, una specie di vangelo apocrifo del libero mercato in salsa libertaria, in particolare modo per quella centralità data all'homo oeconomicus, figura tanto eterea quanto flessibile nel definire una visione della realtà in cui tanto la società che lo stato dovevano essere considerati sue variabili dipendenti. Il nome di Carr è però legato al provocatorio saggio - Doesi It matter? - dove le tecnologie digitali sono considerati fattori produttivi secondari nella nuova organizzazione dell'impresa. Per l'autore, infatti, l'elemento qualificante di un'economia di libero mercato è la valorizzazione del savoir faire della forza-lavoro, mentre alle tecnologie è delegato il compito di rendere fluido il processo lavorativo. Il potere del management sta nella sua capacità di avere una vision complessiva dei rapporti tra i diversi settori dell'impresa. Una tesi che non piacque molto ai produttori di computer e di software, data la critica che Carr muoveva al determinismo tecnologico che animava gran parte della retorica sulla nuova organizzazione produttiva basata sulle tecnologie digitali, definita di volta in volta: a «rete», «snella», «orizzontale». In questo saggio, Carr non fa certo autocritica. Le tecnologie, qualunque esse siano, sono sempre delle macchine che svolgono determinati compiti. Non hanno nulla delle virtù prometeiche che vengono loro attribuite. Semmai sono equiparate all'elettricità, che può essere venduta a chi ne ha bisogno. È su questa analogia tra tecnologie digitali e elettricità che si snoda il saggio di Carr, individuando nella potenza di calcolo e nello spazio di memoria eccedenti una utility che può essere venduta. In altri termini, una impresa si connette alla rete e può collegarsi a un sito che offre programmi applicativi specifici - dall'elaborazione dei testi, alla gestione degli archivi, dalle paghe alla gestione di cartelle cliniche - oppure può usare lo spazio di memoria che gli serve. Così le tecnologie digitali diventano una utility, proprio come l'elettricità agli inizi del Novecento. Certo, le imprese che vendono servizi destinano all'acquisto di macchine e software ingenti investimenti, ma i profitti si fanno attraverso un sofisticato sistema di tariffe che privilegiano il «mondo degli affari», ma che possono essere allargate anche ai singoli. Il saggio di Carr può essere dunque letto come l'ennesimo pamphlet sulle magnifiche sorti progressive di Internet. E molte potrebbero essere le obiezioni sul «modello di business» avanzato, ma il punto che merita di essere discusso del volume si trova in due capitoli dal titolo «Dai molti ai pochi» e «La tela del ragno» quando l'autore descrive la trasformazione del crowdsourcing in attività economica. Il potere dei moltiIl termine, praticamente intraducibile, crowdsourcing indica proprio quella cooperazione sociale che sviluppa sia programmi informatici innovativi che procedure altrettanto innovative nelle attività di rete. Carr dice espressamente che questa attività dei «molti» favorisce i guadagni per «pochi». Ciò che l'autore descrive non è altro che la classica appropriazione privata di un bene comune - la conoscenza en general -. È in questa politica dell'espropriazione che si gioca la partita della rete, molto più rilevante del grande risiko tra le grandi imprese hig-tech, gioco composto da fusioni, acquisizioni, strategie di marketing e convergenza tecnologica tra telefonia mobile e informatica che appassiona i media. Ma per comprendere il conflitto tra cooperazione sociale nella rete e imprese occorre partire dalle Reti organizzate del giovane ricercatore australiano Ned Rossiter, uno dei saggi più sofisticati nel mettere in relazione la saggistica dedicata a Internet con il pensiero critico sul capitalismo contemporaneo.Il punto di partenza di Rossiter è all'opposto di quello di Carr, perché mette al centro i rapporti di lavoro, i programmi politici finalizzati alla crescita delle cosiddette «industrie creative», le norme tanto nazionali che globali sulla proprietà intellettuale e la crisi della democrazia rappresentativa. Temi letti, tutti, attraverso una griglia analitica che si avvale delle opere di autori tra loro eterogenei, da Theodore W. Adorno a Chantal Mouffe, da Harold A. Innis a Scott Lasch, da Geert Lovink a Paolo Virno. Rossiter respinge in maniera convincente le tesi secondo le quali Internet è l'atteso regno della comunicazione libera, così come rigetta il luogo comune che vede nelle relazioni di lavoro nelle imprese high-tech l'auspicato superamento delle gerarchie e del lavoro salariato. Anzi è proprio a partire da una analisi dei documenti sulle «industrie creative» che l'autore giunge alla conclusione che la trasformazione dei modelli produttivi e le norme della proprietà intellettuale dimostrano chiaramente come i meccanismi di sfruttamento più che superati siano semmai accentuati nel cyberspazio, sebbene presentino caratteristiche diverse dal passato. Da una parte, le materia prime del «lavoro creativo» - espressione che Rossiter utilizza criticamente - è la conoscenza e il sapere sociale. Dunque, ciò che è «comune» diviene proprietà di «pochi» (le imprese) attraverso le leggi della proprietà intellettuale. Allo stesso tempo le gerarchie non scompaiono, ma sono articolate nei rapporti vis-à-vis segnati dalla condivisione di uno stesso progetto lavorativo da svolgere in un'unità di tempo definita. Nell'impresa contemporanea sono quindi vigenti quelle foucaultiane «tecnologie del controllo» dove tutti controllano tutti e che hanno il loro corollario nella precarietà dei rapporti di lavoro.Il saggio di Ned Rossiter acquista maggior rilevanza per il fatto che è stato scritto dopo la crisi dell'economia delle dot-com. Cioè negli anni successivi, quando era svanito il sogno di chi aveva individuato in Internet l'«ambiente» che poteva garantire un ininterrotto sviluppo economico, sostituendo così l'industria automobilistica e quella dell'elettronica di consumo come settori trainanti dell'economia mondiale. La messa a tema della crisi da parte dell'autore può essere usata in questi tempi dove la crisi non ha coinvolto solo il cyberspazio, ma si è diffusa al di fuori dello schermo. La retorica attorno al «lavoro creativo» ha infatti lasciato il posto alla consapevolezza sulla necessità di fare i conti con il regime di accumulazione capitalistico nel suo complesso. Questo non significa che gli elementi di conoscenza e di comprensione del capitalismo contemporaneo derivanti dall'analisi della rete siano da gettare alla critica roditrice dei topi. Più realisticamente è di articolarli maggiormente. A partire dal ruolo svolto dai «molti», il contesto cioè dove maturano le innovazioni. E questo indipendentemente se il lavoro viene svolto in uno sweatshop o in una impresa tradizionale, se esso è manuale o «cognitivo», con buona pace di chi insegue ancora la chimera di un tranquillizante quarto stato. Infatti, tanto dentro che fuori lo schermo, il conflitto investe l'appropriazione privata delle innovazioni in quanto prodotto sociale.Ned Rossiter invita a pensare la rete come una realtà da organizzare in base al rifiuto di questa espropriazione della creatività da parte delle imprese. Dunque organizzare «i molti». Un invito da fare proprio in una situazione dove la crisi va agita, anche come occasione di trasformazione della realtà.
ilmanifesto.it

27.3.09

"Cara sinistra Berlusconi non ha vinto con la tv"

intervista a Mentana: dalla direzione del Tg5 all'addio
"Mai votato per lui, ma dietro c’è un blocco elettorale vero"

FABIO MARTINI

Sostiene Enrico Mentana: «Credo che una persona con la mia storia possa dirlo: la sinistra non ha mai capito il fenomeno Berlusconi. Soprattutto si è dimostrata sbagliatissima l’immagine per cui in questi 15 anni in Italia c’è stato un Grande Fratello tv che ha condizionato le coscienze. Se così fosse stato, non sarebbe accaduto quel che è storia: Berlusconi ha vinto, poi è andato all’opposizione, ha vinto, poi è andato all’opposizione e alla fine ha rivinto». Pochi come Mentana, per molti anni quadro di punta di Mediaset, può raccontare quanto la tv abbia condizionato la politica italiana e quanto la sinistra abbia capito, o frainteso, il fenomeno-Berlusconi. Licenziato dalla sera alla mattina dal Biscione, Mentana dice di sé: «Non ho mai votato per Berlusconi, so che nella fase nascente l’uomo non ha avuto scrupoli nella costruzione di Forza Italia, ma posso testimoniare quanto sbagliata sia l’idea della sinistra di essere sempre stata dalla parte della Storia, mentre gli altri erano i corsari, come se avessero avuto un Moggi. Per la sinistra Berlusconi ha sempre “rubato” la vittoria, ma in realtà loro non hanno mai fatto i conti col blocco elettorale che sostiene il centrodestra».

Partiamo dalla scesa in campo del Cavaliere: nell’entourage stretto chi era favorevole?
«Ricordo la riunione con tutti i direttori: io, Monti di “Panorama”, Briglia di “Epoca”, Gori di Canale 5, Costanzo. E ricordo Letta e Confalonieri che dicevano: Silvio, siamo tutti contrari».

Finché un giorno arriva nelle redazioni di tutti i Tg la famosa cassetta con Berlusconi che annuncia l’ingresso in politica: il Tg5 la trasmise integralmente?
«Ne mandammo in onda meno della metà».

Berlusconi si arrabbiò?
«Pensi che per dimostrare la nostra autonomia, quando Berlusconi presentò il suo primo governo, noi aprimmo il Tg5 delle 20 con un’altra notizia. Allora sbagliai, però questo dimostra che il fenomeno berlusconiano non si capisce con i soliti stereotipi. A proposito, la sera della famosa cassetta, vidi Raiuno...».

Cosa trasmetteva?
«Un grande giornalista come Demetrio Volcic moderò un dibattito nel corso del quale il verde Mauro Paissan disse che Berlusconi era un pallone gonfio di nulla. Era la teoria del partito di plastica, andata avanti per anni. Salvo poi rivalutare la plastica!».

La sinistra e i grandi giornali, dopo la prima Convention di Berlusconi storcevano il naso: in quello snobismo c’è un equivoco durato anni?
«L’illusione della sinistra era che Tangentopoli avesse cancellato l’elettorato moderato: si confondeva il crollo del Palazzo con la scomparsa di un elettorato consolidato che invece era pronto a votare chiunque tranne loro. L’abbaglio contaminò il sistema dei mass media: nessuno vedeva che c’era un’adesione forte e non plastificata. Nel 2001, ben 7 anni dopo la scesa in campo, ricordo un articolo-appello di Umberto Eco, il cui senso era questo: se una persona è perbene, vota a sinistra, se è egoista o fascista, vota a destra. Ma così non si andava lontano».

Nei primi anni la Tv aiutò molto Berlusconi...
«Allora - molto più che in seguito - la tv non ebbe alcun ruolo. Se non quello proprio del mezzo. Allora, da parte del centrodestra, non ci fu la possibilità di strafare».

Per anni la sinistra si è dichiarata per una legge sul conflitto di interessi, ma non è riuscita mai a farla: perché?
«Vogliamo dirla tutta? La sinistra non ha mai fatto la legge perché a loro Berlusconi faceva comodo così! Se ne avessero limitato lo strapotere, non avrebbero potuto più fare campagne sull’antiberlusconismo. Se Berlusconi, scherziamoci, fosse diventato povero, poi come lo attaccavi?».

Difficile negare che i programmi di Mediaset abbiano condizionato il modo di pensare degli italiani...
«La Ruota della fortuna di 15 anni fa e oggi il Grande Fratello non c’entrano niente: ci sono in tutto il mondo. Chiediamocelo: ci sono trasmissioni che hanno cambiato la percezione degli italiani, che hanno fatto decidere che era meglio Berlusconi di Veltroni? Certo, Berlusconi in tv è potentissimo, a Mediaset negli ultimi tempi si stanno chiudendo gli spazi di autonomia, con un’informazione ossequiente o marginalizzata. Ma il vero nemico della sinistra è stato un altro: abbracciare il libero mercato, la globalizzazione e non avere più risposte per l’Italia che cambiava».
lastampa.it

26.3.09

Esplorazioni in forma di loop - Intervista a Edgar Reitz

di Elfi Reiter
Edgar Reitz, ospite al FilmForum di Udine racconta il suo progetto di far rinascere «VariaVision», installazione di cinema sperimentale anni Sessanta
Il progetto annunciato era il restauro dell'opera VariaVision realizzata da Edgar Reitz (il noto autore dei tre cicli di Heimat) nel 1965, ma di fatto quella installazione per 16 proiettori e 120 schermi - totalmente dimenticata perché difficile e supercostosa da realizzare - è andata quasi tutta perduta. Ce lo dice lo stesso Reitz, raggiunto al telefono a Udine dove si sta svolgendo il FilmForum 09 con un convegno e tre serate di proiezioni, (Dalle origini a internet), con film, tra gli altri, di Pedro Costa, Harun Farocki, Danièlle Huillet e Jean-Marie Straub. Un anno fa il museo di arte contemporanea di Monaco, Haus der Kunst, aveva offerto al regista di restaurare l'intero progetto (in collaborazione con l'università di Udine, tramite il laboratorio «La camera ottica» del Dams di Gorizia) ma i negativi dei film collocati in un archivio sono spariti. VariaVision nella sua forma originaria andata in scena nella enorme hall alla fiera di Monaco soltanto quell'anno per cento giorni consecutivi non esisterà più, tranne in tanti documenti d'epoca. Per cui si è deciso di creare una nuova versione intitolata VariaVision 2010, il cui progetto è già pronto sui tavoli delle due istituzioni, con un tema nuovo, eseguito con tecnologie nuove, tutto in digitale. Rimane però da cercare un finanziatore dei vari film da girare. Al centro la ricerca di nuovi valori, permanenti e umani, dato che quelli governati dal denaro finora sono giunti al termine. Sono da trovarsi, dice Reitz, soltanto nelle produzioni artistiche e nell'ambito della cultura, unica prospettiva e di qui il sottotitolo Kino der Horizonte, ossia «cinema degli orizzonti».Quello della versione del 1965 era perpetuum mobile: essa si componeva di tanti corti più o meno astratti che giravano in loop nei proiettori disseminati nell'enorme spazio e associati a un sistema di altoparlanti, di cui alcuni trasmettevano la musica elettronica (composta dal musicista Josef Anton Riedl) e altri il collage di testi scritti appositamente da Alexander Kluge. Con lui, cineasta teorico e scrittore (noto in Italia per aver vinto a Venezia 1968 con Artisti sotto la tenda del circo: perplessi) Reitz aveva fondato nel 1963 l'Institut für Filmgestaltung di Ulm (la cui denominazione significa «creazione cinematografica», e collegato alla Hochschule für Gestaltung, una accademia delle belle arti, era fucina di molti talenti del mondo delle arti visive tedesco, poi chiusa nel 68). «Nacquero in quel contesto i nostri esperimenti, portati avanti con gli studenti per indagare le basi del cinema». Il tema era il viaggio... «Si riferiva al mio corto Geschwindigkeit, essendo la velocità di cui trattava insita nel viaggiare ma anche uno dei punti di vista centrali nelle arti moderne, anzi è il grande mito del XX secolo, basta pensare al futurismo, o alle nuove tecnologie e ai nuovi media. Il tema del viaggio era riferito alle macchine veloci, al passare veloce nel mondo, per dare un nuovo volto del mondo e tracciare una mappa di impressioni fuggenti». Nello spazio espositivo a Monaco erano previsti spazi comodi per sedersi affinché il pubblico potesse concentrarsi nella visione e nell'ascolto, quasi un suggerire il montaggio in diretta nella propria testa? Reitz si affretta a dire che era «una cineperformance astratta basata sulla libera associazione delle immagini» e sottolinea che senza VariaVision non avrebbe mai fatto Heimat. «È stato propedeutico per rispondere alla domanda: che cos'è il cinema? Per me è un incontro tra pubblico e schermo, e ho voluto sperimentarne il funzionamento specifico, al di là di una storia con un inizio e una fine. VariaVision si poteva guardare per tre minuti o per tre giorni, non era mai uguale, perché i singoli piccoli film erano proiettati ognuno per sé, ripetutamente, e avendo ognuno una durata diversa andavano creandosi sempre nuove combinazioni. Ero curioso di quanto tempo le persone si sarebbero fermate a guardare, per scoprire quanto sarebbero state attente nel caso di un film molto lungo: il fulcro non era l'aspetto narrativo ma la forza di attrazione dell'attimo».Alla domanda rispetto quale clima culturale era nato l'esperimento che sembra allacciarsi a quelli del cinema astratto negli anni venti, Reitz precisa che «si trattava di una fuga dal provincialismo e dalle strettezze a livello politico in cui viveva il popolo tedesco negli anni sessanta», in cui si procedeva a ondate concentrate sulle nuove esperienze da fare: dapprima l'«ondata mangerecca», poi l'«ondata dei mobili», in cui ci si focalizzava sulla propria casa e infine quella «del viaggio» per esplorare il mondo che avrebbe influenzato il nuovo modo di vivere e anche la nuova politica in Germania «molto orientata a ciò che si pensa là fuori nel mondo di noi». Fu il quesito centrale del periodo postnazista, c'era - e c'è tuttora -una gran paura rispetto all'opinione sul piano internazionale. Al contrario dell'Italia, il cui governo attuale criticato in tutto il mondo sembra non tenerne conto, in una situazione simile in Germania il governo sarebbe già caduto da tempo...
ilmanifesto.it

25.3.09

Manganelli canterini

di Marco Travaglio

Il vicequestore Gioacchino Genchi, da 20 anni consulente dei giudici in indagini di mafia e corruzione, è stato sospeso dal servizio. Motivo: ha rilasciato interviste per difendersi dalle calunnie e ha risposto su facebook alle critiche di un giornalista. «Condotta lesiva per il prestigio delle Istituzioni» che rende «la sua permanenza in servizio gravemente nociva per l’immagine della Polizia». Firmato: il capo della Polizia, Antonio Manganelli. Se Genchi avesse massacrato di botte qualche no global al G8 di Genova, sarebbe felicemente al suo posto e avrebbe fatto carriera (Massimo Calandri, «Bolzaneto, la mattanza della democrazia»): Vincenzo Canterini, condannato a 4 anni in primo grado per le violenze alla Diaz, è stato promosso questore e ufficiale di collegamento Interpol a Bucarest. Michelangelo Fournier, 2 anni di carcere in tribunale, è al vertice della Direzione Centrale Antidroga. Alessandro Perugini, celebre per aver preso a calci in faccia un quindicenne, condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per le sevizie a Bolzaneto e a 2 anni e 3 mesi per arresti illegali, è divenuto capo del personale alla Questura di Genova e poi dirigente in quella di Alessandria. Le loro condotte non erano «lesive per il prestigio delle Istituzioni» e la loro presenza è tutt’altro che «nociva per l’immagine della Polizia». Ma forse c’è stato un equivoco: Manganelli voleva difendere Genchi e sospendere Canterini, Fournier e Perugini, ma il solito attendente coglione ha capito male. Nel qual caso, dottor Manganelli, ci faccia sapere.
unità.it

22.3.09

Il silenzio che manca in Vaticano

Barbara Spinelli

C’è forse una parte di verità in quello che si dice delle ultime parole e azioni di Benedetto XVI: comunicare quel che pensa gli è particolarmente difficile. Sempre s’impantana, mal aiutato da chi lo circonda. Sempre è in agguato il passo falso, precipitoso, mal capito. Il pontefice stesso, nella lettera scritta ai vescovi dopo aver revocato la scomunica ai lefebvriani, enumera gli errori di gestione sfociati in disavventura imprevedibile. Confessa di non aver saputo nulla delle opinioni del vescovo Williamson sulla Shoah («Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l'Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema»). Ammette che portata e limiti della riconciliazione con gli scismatici «non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro». Poi tuttavia sono venuti altri gesti, e l’errore di gestione non basta più a spiegare. È venuta la scomunica ai medici che hanno fatto abortire una bambina in Brasile, stuprata e minaccta mortalmente perché gravida a 9 anni. La scomunica, che colpisce anche la madre, è stata pronunciata da Don Sobrinho, arcivescovo di Olinda e Recife: il Vaticano l’ha approvata. Infine è venuta la frase del Papa sui profilattici, detta sull’aereo che lo portava in Africa: profilattici giudicati non solo insufficienti a proteggere dall’Aids - una verità evidente - ma perfino nocivi. C’è chi comincia a vedere patologie. Una quasi follia, dicono alcuni. L’ex premier francese Juppé parla di autismo. Sono spiegazioni che non aiutano a capire. C’è del metodo in questa follia.

C’è il riaffiorare possente di un conservatorismo che ha seguaci e non è autistico. Sono più vicini al vero coloro che stanno tentando di resuscitare il Concilio Vaticano II, nel cinquantesimo anniversario del suo annuncio, e vedono nella disavventura papale qualcosa di più profondo: l’associazione Il Nostro 58, sorretta da Luigi Pedrazzi a Bologna, considera ad esempio la presente tempesta una prova spirituale. Una prova per il Papa, per i cattolici, per la pòlis laica: l’occasione che riesumerà lo spirito conciliare o lo seppellirà. Non si è mai parlato tanto di Concilio come in queste settimane che sembrano svuotarlo. Le figure di Giovanni XXIII e Paolo VI risaltano più che mai. Chi legga l’ultimo libro di Alberto Melloni sul Papa buono capirà più profondamente quel che successe allora, che succede oggi. Capirà che quello straordinario Concilio è appena cominciato, e avversato oggi come allora. Quando Papa Roncalli lo annunciò, il 25 gennaio ’58 nella basilica di San Paolo, solo 24 cardinali su 74 aderirono (7 nella curia). Inutile invocare un Concilio Vaticano III se il secondo è ai primordi. Eppure son tante le parole papali che contraddicono errori, avventatezze. Il filosofo Giovanni Reale sul Corriere della Sera ne ricorda una: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Enciclica sull'Amore). Se in principio non c’è un dogma ideologico diventa inspiegabile la durezza vaticana sul fine vita, conclude Reale. Diventa inspiegabile anche la chiusura su profilattici e controllo delle nascite in Africa, dove Aids e sovrappopolazione sono flagelli.

In realtà il Papa sostiene, nella lettera ai vescovi, che «il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini, e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento». È un annuncio singolare, perché chi certifica la catastrofe? E il certificatore non tenderà a un potere fine a se stesso? Se Dio davvero scompare, tanto più indispensabile è l’autorità del suo vicario: una tentazione non del Papa forse - che nell’orizzonte nuovo pareva credere - ma di parte della Chiesa. L’auctoritas diventa più importante dell’incontro con Gesù: urge affermarla a ogni costo. Così come più importante diventa la gerarchia, rigida, astratta, dei valori. In un orizzonte vuoto non restano che astrazione e potere. L’arcivescovo brasiliano afferma il monopolio sui valori, innanzitutto: «La legge di Dio è superiore a quella degli uomini»; «L’aborto è molto più grave dello stupro. In un caso la vittima è adulta, nell’altro un innocente indifeso». E si è felicitato degli elogi del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi.

Né Sobrinho né Re vedono l’uomo: né l’uno né l’altro vedono che la bambina ingravidata non è adulta. Non vedono l’essere umano, il legno storto di cui è fatto: proprio quello che invece vide Giovanni XXIII, alla vigilia del Concilio. Melloni ricorda l’ultima pagina del Giornale dell’Anima di Roncalli, scritta il 24 maggio ’63, pochi giorni prima di morire: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere, anzitutto e dovunque, i diritti della persona umana e non solo quelli della chiesa cattolica. (...) Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». Comprenderlo meglio era «riconoscere i segni dei tempi». O come dice Melloni: indagare l’oggi. Vedere nell’uomo in quanto tale il vangelo che parla alla Chiesa, e «non semplicemente il destinatario del messaggio, o il protagonista di un rifiuto, ovvero - peggio ancora - il mendicante ferito di un “senso” di cui la Chiesa sarebbe custode indenne e necessariamente arrogante» (Papa Giovanni, Einaudi, 2009). Questi mesi erranti e maldestri sono una prova perché gran parte della Chiesa non pensa come il Papa: dà il primato alla libertà, alla coscienza, sul dogma. Indaga l’oggi, specie dove l’uomo è pericolante come in Africa o nelle periferie occidentali. Ricordiamo Suor Emmanuelle, che a 63 anni decise di vivere con gli straccivendoli nei suburbi del Cairo, e un giorno scrisse una lettera a Giovanni Paolo II in cui illustrò la necessità delle pillole per bambine continuamente ingravidate.

Lo narra in un libro scritto prima di morire (J'ai 100 ans et je voudrais vous dire, Plon). Distribuiva profilattici senza teorizzare su di essi. Giovanni Paolo II non rispose alla lettera. La sintonia con Ratzinger era forte. Ma il silenzio ha un pregio inestimabile, è un’apertura infinita all’umano. Suor Emmanuelle gli fu grata: disse che il suo silenzio era un balsamo. È il silenzio che oggi manca in Vaticano. Il silenzio che pensa, ha sete di sapienza, ascolta. Che non vede orizzonti vuoti. Il Vangelo è sempre lì, va solo compreso meglio. Contiene una verità che sempre riaffiora, quella detta da Gesù a Nicodemo: «Lo spirito soffia dove vuole. Ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Giovanni 3,8). Soffia come il fato delle tragedie greche: innalzando gli impotenti, spezzando l’illusione della forza. Chi fa silenzio o è solitario lo lascia soffiare, afferrato dal mistero. In Africa, il Papa ha accennato al «mito» della sua solitudine, dicendo che «gli viene da ridere», visto che ha tanti amici. Perché questo ridere? Come capire il dolore umano, senza solitudine? Cosa resta, se non l’ammirazione della forza (la forza numerica dei lefebvriani, evocata nella lettera del 12 marzo) e l’oblio di chi, impotente, incorre nell’anatema come il padre di Eluana, la madre della bambina brasiliana, i malati che si difendono come possono dall’Aids? Per questo quel che vive il Papa è prova e occasione. Prova per chi tuttora paventa gli aggiornamenti giovannei, e sembra voler affrettare la fine della Chiesa per rifarne una più pura. Prova per chi difende il Concilio come rottura e riscoperta di antichissima tradizione. La tradizione del rinascere dall’alto, dello spirito che soffia dove vuole: vicino a chi crede nei modi più diversi.
lastampa.it

17.3.09

In Italia l'assegno d'oro scompare dal sito

Società pubblicheIn attesa delle regole sul tetto agli stipendi, I casi Fincantieri e Anas

Il tetto agli stipendi nessuno lo vuole
Ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente


Il Carroccio ha rovesciato sul decreto per gli incentivi alle imprese una valanga di 115 emendamenti. In mezzo, il più peloso di tutti: il tetto agli stipendi dei manager pubblici. Se passerà, nessuno di loro potrà guadagnare più di quanto guadagna un parlamentare. Anche ai banchieri i leghisti vorrebbero imporre provocatoriamente il limite di 350 mila euro l'anno.

C'è solo un dettaglio. Il tetto c'era già, ma uno dei primi atti del governo di cui la Lega Nord è un pilastro decisivo, è stato metterlo in frigorifero. Ricordate la storia? I senatori della sinistra Massimo Villone e Cesare Salvi presentarono un emendamento all'ultima finanziaria di Romano Prodi che imponeva agli stipendi di tutti i dipendenti pubblici, manager aziendali compresi, un limite massimo pari alla retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione. In cifre, 289 mila euro. L'emendamento provocò feroci mal di pancia. Praticamente tutti i manager pubblici e l'intera prima linea della burocrazia statale e dei principali enti locali erano ampiamente sopra quel tetto. Ma Villone e Salvi riuscirono comunque a far ingoiare il pillolone ai loro riluttanti colleghi della maggioranza. E l'emendamento è passato.

Con il decreto legge di giugno il governo Berlusconi ha deciso di congelare il tetto, per la soddisfazione di molti. Ma soltanto per tre mesi. Giusto il tempo per fare un Dpr con cui il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta di concerto con il suo collega dell'Economia Giulio Tremonti avrebbero dovuto stabilire a chi e in che modo applicare il limite. Ma al 31 ottobre 2008, data fissata per la sua emanazione, di quel provvedimento nemmeno l'ombra. L'offensiva contro i fannulloni aveva assorbito le energie della Funzione pubblica, che prometteva comunque di risolvere il problema entro fine anno. I mesi però sono passati invano e si è arrivati a metà marzo, per avere notizia che solo nelle scorse settimane è stato costituito un gruppo di lavoro misto fra gli esperti di Brunetta e quelli di Tremonti per venire a capo della questione.

Una faccenda che però a quanto pare è piuttosto complicata per le spinte e le controspinte: che cosa si può cumulare, quali redditi si possono escludere dal calcolo, chi deve controllare. Fatto sta che non si sa quando il regolamento sarà emanato.

Inutile girarci intorno. Il tetto agli stipendi nessuno lo vuole, come dimostrano anche i tentativi di aggirare anche in sede locale le disposizioni tese a calmierare le indennità degli amministratori delle municipalizzate. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Soprattutto, come si può pretendere di far decidere le dimensioni della tagliola a chi ne dovrà essere vittima? Senza considerare un clamoroso effetto collaterale. Diverse imprese pubbliche hanno interpretato il congelamento del tetto come l'autorizzazione a congelare anche la trasparenza. Da alcuni siti internet aziendali sono spariti gli elenchi dei consulenti e i relativi compensi. Un paio di casi per tutti, quelli della Fincantieri e dell'Anas. Questa la spiegazione fornita dalla società delle strade: «Per la pubblicazione di tali dati l'Anas è in attesa dell'apposito decreto, così come stabilito dalla legge 129/08 del 2 agosto 2008 che converte in legge il decreto legge 97 del 3 giugno 2008. Al momento l'Anas, come tutte le altre società pubbliche, è tenuta a pubblicare sul sito internet solo gli incarichi, non rientranti nei contratti d'opera, superiori a 289.984 euro». Quanti? Uno: quello del presidente Pietro Ciucci. 750 mila euro l'anno, compresa la parte variabile dello stipendio.

Sergio Rizzo

corriere.it

16.3.09

Habeas vultus

di Barbara Spinelli

E’ davvero singolare che chi s’indigna per la messa a nudo dei politici attraverso le intercettazioni, e addirittura parla di complicità dei giornali in turpi linciaggi, non trovi le parole per protestare contro l’uso che viene fatto dei volti di due romeni, Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, arrestati il 17 febbraio per lo stupro di una minorenne nel parco della Caffarella. Quei volti ci si accampano davanti a ogni telegiornale, e hanno qualcosa di cocciuto, invasivo, conturbante: da ormai un mese ci fissano incessanti, nonostante il Tribunale del Riesame abbia invalidato l’accusa dal 10 marzo, e le analisi del Dna abbiano scagionato i loro proprietari già il 5 marzo. Se ne son viste tante, di gogne: questa è gogna di due scagionati.

Parliamo di proprietari di due volti perché la faccia ci appartiene, è parte del nostro corpo inalienabile. Così come esiste dal Medioevo un habeas corpus, che è il divieto di sequestrare il corpo in assenza di imputazioni chiare, esiste in molti codici quello che potremmo chiamare l’habeas vultus, l’habeas facies: il diritto alla tua immagine anche se sei indagato (articolo 10, codice civile). L’abuso in genere non avviene per gli italiani sospetti di violenza sessuale. Per i romeni è diventata norma, anche se non ce ne accorgiamo più.

Il loro viso è sequestrato, strappato con violenza inaudita, e consegnato senza pudore ai circhi che amano le messe a morte del reietto.

Habeas facies è un diritto che non ha statuto ma è in fondo anteriore all’habeas corpus. In alcune religioni (ebraismo, islam) il volto è sacro al punto da non dover essere ritratto. Vale per esso, ancor più, quello che Giorgio Agamben scrisse anni fa sulle impronte digitali: «Ciò che qui è in questione è la nuova relazione biopolitica “normale” fra i cittadini e lo Stato. Questa non riguarda più la partecipazione libera e attiva alla dimensione pubblica, ma l’iscrizione e la schedatura dell’elemento più privato e incomunicabile: la vita biologica dei corpi. Ai dispositivi mediatici che controllano e manipolano la parola pubblica, corrispondono i dispositivi tecnologici che iscrivono e identificano la nuda vita: tra questi due estremi - una parola senza corpo e un corpo senza parola - lo spazio di quella che un tempo si chiamava politica è sempre più esiguo e ristretto» (Repubblica, 8 gennaio 2004). Agamben aggiunge: «L’esperienza insegna che pratiche riservate inizialmente agli stranieri vengono poi estese a tutti».

Il pericolo dunque riguarda tutti. Quando si comincia a denudare lo straniero, ricorrendo al verbo o all’occhio del video, è il cruento rito del linciaggio che s’installa, si banalizza, e l’abitudine inevitabilmente colpirà ciascuno di noi. Lo ha scritto Riccardo Barenghi il 3 marzo su questo giornale («Alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione?») quasi parafrasando le parole del pastore antinazista Martin Niemöller: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari - e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici \. Poi un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

Il linciaggio ha inizio con una svolta linguistica, cui ci si abbandona non senza voluttà perché il linciaggio presuppone la muta ardente e la muta non parla ma scaraventa slogan, non dà nomi all’uomo ma lo copre con sopra-nomi, epiteti che per sempre inchiodano l’individuo a quel che esso ha presumibilmente compiuto di mirabile o criminoso. Racz diventa «faccia da pugile». Isztoika riceve un diminutivo - «biondino» - che s’accosta, feroce, al diminutivo che assillante evoca le vittime (i «Fidanzatini»). Sono predati non solo i volti e i nomi ma quel che i sospetti, ignorando telecamere, dicono in commissariato. Bruno Vespa sostiene che le intercettazioni «sono una schifezza» e rovinano la persona, ma non esita a esibire una, due, tre volte il video dell’interrogatorio in cui il romeno confessa quel che ritratterà, trasformando la stanza del commissariato in sacrificale teatro circense come per inoculare nello spettatore la domanda: possibile mai che Isztoika sia innocente? Lo stesso fa l’Ansa, che più di altri dovrebbe dominarsi e tuttavia magnifica gli investigatori perché hanno condotto «un’indagine all’antica: decine di interrogatori di persone che corrispondevano alle caratteristiche fisiche delle belve» (il corsivo è mio).

Avvenuta la svolta linguistica il danno è fatto, quale che sia il risultato delle indagini, e i sospettati girano con quel bagaglio di nomignoli, slogan. Rita Bernardini, deputato radicale del Pd, evoca il bieco caso di Gino Girolimoni, il fotografo che negli Anni 20 fu accusato di omicidi di bambine e poi scagionato («Il fascismo dell’epoca trovò il capro espiatorio per rasserenare la cittadinanza di allora e dimostrare che lo Stato era più che efficiente e presente»). Ancor oggi, c’è chi associa Girolimoni all’epiteto di mostro. Damiano Damiani nel ’72 ne fece un film, Girolimoni - Il mostro di Roma, con Nino Manfredi nella parte della belva. Non riuscendo più trovare un posto, Girolimoni perse il patrimonio che aveva e cercò di sopravvivere aggiustando scarpe e biciclette a San Lorenzo e al Testaccio. Morì nel ’61, poverissimo. Ai funerali, nella chiesa di San Lorenzo fuori le mura, vennero rari amici. Tra questi il commissario Giuseppe Dosi, che aveva smontato le prove contro l’accusato: azione avversata da tutti i colleghi, e che Dosi pagò con la reclusione a Regina Coeli e l’internamento per 17 mesi in manicomio criminale. Fu reintegrato nella polizia solo dopo la caduta del fascismo.

Anche se scagionata, infatti, la belva resta tale: più che mai impura, impaura. La sua vita è spezzata. Così come spezzati sono tanti romeni immigrati che l’evento contamina. Guido Ruotolo, su questo quotidiano, fa parlare la giornalista Alina Harhya, che lavora per Realitatea Tv: «Ma da voi non vale la presunzione d’innocenza? Le forze di polizia non dovrebbero garantire il diritto? E invece viene organizzata una conferenza stampa in questura e si distribuiscono le foto, i dati personali, dei presunti colpevoli. Non ce l’ho con la stampa italiana, sia chiaro. Però questo è un fatto. Qui da voi si fa la rivoluzione se un politico viene ripreso in manette e invece nessuno protesta quando si sbatte il mostro romeno in prima pagina» (La Stampa, 3 marzo). Ancora non sappiamo di cosa siano responsabili Isztoika e Racz, ma i motivi per cui restano in carcere appaiono oggi insussistenti e, se i romeni saranno scagionati del tutto, le loro sciagure s’estenderanno ulteriormente: proprio come accadde a Girolimoni, mai risarcito dallo Stato che l’aveva devastato.

La polizia di Stato può sbagliare: è umano. Ma se sbagliando demolisce una vita e un volto, non bastano le parole. Se la comunità intera s’assiepa affamata attorno al capro espiatorio, occorre risarcire molto concretamente. Iniziative cittadine dovrebbero reclamare che i falsi colpevoli non siano scaricati come spazzatura per strada. Nessun privato darà loro un lavoro: solo l’amministrazione pubblica può. Occorre che sia lei a riparare il danno che gli organi dello Stato hanno arrecato.

Se non si fa qualcosa per riparare avrà ragione Niemöl-ler: non avendo difeso romeni e zingari, verrà il nostro turno. Tutti ci tramuteremo in ronde - politici, giornalisti, cittadini comuni - per infine soccombere noi stessi. Le trasmissioni di Vespa sono già una prova di ronda. Le parole di Alessandra Mussolini (deputato Pdl) già nobilitano e banalizzano slogan razzisti («Certo, non è che possono andare in galera se non sono stati loro, ma non cambia niente: i veri colpevoli sono sempre romeni»). Saremo stati falsamente vigili sulla sicurezza: perché vigilare è il contrario dell’indifferenza, del sospetto, e dei pogrom.

lastampa.it

12.3.09

Medici senza frontiere: dieci crisi nascoste dai telegiornali

L a catastrofe umanitaria in Somalia, l’emergenza sanitaria in Myanmar, la guerra civile nel Congo orientale.
Sono solo alcune delle più grandi crisi umanitarie «dimenticate» dai media italiani nel 2008. A stilare la classifica dei dieci drammi più trascurati dai media è Medici senza frontiere (Msf). Secondo i dati presentati ieri a Roma, il “gossip” passa spesso in primo piano. La classifica di Msf si basa su un’analisi condotta dall’Osservatorio di Pavia sullo spazio dedicato alle crisi umanitarie dai principali Tg italiani. «Dall’analisi – ha osservato Mirella Marchese, dell’Osservatorio di Pavia – emerge che le 10 crisi umanitarie più dimenticate sono: i civili uccisi o costretti alla fuga per l’intensificarsi degli scontri avvenuti nel Pakistan nord­occidentale; la critica situazione sanitaria in Myanmar; l’epidemia di colera nello Zimbabwe; la guerra civile nel Congo orientale; la catastrofe umanitaria in Somalia; la malnutrizione dei bambini ad Haiti, Bangladesh e Costa d’Avorio; l’allarmante situazione sanitaria nella regione somala dell’Etiopia; la perpetua situazione di violenza e sofferenza in Sudan; i civili iracheni con urgente bisogno di assistenza e la co-infezione Hiv­Tbc». È su queste basi che si pone l’iniziativa di Msf, con il patrocinio della Federazione Nazionale Stampa Italiana, di lanciare la campagna «Adotta una crisi dimenticata» per chiedere a quotidiani e periodici, trasmissioni radiofoniche e televisive e testate on-line di impegnarsi a parlare di una o più crisi dimenticate durante i prossimi 12 mesi. Una campagna che ha già visto le adesioni di diverse testate giornalistiche e che vedrà coinvolte anche numerose università e scuole di giornalismo.
Tra le testate che si sono impegnate su questo obiettivo, il
Tg2, il Tg4, la Repubblica, Il Giornale Radiorai, Donna Moderna, Il Sole 24 Ore, La Stampa, Internazionale, Il Corriere della Sera online e Adnkronos. ( Avvenire,
che da sempre riserva ampia attenzione alle crisi “dimenticate” – e anche sulle dieci qui in questione non fa mai scendere il silenzio – pur senza un’adesione formale, ribadisce il proprio sforzo continuativo a favore dei Paesi e dei popoli che maggiormente hanno bisogno dell’informazione e della vicinanza internazionale)­L’Osservatorio di Pavia ha notato come, rispetto al 2006, la percentuale di notizie trasmesse dai tg italiani delle reti generaliste su questi temi si sia abbassata notevolmente. Dal 10% del 2006 al 6% del 2008. «Con alcune differenze – sottolinea Marchese – tra Rai e Mediaset. La prima ha un 8% ( Tg1 7,3%, Tg2 6,9%, Tg3
10,5%), mentre la seconda si ferma al 4% ( Tg4 5,4%, Tg5 4,5%, Studio Aperto 2,9%)». Sono invece trattate abbastanza le crisi che riguardano il Medio Oriente (19%), il Caucaso (12%), l’Afghanistan (11%), il Tibet (9%) e l’Iraq (8%). Vengono però privilegiate, ad esempio nel caso dell’Iraq, oltre alla cronaca degli attentati, le notizie sul dibattito politico in Italia o negli Usa; nel caso del Pakistan, le elezioni e la cronaca degli attentati. Infine, anche per il 2008 viene confermata la tendenza di parlare di contesti di crisi soprattutto se riconducibili a eventi e personaggi italiani o comunque occidentali.
Emblematici in questo senso sono la crisi in Somalia, a cui i tg hanno dedicato 93 notizie (su 178 totali) che coinvolgevano uno o più nostri connazionali; la malnutrizione infantile, di cui si parla principalmente in occasione di vertici della Fao o del G8; il Sudan, cui si fa riferimento principalmente per iniziative di sensibilizzazione che vedono coinvolti testimonial famosi. ( R.E.)
Medici senza frontiere: «Sui media maggior spazio al gossip rispetto ai drammi internazionali» Chiesta l’«adozione» delle situazioni calde
MYANMAR
Il 2 maggio 2008 il ciclone Nargis ha riportato Myanmar al centro dell’attenzione, devastando il delta dell’Irrawaddy e causando circa 130mila vittime, tra morti e dispersi. Il ciclone è stato l’ennesimo colpo inferto a una popolazione sotto scacco da parte del regime.
EST DEL CONGO
Dal settembre del 2007, la ripresa dei combattimenti nel Nord Kivu, nell’Est della Repubblica Democratica del Congo, ha causato un massiccio sfollamento della popolazione. Ai profughi manca acqua, cibo e riparo. L’accesso all’assistenza sanitaria è quasi inesistente.
SOMALIA
Nel 2008 la Somalia ha subito una delle più gravi ondate di violenza degli ultimi dieci anni che ha ridotto allo stremo la popolazione. Si stima che una donna su dieci perda la vita durante il parto e oltre un bambino su cinque muoia prima di aver compiuto cinque anni.
ZIMBABWE I primi mesi del 2008 hanno segnato un periodo di ulteriore tracollo economico e di violenza politica nello Zimbabwe.
La situazione è allarmante: inflazione a quota 231 milioni per cento, carenza di beni essenziali, repressione. I morti per il colera sono più di 4mila.
ETIOPIA
Quest’anno le continue violenze e le difficili condizioni climatiche hanno reso estreme le condizioni di vita della popolazione nella regione somala dell’Etiopia. Intrappolata negli scontri tra ribelli e governativi, la gente, prevalentemente nomade, è sempre esclusa dagli aiuti.
MALNUTRIZIONE INFANTILE
Per i bambini malnutriti, alimenti ricchi di nutrienti, vitamine e minerali sono essenziali per la sopravvivenza. Le cifre sono sconvolgenti. Le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità parlano di 178 milioni di bambini affetti da malnutrizione.
SUDAN
Nel 2008, due grandi emergenze umanitarie hanno continuato a colpire il Sudan: la crisi nel Darfur e le conseguenze di decenni di guerra civile nel sud. In Darfur, nonostante gli sforzi umanitari, centinaia di migliaia di persone sono ancora tagliate fuori dagli aiuti.
TBC E AIDS
Ogni anno la tubercolosi (Tbc) uccide circa 1,7 milioni di persone e ne colpisce 9 milioni. La Tbc è in aumento nei Paesi con alti tassi di Hiv, in particolare nell’Africa meridionale. La Tbc è una delle principali cause di morte per le persone affette da Hiv.
PAKISTAN (NORD-OVEST)
Il 2008 ha visto l’intensificarsi degli scontri tra forze governative e ribelli nella provincia nord­occidentale e nelle aree tribali di amministrazione federale del Pakistan. Ad agosto, migliaia di pachistani sono sfollati all’interno del Paese o si sono rifugiati in Afghanistan.
LA GUERRA IN IRAQ
Il conflitto e gli attacchi dei terroristi hanno provocato 4 milioni di sfollati interni ed esterni (tra questi oltre 300mila cristiani). Negli ultimi 18 mesi, la sicurezza in Iraq è leggermente migliorata: i livelli di violenza sono diminuiti ed è emersa una nuova situazione politica.

avvenire.it

11.3.09

Per blog e forum non valgono le stesse garanzie della stampa

Gli interventi dei partecipanti al forum online non possono essere fatti rientrare nell'ambito della nozione di stampa”, ma sono piuttosto equiparabili “ai messaggi che possono essere lasciati in una bacheca”.
Blog, forum di discussione aperti, newsgroup, mailing list e così via, non possono dunque avvalersi “delle guarentigie in tema di sequestro che l'art.21, comma 3, della Costituzione riserva soltanto alla stampa, sia pure intesa in senso ampio, ma non genericamente a qualsiasi mezzo e strumento con cui è possibile manifestare il proprio pensiero
”.

Con questa motivazione, i giudici della terza sezione penale della Corte Suprema di Cassazione hanno confermato la legittimità del sequestro preventivo di alcune pagine web del sito dell'Aduc, disposto a novembre del 2006 dalla Procura della Repubblica di Catania dietro denuncia dell’associazione Meter di Don Fortunato Di Noto per il “fondato pericolo” che la permanenza in rete dei messaggi potesse “aggravare o protrarre le conseguenze del reato stesso dato che chiunque può liberamente continuare ad immettere messaggi dello stesso contenuto”.

L'associazione di don Di Noto aveva accusato Aduc di pubblicare messaggi di “vilipendio della religione” offensivi per gli handicappati e di natura “hard-porno”.
In un fax all’associazione, Meter spiegava di non voler invocare una censura (“ce ne guarderemmo!”) bensì la possibilità di moderare un forum che “nel contesto dell'Aduc non crediamo possa contenere tali messaggi”.
Nel contempo all’Aduc veniva comunicato che era già stata depositata una denuncia.

Aduc aveva quindi fatto ricorso presso il Tribunale del Riesame di Catania che però, pur giudicando illegittimo il sequestro preventivo, aveva disposto il sequestro non già dell'intero forum, ma solo degli interventi incriminati, quelli cioè di tre utenti contro i quali il pubblico ministero ha ritenuto di dover procedere per vilipendio.

“Non ci fermeremo fino a quando il diritto alla libertà di espressione non verrà riconosciuto a tutti”, spiegava Aduc, annunciando il ricorso in Cassazione.

La Cassazione, con sentenza n. 10535, tuttavia, ha confermato la posizione delle autorità giudiziarie catanesi, ritenendo che i commenti di alcuni utenti non offendevano solo la religione cattolica “mediante il vilipendio dei suoi fedeli e dei suoi ministri”, ma superavano “i limiti del buon costume” con accenni espliciti alla pratica della pedofilia da parte dei sacerdoti come mezzo per diffondere “il sacro seme del Cattolicesimo”.

La Suprema Corte non ha accolto quindi le motivazioni dell’Aduc, secondo cui ai nuovi strumenti di comunicazione online dovrebbero essere garantite le stesse garanzie legali della carta stampata, ritenendo anzi che blog, forum, chat, messaggi istantanei et similia “non possono essere qualificati come un prodotto editoriale, come un giornale online o come una testata giornalistica informatica”, soltanto per il “semplice fatto che i messaggi e gli interventi siano visionabili da chiunque, o almeno da coloro che si siano registrati nel forum”.
I novi mezzi di espressione del proprio pensiero – nel caso in particolare dei forum online - insomma sono “una semplice area di discussione dove qualsiasi utente o gli utenti registrati sono liberi di esprimere il proprio pensiero rendendolo visionabile a tutti gli altri soggetti autorizzati ad accedere al forum, ma non per questo il forum resta sottoposto alle regole ed agli obblighi cui e' soggetta la stampa o può giovarsi delle guarentigie in tema di sequestro”.

Immediato il commento di Aduc, che sottolinea come la sentenza della Cassazione “ha stabilito la legittimità della censura per tutto ciò che non è stampa”.
“Evidentemente – sottolinea l’associazione in una nota - rispetto alle leggi che disciplinano le libertà di espressione dei cittadini, la stampa gode di una sorta di immunità o "via preferenziale". Un esempio: se il giornalista Tizio scrivesse un pensiero contrario al buon costume su un quotidiano non potrebbe essere censurato, contrariamente al comune cittadino Caio che manifestasse lo stesso identico pensiero su un forum in Internet. In altre parole, per la Cassazione esistono le libertà di serie A e quelle di serie B. E quelle legate alla libera manifestazione del pensiero individuale di chi non è giornalista sono di serie B”.

La sentenza non mancherà di far discutere, con il mondo dei blog già in fermento per la forte vena censoria intravista nell’emendamento del Sen. Giacomo D’Alia dell’UDC, contenuto nel pacchetto sicurezza.
Contro l’emendamento si è scatenata una vera e propria offensiva, sostenuta da Libera/Rete, secondo cui la norma è “inutile e dannosa”.
Inutile perché “viene introdotta in nome della lotta contro i reati di istigazione a delinquere via internet quando esistono già numerose misure giuridiche atte a perseguire eventuali abusi e reati commessi tramite internet”.
Dannosa perché la previsione di perseguire chiunque “inviti a disobbedire alla leggi”, spiega Libera/Rete, è così vaga “da consentire di colpire qualunque espressione critica, qualunque informazione che possa “disturbare il manovratore”, qualunque linguaggio non in sintonia con quello del potere dominante e del pensiero unico”.

Speriamo, che “non si formino 'ronde digitali' per segnalare alla magistratura i siti scomodi”, ha auspicato Jacopo Venier (Pdci), annunciando che verrà chiesta a breve un'audizione alla commissione affari costituzionali della Camera, che oggi ad esaminare il pacchetto sicurezza.

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