Ulrich Beck (31 agosto 2011 Der Spiegel)
Di fronte alla crisi e alle rivolte giovanili c’è una sola soluzione: più Europa. Angela Merkel dovrebbe avere il coraggio di intraprendere una svolta simile a quella adottata da Bonn nei confronti del blocco sovietico negli anni settanta.
La politica europea della Germania si accinge a compiere una svolta altrettanto importante dell’Ostpolitik nei primi anni settanta. La parola d’ordine allora era stata: “Cambiamento tramite riavvicinamento”. Oggi potrebbe essere: “Più giustizia tramite più Europa”.
In entrambi i casi si tratta di superare una spaccatura. Quella di un tempo era tra Est e Ovest. Quella odierna è tra Nord e Sud. La minaccia esistenziale che incombe sull’Europa – provocata dalla crisi finanziaria e dalla crisi dell’euro – ha fatto prendere coscienza agli europei di una cosa: non vivono in Germania né in Francia, bensì in Europa.
La gioventù europea per la prima volta sperimenta il proprio “destino europeo”: più istruita che mai, con grandi aspettative, si trova alle prese con il declino dei mercati provocato dalla crisi economica e con il rischio di bancarotta che incombe su alcuni stati. Sotto i 25 anni è senza lavoro un giovane europeo su cinque.
Ovunque abbiano montato i loro accampamenti di tende e fatto sentire la loro voce, questi rappresentanti diplomati del precariato hanno chiesto maggiore giustizia sociale. Le loro rivendicazioni sono state pacifiche ma ferme, in Spagna, in Portogallo, ma anche in Tunisia, in Egitto e in Israele (a differenza della Gran Bretagna). L’Europa e i suoi giovani si trovano a condividere una medesima collera, scatenata da una classe politica che salva le banche a colpi di miliardi ma dilapida l’avvenire dei suoi giovani. Se la crisi dell’euro logora le speranze della gioventù europea, quale avvenire resterà mai a un’Europa sempre più vecchia?
Se non altro, la crisi finanziaria sarà riuscita a realizzare una cosa: catapultare tutti quanti (esperti e politici compresi) in un universo che nessuno capisce più. Sul versante delle reazioni politiche entrano in concorrenza tra loro due scenari estremi. Il primo, hegeliano, che offre un’opportunità storica all’“astuzia della ragione”, ha visto profilarsi minacce causate dal “rischio-capitalismo” mondiale. L’imperativo universale è uno solo: collaborare o affondare. Vincere tutti insieme oppure perdere da soli.
Al tempo stesso, la nostra incapacità a tenere sotto controllo i rischi finanziari (oltre al riscaldamento del clima e ai flussi migratori) rende altresì possibile uno scenario che ricalca il pensiero di Carl Schmitt, un gioco di potere strategico che – con la normalizzazione dell’emergenza continua in tutto il mondo – apre le porte a politiche etniche e nazionalistiche.
Paradossalmente, l’Unione europea è vittima del suo stesso successo. Per gli europei un gran numero di conquiste è diventato così scontato che probabilmente si accorgerebbero di esse soltanto quando queste venissero meno. Per averne la riprova, è sufficiente pensare al ritorno dei controlli alle frontiere, alla cancellazione della legislazione comune sui prodotti alimentari, alla soppressione della libertà di espressione fondata su criteri comuni in tutti i paesi (che soltanto l’Ungheria oggi trasgredisce).
Oppure sarebbe sufficiente immaginare di essere nuovamente costretti a cambiare valuta e imparare a memoria il tasso di cambio quando si parte non solo per Budapest, Copenhagen e Praga, ma anche Parigi, Madrid e Roma. L’Europa è diventata una seconda pelle, ed è forse per questo che siamo pronti a mettere a repentaglio la sua esistenza senza nemmeno alzare un sopracciglio. È indispensabile invece guardare in faccia la realtà, e riconoscere che ormai la Germania condivide a tutti gli effetti le sorti dell’Europa.
A differenza del destino comune imposto a due antagonisti come Stati Uniti e Cina, il destino comune dell’Europa fa affidamento su una legislazione comune, una valuta comune, frontiere comuni, ma anche sul principio del “mai più!”. Invece di tornare a un passato prestigioso, l’Ue fa in modo che quel passato non si ripeta mai più.
Invece di trasformarsi in un super-stato oppure in un meccanismo che nel migliore dei casi rappresenterebbe interessi nazionali illuminati, l’Ue ha saputo trovare una terza via. Suo ruolo principale è quello del direttore d’orchestra. Agevola i rapporti tra gli impegni presi e le diverse istituzioni costituite da vari stati, ma anche tra organizzazione transnazionali e collettività municipali e regionali e strutture della società civile.
Il fondo di salvataggio destinato ai paesi del Sud ha dato vita a una logica conflittuale tra debitori e creditori. I paesi donatori sono obbligati a imporre a livello interno programmi di austerità che li inducono a esercitare pressioni politiche insostenibili sui paesi debitori, mentre questi ultimi hanno per di più l’impressione di essere sottomessi a un diktat da parte dell’Ue, che offende la loro autonomia nazionale e la loro dignità. Questi due fenomeni attizzano l’odio dell’Europa verso l’Europa, perché essa appare a tutti come una costrizione.
Europa tedesca o Germania europea?
In questa Europa in crisi perpetua, il conflitto esistente sui modelli futuri ci pone i seguenti interrogativi: in che misura il movimento dei giovani indignados supera le frontiere nazionali e promuove la solidarietà? In che misura la sensazione di emarginazione che ne deriva conduce a un’esperienza generazionale e a nuove iniziative politiche? Che atteggiamento adottano i dipendenti, i sindacati, il cuore della società europea? Quali grandi partiti, per esempio in Germania, troveranno il coraggio di spiegare alla cittadinanza fino a che punto l’Europa è loro necessaria?
Angela Merkel preferisce seguire Hegel e le digressioni della ragione. Se volessimo adottare la metafora della danza, potremmo dire che effettua due passi indietro e uno di lato prima di eseguire il numero ridicolo del voltafaccia, stemperato da un passettino in avanti. Il tutto seguendo una musica che né i tedeschi né gli altri europei riescono a sentire e tanto meno a capire. Laddove Helmut Kohl metteva in guardia da un’Europa tedesca, alla quale preferiva una Germania europea, Angela Merkel difende infatti l’ “euro-nazionalismo” tedesco e considera che spetti all’Europa adattarsi alla politica economica di Berlino.
In questo contesto di crisi finanziaria, la politica europea dovrebbe rivestire il medesimo ruolo che l’Ostpolitik ebbe nella Germania divisa degli anni Settanta: una politica di riavvicinamento al di là delle frontiere. Perché l’integrazione economica di paesi debitori quali la Grecia e il Portogallo crea così tante ondate di polemiche, quando i miliardi investiti per la riunificazione delle due Germanie filarono lisci come l’olio? Qui non si tratta soltanto di pagare per le stoviglie rotte, ma di ripensare al futuro dell’Europa e al suo posto nel mondo.
La creazione degli eurobond non tradirebbe gli interessi della Germania. Perché l’Europa non dovrebbe introdurre una tassa sulla transazioni finanziarie che non farebbe male a nessuno, tanto meno alle banche, e che al contrario farebbe del bene a tutti i paesi membri offrendo per di più un margine di manovra finanziaria all’Europa sociale ed ecologica, garantendo al contempo ai lavoratori la sicurezza in tutta Europa e rispondendo alle grandi aspettative dei giovani europei?
Nel frattempo, il minuetto di Merkel potrebbe gettare le premesse di un futuro progetto politico che abbini i socialdemocratici e i Verdi. Quando l’Spd e i Verdi riusciranno a trasmettere l’idea che un’Europa sociale non si riduce a un introverso spirito mercantile, ma si basa – secondo la tesi hegeliana – su una necessità storica, l’Spd tornerà ai successi elettorali. A patto, tuttavia, che abbia il coraggio di fare dell’Europa la propria priorità, come accadde con l’Ostpolitik una quarantina di anni fa.
(traduzione di Anna Bissanti).
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
31.8.11
È l’ora dell’Europolitik
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L'evasiva lotta all'evasione
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
Fateci capire: esistono diritti acquisiti di serie A e diritti acquisiti di serie B? È una domanda doverosa davanti alla clamorosa e offensiva disparità che emerge dall'ultima puntata della manovra di aggiustamento finanziario. Un tormentone che vede apparire e sparire (e chissà quanto ciò tranquillizzerà i mercati...) norme che sbattono le ali e muoiono come certe farfalle che vivono poche ore, giusto il tempo di incantare i fanciulli.
Di là non si possono toccare gli evasori che pagando uno zuccherino avevano riportato i capitali (anche sporchi) in Italia o i vitalizi parlamentari perché in entrambi i casi «lo Stato tradirebbe la parola data». Di qua lo stesso Stato può rimangiarsi altri impegni. Come quello preso con larghe fasce di cittadini che anche recentemente (perfino su pressione di campagne governative!) avevano riscattato, spesso a caro prezzo, gli anni del servizio militare, della laurea o della specializzazione (fino a 12 anni, in certi settori della medicina) e che si ritrovano oggi con la pensione che s'allontana di colpo di anni e anni. Una scelta che, ammesso che non venga rinnegata domani come tante altre (è già in corso uno scaricabarile) è platealmente punitiva verso un elettorato considerato, a torto o a ragione, ostile.
E il famoso «contributo di solidarietà» evaporato per tutti tranne i dipendenti pubblici di fascia superiore? Varrà, stavolta, anche per i dirigenti di Palazzo Chigi che, umma umma, furono salvati dai tagli della Finanziaria 2010 perché la cosa aveva «sollevato dubbi di natura interpretativa»? E quanto durerà, stavolta, la grancassa sui «tagli epocali ai costi della politica»? La famosa abolizione dei Comuni sotto i 1.000 abitanti, sparata poche settimane fa come «la soppressione di 54.000 poltrone», si spense il giorno stesso della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Risparmi previsti: zero! Zero carbonella.
È questo il problema. In un momento in cui si moltiplicano le perplessità per i miliardi che mancano ai «saldi invariati» (quattro, cinque, chissà...) e autorevoli istituzioni segnalano che le entrate statali viaggiano verso il 50% del Pil, con il record assoluto di pressione fiscale a dispetto degli slogan «meno tasse per tutti», il governo, la maggioranza, la classe dirigente, avrebbero un disperato bisogno di credibilità. Messa a rischio da troppe norme sfarfalleggianti e sconcertanti contraddizioni.
Prendiamo la lotta all'evasione fiscale. Per anni il Cavaliere, al di là dei condoni a raffica, ha ripetuto che evadere, per chi deve dare allo Stato più di un terzo di quanto guadagna è «un diritto naturale nel cuore degli uomini». Ha detto che «dare soldi alla Guardia di finanza non è considerato reato dall'88% degli italiani». Ha raccontato barzellette tipo: «Due banditi entrano in un ufficio e urlano: "Questa è una rapina". Un impiegato: "Ah, credevo fosse la Finanza"».
È dura, adesso, far la guerra agli evasori. Tanto più avendo al fianco quel Bossi che sfondò in politica incitando alla rivolta fiscale («Io non lo farei mai», lo bacchettò Silvius Magnago: «La mia patria è l'Austria, ma sono un cittadino italiano. E i cittadini le tasse devono pagarle»).
E solo due mesi fa impose l'altolà alla offensiva contro gli evasori tuonando a Pontida: «Già martedì voteremo un decreto che metta dei paletti all'azione di Equitalia. Ci sono agricoltori che si sono visti sequestrare trattori, balle, mucche. Così non possono lavorare...». Tesi rafforzata, mentre venivano rimosse le «ganasce fiscali» e allungati di altri 180 giorni in tempi per i contenziosi, dalle parole di altri leghisti. Come Matteo Salvini: «In certi casi Equitalia pratica lo strozzinaggio». Per non dire della minaccia di Calderoli di uno sciopero fiscale se non fossero stati trasferiti alcuni ministeri al Nord.
Si sono convertiti? Bene: anche San Paolo, prima di restare folgorato sulla via di Damasco, aveva altre idee. Saranno però chiamati a darne prova in modo convincente su certi punti scabrosi. L'Agenzia delle Entrate sta lavorando, ad esempio, a una stretta sulle società di comodo. Quelle, per intenderci, cui sono intestate barche e ville (compresi lo yacht di Flavio Briatore o la Certosa di Porto Rotondo) per fare marameo al Fisco. Passerà, quella stretta? E come?
Non si tratta di convincere solo i cittadini. La stessa Corte dei Conti due anni fa, davanti all'ennesimo ipotetico pacco di miliardi da ricavare dalla guerra agli evasori e messo alla voce «entrate», usò parole dure: «Sussiste il problema dell'incertezza sugli effetti di gettito ascrivibili alla lotta all'evasione a causa dell'assenza di affidabili meccanismi e metodologie di verifica a posteriori che consentano di distinguere con certezza l'effettivo recupero di evasione agli effetti imputabili al ciclo economico o a fattori normativi o, anche, a meri errori di stima». Parole al vento. Ma pesanti come pietre. Tanto più alla luce di una manovra composta, come quella attuale, per oltre il 60% da aumenti delle entrate e per meno del 40 da tagli alle spese. Auguri.
Quanto ai «costi della politica», viene un sospetto: che per lasciare che tutto rimanga com'è, stiano «promettendo» che tutto cambierà. Vale per il dimezzamento dei parlamentari, vale per l'abolizione delle Province. Affidati a un mitico disegno di legge costituzionale destinato a fare 4 passaggi parlamentari in un anno e mezzo. Il tutto dopo anni di ringhiose barricate leghiste. Dopo che ai primi di luglio la stessa maggioranza aveva seppellito alla Camera sotto una valanga di no l'identica legge proposta dall'Italia dei Valori. Dopo che solo alla vigilia di Ferragosto, davanti ai crolli in Borsa, la prima versione della manovra aveva deciso di abolirne 37 poi scese a 29 e infine a 22. Anche qui, auguri.
Non possono pretendere però che i cittadini ci credano così, al buio. Non dopo avere scoperto che quel famoso progetto di riforma storica e immediata sventolato da Roberto Calderoli non è mai (mai) stato depositato. Non dopo aver letto sul «Giornale» tre anni fa un titolo a 9 colonne: «Via alla manovra: abolite nove Province». Non dopo avere trovato su «La Padania» di due settimane fa, a proposito di «svolte epocali» già oggi evaporate, il titolone «La Casta colpita al cuore». Questa volta gli annunci non bastano più. Non solo ai mercati: ai cittadini.
Fateci capire: esistono diritti acquisiti di serie A e diritti acquisiti di serie B? È una domanda doverosa davanti alla clamorosa e offensiva disparità che emerge dall'ultima puntata della manovra di aggiustamento finanziario. Un tormentone che vede apparire e sparire (e chissà quanto ciò tranquillizzerà i mercati...) norme che sbattono le ali e muoiono come certe farfalle che vivono poche ore, giusto il tempo di incantare i fanciulli.
Di là non si possono toccare gli evasori che pagando uno zuccherino avevano riportato i capitali (anche sporchi) in Italia o i vitalizi parlamentari perché in entrambi i casi «lo Stato tradirebbe la parola data». Di qua lo stesso Stato può rimangiarsi altri impegni. Come quello preso con larghe fasce di cittadini che anche recentemente (perfino su pressione di campagne governative!) avevano riscattato, spesso a caro prezzo, gli anni del servizio militare, della laurea o della specializzazione (fino a 12 anni, in certi settori della medicina) e che si ritrovano oggi con la pensione che s'allontana di colpo di anni e anni. Una scelta che, ammesso che non venga rinnegata domani come tante altre (è già in corso uno scaricabarile) è platealmente punitiva verso un elettorato considerato, a torto o a ragione, ostile.
E il famoso «contributo di solidarietà» evaporato per tutti tranne i dipendenti pubblici di fascia superiore? Varrà, stavolta, anche per i dirigenti di Palazzo Chigi che, umma umma, furono salvati dai tagli della Finanziaria 2010 perché la cosa aveva «sollevato dubbi di natura interpretativa»? E quanto durerà, stavolta, la grancassa sui «tagli epocali ai costi della politica»? La famosa abolizione dei Comuni sotto i 1.000 abitanti, sparata poche settimane fa come «la soppressione di 54.000 poltrone», si spense il giorno stesso della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Risparmi previsti: zero! Zero carbonella.
È questo il problema. In un momento in cui si moltiplicano le perplessità per i miliardi che mancano ai «saldi invariati» (quattro, cinque, chissà...) e autorevoli istituzioni segnalano che le entrate statali viaggiano verso il 50% del Pil, con il record assoluto di pressione fiscale a dispetto degli slogan «meno tasse per tutti», il governo, la maggioranza, la classe dirigente, avrebbero un disperato bisogno di credibilità. Messa a rischio da troppe norme sfarfalleggianti e sconcertanti contraddizioni.
Prendiamo la lotta all'evasione fiscale. Per anni il Cavaliere, al di là dei condoni a raffica, ha ripetuto che evadere, per chi deve dare allo Stato più di un terzo di quanto guadagna è «un diritto naturale nel cuore degli uomini». Ha detto che «dare soldi alla Guardia di finanza non è considerato reato dall'88% degli italiani». Ha raccontato barzellette tipo: «Due banditi entrano in un ufficio e urlano: "Questa è una rapina". Un impiegato: "Ah, credevo fosse la Finanza"».
È dura, adesso, far la guerra agli evasori. Tanto più avendo al fianco quel Bossi che sfondò in politica incitando alla rivolta fiscale («Io non lo farei mai», lo bacchettò Silvius Magnago: «La mia patria è l'Austria, ma sono un cittadino italiano. E i cittadini le tasse devono pagarle»).
E solo due mesi fa impose l'altolà alla offensiva contro gli evasori tuonando a Pontida: «Già martedì voteremo un decreto che metta dei paletti all'azione di Equitalia. Ci sono agricoltori che si sono visti sequestrare trattori, balle, mucche. Così non possono lavorare...». Tesi rafforzata, mentre venivano rimosse le «ganasce fiscali» e allungati di altri 180 giorni in tempi per i contenziosi, dalle parole di altri leghisti. Come Matteo Salvini: «In certi casi Equitalia pratica lo strozzinaggio». Per non dire della minaccia di Calderoli di uno sciopero fiscale se non fossero stati trasferiti alcuni ministeri al Nord.
Si sono convertiti? Bene: anche San Paolo, prima di restare folgorato sulla via di Damasco, aveva altre idee. Saranno però chiamati a darne prova in modo convincente su certi punti scabrosi. L'Agenzia delle Entrate sta lavorando, ad esempio, a una stretta sulle società di comodo. Quelle, per intenderci, cui sono intestate barche e ville (compresi lo yacht di Flavio Briatore o la Certosa di Porto Rotondo) per fare marameo al Fisco. Passerà, quella stretta? E come?
Non si tratta di convincere solo i cittadini. La stessa Corte dei Conti due anni fa, davanti all'ennesimo ipotetico pacco di miliardi da ricavare dalla guerra agli evasori e messo alla voce «entrate», usò parole dure: «Sussiste il problema dell'incertezza sugli effetti di gettito ascrivibili alla lotta all'evasione a causa dell'assenza di affidabili meccanismi e metodologie di verifica a posteriori che consentano di distinguere con certezza l'effettivo recupero di evasione agli effetti imputabili al ciclo economico o a fattori normativi o, anche, a meri errori di stima». Parole al vento. Ma pesanti come pietre. Tanto più alla luce di una manovra composta, come quella attuale, per oltre il 60% da aumenti delle entrate e per meno del 40 da tagli alle spese. Auguri.
Quanto ai «costi della politica», viene un sospetto: che per lasciare che tutto rimanga com'è, stiano «promettendo» che tutto cambierà. Vale per il dimezzamento dei parlamentari, vale per l'abolizione delle Province. Affidati a un mitico disegno di legge costituzionale destinato a fare 4 passaggi parlamentari in un anno e mezzo. Il tutto dopo anni di ringhiose barricate leghiste. Dopo che ai primi di luglio la stessa maggioranza aveva seppellito alla Camera sotto una valanga di no l'identica legge proposta dall'Italia dei Valori. Dopo che solo alla vigilia di Ferragosto, davanti ai crolli in Borsa, la prima versione della manovra aveva deciso di abolirne 37 poi scese a 29 e infine a 22. Anche qui, auguri.
Non possono pretendere però che i cittadini ci credano così, al buio. Non dopo avere scoperto che quel famoso progetto di riforma storica e immediata sventolato da Roberto Calderoli non è mai (mai) stato depositato. Non dopo aver letto sul «Giornale» tre anni fa un titolo a 9 colonne: «Via alla manovra: abolite nove Province». Non dopo avere trovato su «La Padania» di due settimane fa, a proposito di «svolte epocali» già oggi evaporate, il titolone «La Casta colpita al cuore». Questa volta gli annunci non bastano più. Non solo ai mercati: ai cittadini.
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La prova del tifone
Barbara Spinelli (La Repubblica)
Hanno la memoria corta, coloro che guardando fuori dalla finestra, e vedendo i tempi come son brutti, concludono che non è sotto cieli sì rabbuiati che si può fare dell´Europa una grande potenza.Una grande potenza decisa a non farsi abbattere dalle raffiche dei mercati e da quel che le raffiche dicono: la crisi di un mondo, non del mondo; la nascita di un universo multipolare, non più egemonizzato da America e Occidente. L´idea dell´unificazione europea non nacque nei sogni di uomini che se ne stavano sdraiati su verdi prati, ma nella tormenta e nella guerra, quando le forze dei nazionalismi e delle dittature mietevano morte.
Lo sanno gli italiani, che da quelle guerre uscirono più saggi perché vinti. Lo sanno soprattutto i tedeschi, per i quali l´Europa fu redenzione democratica. Sembrano averlo dimenticato, ma se negli Anni ´30 la crisi li spezzò, anche spiritualmente, fu perché la Germania era stata trattata, dopo il 14-18, come uno Stato da vessare, da punire economicamente. I suoi creditori furono esosi e sterminatamente vacui, le riparazioni imposte al vinto divennero un cappio insostenibile. I disoccupati, alla fine del ´31, erano 6 milioni. Mancò nei vincitori la saggezza della solidarietà e fu catastrofe, per i tedeschi e per l´Europa.
I moderni euroscettici non sanno la storia che fanno e che ripetono, intontiti. Anche, quando commentano tristemente che mancano stavolta i grandi uomini, che il vento della crisi è troppo forte per prendere decisioni, che la decadenza essendo alle porte non resta che intirizzire e rimpicciolirsi, non sanno quel che dicono. È vero, mancano i grandi, la bufera travolge e sparpaglia gli uomini: che altro fare, se non pregare? È quel che fanno i politici: invece di agire, predicano. Viene in mente il Tifone di Joseph Conrad: «È questa la forza disgregatrice di un gran vento: isola l´uomo dai propri simili».
Quel breve romanzo di Conrad vale la pena rimeditarlo, perché in esso oggi ci rispecchiamo e perché nostra è la domanda che assilla il protagonista, il capitano MacWhirr. Il suo vice, Jukes, gli fa capire a un certo punto che l´immane tempesta forse la potrebbe schivare, deviando dalla rotta stabilita. Perché MacWhirr non segue questo consiglio in apparenza prudente, di buon senso? Perché si getta a capofitto nel tifone quando potrebbe aggirarlo? MacWhirr ha qualcosa di ottuso, cocciuto, non immaginativo, lo sguardo perso nel vuoto. Quel che dice a se stesso, provo a riassumerlo in un monologo immaginario: «Cosa dirò, quando arriverò al porto con due giorni di ritardo avendo allungato il percorso pur di scansare la tormenta? Non potrò giustificarmi evocandola, perché neppure l´avrò vista («Come sapere di cosa è fatta una tempesta prima che ti cada addosso?»). Di quale impedimento ciancerò, non avendolo neanche sfiorato? Dirò che ho letto tanti manuali, ma in quale manuale è contemplato il preciso tifone che mi s´accampa forse davanti? Non sono, tutte le «strategie della tempesta» enumerate dagli esperti, figlie – come dice Keynes – di qualche economista defunto? Il fatto è che dovevo arrivare al porto di Fu-Chau venerdì a mezzogiorno, col mio carico umano di coolies cinesi, e che per evitare un tifone che mi resta ignoto ho fatto tutto un giro di Peppe e non ho rispettato i patti. Questo mi rende inaffidabile, non atto al comando, ora e in futuro. La tua occasione è questa, ed è ora e qui».
Ecco, a me sembra che gli uomini eccelsi siano creature delle occasioni, colte nel momento in cui si presentano. Non appaiono prima che l´ora spunti e il vento li metta alla prova, minacciando di separare individui e nazioni. Si può contrastare infatti la sua forza disgregatrice, traversando da forti il tifone. In Europa, oggi, quel che salva è guardare in faccia la tempesta, farsi da essa educare alla grandezza, arrivare in porto all´ora giusta. Quel che ci perde è allungare il tragitto di 300 miglia, far deviare la nave di cinquanta gradi verso Est: un incubo, per il capitano della Nan-Shan.
Gli euroscettici somigliano al primo ufficiale Jukes, che suggerisce di allungare la via: gli stessi tremori e timori li indolenziscono. L´ora del grande vento non è la migliore – dicono – per azioni ardite. Non è questo il momento, in tanta turbolenza, di ripensare l´Europa, di immaginare quel che si perde scassandola, di escogitare i mezzi perché possa resistere solidalmente alla recessione, non isolando i popoli uno dall´altro. Salvare l´idea europea dello Stato sociale, ricominciare a crescere ma in maniera diversa, risparmiando energia e sintonizzandosi con i Paesi emergenti che crescono al posto nostro: tale la via. E dare agli europei un corpo politico più vasto: perché la taglia conta nella mondializzazione, se vuoi governarla e non affidarla solo ai mercati.
Gli eurobond di cui si parla in questi giorni (proposti da Tremonti e il presidente dell´Eurogruppo Jean-Claude Juncker, da Mario Monti, da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio) sono frecce che l´Unione potrebbe mettere nella sua faretra. E certo son tanti i problemi, ma anche per l´Europa vale la domanda sorta in Italia di fronte agli sconquassi berlusconiani: se non ora, quando? È ora che va riaggregato quel che il vento disgrega. È ora che i politici sono chiamati a farsi modellare dal tifone e apprendere il comando. È ora che occorre avere fiducia nella società e nelle nuove generazioni, le più colpite dalla crisi perché a lungo trascurate dalle generazioni precedenti.
Che la Germania sia oggi la più paralizzata ha qualcosa di stupefacente e tragico. Proprio lei che ha sperimentato la rinascita dopo il disastro oggi si chiude, si assoggetta a defunti dottrinari del mercato. Pensa che ognuno debba far prima ordine in casa propria. È tentata dal destino della piccola Svizzera, sfiancata da una moneta troppo forte. Senza ben saperlo, è immersa in discorsi decadenti sull´Europa.
I discorsi sulla decadenza sono un´impostura, sempre: per l´Europa e ancor più per i giovani (con che faccia tosta dir loro che il mondo finisce?). I rinvii e le ignavie fanno comodo ai gruppi di interesse che corrodono le democrazie, ma il comodo è breve anche per loro. Le deviazioni non ci fanno tornare indietro agli Stati-nazione, come alcuni sperano o temono. Non ritorneremmo, se l´Euro si sfasciasse, allo Stato sovrano descritto da Nietzsche («il più freddo di tutti i mostri freddi») perché quel che accade è per buona parte del mondo un progresso, col quale entreremo in contatto solo se faremo blocco. Solo se gli Stati risaneranno le proprie economie, e al contempo faranno in modo che una nuova crescita parta dal continente Europa.
Gli eurobond potrebbero aiutare questa crescita collettiva, perché implicano l´istituzione di un Fondo finanziario europeo, che emetta titoli di due tipi: titoli per trasformare i debiti degli Stati in debito europeo, e titoli per finanziare nuovi piani infrastrutturali comuni. All´inizio l´idea fu considerata utopica. La proposero fin dal maggio 2008 tre economisti – Alfonso Iozzo, Stefano Micossi, Maria Teresa Salvemini – in un progetto per il Centro studi di politica europea a Bruxelles (Ceps). L´estendersi della crisi resuscita l´idea. Ma allo stesso modo in cui fu necessario creare nuove condizioni perché l´Euro nascesse – sostiene Alfonso Iozzo – oggi occorre un salto di qualità dell´Unione: «Nel caso della moneta unica, fu necessario rassicurare i tedeschi con il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità. Non diversa la sfida degli eurobond: per il passaggio dai debiti nazionali al debito federale europeo, saranno necessarie norme costituzionali dell´Unione che garantiscano la supremazia delle decisioni europee sulla possibilità di fare deficit a livello nazionale».
L´altro scenario c´è: è il giro di Peppe. Se aspettiamo il bel tempo saremo perduti, perché è quando fa brutto che l´uomo escogita l´ombrello, i tetti sopra le case, il fuoco per scaldarsi. Anche il Welfare fu concepito da Beveridge in piena guerra, nel ´42. I giovani, quando vedranno che i vecchi s´inventano tetti e ombrelli, non si ribelleranno.
Hanno la memoria corta, coloro che guardando fuori dalla finestra, e vedendo i tempi come son brutti, concludono che non è sotto cieli sì rabbuiati che si può fare dell´Europa una grande potenza.Una grande potenza decisa a non farsi abbattere dalle raffiche dei mercati e da quel che le raffiche dicono: la crisi di un mondo, non del mondo; la nascita di un universo multipolare, non più egemonizzato da America e Occidente. L´idea dell´unificazione europea non nacque nei sogni di uomini che se ne stavano sdraiati su verdi prati, ma nella tormenta e nella guerra, quando le forze dei nazionalismi e delle dittature mietevano morte.
Lo sanno gli italiani, che da quelle guerre uscirono più saggi perché vinti. Lo sanno soprattutto i tedeschi, per i quali l´Europa fu redenzione democratica. Sembrano averlo dimenticato, ma se negli Anni ´30 la crisi li spezzò, anche spiritualmente, fu perché la Germania era stata trattata, dopo il 14-18, come uno Stato da vessare, da punire economicamente. I suoi creditori furono esosi e sterminatamente vacui, le riparazioni imposte al vinto divennero un cappio insostenibile. I disoccupati, alla fine del ´31, erano 6 milioni. Mancò nei vincitori la saggezza della solidarietà e fu catastrofe, per i tedeschi e per l´Europa.
I moderni euroscettici non sanno la storia che fanno e che ripetono, intontiti. Anche, quando commentano tristemente che mancano stavolta i grandi uomini, che il vento della crisi è troppo forte per prendere decisioni, che la decadenza essendo alle porte non resta che intirizzire e rimpicciolirsi, non sanno quel che dicono. È vero, mancano i grandi, la bufera travolge e sparpaglia gli uomini: che altro fare, se non pregare? È quel che fanno i politici: invece di agire, predicano. Viene in mente il Tifone di Joseph Conrad: «È questa la forza disgregatrice di un gran vento: isola l´uomo dai propri simili».
Quel breve romanzo di Conrad vale la pena rimeditarlo, perché in esso oggi ci rispecchiamo e perché nostra è la domanda che assilla il protagonista, il capitano MacWhirr. Il suo vice, Jukes, gli fa capire a un certo punto che l´immane tempesta forse la potrebbe schivare, deviando dalla rotta stabilita. Perché MacWhirr non segue questo consiglio in apparenza prudente, di buon senso? Perché si getta a capofitto nel tifone quando potrebbe aggirarlo? MacWhirr ha qualcosa di ottuso, cocciuto, non immaginativo, lo sguardo perso nel vuoto. Quel che dice a se stesso, provo a riassumerlo in un monologo immaginario: «Cosa dirò, quando arriverò al porto con due giorni di ritardo avendo allungato il percorso pur di scansare la tormenta? Non potrò giustificarmi evocandola, perché neppure l´avrò vista («Come sapere di cosa è fatta una tempesta prima che ti cada addosso?»). Di quale impedimento ciancerò, non avendolo neanche sfiorato? Dirò che ho letto tanti manuali, ma in quale manuale è contemplato il preciso tifone che mi s´accampa forse davanti? Non sono, tutte le «strategie della tempesta» enumerate dagli esperti, figlie – come dice Keynes – di qualche economista defunto? Il fatto è che dovevo arrivare al porto di Fu-Chau venerdì a mezzogiorno, col mio carico umano di coolies cinesi, e che per evitare un tifone che mi resta ignoto ho fatto tutto un giro di Peppe e non ho rispettato i patti. Questo mi rende inaffidabile, non atto al comando, ora e in futuro. La tua occasione è questa, ed è ora e qui».
Ecco, a me sembra che gli uomini eccelsi siano creature delle occasioni, colte nel momento in cui si presentano. Non appaiono prima che l´ora spunti e il vento li metta alla prova, minacciando di separare individui e nazioni. Si può contrastare infatti la sua forza disgregatrice, traversando da forti il tifone. In Europa, oggi, quel che salva è guardare in faccia la tempesta, farsi da essa educare alla grandezza, arrivare in porto all´ora giusta. Quel che ci perde è allungare il tragitto di 300 miglia, far deviare la nave di cinquanta gradi verso Est: un incubo, per il capitano della Nan-Shan.
Gli euroscettici somigliano al primo ufficiale Jukes, che suggerisce di allungare la via: gli stessi tremori e timori li indolenziscono. L´ora del grande vento non è la migliore – dicono – per azioni ardite. Non è questo il momento, in tanta turbolenza, di ripensare l´Europa, di immaginare quel che si perde scassandola, di escogitare i mezzi perché possa resistere solidalmente alla recessione, non isolando i popoli uno dall´altro. Salvare l´idea europea dello Stato sociale, ricominciare a crescere ma in maniera diversa, risparmiando energia e sintonizzandosi con i Paesi emergenti che crescono al posto nostro: tale la via. E dare agli europei un corpo politico più vasto: perché la taglia conta nella mondializzazione, se vuoi governarla e non affidarla solo ai mercati.
Gli eurobond di cui si parla in questi giorni (proposti da Tremonti e il presidente dell´Eurogruppo Jean-Claude Juncker, da Mario Monti, da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio) sono frecce che l´Unione potrebbe mettere nella sua faretra. E certo son tanti i problemi, ma anche per l´Europa vale la domanda sorta in Italia di fronte agli sconquassi berlusconiani: se non ora, quando? È ora che va riaggregato quel che il vento disgrega. È ora che i politici sono chiamati a farsi modellare dal tifone e apprendere il comando. È ora che occorre avere fiducia nella società e nelle nuove generazioni, le più colpite dalla crisi perché a lungo trascurate dalle generazioni precedenti.
Che la Germania sia oggi la più paralizzata ha qualcosa di stupefacente e tragico. Proprio lei che ha sperimentato la rinascita dopo il disastro oggi si chiude, si assoggetta a defunti dottrinari del mercato. Pensa che ognuno debba far prima ordine in casa propria. È tentata dal destino della piccola Svizzera, sfiancata da una moneta troppo forte. Senza ben saperlo, è immersa in discorsi decadenti sull´Europa.
I discorsi sulla decadenza sono un´impostura, sempre: per l´Europa e ancor più per i giovani (con che faccia tosta dir loro che il mondo finisce?). I rinvii e le ignavie fanno comodo ai gruppi di interesse che corrodono le democrazie, ma il comodo è breve anche per loro. Le deviazioni non ci fanno tornare indietro agli Stati-nazione, come alcuni sperano o temono. Non ritorneremmo, se l´Euro si sfasciasse, allo Stato sovrano descritto da Nietzsche («il più freddo di tutti i mostri freddi») perché quel che accade è per buona parte del mondo un progresso, col quale entreremo in contatto solo se faremo blocco. Solo se gli Stati risaneranno le proprie economie, e al contempo faranno in modo che una nuova crescita parta dal continente Europa.
Gli eurobond potrebbero aiutare questa crescita collettiva, perché implicano l´istituzione di un Fondo finanziario europeo, che emetta titoli di due tipi: titoli per trasformare i debiti degli Stati in debito europeo, e titoli per finanziare nuovi piani infrastrutturali comuni. All´inizio l´idea fu considerata utopica. La proposero fin dal maggio 2008 tre economisti – Alfonso Iozzo, Stefano Micossi, Maria Teresa Salvemini – in un progetto per il Centro studi di politica europea a Bruxelles (Ceps). L´estendersi della crisi resuscita l´idea. Ma allo stesso modo in cui fu necessario creare nuove condizioni perché l´Euro nascesse – sostiene Alfonso Iozzo – oggi occorre un salto di qualità dell´Unione: «Nel caso della moneta unica, fu necessario rassicurare i tedeschi con il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità. Non diversa la sfida degli eurobond: per il passaggio dai debiti nazionali al debito federale europeo, saranno necessarie norme costituzionali dell´Unione che garantiscano la supremazia delle decisioni europee sulla possibilità di fare deficit a livello nazionale».
L´altro scenario c´è: è il giro di Peppe. Se aspettiamo il bel tempo saremo perduti, perché è quando fa brutto che l´uomo escogita l´ombrello, i tetti sopra le case, il fuoco per scaldarsi. Anche il Welfare fu concepito da Beveridge in piena guerra, nel ´42. I giovani, quando vedranno che i vecchi s´inventano tetti e ombrelli, non si ribelleranno.
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28.8.11
Nell’ospedale dell’orrore tra i cadaveri dei mercenari
Dentro Abu Salim, ultima roccaforte dei lealisti: ci sono solo sangue e morte
MIMMO CANDITO
Ieri era venerdì, qui a Tripoli, il giorno di festa, e perfino la guerra sembrava essersi fermata. Nei posti di blocco i miliziani hanno cominciato a montare gli ombrelloni, per difendersi dal sole che picchia a 50 gradi, e il fuoco dei cannoni e dei Kalashnikov ha taciuto fino a notte, quasi spossato anch’esso dalla calura. Ma anche in questo silenzio irreale, lo sporco lavoro della guerra continuava. Nell’atrio dell’ospedale di Abu Salim, un centinaio di corpi lo ricordava ormai indifferente, disfacendosi come se la carne fosse ancora viva; erano tutti neri d’Africa, o quasi tutti, e nel puzzo dolciastro che rendeva l’aria irrespirabile una decina di volontari – la mascherina sulla bocca, i guanti di lattice, lunghi camicioni verdi fino a terra - li avvolgeva in grandi fogli di plastica, stringendoli con un legaccio alla testa e ai piedi e li ributtava a mucchio sui camion in attesa.
Miliardi di mosche ronzavano irritate per essere state disturbate dal loro pasto pingue, sulle pance aperte, sulle ferite mummificate nel sangue, sulle budella e i cervelli squarciati; e migliaia di piccoli vermi di color tenue brulicavano come impazziti di gioia sulle occhiaie succose dei morti che la calce non aveva ancora coperto. Vi fa schifo? Ah, ne sono felice, amaramente felice, perché quelle mosche dannate e quei vermi che mangiavano muovendosi con delizia sulla carne del cadavere facevano schifo anche a me, e volevo però, volevo, che voi ne condivideste il disgusto che ti acchiappa allo stomaco e non ti molla più che forse non ci dormi nemmeno; perché allora sì che lo schifo che qui vi obbligo a procurarvi dà finalmente un senso a questo sporco lavoro, di chi va in giro a raccontare la guerra e rischia però di trasformarla soltanto in uno show, dove ci sono i buoni e i cattivi, il pumpum da riprendere con telecamere bulimiche, e i soldati che si muovono come se recitassero.
La guerra fa questi morti, queste mosche insaziabili, questi vermi che si muovono oscenamente insensibili davanti a chi li osserva. Fa, la guerra, anche tutto quello che sono andato poi a vedere nell’ospedale di Abu Salim, ora che i miliziani hanno «ripulito» l’intero quartiere (a Tripoli ormai si combatte soltanto nella periferia di Salh alDhin e intorno all’aeroporto), con le teste aperte, le ginocchia frantumate, le ossa rotte, di chi è stato ferito e ancora non si è deciso a morire e riempie di sangue e di urla il pronto soccorso. Un pronto soccorso che è poco più di una stanza sporca di rosso e di polvere, dove i dottori si affannano a ricucire, tamponare, chiudere, stringere di legacci e di filo quello che la carne mostra in tutta la sua impazzita nudità.
Un ospedale di guerra è assai più di un ospedale. È un posto dove spesso si passa a morire, o – quando si è fortunati – si passa a lasciare un braccio, una gamba, anche tutt’e due le gambe. E io guardavo il disgraziato, poco più che un ragazzo, sporco di terra e della sporcizia di chi ha passato i giorni a combattere, che lo stavano tagliando per sperare di salvargli la vita. Una vita che, da ieri, per lui sarà per sempre diversa. Non ne so il nome, non posso dargli nemmeno la stupida popolarità d’una identità stampata sulla pagina d’un giornale straniero; ma certamente sarà una vita diversa. La giovane dottoressa che è venuta da Zawyia a portare il suo aiuto volontario aveva grandi occhi sbarrati di dolore; dirige un centro di pediatria e di psicologia infantile, non aveva mai visto nulla di simile. L’orrore le cambiava il volto, ma non piangeva. Si chiama Arabyia Gajun: «Non debbo e non voglio piangere, perché voglio poter sperare in un tempo migliore».
Perché toglierle le sue illusioni? perché dirle che deve prepararsi a un tempo difficile, a molte amarezze, a un negoziato che il Cnt e Gheddafi stanno conducendo nella oscurità mentre continua la caccia all’uomo, e forse il Colonnello è nascosto sottoterra come Saddam, o forse è nascosto ancora nel suo bunker, o forse è a Sebha, o a Sirte, o forse anche si è mascherato – come sempre faceva che nessuno ora lo riconosce? Perché dirglielo? La guerra costruisce montagne di illusioni e di speranze, apre i cuori e gli animi, lascia immaginare una palingenesi dove tutto si rinnova, si pulisce, odora di buono. «Voglio che sia finito questo orrore», e mi ha portato in una stanza accanto, che era più o meno fredda come dev’essere un posto dove si tengono i morti a non puzzare troppo. Su quattro lettighe, coperte da un foglio di plastica, quattro cadaveri facevano intravedere divise di militari e facce vuote; ma accanto alla finestra c’era un congelatore, di quelli bassi e larghi che s’usano in casa quando si hanno molte provviste da salvare.
«Aprilo, aprilo», mi incitava. Ho sollevato il coperchio, e dentro c’era il corpo di un soldato, ma con le gambe spezzate in modo innaturale, il corpo contorto per farlo stare dentro lo spazio angusto del congelatore, e la testa ruotata all’indietro di 180 gradi. Era un pupazzo sfasciato, ma un tempo era stato un uomo. «Doveva essere uno dell’Est europeo, Gheddafi lo ha fatto buttare qua dentro ancora vivo», e gli occhi sbarrati di quella faccia bianca di morte e di sofferenza, i capelli rossi d’un ucraino o d’un bulgaro, il dolore di uno spasmo bloccato in un lungo istante sospeso tra vita e morte, raccontavano un racconto che anche i lettori di un giornale devono imparare a conoscere come risultato della guerra. Sono andato allora a tentare di trovare almeno un respiro di misericordia, che rendesse più pulita questa giornata di schifezze e di orrore.
E alle 2 del pomeriggio, dopo che il lungo richiamo del muezzin aveva riempito l’aria di echi mistici, mi sono affacciato alla preghiera del venerdì (il sermone della «domenica» musulmana), nella più importante moschea di Tripoli, quella del maulaya Mohammed. Ad ascoltare l’imam non c’era molta gente, sembravano le chiese vuote delle nostre domeniche secolarizzate (più tardi, un anziano signore, alto e altero, un ex ufficiale di Marina mi spiegava in inglese: «La gente non ci crede, che sia davvero finita con Gheddafi, hanno ancora tutti paura»).
L’imam, giovane, la barbetta, gli occhiali ha parlato pianamente per un quarto d’ora, senza una retorica eccessiva, senza grandi sbalzi di tonalità. Ha raccontato che tutto quanto accade è volontà di Allah, che bisogna accettarlo, che dopo la tempesta viene il sereno. E che bisogna saper perdonare. Quando è sceso dalla scaletta gli ho chiesto: «Il progetto d’una nuova Costituzione chiede all’art. 1 che tutti i cittadini siano uguali, senza distinzione né di sesso né di religione. Lei è d’accordo?». Mi ha guardato, si è lisciato la barbetta, poi ha detto abbassando lievemente la testa: «Ma naturalmente, tutti uguali». Uomini e donne? gli ho chiesto. «Sì, uomini e donne». E musulmani e cristiani? gli ho chiesto ancora. «Sì, musulmani e cristiani». E si lisciava la barbetta. La guerra crea speranze e illusioni. Tutte le guerre, anche questa.
MIMMO CANDITO
Ieri era venerdì, qui a Tripoli, il giorno di festa, e perfino la guerra sembrava essersi fermata. Nei posti di blocco i miliziani hanno cominciato a montare gli ombrelloni, per difendersi dal sole che picchia a 50 gradi, e il fuoco dei cannoni e dei Kalashnikov ha taciuto fino a notte, quasi spossato anch’esso dalla calura. Ma anche in questo silenzio irreale, lo sporco lavoro della guerra continuava. Nell’atrio dell’ospedale di Abu Salim, un centinaio di corpi lo ricordava ormai indifferente, disfacendosi come se la carne fosse ancora viva; erano tutti neri d’Africa, o quasi tutti, e nel puzzo dolciastro che rendeva l’aria irrespirabile una decina di volontari – la mascherina sulla bocca, i guanti di lattice, lunghi camicioni verdi fino a terra - li avvolgeva in grandi fogli di plastica, stringendoli con un legaccio alla testa e ai piedi e li ributtava a mucchio sui camion in attesa.
Miliardi di mosche ronzavano irritate per essere state disturbate dal loro pasto pingue, sulle pance aperte, sulle ferite mummificate nel sangue, sulle budella e i cervelli squarciati; e migliaia di piccoli vermi di color tenue brulicavano come impazziti di gioia sulle occhiaie succose dei morti che la calce non aveva ancora coperto. Vi fa schifo? Ah, ne sono felice, amaramente felice, perché quelle mosche dannate e quei vermi che mangiavano muovendosi con delizia sulla carne del cadavere facevano schifo anche a me, e volevo però, volevo, che voi ne condivideste il disgusto che ti acchiappa allo stomaco e non ti molla più che forse non ci dormi nemmeno; perché allora sì che lo schifo che qui vi obbligo a procurarvi dà finalmente un senso a questo sporco lavoro, di chi va in giro a raccontare la guerra e rischia però di trasformarla soltanto in uno show, dove ci sono i buoni e i cattivi, il pumpum da riprendere con telecamere bulimiche, e i soldati che si muovono come se recitassero.
La guerra fa questi morti, queste mosche insaziabili, questi vermi che si muovono oscenamente insensibili davanti a chi li osserva. Fa, la guerra, anche tutto quello che sono andato poi a vedere nell’ospedale di Abu Salim, ora che i miliziani hanno «ripulito» l’intero quartiere (a Tripoli ormai si combatte soltanto nella periferia di Salh alDhin e intorno all’aeroporto), con le teste aperte, le ginocchia frantumate, le ossa rotte, di chi è stato ferito e ancora non si è deciso a morire e riempie di sangue e di urla il pronto soccorso. Un pronto soccorso che è poco più di una stanza sporca di rosso e di polvere, dove i dottori si affannano a ricucire, tamponare, chiudere, stringere di legacci e di filo quello che la carne mostra in tutta la sua impazzita nudità.
Un ospedale di guerra è assai più di un ospedale. È un posto dove spesso si passa a morire, o – quando si è fortunati – si passa a lasciare un braccio, una gamba, anche tutt’e due le gambe. E io guardavo il disgraziato, poco più che un ragazzo, sporco di terra e della sporcizia di chi ha passato i giorni a combattere, che lo stavano tagliando per sperare di salvargli la vita. Una vita che, da ieri, per lui sarà per sempre diversa. Non ne so il nome, non posso dargli nemmeno la stupida popolarità d’una identità stampata sulla pagina d’un giornale straniero; ma certamente sarà una vita diversa. La giovane dottoressa che è venuta da Zawyia a portare il suo aiuto volontario aveva grandi occhi sbarrati di dolore; dirige un centro di pediatria e di psicologia infantile, non aveva mai visto nulla di simile. L’orrore le cambiava il volto, ma non piangeva. Si chiama Arabyia Gajun: «Non debbo e non voglio piangere, perché voglio poter sperare in un tempo migliore».
Perché toglierle le sue illusioni? perché dirle che deve prepararsi a un tempo difficile, a molte amarezze, a un negoziato che il Cnt e Gheddafi stanno conducendo nella oscurità mentre continua la caccia all’uomo, e forse il Colonnello è nascosto sottoterra come Saddam, o forse è nascosto ancora nel suo bunker, o forse è a Sebha, o a Sirte, o forse anche si è mascherato – come sempre faceva che nessuno ora lo riconosce? Perché dirglielo? La guerra costruisce montagne di illusioni e di speranze, apre i cuori e gli animi, lascia immaginare una palingenesi dove tutto si rinnova, si pulisce, odora di buono. «Voglio che sia finito questo orrore», e mi ha portato in una stanza accanto, che era più o meno fredda come dev’essere un posto dove si tengono i morti a non puzzare troppo. Su quattro lettighe, coperte da un foglio di plastica, quattro cadaveri facevano intravedere divise di militari e facce vuote; ma accanto alla finestra c’era un congelatore, di quelli bassi e larghi che s’usano in casa quando si hanno molte provviste da salvare.
«Aprilo, aprilo», mi incitava. Ho sollevato il coperchio, e dentro c’era il corpo di un soldato, ma con le gambe spezzate in modo innaturale, il corpo contorto per farlo stare dentro lo spazio angusto del congelatore, e la testa ruotata all’indietro di 180 gradi. Era un pupazzo sfasciato, ma un tempo era stato un uomo. «Doveva essere uno dell’Est europeo, Gheddafi lo ha fatto buttare qua dentro ancora vivo», e gli occhi sbarrati di quella faccia bianca di morte e di sofferenza, i capelli rossi d’un ucraino o d’un bulgaro, il dolore di uno spasmo bloccato in un lungo istante sospeso tra vita e morte, raccontavano un racconto che anche i lettori di un giornale devono imparare a conoscere come risultato della guerra. Sono andato allora a tentare di trovare almeno un respiro di misericordia, che rendesse più pulita questa giornata di schifezze e di orrore.
E alle 2 del pomeriggio, dopo che il lungo richiamo del muezzin aveva riempito l’aria di echi mistici, mi sono affacciato alla preghiera del venerdì (il sermone della «domenica» musulmana), nella più importante moschea di Tripoli, quella del maulaya Mohammed. Ad ascoltare l’imam non c’era molta gente, sembravano le chiese vuote delle nostre domeniche secolarizzate (più tardi, un anziano signore, alto e altero, un ex ufficiale di Marina mi spiegava in inglese: «La gente non ci crede, che sia davvero finita con Gheddafi, hanno ancora tutti paura»).
L’imam, giovane, la barbetta, gli occhiali ha parlato pianamente per un quarto d’ora, senza una retorica eccessiva, senza grandi sbalzi di tonalità. Ha raccontato che tutto quanto accade è volontà di Allah, che bisogna accettarlo, che dopo la tempesta viene il sereno. E che bisogna saper perdonare. Quando è sceso dalla scaletta gli ho chiesto: «Il progetto d’una nuova Costituzione chiede all’art. 1 che tutti i cittadini siano uguali, senza distinzione né di sesso né di religione. Lei è d’accordo?». Mi ha guardato, si è lisciato la barbetta, poi ha detto abbassando lievemente la testa: «Ma naturalmente, tutti uguali». Uomini e donne? gli ho chiesto. «Sì, uomini e donne». E musulmani e cristiani? gli ho chiesto ancora. «Sì, musulmani e cristiani». E si lisciava la barbetta. La guerra crea speranze e illusioni. Tutte le guerre, anche questa.
24.8.11
Il libro sta bene, grazie
GIUSEPPE GRANIERI
«La fine dei libri è vicina?», si chiede il romanziere Ewan Morrison. E si risponde da solo: «Si, assolutamente. La rivoluzione digitale, nel giro di 25 anni, ci porterà la fine dei libri stampati. Ma, ed è ancora più importante, gli ebook e la facilità di pubblicazione elettronica segneranno la fine dello scrittore di professione».
Poi rincara la dose: «La rivoluzione digitale non emanciperà gli scrittori nè aprirà una nuova era di creatività: piuttosto significherà che gli scrittori dovranno offrire il loro lavoro per pochi spiccioli o addirittura gratis». E ribadisce: «Scrivere, e vivere di questo lavoro, non sarà più possibile».
L'analisi di Morrison, stimolata dalla tavola rotonda intitolata "La Fine dei Libri" che ha infiammato il Festival di Edimburgo, è molto meditata ed è complessa. Un ragionamento ricco di stimoli interessanti e costruito su una premessa che l'autore ci tiene a condividere con i lettori: «cerchiamo di non guardare a quello che vediamo ora, ma saltiamo una generazione e proviamo ad immaginare come sarà la realtà». Merita una lettura: Are books dead, and can authors survive?.
A margine vanno però aggiunte alcune considerazioni. La prima è che la «Rivoluzione Digitale», come la chiama Morrison, è una grande discontinuità nel modo in cui funzionano le nostre culture. Non è la prima (pensiamo all'introduzione della scrittura o a quella della stampa) e non sarà l'ultima. Ma sicuramente è la prima che accade e porta effetti immediati nell'arco di una sola generazione. Questa velocità di cambiamento (e di accettazione delle innovazioni) è un fenomeno cui non abbiamo ancora del tutto preso le misure. Nel digitale cambia l'unità di misura del tempo: cinque anni sono come venticinque con il metro del ventesimo secolo.
Quindi, è intuitivo, le previsioni a lungo termine semplicemente non sono possibili. Funziona un po' come con altre previsioni, quelle del tempo: fino ad una settimana hanno qualche probabilità di essere previsioni, oltre la settimana diventano descrizioni di scenario. E gli scenari futuri si costruiscono su due aspetti fondamentali: la lettura dei segnali deboli e quello che potremmo chiamare le «aspirazioni».
I segnali che possiamo leggere oggi non ci dicono nulla su come sarà il mondo tra 25 anni, al massimo ci aiutano a capire cosa succederà nel domani digitale. L'accelerazione del cambiamento è talmente rapida da consentirci di prevederla fino a un certo punto, e da obbligarci ad una lettura continua del contesto per mantenere la rotta.
Le aspirazioni invece sono la base di desideri, convinzioni e valori su cui innestiamo la lettura dei segnali deboli. Se abbiamo paura delle cose che cambiano, il nostro scenario sarà tendente al pessimismo. O, al contrario, vedremo un futuro luminoso e pieno di potenzialità.
Quindi cosa possiamo aspettarci? Quello che effettivamente sappiamo è che, al di là dei titoli ad effetto ricchi di morte e allarmismo, nulla muore e molto si trasforma. Va probabilmente separato il destino della carta da quello del libro: la carta non è il libro, è un supporto. E probabilmente è passibile di un destino simile a quello delle pellicole fotografiche o delle videocassette.
Il libro invece, da quello che vediamo accadere, godrà di ottima salute. Sarà persino troppo in salute, dal punto di vista del ventesimo secolo. Affrancandosi dalla carta, il libro abbasserà le sue barriere di ingresso, come già vediamo accadere con il self-publishing, e molte più persone (e idee) avranno accesso alla pubblicazione. Ma affrancandosi dalla carta, il libro sarà anche più facilmente reperibile (saranno tutti allo stesso click di distanza), più economico, più accessibile, più comodo da portare in giro, da conservare, da consultare (la ricerca e l'indice delle annotazioni sono una grande conquista).
Poi, è vero: ogni nuova soluzione porta con sè nuovi problemi. Il digitale, ogni volta che ha toccato l'industria culturale, ha ridisegnato il modo in cui funziona tutto, dall'accesso al sistema dei ricavi. Ci sono una serie di questi nuovi problemi che rimangono aperti: primo fra tutti -il che giustifica le preoccupazioni di Morrison- il problema della remunerazione. Che non riguarda solo l'autore, anzi: riguarda chiunque lavori nella filiera produttiva, dagli editor ai traduttori, dagli uffici stampa ai dirigenti dei gruppi editoriali.
Il sistema sta cambiando, adeguandosi al modo in cui funziona oggi la nostra cultura. C'è un aspetto di questo cambiamento che io trovo rassicurante: l'accelerazione che stiamo vivendo non è imposta da qualcuno e subita dagli altri. Fa parte di un meccanismo generale in cui si introduce un'innovazione e se quella innovazione ha abbastanza consenso, viene accettata dalla società. La chiave del futuro del libro, oggi, sono i lettori: saranno le loro preferenze a determinare la configurazione del mondo editoriale nei prossimi anni.
Su questo fronte, sebbene sembri controintuitivo, abbiamo molto da imparare. Ma soprattutto, se teniamo al futuro del libro, non possiamo restar fuori dal grande gioco dell'innovazione.
Poi come disse una volta Beppe Caravita, grande commentatore della transizione tecnologica, il digitale è ancora un adolescente con un brutto carattere. Siamo appena agli albori del cambiamento, che è molto profondo e che -al momento- ci fa vedere ancora molti problemi irrisolti.
Uno su tutti, la prima ingenua reazione all'amento di scala dei contenuti: come facciamo a trovare il libro buono tra tantissimi libri che strillano per ottenere la nostra attenzione? Anche qui, l'evoluzione del digitale è sempre andata per problemi e soluzioni. Algoritmi e innovazioni in grado di farci districare tra tanti dati in maniera efficace sono la nuova frontiera. Migliaia di menti stanno lavorando su questo fronte. Là dove si percepisce una problema, la soluzione significa mercato: ci sarà sempre qualcuno a cercarla. Poi si troverà, e porterà nuovi problemi. Il digitale non si fermerà mai, si ricomplicherà ogni giorno.
La parte più difficile sarà ridisegnare le regole in base al nuovo modo in cui funzionano le cose. Tutte le regole: dalla logica attuale del diritto d'autore ai sistemi di remunerazione. Ci vorranno anni e molto probabilmente dovremo sempre inseguire la realtà, più veloce ad evolversi dei sistemi normativi e delle organizzazioni.
Ma anche qui i segnali non sono tutti così tremendi. Un buon esempio è quello del giornalismo, che nella transizione ha qualche anno di vantaggio rispetto al mondo del libro. Se è vero che la crisi del modello di ricavi costruito sulla carta ha molti effetti preoccupanti, è anche vero che ha ricadute enormi sulla nostra società. Da un lato ci stiamo chiedendo chi (e come) sosterrà i costi del giornalismo, dall'altro la domanda di informazione è aumentata in modo esponenziale. Il sistema troverà un equilibrio. E lo stesso varrà per i libri.
Si sarà capito, a questo punto, che le «aspirazioni» nello scenario che immagino io tendono a non essere catastrofiche. Credo dipenda dal mio rapporto con l'idea di «diverso», che non è costruita sul timore ma, piuttosto, sulla curiosità di comprendere. Però forse dipende anche da quello che questi primi anni di digitale ci hanno insegnato: di fronte ad un cambiamento che opera a livello così profondo (e su una scala così ampia) la resistenza è futile. Aiuta molto di più accettare che la nostra cultura sta cambiando e cercare una posizione nel nuovo mondo. Quando i punti di riferimento si trasformano, in fondo, può capitare di dover rinunciare a qualcosa che si aveva prima. Ma si aprono tanti nuovi spazi per far cose che fino ad oggi non si potevano fare o che si potevano fare solo in modo diverso.
Sono certamente tempi difficili, questi. Ma non sono difficili perchè siamo condannati ad accettarli passivamente. Sono difficili perchè ci richiedono studio, comprensione, impegno e creatività. L'editoria oggi è un settore ad alta innovazione. E questa -forse- è la prima regola del gioco che cambia.
«La fine dei libri è vicina?», si chiede il romanziere Ewan Morrison. E si risponde da solo: «Si, assolutamente. La rivoluzione digitale, nel giro di 25 anni, ci porterà la fine dei libri stampati. Ma, ed è ancora più importante, gli ebook e la facilità di pubblicazione elettronica segneranno la fine dello scrittore di professione».
Poi rincara la dose: «La rivoluzione digitale non emanciperà gli scrittori nè aprirà una nuova era di creatività: piuttosto significherà che gli scrittori dovranno offrire il loro lavoro per pochi spiccioli o addirittura gratis». E ribadisce: «Scrivere, e vivere di questo lavoro, non sarà più possibile».
L'analisi di Morrison, stimolata dalla tavola rotonda intitolata "La Fine dei Libri" che ha infiammato il Festival di Edimburgo, è molto meditata ed è complessa. Un ragionamento ricco di stimoli interessanti e costruito su una premessa che l'autore ci tiene a condividere con i lettori: «cerchiamo di non guardare a quello che vediamo ora, ma saltiamo una generazione e proviamo ad immaginare come sarà la realtà». Merita una lettura: Are books dead, and can authors survive?.
A margine vanno però aggiunte alcune considerazioni. La prima è che la «Rivoluzione Digitale», come la chiama Morrison, è una grande discontinuità nel modo in cui funzionano le nostre culture. Non è la prima (pensiamo all'introduzione della scrittura o a quella della stampa) e non sarà l'ultima. Ma sicuramente è la prima che accade e porta effetti immediati nell'arco di una sola generazione. Questa velocità di cambiamento (e di accettazione delle innovazioni) è un fenomeno cui non abbiamo ancora del tutto preso le misure. Nel digitale cambia l'unità di misura del tempo: cinque anni sono come venticinque con il metro del ventesimo secolo.
Quindi, è intuitivo, le previsioni a lungo termine semplicemente non sono possibili. Funziona un po' come con altre previsioni, quelle del tempo: fino ad una settimana hanno qualche probabilità di essere previsioni, oltre la settimana diventano descrizioni di scenario. E gli scenari futuri si costruiscono su due aspetti fondamentali: la lettura dei segnali deboli e quello che potremmo chiamare le «aspirazioni».
I segnali che possiamo leggere oggi non ci dicono nulla su come sarà il mondo tra 25 anni, al massimo ci aiutano a capire cosa succederà nel domani digitale. L'accelerazione del cambiamento è talmente rapida da consentirci di prevederla fino a un certo punto, e da obbligarci ad una lettura continua del contesto per mantenere la rotta.
Le aspirazioni invece sono la base di desideri, convinzioni e valori su cui innestiamo la lettura dei segnali deboli. Se abbiamo paura delle cose che cambiano, il nostro scenario sarà tendente al pessimismo. O, al contrario, vedremo un futuro luminoso e pieno di potenzialità.
Quindi cosa possiamo aspettarci? Quello che effettivamente sappiamo è che, al di là dei titoli ad effetto ricchi di morte e allarmismo, nulla muore e molto si trasforma. Va probabilmente separato il destino della carta da quello del libro: la carta non è il libro, è un supporto. E probabilmente è passibile di un destino simile a quello delle pellicole fotografiche o delle videocassette.
Il libro invece, da quello che vediamo accadere, godrà di ottima salute. Sarà persino troppo in salute, dal punto di vista del ventesimo secolo. Affrancandosi dalla carta, il libro abbasserà le sue barriere di ingresso, come già vediamo accadere con il self-publishing, e molte più persone (e idee) avranno accesso alla pubblicazione. Ma affrancandosi dalla carta, il libro sarà anche più facilmente reperibile (saranno tutti allo stesso click di distanza), più economico, più accessibile, più comodo da portare in giro, da conservare, da consultare (la ricerca e l'indice delle annotazioni sono una grande conquista).
Poi, è vero: ogni nuova soluzione porta con sè nuovi problemi. Il digitale, ogni volta che ha toccato l'industria culturale, ha ridisegnato il modo in cui funziona tutto, dall'accesso al sistema dei ricavi. Ci sono una serie di questi nuovi problemi che rimangono aperti: primo fra tutti -il che giustifica le preoccupazioni di Morrison- il problema della remunerazione. Che non riguarda solo l'autore, anzi: riguarda chiunque lavori nella filiera produttiva, dagli editor ai traduttori, dagli uffici stampa ai dirigenti dei gruppi editoriali.
Il sistema sta cambiando, adeguandosi al modo in cui funziona oggi la nostra cultura. C'è un aspetto di questo cambiamento che io trovo rassicurante: l'accelerazione che stiamo vivendo non è imposta da qualcuno e subita dagli altri. Fa parte di un meccanismo generale in cui si introduce un'innovazione e se quella innovazione ha abbastanza consenso, viene accettata dalla società. La chiave del futuro del libro, oggi, sono i lettori: saranno le loro preferenze a determinare la configurazione del mondo editoriale nei prossimi anni.
Su questo fronte, sebbene sembri controintuitivo, abbiamo molto da imparare. Ma soprattutto, se teniamo al futuro del libro, non possiamo restar fuori dal grande gioco dell'innovazione.
Poi come disse una volta Beppe Caravita, grande commentatore della transizione tecnologica, il digitale è ancora un adolescente con un brutto carattere. Siamo appena agli albori del cambiamento, che è molto profondo e che -al momento- ci fa vedere ancora molti problemi irrisolti.
Uno su tutti, la prima ingenua reazione all'amento di scala dei contenuti: come facciamo a trovare il libro buono tra tantissimi libri che strillano per ottenere la nostra attenzione? Anche qui, l'evoluzione del digitale è sempre andata per problemi e soluzioni. Algoritmi e innovazioni in grado di farci districare tra tanti dati in maniera efficace sono la nuova frontiera. Migliaia di menti stanno lavorando su questo fronte. Là dove si percepisce una problema, la soluzione significa mercato: ci sarà sempre qualcuno a cercarla. Poi si troverà, e porterà nuovi problemi. Il digitale non si fermerà mai, si ricomplicherà ogni giorno.
La parte più difficile sarà ridisegnare le regole in base al nuovo modo in cui funzionano le cose. Tutte le regole: dalla logica attuale del diritto d'autore ai sistemi di remunerazione. Ci vorranno anni e molto probabilmente dovremo sempre inseguire la realtà, più veloce ad evolversi dei sistemi normativi e delle organizzazioni.
Ma anche qui i segnali non sono tutti così tremendi. Un buon esempio è quello del giornalismo, che nella transizione ha qualche anno di vantaggio rispetto al mondo del libro. Se è vero che la crisi del modello di ricavi costruito sulla carta ha molti effetti preoccupanti, è anche vero che ha ricadute enormi sulla nostra società. Da un lato ci stiamo chiedendo chi (e come) sosterrà i costi del giornalismo, dall'altro la domanda di informazione è aumentata in modo esponenziale. Il sistema troverà un equilibrio. E lo stesso varrà per i libri.
Si sarà capito, a questo punto, che le «aspirazioni» nello scenario che immagino io tendono a non essere catastrofiche. Credo dipenda dal mio rapporto con l'idea di «diverso», che non è costruita sul timore ma, piuttosto, sulla curiosità di comprendere. Però forse dipende anche da quello che questi primi anni di digitale ci hanno insegnato: di fronte ad un cambiamento che opera a livello così profondo (e su una scala così ampia) la resistenza è futile. Aiuta molto di più accettare che la nostra cultura sta cambiando e cercare una posizione nel nuovo mondo. Quando i punti di riferimento si trasformano, in fondo, può capitare di dover rinunciare a qualcosa che si aveva prima. Ma si aprono tanti nuovi spazi per far cose che fino ad oggi non si potevano fare o che si potevano fare solo in modo diverso.
Sono certamente tempi difficili, questi. Ma non sono difficili perchè siamo condannati ad accettarli passivamente. Sono difficili perchè ci richiedono studio, comprensione, impegno e creatività. L'editoria oggi è un settore ad alta innovazione. E questa -forse- è la prima regola del gioco che cambia.
Libia, i dubbi del dopo-Gheddafi. E l’occidente dà già lezioni di democrazia
Per Usa ed Europa, è forte il rischio di un nuovo Iraq. Rovesciare i tiranni arabi è un gioco pericoloso, quando chi li sostituisce non è eletto dal popolo
di Robert Fisk (dal Fatto Quotidiano)
È stata la seconda notte insonne per i dittatori e i satrapi ancora al potere nel mondo arabo. Quanto ci vorrà perché i liberatori di Tripoli si trasformino per incanto nei liberatori di Damasco, di Aleppo e di Homs? O di Amman? O di Gerusalemme? O del Bahrain? O di Riad? Ovviamente si tratta di situazioni diverse e non assimilabili.
La primavera – estate – autunno dei Paesi arabi ha dimostrato non solo che le vecchie frontiere coloniali restano inviolate quale tremendo tributo all’imperialismo, ma che ogni rivoluzione ha le sue caratteristiche. Tutte le rivolte arabe hanno i loro martiri e le loro vittime, ma alcune ribellioni sono più violente di altre. Come ebbe a dire Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, all’inizio della sua parabola discendente: “La Libia non è la Tunisia né l’Egitto… Qui ci sarà una guerra civile. Scorrerà il sangue per le strade”. E così è stato. Non ci resta che scrutare la sfera di cristallo.
La Libia sarà una superpotenza del Medio Oriente, a meno di imporre una sorta di occupazione economica in cambio dei bombardamenti della Nato che hanno contribuito a “liberare” il Paese e, svanita l’ossessione di Gheddafi per l’Africa centrale e meridionale, sarà un Paese meno africano e più arabo. Le sue libertà potrebbero contagiare il Marocco e l’Algeria. Entro certi limiti gli stati del Golfo saranno contenti visto che hanno sempre considerato Gheddafi mentalmente instabile, oltre che malvagio. Ma rovesciare i tiranni arabi è un gioco pericoloso, quando il loro posto viene preso da governanti arabi non eletti dal popolo.
Chi ricorda la guerra dimenticata del 1977 durante la quale Anwar Sadat inviò i suoi bombardieri per distruggere le basi aeree di Gheddafi – le stesse basi che la Nato ha bombardato negli ultimi mesi – dopo che Israele aveva avvertito il presidente egiziano che Gheddafi stava progettando il suo assassinio? Ma la dittatura di Gheddafi è stata di 30 anni più longeva di Sadat. Ma, non diversamente dagli altri, la Libia ha sofferto le conseguenze del cancro del mondo arabo: la corruzione finanziaria e morale. Il futuro sarà diverso? Abbiamo passato troppo tempo a lodare il coraggio dei “combattenti della libertà” libici che scorrazzavano per il deserto e troppo poco tempo ad esaminare la natura del mostro, dell’ambiguo Consiglio nazionale di transizione il cui presunto capo, Mustafa Abdul Jalil, non ci ha ancora spiegato se i suoi sono coinvolti nell’assassinio, avvenuto il mese scorso, del comandante militare delle forze ribelli.
L’Occidente ha già cominciato a dare lezioni di democrazia alla Nuova Libia dicendo con supponenza alla leadership politica libica, non eletta dalla popolazione, come evitare il caos che noi stessi abbiamo inflitto agli iracheni dopo averli “liberati” otto anni fa. Chi prenderà le mazzette nel nuovo regime – democratico o meno – una volta che si sarà insediato nella stanza dei bottoni? E così come tutti i nuovi regimi hanno nel loro seno personaggi oscuri del passato – la Germania di Adenauer quanto l’Iraq di Maliki – la Libia dovrà trovare una sistemazione per le tribù di Gheddafi.
Le scene della Piazza Verde erano dolorosamente simili al delirio delle folle di adoratori che appena qualche settimana prima inneggiavano a Gheddafi. Nel 1944, dopo la liberazione di Parigi, un aiutante di campo fece notare al generale De Gaulle che il numero di quelli che lo applaudivano era simile al numero di coloro che qualche settimana prima avevano applaudito Petain. Come è possibile? “Semplice” – rispose De Gaulle – “Ils sont les memes” (sono gli stessi), sembra abbia risposto il generale De Gaulle. Non tutti. Quanto tempo passerà prima che qualcuno bussi alla porta del sedicente moribondo Abdulbaset al-Megrahi, l’attentatore di Lockerbie – sempre che sia veramente colpevole – per scoprire il segreto della sua longevità e per capire che ruolo ha ricoperto nei servizi segreti di Gheddafi?
Quanto ci metteranno i liberatori di Tripoli a mettere le mani sugli archivi del ministro del Petrolio e del ministro degli Esteri di Gheddafi per scoprire i segreti delle romantiche storie d’amore del terzetto Blair – Sarkozy -Berlusconi con l’autore del Libro Verde? O saranno le spie britanniche e francesi a mettere le mani sui documenti segreti? E quanto tempo passerà prima che gli europei chiedano di sapere perché, se la Nato è stata così decisiva in Libia – come dichiarano ai quattro venti Cameron e i suoi alleati – non la si impiega contro le legioni di Assad in Siria servendosi di Cipro come base aerea allo scopo di distruggere gli 8mila carri armati e blindati del regime che assediano le città siriane?
O bisogna pensar male, pensare cioè che Israele si augura ancora segretamente (come aveva fatto vergognosamente nel caso dell’Egitto) che il dittatore siriano rimanga in sella, per poter firmare con lui la pace riguardante le alture del Golan? Israele, che ha reagito al risveglio arabo con ambiguità e immaturità. Ma perché diamine i politici israeliani non hanno accolto con gioia la rivoluzione araba, accogliendo a braccia aperte popoli che dicevano di volere la democrazia che Israele ha sempre auspicato e ha invece ucciso cinque soldati egiziani in occasione dell’ultimo scontro a fuoco a Gaza? Deve riflettere a lungo. Ben Ali liquidato. Mubarak liquidato. Saleh più o meno liquidato. Gheddafi rovesciato. Assad in pericolo. Abdullah di Giordania ancora alle prese con una combattiva opposizione. La monarchia sunnita che, da una posizione di minoranza governa il Bahrain, continua autolesionisticamente a pensare di poter conservare il potere in eterno.
A questi cataclismi della storia gli israeliani hanno risposto con una sorta di sgomenta, ostile apatia. Nel momento stesso in cui Israele dovrebbe dichiarare pubblicamente che i suoi vicini arabi vogliono solamente le libertà che Israele già ha – che c’è una fratellanza democratica che non conosce frontiere – di fatto continua a costruire insediamenti in terra araba e ad auto-delegittimarsi accusando il mondo di tentare di distruggere lo Stato israeliano. Ma in un’ora così critica non possiamo dimenticare l’Impero Ottomano.
All’apice del suo potere si poteva viaggiare dal Marocco a Costantinopoli senza passaporto. Se anche Siria e Giordania conquistassero la libertà, potremmo viaggiare dall’Algeria alla Turchia e poi in Europa senza nemmeno il visto. L’Impero Ottomano rinato! Non vale per gli arabi, ovviamente. Loro debbono sempre avere bisogno del visto. Ma non siamo ancora a quel punto. Quanto ci metteranno gli sciiti del Bahrain e le apatiche masse saudite sdraiate sopra montagne di denaro, a chiedere perchè non possono controllare il loro Paese e a scendere in piazza per rovesciare i loro governanti ormai vestigia di un tempo che fu?
Immaginiamo la tristezza con cui Maher al-Assad, fratello di Bashar e comandante della famigerata Quarta Brigata siriana, deve aver ascoltato l’ultima telefonata di Mohammed Gheddafi ad Al Jazeera. “Ci sono mancate saggezza e lungimiranza”, diceva con tono lamentoso Mohammed prima che la sua voce fosse sovrastata dal crepitio delle armi da fuoco. “Sono qui in casa!”. Poi: “Dio è grande”. E la linea è caduta. Ogni leader arabo non eletto dal popolo – o ogni leader musulmano “eletto” con elezioni farsa – avrà riflettuto ascoltando la voce di Mohammed Gheddafi. La saggezza è senza dubbio alcuno una qualità che scarseggia in Medio Oriente e la lungimiranza è una dote trascurata sia dagli arabi che dagli occidentali. Est e Ovest – ammesso che li si possa dividere così grossolanamente – hanno perso la capacità di pensare al futuro.
Contano solo le prossime 24 ore. Domani ci saranno delle manifestazioni di protesta a Hama? Che dirà Obama domani sera in televisione nell’ora di massimo ascolto? E Cameron cosa dirà al mondo? La teoria del domino è un inganno. La primavera araba è destinata a durare anni. Meglio che ci pensiamo e ci prepariamo. Non esiste la “fine della storia”.
© The Independent
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
di Robert Fisk (dal Fatto Quotidiano)
È stata la seconda notte insonne per i dittatori e i satrapi ancora al potere nel mondo arabo. Quanto ci vorrà perché i liberatori di Tripoli si trasformino per incanto nei liberatori di Damasco, di Aleppo e di Homs? O di Amman? O di Gerusalemme? O del Bahrain? O di Riad? Ovviamente si tratta di situazioni diverse e non assimilabili.
La primavera – estate – autunno dei Paesi arabi ha dimostrato non solo che le vecchie frontiere coloniali restano inviolate quale tremendo tributo all’imperialismo, ma che ogni rivoluzione ha le sue caratteristiche. Tutte le rivolte arabe hanno i loro martiri e le loro vittime, ma alcune ribellioni sono più violente di altre. Come ebbe a dire Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, all’inizio della sua parabola discendente: “La Libia non è la Tunisia né l’Egitto… Qui ci sarà una guerra civile. Scorrerà il sangue per le strade”. E così è stato. Non ci resta che scrutare la sfera di cristallo.
La Libia sarà una superpotenza del Medio Oriente, a meno di imporre una sorta di occupazione economica in cambio dei bombardamenti della Nato che hanno contribuito a “liberare” il Paese e, svanita l’ossessione di Gheddafi per l’Africa centrale e meridionale, sarà un Paese meno africano e più arabo. Le sue libertà potrebbero contagiare il Marocco e l’Algeria. Entro certi limiti gli stati del Golfo saranno contenti visto che hanno sempre considerato Gheddafi mentalmente instabile, oltre che malvagio. Ma rovesciare i tiranni arabi è un gioco pericoloso, quando il loro posto viene preso da governanti arabi non eletti dal popolo.
Chi ricorda la guerra dimenticata del 1977 durante la quale Anwar Sadat inviò i suoi bombardieri per distruggere le basi aeree di Gheddafi – le stesse basi che la Nato ha bombardato negli ultimi mesi – dopo che Israele aveva avvertito il presidente egiziano che Gheddafi stava progettando il suo assassinio? Ma la dittatura di Gheddafi è stata di 30 anni più longeva di Sadat. Ma, non diversamente dagli altri, la Libia ha sofferto le conseguenze del cancro del mondo arabo: la corruzione finanziaria e morale. Il futuro sarà diverso? Abbiamo passato troppo tempo a lodare il coraggio dei “combattenti della libertà” libici che scorrazzavano per il deserto e troppo poco tempo ad esaminare la natura del mostro, dell’ambiguo Consiglio nazionale di transizione il cui presunto capo, Mustafa Abdul Jalil, non ci ha ancora spiegato se i suoi sono coinvolti nell’assassinio, avvenuto il mese scorso, del comandante militare delle forze ribelli.
L’Occidente ha già cominciato a dare lezioni di democrazia alla Nuova Libia dicendo con supponenza alla leadership politica libica, non eletta dalla popolazione, come evitare il caos che noi stessi abbiamo inflitto agli iracheni dopo averli “liberati” otto anni fa. Chi prenderà le mazzette nel nuovo regime – democratico o meno – una volta che si sarà insediato nella stanza dei bottoni? E così come tutti i nuovi regimi hanno nel loro seno personaggi oscuri del passato – la Germania di Adenauer quanto l’Iraq di Maliki – la Libia dovrà trovare una sistemazione per le tribù di Gheddafi.
Le scene della Piazza Verde erano dolorosamente simili al delirio delle folle di adoratori che appena qualche settimana prima inneggiavano a Gheddafi. Nel 1944, dopo la liberazione di Parigi, un aiutante di campo fece notare al generale De Gaulle che il numero di quelli che lo applaudivano era simile al numero di coloro che qualche settimana prima avevano applaudito Petain. Come è possibile? “Semplice” – rispose De Gaulle – “Ils sont les memes” (sono gli stessi), sembra abbia risposto il generale De Gaulle. Non tutti. Quanto tempo passerà prima che qualcuno bussi alla porta del sedicente moribondo Abdulbaset al-Megrahi, l’attentatore di Lockerbie – sempre che sia veramente colpevole – per scoprire il segreto della sua longevità e per capire che ruolo ha ricoperto nei servizi segreti di Gheddafi?
Quanto ci metteranno i liberatori di Tripoli a mettere le mani sugli archivi del ministro del Petrolio e del ministro degli Esteri di Gheddafi per scoprire i segreti delle romantiche storie d’amore del terzetto Blair – Sarkozy -Berlusconi con l’autore del Libro Verde? O saranno le spie britanniche e francesi a mettere le mani sui documenti segreti? E quanto tempo passerà prima che gli europei chiedano di sapere perché, se la Nato è stata così decisiva in Libia – come dichiarano ai quattro venti Cameron e i suoi alleati – non la si impiega contro le legioni di Assad in Siria servendosi di Cipro come base aerea allo scopo di distruggere gli 8mila carri armati e blindati del regime che assediano le città siriane?
O bisogna pensar male, pensare cioè che Israele si augura ancora segretamente (come aveva fatto vergognosamente nel caso dell’Egitto) che il dittatore siriano rimanga in sella, per poter firmare con lui la pace riguardante le alture del Golan? Israele, che ha reagito al risveglio arabo con ambiguità e immaturità. Ma perché diamine i politici israeliani non hanno accolto con gioia la rivoluzione araba, accogliendo a braccia aperte popoli che dicevano di volere la democrazia che Israele ha sempre auspicato e ha invece ucciso cinque soldati egiziani in occasione dell’ultimo scontro a fuoco a Gaza? Deve riflettere a lungo. Ben Ali liquidato. Mubarak liquidato. Saleh più o meno liquidato. Gheddafi rovesciato. Assad in pericolo. Abdullah di Giordania ancora alle prese con una combattiva opposizione. La monarchia sunnita che, da una posizione di minoranza governa il Bahrain, continua autolesionisticamente a pensare di poter conservare il potere in eterno.
A questi cataclismi della storia gli israeliani hanno risposto con una sorta di sgomenta, ostile apatia. Nel momento stesso in cui Israele dovrebbe dichiarare pubblicamente che i suoi vicini arabi vogliono solamente le libertà che Israele già ha – che c’è una fratellanza democratica che non conosce frontiere – di fatto continua a costruire insediamenti in terra araba e ad auto-delegittimarsi accusando il mondo di tentare di distruggere lo Stato israeliano. Ma in un’ora così critica non possiamo dimenticare l’Impero Ottomano.
All’apice del suo potere si poteva viaggiare dal Marocco a Costantinopoli senza passaporto. Se anche Siria e Giordania conquistassero la libertà, potremmo viaggiare dall’Algeria alla Turchia e poi in Europa senza nemmeno il visto. L’Impero Ottomano rinato! Non vale per gli arabi, ovviamente. Loro debbono sempre avere bisogno del visto. Ma non siamo ancora a quel punto. Quanto ci metteranno gli sciiti del Bahrain e le apatiche masse saudite sdraiate sopra montagne di denaro, a chiedere perchè non possono controllare il loro Paese e a scendere in piazza per rovesciare i loro governanti ormai vestigia di un tempo che fu?
Immaginiamo la tristezza con cui Maher al-Assad, fratello di Bashar e comandante della famigerata Quarta Brigata siriana, deve aver ascoltato l’ultima telefonata di Mohammed Gheddafi ad Al Jazeera. “Ci sono mancate saggezza e lungimiranza”, diceva con tono lamentoso Mohammed prima che la sua voce fosse sovrastata dal crepitio delle armi da fuoco. “Sono qui in casa!”. Poi: “Dio è grande”. E la linea è caduta. Ogni leader arabo non eletto dal popolo – o ogni leader musulmano “eletto” con elezioni farsa – avrà riflettuto ascoltando la voce di Mohammed Gheddafi. La saggezza è senza dubbio alcuno una qualità che scarseggia in Medio Oriente e la lungimiranza è una dote trascurata sia dagli arabi che dagli occidentali. Est e Ovest – ammesso che li si possa dividere così grossolanamente – hanno perso la capacità di pensare al futuro.
Contano solo le prossime 24 ore. Domani ci saranno delle manifestazioni di protesta a Hama? Che dirà Obama domani sera in televisione nell’ora di massimo ascolto? E Cameron cosa dirà al mondo? La teoria del domino è un inganno. La primavera araba è destinata a durare anni. Meglio che ci pensiamo e ci prepariamo. Non esiste la “fine della storia”.
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Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
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I veleni in coda a una dittatura
Sergio Romano
Il regime di Gheddafi è virtualmente morto, ma potrebbe riservarci ancora qualche sorpresa. Non commettiamo l’errore di pensare che il Colonnello sia stato sempre impopolare. Le sortite nazionaliste e anti-occidentali piacevano a una parte della società libica e dell’opinione pubblica africana. I laici e i musulmani moderati approvavano il rigore con cui aveva combattuto e spento i focolai dell’islamismo radicale. Le straordinarie risorse naturali del Paese hanno arricchito il clan familiare del leader e creato una larga cerchia di profittatori, ma hanno anche consentito la nascita di nuovi ceti sociali, soprattutto negli apparati della pubblica amministrazione e dell’economia statale.
Accetteranno, senza opporre resistenza, di rinunciare a ciò che hanno conquistato? Non tutti coloro che hanno combattuto per lui negli scorsi mesi erano mercenari prezzolati o poveri soldati costretti dai loro ufficiali a morire per il capo. La guerra civile ha creato rancori che potrebbero riemergere nei prossimi mesi e minacciare la stabilità del Paese. Le tribù sono entità complesse e imprevedibili su cui abbiamo informazioni insufficienti. Quanto tempo sarà necessario perché la Libia possa considerarsi interamente pacificata? Dov’è, nelle file dei ribelli, la dirigenza che sarà in grado di assicurare la transizione? Fra coloro che andranno al potere dopo il crollo del regime, molti chiederanno giustizia. Il Tribunale penale internazionale, in particolare, sarà felice di affermare la propria competenza e sembra pronto a processare sia Gheddafi, se la sua vita non terminerà in un altro modo, sia i figli e altri membri del suo clan familiare.
Un processo a Gheddafi sarebbe una pietra miliare nella lunga strada verso la giustizia internazionale. Ma qualcuno ricorderà un brillante testo teatrale, pubblicato a Londra durante la Seconda guerra mondiale, in cui un uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato sotto lo pseudonimo di Cassius, immaginava un processo a Mussolini dopo la fine del conflitto. Nel brillante pamphlet dell’autore la prima mossa dell’imputato era quella di chiamare sul banco dei testimoni tutti gli uomini politici britannici che lo avevano elogiato e adulato. Quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all’Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico? La fine del regime di Gheddafi è una buona notizia. Ma se vogliamo che sia utile al futuro della Libia e più generalmente a quello dei Paesi dell’Africa del Nord, nessuna di queste domande può essere ignorata o sottovalutata. Non basta salutare la fine del tiranno, la vittoria del popolo, il trionfo della democrazia.
Occorre aiutare i libici a superare questa fase, a dotarsi di un governo credibile, a impegnarsi il più rapidamente possibile nella ricostruzione politica ed economica del Paese. La Nato ha fatto la guerra e dovrebbe dare un contributo alla pace. Ma dubito che abbia i mezzi e le competenze necessarie per un lavoro estraneo alla sua cultura e alle sue esperienze. Il compito quindi è dell’Europa e in particolare dei Paesi della regione, fra cui, in prima linea, l’Italia e la Francia. Ma saremo tanto più efficaci quanto più eviteremo di perseguire, come in passato, obiettivi e interessi individuali di corto respiro. Dall’unità dell’Europa dipende oggi il futuro della Libia.
Il regime di Gheddafi è virtualmente morto, ma potrebbe riservarci ancora qualche sorpresa. Non commettiamo l’errore di pensare che il Colonnello sia stato sempre impopolare. Le sortite nazionaliste e anti-occidentali piacevano a una parte della società libica e dell’opinione pubblica africana. I laici e i musulmani moderati approvavano il rigore con cui aveva combattuto e spento i focolai dell’islamismo radicale. Le straordinarie risorse naturali del Paese hanno arricchito il clan familiare del leader e creato una larga cerchia di profittatori, ma hanno anche consentito la nascita di nuovi ceti sociali, soprattutto negli apparati della pubblica amministrazione e dell’economia statale.
Accetteranno, senza opporre resistenza, di rinunciare a ciò che hanno conquistato? Non tutti coloro che hanno combattuto per lui negli scorsi mesi erano mercenari prezzolati o poveri soldati costretti dai loro ufficiali a morire per il capo. La guerra civile ha creato rancori che potrebbero riemergere nei prossimi mesi e minacciare la stabilità del Paese. Le tribù sono entità complesse e imprevedibili su cui abbiamo informazioni insufficienti. Quanto tempo sarà necessario perché la Libia possa considerarsi interamente pacificata? Dov’è, nelle file dei ribelli, la dirigenza che sarà in grado di assicurare la transizione? Fra coloro che andranno al potere dopo il crollo del regime, molti chiederanno giustizia. Il Tribunale penale internazionale, in particolare, sarà felice di affermare la propria competenza e sembra pronto a processare sia Gheddafi, se la sua vita non terminerà in un altro modo, sia i figli e altri membri del suo clan familiare.
Un processo a Gheddafi sarebbe una pietra miliare nella lunga strada verso la giustizia internazionale. Ma qualcuno ricorderà un brillante testo teatrale, pubblicato a Londra durante la Seconda guerra mondiale, in cui un uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato sotto lo pseudonimo di Cassius, immaginava un processo a Mussolini dopo la fine del conflitto. Nel brillante pamphlet dell’autore la prima mossa dell’imputato era quella di chiamare sul banco dei testimoni tutti gli uomini politici britannici che lo avevano elogiato e adulato. Quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all’Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico? La fine del regime di Gheddafi è una buona notizia. Ma se vogliamo che sia utile al futuro della Libia e più generalmente a quello dei Paesi dell’Africa del Nord, nessuna di queste domande può essere ignorata o sottovalutata. Non basta salutare la fine del tiranno, la vittoria del popolo, il trionfo della democrazia.
Occorre aiutare i libici a superare questa fase, a dotarsi di un governo credibile, a impegnarsi il più rapidamente possibile nella ricostruzione politica ed economica del Paese. La Nato ha fatto la guerra e dovrebbe dare un contributo alla pace. Ma dubito che abbia i mezzi e le competenze necessarie per un lavoro estraneo alla sua cultura e alle sue esperienze. Il compito quindi è dell’Europa e in particolare dei Paesi della regione, fra cui, in prima linea, l’Italia e la Francia. Ma saremo tanto più efficaci quanto più eviteremo di perseguire, come in passato, obiettivi e interessi individuali di corto respiro. Dall’unità dell’Europa dipende oggi il futuro della Libia.
Domenico Straussi Cani
La disavventura giudiziaria di Dominique Strauss Kahn, il banchiere snob dagli impulsi erotici non controllabili (i suoi antenati di Neanderthal vestivano peggio, ma erano più evoluti) è terminata nel pieno rispetto del pronostico. Con i soldi della moglie (sufficientemente viziata e antipatica per essere affascinata da un maschio simile) l’imputato ha foraggiato avvocati formidabili e indagini spregiudicate, così da riuscire nell’impresa di trasformare la cameriera vittima in un’approfittatrice e ottenere un verdetto di archiviazione. Ma quel quarto d’ora di libidine alberghiera ha comunque distrutto la carriera politica di DSK. Il quale avrà anche evitato le conseguenze giuridiche dei suoi atti, ma non quelle sociali: le dimissioni dalla presidenza del Fondo Monetario e la rinuncia alla candidatura socialista per le Presidenziali francesi del 2012.
Cosa sarebbe successo in Italia a un suo ipotetico avatar? Esattamente l’opposto. Intanto si sarebbe cementificato alla poltrona: «Per spirito di servizio», «per senso di responsabilità», «perché me lo chiede l’Europa». Poi avrebbe gridato al complotto dei Poteri Forti contro di lui, si sarebbe presentato alle elezioni e le avrebbe pure vinte, indossando quei panni da perseguitato che portano male ovunque tranne che da noi, dove il lamento del farabutto, purché dotato di charme, fa scattare un moto immediato di solidarietà. In compenso, invece che tre mesi il processo per stupro sarebbe andato avanti vent’anni e avremmo visto l’imputato raggiungere la pace dei sensi in tribunale.
Cosa sarebbe successo in Italia a un suo ipotetico avatar? Esattamente l’opposto. Intanto si sarebbe cementificato alla poltrona: «Per spirito di servizio», «per senso di responsabilità», «perché me lo chiede l’Europa». Poi avrebbe gridato al complotto dei Poteri Forti contro di lui, si sarebbe presentato alle elezioni e le avrebbe pure vinte, indossando quei panni da perseguitato che portano male ovunque tranne che da noi, dove il lamento del farabutto, purché dotato di charme, fa scattare un moto immediato di solidarietà. In compenso, invece che tre mesi il processo per stupro sarebbe andato avanti vent’anni e avremmo visto l’imputato raggiungere la pace dei sensi in tribunale.
18.8.11
Io, milionario d'America vorrei pagare più tasse
WARREN BUFFETT (il terzo uomo più ricco del mondo)
I nostri leader hanno chiesto "sacrifici condivisi". Quando però hanno avanzato le loro richieste, mi hanno risparmiato. Ho chiesto ad alcuni amici straricchi a quali sacrifici si stessero preparando, ma anche loro non hanno accusato colpo.
Mentre i poveri e la middle class combattono per noi in Afghanistan; mentre la maggior parte degli americani stenta ad arrivare a fine mese, noi mega-ricchi continuiamo a goderci i nostri sgravi fiscali straordinari. Alcuni di noi sono investment manager che guadagnano miliardi lavorando tutti i santi giorni, ma sono autorizzati a definire il proprio reddito "incentivo riconosciuto ai gestori di un fondo" e quindi a ottenere un'eccezionale aliquota di imposizione fiscale pari al 15 per cento. Altri tra noi possiedono per soli dieci minuti futures del listino azionario e sì vedono tassare il 60 per cento del loro rendimento al 15 per cento, come se fossero investitori a lungo termine.
Questi e altri vantaggi ci piovono letteralmente addosso grazie ai legislatori di Washington, che si sentono obbligati a salvaguardarci, quasi fossimo gufi maculati o altre specie in via di estinzione. È piacevole avere amicizie altolocate. L'anno scorso le mìe imposte federali — le imposte sul reddito che devo pagare, come pure i contributi che verso o sono versati a mio nome — ammontavano a 6.938.744 dollari. Detta così, questa cifra fa pensare a un bel mucchio di soldi; di fatto, però, ho pagato soltanto il 17,4 per cento del mio imponibile, e tale importo è stato considerevolmente inferiore a quello versato da chiunque altro tra le venti persone che lavorano nel mio ufficio. Il loro carico fiscale vana dal 33 al 41 per cento e si assesta su una media del 36 per cento. Se si fanno soldi con i soldi — come fanno alcuni dei miei amici super-ricchi — la percentuale di imponibile potrebbe essere addirittura un po' inferiore alla mia. Se invece si guadagnano soldi lavorando, la percentuale di sicuro supererebbe la mia, in linea di massima anche di molto.
Per comprendere il perché di questo meccanismo, si devono esaminare le fonti di entrate del governo. L'anno scorso circa l'80 per cento di tali entrate è arrivato dalle tasse sul reddito delle persone fisiche e dai contributi. I ricconi pagano imposte sul reddito a un tasso del 15 per cento sulla maggior parte dei loro guadagni, ma non pagano pressoché nulla in imposte sul monte salari. Diverso è il discorso per la middle class. Di norma i contribuenti della classe media rientrano nelle aliquote del 15 e del 25 per cento, e in aggiunta a ciò sono pesantemente colpiti anche nel pagamento dei contributi.
In passato, negli anni ottanta e novanta, le aliquote d'imposta per i più ricchi erano decisamente più alte, e la mia percentuale era nella media. Secondo una teoria che ascolto di frequente, avrei dovuto fare una scenata e rifiutarmi di investire a causa delle elevate aliquote d'imposta sui capital gain e sui dividendi. Non mi sono tirato indietro, né lo hanno fatto altri. Lavoro con gli investitori da 60 anni e devo ancora trovare chi si astenga dal fare un investimento importante a causa dell'aliquota d'imposta applicata al suo guadagno potenziale, neppure nel 1976-77, quando i tassi sui capital gain erano del 39,9 per cento. La gente investe per far soldi, e le tasse previste non hanno mai dissuaso nessuno dal farlo. A quanti sostengono che tassi più alti influiscono negativamente sulla creazione di posti di lavoro, farei notare che tra il 1980 e il 2000 è stata creata una rete di quasi 40 milioni di nuovi posti di lavoro. Sapete tutti che cosa è successo in seguito: aliquote fiscali inferiori e creazione di nuovi posti di lavoro di gran lunga inferiore.
Dal 1992 l'Irs, il fisco americano, ha tenuto nota dei dati relativi alle entrate dei 400 americani che hanno il reddito più alto. Complessivamente, nel 1992 i 400 americani che guadagnavano di più avevano un reddito tassabile di 16,9 miliardi di dollari e pagavano imposte federali nella misura del 29,2 per cento di tale cifra. Nel 2008 il reddito aggregato dei 400 americani più ricchi ha toccato la cifra di ben 90,9 miliardi di dollari — con una sbalorditiva media di 227,4 milioni di dollari — ma le tasse imposte loro erano scese al 21,5 per cento.
Le tasse alle quali mi riferiscono comprendono soltanto la tassa federale sul reddito, ma potete star certi che qualsiasi altro contributo peri 400 paperoni d'America è irrilevante se paragonato al loro reddito. Iu realtà, nel 2008, 88 su 400 non hanno dichiarato entrate, anche se ognuno di loro ha guadagnato con i capital gain. Alcuni dei miei simili forse si astiene dal lavorare, ma tutti amano
investire. (E di questo parlo a ragion veduta).
Conosco di persona e bene molti dei mega-ricchi americani e in linea generale si tratta di persone dignitose, che amano l'America e apprezzano le opportunità che questo paese ha offerto loro. Molti hanno aderito all'iniziativa Giving Pledge, impegnandosi a dare in beneficenza la maggior parte delle loro ricchezze. Moltissimi di loro non farebbero una piega se si intimasse loro di pagare più tasse, in special
modo ora che così tanti loro connazionali stanno soffrendo veramente tanto.
Dodici membri del Congresso si accingeranno tra breve al compito cruciale di riformare il sistema finanziario del nostro paese. È stato chiesto loro di delineare un piano che riduca il deficit decennale di almeno 1500 miliardi di dollari. Tuttavia, è indispensabile che facciano più di questo: gli americani stanno rapidamente perdendo fiducia nelle capacità del Congresso di affrontare e risolvere i problemi fiscali del nostro paese. Soltanto se si interverrà immediatamente, concretamente e incisivamente si scongiurerà il rischio che dal dubbio gli americani precipitino nella disperazione. Una tale sensazione potrebbe influenzare la realtà stessa. La priorità assoluta per i Dodici, pertanto, è diminuire gradualmente le promesse future che perfino un'America ricca non potrebbe mantenere. Si deve risparmiare molto. In seconda istanza, i Dodici dovrebbero rivolgere la loro attenzione alla questione delle entrate. Per quanto mi riguarda, lascerei immutate le tasse del 99,7 per cento dei contribuenti e proseguirei la riduzione di due punti percentuali dell'importo che i dipendenti pagano per i contributi. Questo sgravio aiuterebbe i poveri e la middle class, che hanno bisogno di tutto l'aiuto che si potrà dar loro.
Per coloro però. che guadagnano più di un milione di dollari — e nel 2009 erano 236.883 nuclei famigliari — alzerei immediatamente i tassi sul reddito imponibile superiore al milione di dollari, includendo — inutile dirlo — dividendi e capital gain. Per coloro infine che guadagnano oltre dieci milioni di dollari o più - nel 2009 erano 8.274 — suggerirei addirittura un ulteriore aumento percentuale.
I miei amici e io siamo stati coccolati a sufficienza da un Congresso bendisposto nei confronti dei miliardari. Adesso è arrivato il momento che il nostro governo faccia sul serio quando parla di sacrifici condivisi.
(Articolo pubblicato sul The New York Times e La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti)
I nostri leader hanno chiesto "sacrifici condivisi". Quando però hanno avanzato le loro richieste, mi hanno risparmiato. Ho chiesto ad alcuni amici straricchi a quali sacrifici si stessero preparando, ma anche loro non hanno accusato colpo.
Mentre i poveri e la middle class combattono per noi in Afghanistan; mentre la maggior parte degli americani stenta ad arrivare a fine mese, noi mega-ricchi continuiamo a goderci i nostri sgravi fiscali straordinari. Alcuni di noi sono investment manager che guadagnano miliardi lavorando tutti i santi giorni, ma sono autorizzati a definire il proprio reddito "incentivo riconosciuto ai gestori di un fondo" e quindi a ottenere un'eccezionale aliquota di imposizione fiscale pari al 15 per cento. Altri tra noi possiedono per soli dieci minuti futures del listino azionario e sì vedono tassare il 60 per cento del loro rendimento al 15 per cento, come se fossero investitori a lungo termine.
Questi e altri vantaggi ci piovono letteralmente addosso grazie ai legislatori di Washington, che si sentono obbligati a salvaguardarci, quasi fossimo gufi maculati o altre specie in via di estinzione. È piacevole avere amicizie altolocate. L'anno scorso le mìe imposte federali — le imposte sul reddito che devo pagare, come pure i contributi che verso o sono versati a mio nome — ammontavano a 6.938.744 dollari. Detta così, questa cifra fa pensare a un bel mucchio di soldi; di fatto, però, ho pagato soltanto il 17,4 per cento del mio imponibile, e tale importo è stato considerevolmente inferiore a quello versato da chiunque altro tra le venti persone che lavorano nel mio ufficio. Il loro carico fiscale vana dal 33 al 41 per cento e si assesta su una media del 36 per cento. Se si fanno soldi con i soldi — come fanno alcuni dei miei amici super-ricchi — la percentuale di imponibile potrebbe essere addirittura un po' inferiore alla mia. Se invece si guadagnano soldi lavorando, la percentuale di sicuro supererebbe la mia, in linea di massima anche di molto.
Per comprendere il perché di questo meccanismo, si devono esaminare le fonti di entrate del governo. L'anno scorso circa l'80 per cento di tali entrate è arrivato dalle tasse sul reddito delle persone fisiche e dai contributi. I ricconi pagano imposte sul reddito a un tasso del 15 per cento sulla maggior parte dei loro guadagni, ma non pagano pressoché nulla in imposte sul monte salari. Diverso è il discorso per la middle class. Di norma i contribuenti della classe media rientrano nelle aliquote del 15 e del 25 per cento, e in aggiunta a ciò sono pesantemente colpiti anche nel pagamento dei contributi.
In passato, negli anni ottanta e novanta, le aliquote d'imposta per i più ricchi erano decisamente più alte, e la mia percentuale era nella media. Secondo una teoria che ascolto di frequente, avrei dovuto fare una scenata e rifiutarmi di investire a causa delle elevate aliquote d'imposta sui capital gain e sui dividendi. Non mi sono tirato indietro, né lo hanno fatto altri. Lavoro con gli investitori da 60 anni e devo ancora trovare chi si astenga dal fare un investimento importante a causa dell'aliquota d'imposta applicata al suo guadagno potenziale, neppure nel 1976-77, quando i tassi sui capital gain erano del 39,9 per cento. La gente investe per far soldi, e le tasse previste non hanno mai dissuaso nessuno dal farlo. A quanti sostengono che tassi più alti influiscono negativamente sulla creazione di posti di lavoro, farei notare che tra il 1980 e il 2000 è stata creata una rete di quasi 40 milioni di nuovi posti di lavoro. Sapete tutti che cosa è successo in seguito: aliquote fiscali inferiori e creazione di nuovi posti di lavoro di gran lunga inferiore.
Dal 1992 l'Irs, il fisco americano, ha tenuto nota dei dati relativi alle entrate dei 400 americani che hanno il reddito più alto. Complessivamente, nel 1992 i 400 americani che guadagnavano di più avevano un reddito tassabile di 16,9 miliardi di dollari e pagavano imposte federali nella misura del 29,2 per cento di tale cifra. Nel 2008 il reddito aggregato dei 400 americani più ricchi ha toccato la cifra di ben 90,9 miliardi di dollari — con una sbalorditiva media di 227,4 milioni di dollari — ma le tasse imposte loro erano scese al 21,5 per cento.
Le tasse alle quali mi riferiscono comprendono soltanto la tassa federale sul reddito, ma potete star certi che qualsiasi altro contributo peri 400 paperoni d'America è irrilevante se paragonato al loro reddito. Iu realtà, nel 2008, 88 su 400 non hanno dichiarato entrate, anche se ognuno di loro ha guadagnato con i capital gain. Alcuni dei miei simili forse si astiene dal lavorare, ma tutti amano
investire. (E di questo parlo a ragion veduta).
Conosco di persona e bene molti dei mega-ricchi americani e in linea generale si tratta di persone dignitose, che amano l'America e apprezzano le opportunità che questo paese ha offerto loro. Molti hanno aderito all'iniziativa Giving Pledge, impegnandosi a dare in beneficenza la maggior parte delle loro ricchezze. Moltissimi di loro non farebbero una piega se si intimasse loro di pagare più tasse, in special
modo ora che così tanti loro connazionali stanno soffrendo veramente tanto.
Dodici membri del Congresso si accingeranno tra breve al compito cruciale di riformare il sistema finanziario del nostro paese. È stato chiesto loro di delineare un piano che riduca il deficit decennale di almeno 1500 miliardi di dollari. Tuttavia, è indispensabile che facciano più di questo: gli americani stanno rapidamente perdendo fiducia nelle capacità del Congresso di affrontare e risolvere i problemi fiscali del nostro paese. Soltanto se si interverrà immediatamente, concretamente e incisivamente si scongiurerà il rischio che dal dubbio gli americani precipitino nella disperazione. Una tale sensazione potrebbe influenzare la realtà stessa. La priorità assoluta per i Dodici, pertanto, è diminuire gradualmente le promesse future che perfino un'America ricca non potrebbe mantenere. Si deve risparmiare molto. In seconda istanza, i Dodici dovrebbero rivolgere la loro attenzione alla questione delle entrate. Per quanto mi riguarda, lascerei immutate le tasse del 99,7 per cento dei contribuenti e proseguirei la riduzione di due punti percentuali dell'importo che i dipendenti pagano per i contributi. Questo sgravio aiuterebbe i poveri e la middle class, che hanno bisogno di tutto l'aiuto che si potrà dar loro.
Per coloro però. che guadagnano più di un milione di dollari — e nel 2009 erano 236.883 nuclei famigliari — alzerei immediatamente i tassi sul reddito imponibile superiore al milione di dollari, includendo — inutile dirlo — dividendi e capital gain. Per coloro infine che guadagnano oltre dieci milioni di dollari o più - nel 2009 erano 8.274 — suggerirei addirittura un ulteriore aumento percentuale.
I miei amici e io siamo stati coccolati a sufficienza da un Congresso bendisposto nei confronti dei miliardari. Adesso è arrivato il momento che il nostro governo faccia sul serio quando parla di sacrifici condivisi.
(Articolo pubblicato sul The New York Times e La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti)
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13.8.11
Pensione donne, feste soppresse e Tfr via alla manovra, ma restano incertezze
Scheda da La Repubblica
Nel Cdm approvazione all'unanimità delle misure anticrisi. Ecco un quadro delle misure, che Tremonti si è impegnato a chiarire meglio domattina.
AUMENTO IRPEF AUTONOMI OLTRE 55MILA EURO
Un aumento della quota Irpef per gli autonomi, forse a partire dall'attuale 41% per i redditi oltre i 55.000 euro. La misura, inizialmente prevista per 2-3 anni, potrebbe essere a carattere permanente.
A RISCHIO TREDICESIMA STATALI
I dipendenti delle amministrazioni pubbliche che non rispettano gli obiettivi di riduzione della spesa potrebbero perdere il pagamento della tredicesima mensilità.
TFR RITARDATO 2 ANNI PER STATALI
Il pagamento con due anni di ritardo dell'indennità di buonuscita dei lavoratori pubblici è un'altra delle misure prevista nella bozza di decreto.
TAGLI AI COSTI DELLA POLITICA
Nel provvedimento non si parla di ridurre il numero dei parlamentari e i loro privilegi (ad eccezione dei voli in classe economica per deputati e senatori, amministratori pubblici, dipendenti dello stato, componenti di enti ed organismi), ma si interviene sulle "poltrone" locali". Intervenendo in conferenza stampa a Palazzo Chigi Berlusconi ha però sostenuto che in realtà "ci sono numerosi interventi, credo anche eccessivi rispetto a ciò che sarebbe giusto, ma abbiamo seguito i desiderata dei cittadini che guardando alle loro condizioni hanno ritenuto che i politici e i parlamentari avessero entrate eccessive". In particolare, ha spiegato il premier, si è intervenuti "in tutte le direzioni". "Il numero di poltrone eliminate - ha aggiunto - è importante, intorno alle 54 mila". Altra misura, stando alle indiscrezioni, sarebbe quella relativa al contributo di solidarietà. Secondo quanto riferito da fonti governative, è previsto infatti un "contributo di solidarietà" anche per deputati e senatori pari al 10% per i redditi superiori ai 90 mila euro ma inferiori a 150 mila, e del 20% per quelli superiori a 150 mila euro. Esattamente il doppio di quanto previsto per i dipendenti pubblici e privati. Inoltre, per i dipendenti 'normali' il contributo è deducibile, mentre per gli 'onorevoli' non lo sarà. Infine, viene ridotta del 50% l'indennità per il parlamentare che ha un reddito uguale alla stessa indennità. Infine la decisione che saranno solo in classe economica i voli per parlamentari, amministratori pubblici, dipendenti dello Stato, componenti di enti ed organismi.
PENSIONI
Viene anticipato dal 2020 al 2015 il progressivo innalzamento a 65 anni (entro il 2027) dell'età pensionabile delle donne nel settore privato. Nessuna misura, invece, contrariamente a quanto anticipato, sulle pensioni di anzianità.
SCUOLA
Il comunicato finale del governo spiega che "per far fronte alle esigenze della scuola, nell'imminenza dell'avvio del nuovo anno scolastico, su proposta dei ministri Brunetta e Tremonti, è stato inoltre approvato un decreto presidenziale che autorizza per il solo anno 2011-2012 il trattenimento in servizio di 414 dirigenti scolastici; il decreto, altresì, prende atto di quanto definito dalla programmazione triennale delle assunzioni nella scuola, autorizzando l'assunzione a tempo indeterminato di 30.300 Unità di personale docente ed educativo e di 36.000 Unità di personale amministrativo, tecnico ed ausiliario".
STOP PONTI, FESTE SPOSTATE AL LUNEDI'
Le festività infrasettimanali "non concordatarie" verranno spostate al lunedì. "Come avviene in tutta Europa", ha confermato il ministro dell'Economia.
DEROGA CONTRATTI NAZIONALI
Nella manovra c'è anche l'estensione 'erga omnes' dei contratti aziendali che potranno così derogare a quelli nazionali e a parte dello Statuto dei lavoratori. Non sarebbe più prevista la delega per lo statuto dei lavori e in particolare diventerebbe più facile licenziare i lavoratori con contratti a tempo indeterminato. La misura è stata spiegato così dal ministro Sacconi: "Le norme approvate in materia di lavoro contengono il cuore dello Statuto dei lavori in quanto attribuiscono ai contratti aziendali o territoriali la capacità di regolare tutto ciò che attiene all'organizzazione del lavoro e della produzione anche in deroga ai contratti collettivi e alle disposizioni di legge quando non attengano ai diritti fondamentali nel lavoro che in quanto tali sono inderogabili e universali". In concreto significa, ad esempio, che sono "efficaci nei confronti di tutto il personale" anche le norme contenuto nell'accordo firmato da Fiat per Pomigliano e Mirafiori con il no della Fiom-Cgil.
ROBIN HOOD TAX
Nella manovra c'è anche una "Robin Hood tax per il settore energetico". Lo ha detto il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, in conferenza stampa a Palazzo Chigi senza specificarne meglio i contenuti.
SENZA SCONTRINO RISCHIO CHIUSURA
Tracciabilità di tutte le transazioni superiori ai 2.500 euro con comunicazione all'Agenzia delle entrate delle operazioni per le quali è prevista l'applicazione dell'Iva. E' quanto prevede la bozza di manovra che sarà discussa nel corso del Consiglio dei ministri di stasera, nella parte relativa al cosiddetto 'spesometro', già in vigore. E' inoltre previsto l'inasprimento delle sanzioni, fino alla sospensione dell'attività, per la mancata emissione di fatture o scontrini fiscali.
GIOCHI E TABACCO
Il comunicato finale di Palazzo Chigi parla genereciamente di "misure in materia di giochi ed accise sul fumo".
CONTRIBUTO SOLIDARIETA'
Contributo di solidarietà a due vie per i lavoratori dipendenti e per gli autonomi. Per i dipendenti del settore privato è previsto un prelievo del 5% per la parte del reddito eccedente i 90mila euro e del 10% per la parte eccedente i 150mila euro. Per i lavoratori autonomi l'addizionale scatta invece a partire dall'aliquota del 41% che si applica ai redditi superiori a 55mila euro. La misura, al momento sperimentale, ma potrebbe diventare permanente. "Un prelievo di solidarietà per i redditi un po' più elevati che allinea quanto fatto nel settore del pubblico impiego", ha chiarito Tremonti.
NIENTE MISURE SU IVA, IMMOBILI E PATRIMONI
Nella bozza di manovra che entrerà in Consiglio dei ministri non appare l'aumento dell'Iva. Anzi l'ipotesi sarebbe accantonata. Salterebbe anche qualunque intervento sugli immobili e i patrimoni mobiliari.
NIENTE TAGLI A STIPENDI
Il documento non contierrebbe la riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici.
RENDITE FINANZIARIE
Aumento al 20% della tassazione su tutte le rendite finanziarie, esclusi gli interessi dei titoli di stato che restano al 12,5%. Questa misura è stata confermata dal ministro Tremonti.
PRIVATIZZAZIONI
Nella manovra è stato inserito anche un meccanismo "molto efficace" per la privatizzazione dei servizi pubblici. Lo ha detto il ministro Tremonti spiegando che il sistema consentirà alle amministrazioni che procederanno alle privatizzazione di sbloccare risorse per gli investimenti. "Un meccanismo molto efficace - lo ha definito il ministro - per i servizi pubblici: se smobilizzi puoi fare investimenti".
MINISTERI
Previsto un taglio di 6 miliardi di euro nel 2012 e 2,5 nel 2013.
ENTI LOCALI
Verranno ridotti 6 miliardi di trasferimenti nel 2012 e 3,5 nel 2013. Per le regioni il peso della riduzione dei fondi è pari a 1 miliardo di euro. La sanità non verrà toccata.
PERDITE
Riduzione per le società al 62,5% della possibilità di abbattimento delle perdite.
RINNOVABILI
Torna l'ipotesi del taglio del 30% degli incentivi. Non potranno essere superiori alla media di quelli erogati negli altri Paesi d'Europa. Ma stando ad altre fonti il punto in un secondo momento sarebbe stato stralciato.
MERCATO ELETTRICO
L'ipotesi è quella della divisione in tre macrozone (Nord, Centro, Sud).
SERVIZI PUBBLICI LOCALI
Si punta alla liberalizzazione e verranno incentivate le privatizzazioni.
FONDI FAS
Saranno anticipate di un anno le riduzioni del Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate.
DELEGA FISCALE
"Noi chiediamo al Parlamento la delega per la riforma assistenziale e fiscale non più sul 2012 ma sul 2011 e nel corso del 2012 pensiamo di ottenere risparmi assolutamente realizzAbili per 4 miliardi. Nel caso non fosse possibile realizzare quell'obiettivo la garanzia di salvaguardia e una corrispondente riduzione di regime di tax expenditure". Lo ha detto il ministro dell'economia, Giulio tremonti al termine del Cdm.
TABACCHI. Tra le misure varate dal Cdm per contrastare la crisi economica, "c'è un intervento di modulato aumento delle accise dei tabacchi".
ACCORPAMENTO PER 1500 COMUNI
Sono circa 1.500 i comuni per i quali sarà reso obbligatorio l'accorpamento, in base ai criteri previsti dalla manovra. Si tratta dei comuni sotto i 1000 abitanti.
VIA PROVINCE SOTTO 300 MILA ABITANTI
E' prevista la soppressione delle Provincie sotto i 300.000 abitanti, ma solo dopo il prossimo censimento. I capoluoghi interessanti dal provvedimento, stando a una verifica informale, sarebbero i seguenti:
Ascoli Piceno, Asti, Belluno, Benevento, Biella, Caltanissetta, Campobasso, Carbonia-Iglesias, Crotone, Enna, Fermo, Gorizia, Grosseto, Imperia, Isernia, La Spezia, Lodi, Massa Carrara, Matera, Medio Campidano, Nuoro, Ogliastra, Olbia Tempio, Oristano, Piacenza, Pistoia, Prato, Rieti, Rovigo, Savona, Siena, Sondrio, Terni, Trieste, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Vibo Valentia. Resta da capire la sorte di Aosta, provincia con meno di 300 mila abitanti ma di una regione a Statuto speciale.
Nel Cdm approvazione all'unanimità delle misure anticrisi. Ecco un quadro delle misure, che Tremonti si è impegnato a chiarire meglio domattina.
AUMENTO IRPEF AUTONOMI OLTRE 55MILA EURO
Un aumento della quota Irpef per gli autonomi, forse a partire dall'attuale 41% per i redditi oltre i 55.000 euro. La misura, inizialmente prevista per 2-3 anni, potrebbe essere a carattere permanente.
A RISCHIO TREDICESIMA STATALI
I dipendenti delle amministrazioni pubbliche che non rispettano gli obiettivi di riduzione della spesa potrebbero perdere il pagamento della tredicesima mensilità.
TFR RITARDATO 2 ANNI PER STATALI
Il pagamento con due anni di ritardo dell'indennità di buonuscita dei lavoratori pubblici è un'altra delle misure prevista nella bozza di decreto.
TAGLI AI COSTI DELLA POLITICA
Nel provvedimento non si parla di ridurre il numero dei parlamentari e i loro privilegi (ad eccezione dei voli in classe economica per deputati e senatori, amministratori pubblici, dipendenti dello stato, componenti di enti ed organismi), ma si interviene sulle "poltrone" locali". Intervenendo in conferenza stampa a Palazzo Chigi Berlusconi ha però sostenuto che in realtà "ci sono numerosi interventi, credo anche eccessivi rispetto a ciò che sarebbe giusto, ma abbiamo seguito i desiderata dei cittadini che guardando alle loro condizioni hanno ritenuto che i politici e i parlamentari avessero entrate eccessive". In particolare, ha spiegato il premier, si è intervenuti "in tutte le direzioni". "Il numero di poltrone eliminate - ha aggiunto - è importante, intorno alle 54 mila". Altra misura, stando alle indiscrezioni, sarebbe quella relativa al contributo di solidarietà. Secondo quanto riferito da fonti governative, è previsto infatti un "contributo di solidarietà" anche per deputati e senatori pari al 10% per i redditi superiori ai 90 mila euro ma inferiori a 150 mila, e del 20% per quelli superiori a 150 mila euro. Esattamente il doppio di quanto previsto per i dipendenti pubblici e privati. Inoltre, per i dipendenti 'normali' il contributo è deducibile, mentre per gli 'onorevoli' non lo sarà. Infine, viene ridotta del 50% l'indennità per il parlamentare che ha un reddito uguale alla stessa indennità. Infine la decisione che saranno solo in classe economica i voli per parlamentari, amministratori pubblici, dipendenti dello Stato, componenti di enti ed organismi.
PENSIONI
Viene anticipato dal 2020 al 2015 il progressivo innalzamento a 65 anni (entro il 2027) dell'età pensionabile delle donne nel settore privato. Nessuna misura, invece, contrariamente a quanto anticipato, sulle pensioni di anzianità.
SCUOLA
Il comunicato finale del governo spiega che "per far fronte alle esigenze della scuola, nell'imminenza dell'avvio del nuovo anno scolastico, su proposta dei ministri Brunetta e Tremonti, è stato inoltre approvato un decreto presidenziale che autorizza per il solo anno 2011-2012 il trattenimento in servizio di 414 dirigenti scolastici; il decreto, altresì, prende atto di quanto definito dalla programmazione triennale delle assunzioni nella scuola, autorizzando l'assunzione a tempo indeterminato di 30.300 Unità di personale docente ed educativo e di 36.000 Unità di personale amministrativo, tecnico ed ausiliario".
STOP PONTI, FESTE SPOSTATE AL LUNEDI'
Le festività infrasettimanali "non concordatarie" verranno spostate al lunedì. "Come avviene in tutta Europa", ha confermato il ministro dell'Economia.
DEROGA CONTRATTI NAZIONALI
Nella manovra c'è anche l'estensione 'erga omnes' dei contratti aziendali che potranno così derogare a quelli nazionali e a parte dello Statuto dei lavoratori. Non sarebbe più prevista la delega per lo statuto dei lavori e in particolare diventerebbe più facile licenziare i lavoratori con contratti a tempo indeterminato. La misura è stata spiegato così dal ministro Sacconi: "Le norme approvate in materia di lavoro contengono il cuore dello Statuto dei lavori in quanto attribuiscono ai contratti aziendali o territoriali la capacità di regolare tutto ciò che attiene all'organizzazione del lavoro e della produzione anche in deroga ai contratti collettivi e alle disposizioni di legge quando non attengano ai diritti fondamentali nel lavoro che in quanto tali sono inderogabili e universali". In concreto significa, ad esempio, che sono "efficaci nei confronti di tutto il personale" anche le norme contenuto nell'accordo firmato da Fiat per Pomigliano e Mirafiori con il no della Fiom-Cgil.
ROBIN HOOD TAX
Nella manovra c'è anche una "Robin Hood tax per il settore energetico". Lo ha detto il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, in conferenza stampa a Palazzo Chigi senza specificarne meglio i contenuti.
SENZA SCONTRINO RISCHIO CHIUSURA
Tracciabilità di tutte le transazioni superiori ai 2.500 euro con comunicazione all'Agenzia delle entrate delle operazioni per le quali è prevista l'applicazione dell'Iva. E' quanto prevede la bozza di manovra che sarà discussa nel corso del Consiglio dei ministri di stasera, nella parte relativa al cosiddetto 'spesometro', già in vigore. E' inoltre previsto l'inasprimento delle sanzioni, fino alla sospensione dell'attività, per la mancata emissione di fatture o scontrini fiscali.
GIOCHI E TABACCO
Il comunicato finale di Palazzo Chigi parla genereciamente di "misure in materia di giochi ed accise sul fumo".
CONTRIBUTO SOLIDARIETA'
Contributo di solidarietà a due vie per i lavoratori dipendenti e per gli autonomi. Per i dipendenti del settore privato è previsto un prelievo del 5% per la parte del reddito eccedente i 90mila euro e del 10% per la parte eccedente i 150mila euro. Per i lavoratori autonomi l'addizionale scatta invece a partire dall'aliquota del 41% che si applica ai redditi superiori a 55mila euro. La misura, al momento sperimentale, ma potrebbe diventare permanente. "Un prelievo di solidarietà per i redditi un po' più elevati che allinea quanto fatto nel settore del pubblico impiego", ha chiarito Tremonti.
NIENTE MISURE SU IVA, IMMOBILI E PATRIMONI
Nella bozza di manovra che entrerà in Consiglio dei ministri non appare l'aumento dell'Iva. Anzi l'ipotesi sarebbe accantonata. Salterebbe anche qualunque intervento sugli immobili e i patrimoni mobiliari.
NIENTE TAGLI A STIPENDI
Il documento non contierrebbe la riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici.
RENDITE FINANZIARIE
Aumento al 20% della tassazione su tutte le rendite finanziarie, esclusi gli interessi dei titoli di stato che restano al 12,5%. Questa misura è stata confermata dal ministro Tremonti.
PRIVATIZZAZIONI
Nella manovra è stato inserito anche un meccanismo "molto efficace" per la privatizzazione dei servizi pubblici. Lo ha detto il ministro Tremonti spiegando che il sistema consentirà alle amministrazioni che procederanno alle privatizzazione di sbloccare risorse per gli investimenti. "Un meccanismo molto efficace - lo ha definito il ministro - per i servizi pubblici: se smobilizzi puoi fare investimenti".
MINISTERI
Previsto un taglio di 6 miliardi di euro nel 2012 e 2,5 nel 2013.
ENTI LOCALI
Verranno ridotti 6 miliardi di trasferimenti nel 2012 e 3,5 nel 2013. Per le regioni il peso della riduzione dei fondi è pari a 1 miliardo di euro. La sanità non verrà toccata.
PERDITE
Riduzione per le società al 62,5% della possibilità di abbattimento delle perdite.
RINNOVABILI
Torna l'ipotesi del taglio del 30% degli incentivi. Non potranno essere superiori alla media di quelli erogati negli altri Paesi d'Europa. Ma stando ad altre fonti il punto in un secondo momento sarebbe stato stralciato.
MERCATO ELETTRICO
L'ipotesi è quella della divisione in tre macrozone (Nord, Centro, Sud).
SERVIZI PUBBLICI LOCALI
Si punta alla liberalizzazione e verranno incentivate le privatizzazioni.
FONDI FAS
Saranno anticipate di un anno le riduzioni del Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate.
DELEGA FISCALE
"Noi chiediamo al Parlamento la delega per la riforma assistenziale e fiscale non più sul 2012 ma sul 2011 e nel corso del 2012 pensiamo di ottenere risparmi assolutamente realizzAbili per 4 miliardi. Nel caso non fosse possibile realizzare quell'obiettivo la garanzia di salvaguardia e una corrispondente riduzione di regime di tax expenditure". Lo ha detto il ministro dell'economia, Giulio tremonti al termine del Cdm.
TABACCHI. Tra le misure varate dal Cdm per contrastare la crisi economica, "c'è un intervento di modulato aumento delle accise dei tabacchi".
ACCORPAMENTO PER 1500 COMUNI
Sono circa 1.500 i comuni per i quali sarà reso obbligatorio l'accorpamento, in base ai criteri previsti dalla manovra. Si tratta dei comuni sotto i 1000 abitanti.
VIA PROVINCE SOTTO 300 MILA ABITANTI
E' prevista la soppressione delle Provincie sotto i 300.000 abitanti, ma solo dopo il prossimo censimento. I capoluoghi interessanti dal provvedimento, stando a una verifica informale, sarebbero i seguenti:
Ascoli Piceno, Asti, Belluno, Benevento, Biella, Caltanissetta, Campobasso, Carbonia-Iglesias, Crotone, Enna, Fermo, Gorizia, Grosseto, Imperia, Isernia, La Spezia, Lodi, Massa Carrara, Matera, Medio Campidano, Nuoro, Ogliastra, Olbia Tempio, Oristano, Piacenza, Pistoia, Prato, Rieti, Rovigo, Savona, Siena, Sondrio, Terni, Trieste, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Vibo Valentia. Resta da capire la sorte di Aosta, provincia con meno di 300 mila abitanti ma di una regione a Statuto speciale.
12.8.11
Quando David spaccava le vetrine
Marco D'Eramo (Il Manifesto)
Il primo ministro conservatore, che oggi tuona contro i vandali, 24 anni fa venne salvato dall'arresto dal portafoglio di papà
In una città inglese una banda di giovani sfascia una vetrina, scappa nella notte, si dirige correndo verso il giardino botanico. La polizia li insegue, ne carica alcuni sul cellulare e li sbatte in gattabuia.
Il problema è che non parliamo di un episodio avvenuto in questi giorni. E i giovani arrestati non sono gangueros sottoproletari. No, l'episodio avvenne ventiquattro anni fa a Oxford e i dieci giovani erano tutti membri del Bullington Club, associazione studentesca oxfordiana vecchia di 150 anni, famosa per le goliardate, le sbronze e per considerare il massimo dello spasso vandalizzare negozi e ristoranti. Ristoratori, commercianti e denunce alla polizia, tutto viene sedato con lauti risarcimenti attinti dai pingui portafogli paterni. Poche ore prima di queste gesta, quei dieci baldi giovani erano stati ritratti su una scalinata, tutti nella divisa del club, un vestito da sera da 1.000 sterline (1.150 euro) l'uno. Tra di loro, spicca un giovane David Cameron e un altrettanto imberbe Boris Johnson.
Il fatto è che oggi Cameron è primo ministro conservatore e Johnson è sindaco conservatore della Grande Londra. E ambedue tuonano contro i vandali che distruggono le proprietà private. Ambedue invocano la linea dura, il pugno di ferro. Cameron vuole ricorrere all'esercito e censurare i social networks; Johnson vuole aumentare gli effettivi di polizia. Nemmeno un minimo di comprensione per chi non fa altro, in fondo, che emulare le loro gesta di un tempo.
Ma certo, è proprio della mentalità di un figlio di papà ritenere che gli altri non possono - e non devono - permettersi quel che a lui è consentito, per diritto di nascita e di estrazione sociale.
David Cameron è nato nel 1966 da un padre agente di borsa e una madre figlia di un baronetto: l'attuale premier ci tiene a far sapere di essere discendente illegittimo del re Guglielmo IV e della sua amante Dorothea e quindi di essere parente alla lontana della regina Elisabetta II. Tipico snob, a sette anni Cameron fu mandato a Heatherdown, scuola preparatoria frequentata anche dai principi Andrea e Edoardo e il cui atteggiamento di classe era inequivocabile: nei giorni di escursione i cessi portatili erano designati da «Ladies», «Gentlemen» e «Chauffeurs». E quando Margaret Thatcher fu eletta premier, la scuola celebrò con un'improvvisata partita di cricket alunni contro insegnanti. Al liceo Cameron fu mandato nella più prestigiosa scuola privata inglese, Eton (la retta annua è di 27.000 sterline, circa 31.000 euro), la fucina della classe dominante (Boris Johnson fu suo compagno di classe anche a Eton): è curioso ma in Gran Bretagna le scuole private si chiamano public schools. Lì il ragazzaccio Cameron fu sorpreso a farsi una canna e per punizione dovette ricopiare 500 righe di latino. Dopo Eton, naturalmente l'università fu Oxford e il club fu il Bullingdon.
Da perfetto snob, Cameron si è poi sposato con Samantha Gwendoline Sheffield, il cui padre è un baronetto proprietario terriero e il padrigno è un visconte. Samantha Gwendoline lavora nella celebre ditta di generi di lusso Smytson di Bond Street ed è stata premiata come Miglior Disegnatrice di accessori dal British Glamour Magazine.
Lasciatisi alle spalle le gozzoviglie goliardiche, i figli di papà fanno di solito una bella carriera: Boris Johnson diventa direttore dello Spectator (anche se la sua sua carriera inciampa nelle sue avventure di donnaiolo incallito, benché sposato). Cameron diventa direttore per i Corporate Affairs della Carlton Communication una società di media poi assorbita da Granada plc per formare ITV plc.
Quando nel 2005 Cameron vince il congresso Tory e diventa leader del partito conservatore, ha appena 38 anni. E naturalmente nel governo ombra che forma (allora era premier il laburista Tony Blair), 3 membri sono ex allievi di Eton (Old Etonians). Ma del gruppo ristretto dei suoi collaboratori, ben 15 sono Old Etonians. E altrettanto avviene quando, nel maggio 2010 Cameron vince (a metà) le elezioni e diventa premier a capo di una coalizione con il liberaldemocratici guidati da Nick Clegg: anche qui il nucleo duro del governo è costituito da aristocratici, da etoniani o da oxfordiani, come l'attuale Cancelliere dello Scacchiere (cioè ministro dell'economia) George Gideon Oliver Osborne, anch'egli nobile, erede della baronia Osborne, anch'egli laureato a Oxford, e anche egli, guarda un po', ex membro del Club Bullington. Come si diceva una volta: buon sangue non mente. E neanche la classe.
Il primo ministro conservatore, che oggi tuona contro i vandali, 24 anni fa venne salvato dall'arresto dal portafoglio di papà
In una città inglese una banda di giovani sfascia una vetrina, scappa nella notte, si dirige correndo verso il giardino botanico. La polizia li insegue, ne carica alcuni sul cellulare e li sbatte in gattabuia.
Il problema è che non parliamo di un episodio avvenuto in questi giorni. E i giovani arrestati non sono gangueros sottoproletari. No, l'episodio avvenne ventiquattro anni fa a Oxford e i dieci giovani erano tutti membri del Bullington Club, associazione studentesca oxfordiana vecchia di 150 anni, famosa per le goliardate, le sbronze e per considerare il massimo dello spasso vandalizzare negozi e ristoranti. Ristoratori, commercianti e denunce alla polizia, tutto viene sedato con lauti risarcimenti attinti dai pingui portafogli paterni. Poche ore prima di queste gesta, quei dieci baldi giovani erano stati ritratti su una scalinata, tutti nella divisa del club, un vestito da sera da 1.000 sterline (1.150 euro) l'uno. Tra di loro, spicca un giovane David Cameron e un altrettanto imberbe Boris Johnson.
Il fatto è che oggi Cameron è primo ministro conservatore e Johnson è sindaco conservatore della Grande Londra. E ambedue tuonano contro i vandali che distruggono le proprietà private. Ambedue invocano la linea dura, il pugno di ferro. Cameron vuole ricorrere all'esercito e censurare i social networks; Johnson vuole aumentare gli effettivi di polizia. Nemmeno un minimo di comprensione per chi non fa altro, in fondo, che emulare le loro gesta di un tempo.
Ma certo, è proprio della mentalità di un figlio di papà ritenere che gli altri non possono - e non devono - permettersi quel che a lui è consentito, per diritto di nascita e di estrazione sociale.
David Cameron è nato nel 1966 da un padre agente di borsa e una madre figlia di un baronetto: l'attuale premier ci tiene a far sapere di essere discendente illegittimo del re Guglielmo IV e della sua amante Dorothea e quindi di essere parente alla lontana della regina Elisabetta II. Tipico snob, a sette anni Cameron fu mandato a Heatherdown, scuola preparatoria frequentata anche dai principi Andrea e Edoardo e il cui atteggiamento di classe era inequivocabile: nei giorni di escursione i cessi portatili erano designati da «Ladies», «Gentlemen» e «Chauffeurs». E quando Margaret Thatcher fu eletta premier, la scuola celebrò con un'improvvisata partita di cricket alunni contro insegnanti. Al liceo Cameron fu mandato nella più prestigiosa scuola privata inglese, Eton (la retta annua è di 27.000 sterline, circa 31.000 euro), la fucina della classe dominante (Boris Johnson fu suo compagno di classe anche a Eton): è curioso ma in Gran Bretagna le scuole private si chiamano public schools. Lì il ragazzaccio Cameron fu sorpreso a farsi una canna e per punizione dovette ricopiare 500 righe di latino. Dopo Eton, naturalmente l'università fu Oxford e il club fu il Bullingdon.
Da perfetto snob, Cameron si è poi sposato con Samantha Gwendoline Sheffield, il cui padre è un baronetto proprietario terriero e il padrigno è un visconte. Samantha Gwendoline lavora nella celebre ditta di generi di lusso Smytson di Bond Street ed è stata premiata come Miglior Disegnatrice di accessori dal British Glamour Magazine.
Lasciatisi alle spalle le gozzoviglie goliardiche, i figli di papà fanno di solito una bella carriera: Boris Johnson diventa direttore dello Spectator (anche se la sua sua carriera inciampa nelle sue avventure di donnaiolo incallito, benché sposato). Cameron diventa direttore per i Corporate Affairs della Carlton Communication una società di media poi assorbita da Granada plc per formare ITV plc.
Quando nel 2005 Cameron vince il congresso Tory e diventa leader del partito conservatore, ha appena 38 anni. E naturalmente nel governo ombra che forma (allora era premier il laburista Tony Blair), 3 membri sono ex allievi di Eton (Old Etonians). Ma del gruppo ristretto dei suoi collaboratori, ben 15 sono Old Etonians. E altrettanto avviene quando, nel maggio 2010 Cameron vince (a metà) le elezioni e diventa premier a capo di una coalizione con il liberaldemocratici guidati da Nick Clegg: anche qui il nucleo duro del governo è costituito da aristocratici, da etoniani o da oxfordiani, come l'attuale Cancelliere dello Scacchiere (cioè ministro dell'economia) George Gideon Oliver Osborne, anch'egli nobile, erede della baronia Osborne, anch'egli laureato a Oxford, e anche egli, guarda un po', ex membro del Club Bullington. Come si diceva una volta: buon sangue non mente. E neanche la classe.
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9.8.11
È il BlackBerry il nuovo alleato degli attivisti sul web
Ecco come la rivolta di Londra ha aggirato i controlli telematici grazie al network BB
ANTONINO CAFFO
Non solo Twitter e Facebook. Nel caos dei disordini scatenati a Londra la diffusione della protesta è stata organizzata attraverso una rete di BlackBerry. Seppur la maggior parte dei commenti post protesta si sia diffusa sui social network consolidati, questa volta tali piattaforme sono state sorpassate nell'organizzazione del movimento. Come spesso accade Twitter è stata la sede per spettatori e giornalisti, dove poter seguire lo sviluppo della protesta. Ma mentre i cinguettii sono serviti al grande pubblico, la rete di messaggistica dei BlackBerry ha rappresentato un luogo dove poter organizzare la protesta senza il pericolo (per i manifestanti) di rivelare i propri intenti alle forza di polizia.
L’adozione della piattaforma BlackBerry per gli attivisti ha permesso di creare una rete privata accessibile solo ai diretti interessati. Tutto ciò è stato resto possibile dal BlackBerry Messenger (BBM), una chat di gruppo in cui hanno avuto luogo i movimenti di coordinamento delle sommosse. Per comunicare con il Messenger gli utenti devono fornire il PIN identificativo del telefono agli amici con i quali vogliono chattare. Il tutto è in forma gratuita e i messaggi vengono scambiati in forma privata. Il PIN può essere diffuso con qualsiasi mezzo, tra cui Twitter e altri social network, ma anche via SMS.
BBM ha creato un social network ombra, invisibile a controlli della polizia. Non è un caso che il BlackBerry sia un device molto diffuso tra la gioventù urbana. Il rapper Jay-z è il suo portavoce principale negli Stati Uniti e un recente concerto rap “segreto” alla Shoreditch Town Hall è stato sponsorizzato dall'azienda Blackberry. Subito dopo le proteste londinesi, una semplice ricerca su Twitter sulle frasi associate all'evento e contenenti il termine "BBM" ha rivelato l’alto numero di messaggi creati sulla rete BlackBerry. Mentre Twitter è un social network già diffuso e “rumoroso” che amplifica gli eventi e le notizie, è BBM la piattaforma alternativa che sembra sfuggire ad ogni controllo telematico.
Il motivo del nuovo successo globale dei BlackBerry è anche economico. Nonostante siano telefoni intelligenti spesso costano meno di smartphone più rinomati come iPhone o modelli Android, che sono tipicamente la scelta degli utenti di Twitter vista la vasta gamma di applicazioni disponibili. A differenza di Twitter e Facebook però, la rete di messaggistica BBM è la più dffusa nel Regno Unito e il risultato è che i BlackBerry sono diventati l'arma preferita dai giovani disillusi della Gran Bretagna.
ANTONINO CAFFO
Non solo Twitter e Facebook. Nel caos dei disordini scatenati a Londra la diffusione della protesta è stata organizzata attraverso una rete di BlackBerry. Seppur la maggior parte dei commenti post protesta si sia diffusa sui social network consolidati, questa volta tali piattaforme sono state sorpassate nell'organizzazione del movimento. Come spesso accade Twitter è stata la sede per spettatori e giornalisti, dove poter seguire lo sviluppo della protesta. Ma mentre i cinguettii sono serviti al grande pubblico, la rete di messaggistica dei BlackBerry ha rappresentato un luogo dove poter organizzare la protesta senza il pericolo (per i manifestanti) di rivelare i propri intenti alle forza di polizia.
L’adozione della piattaforma BlackBerry per gli attivisti ha permesso di creare una rete privata accessibile solo ai diretti interessati. Tutto ciò è stato resto possibile dal BlackBerry Messenger (BBM), una chat di gruppo in cui hanno avuto luogo i movimenti di coordinamento delle sommosse. Per comunicare con il Messenger gli utenti devono fornire il PIN identificativo del telefono agli amici con i quali vogliono chattare. Il tutto è in forma gratuita e i messaggi vengono scambiati in forma privata. Il PIN può essere diffuso con qualsiasi mezzo, tra cui Twitter e altri social network, ma anche via SMS.
BBM ha creato un social network ombra, invisibile a controlli della polizia. Non è un caso che il BlackBerry sia un device molto diffuso tra la gioventù urbana. Il rapper Jay-z è il suo portavoce principale negli Stati Uniti e un recente concerto rap “segreto” alla Shoreditch Town Hall è stato sponsorizzato dall'azienda Blackberry. Subito dopo le proteste londinesi, una semplice ricerca su Twitter sulle frasi associate all'evento e contenenti il termine "BBM" ha rivelato l’alto numero di messaggi creati sulla rete BlackBerry. Mentre Twitter è un social network già diffuso e “rumoroso” che amplifica gli eventi e le notizie, è BBM la piattaforma alternativa che sembra sfuggire ad ogni controllo telematico.
Il motivo del nuovo successo globale dei BlackBerry è anche economico. Nonostante siano telefoni intelligenti spesso costano meno di smartphone più rinomati come iPhone o modelli Android, che sono tipicamente la scelta degli utenti di Twitter vista la vasta gamma di applicazioni disponibili. A differenza di Twitter e Facebook però, la rete di messaggistica BBM è la più dffusa nel Regno Unito e il risultato è che i BlackBerry sono diventati l'arma preferita dai giovani disillusi della Gran Bretagna.
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2.8.11
Come testimoniare al processo lungo
Stefano Benni (La Repubblica)
Scena: aula di tribunale. Giudice: Dichiaro aperta la duemilacentesima udienza del processo. Ci sono testimoni della difesa ? Testimone: Ci sono io.
Giudice: Bene. Mi dica allora cosa ha da testimoniare. Testimone: Ero alle sette di sera in agosto con milleseicento amici in un bar nei pressi di Segrate quando vidi l´avvocato Mills col cappotto passeggiare su marciapiede. E nel contempo il cavalier Berlusconi camminare con la scorta. Giuro che si incrociarono, nemmeno si salutarono e sparirono alla mia vista. Giudice: La sua testimonianza collima con altre milleseicento testimonianze, con la variante che lei dice “col cappotto”.
Testimone: Esattamente.
Giudice: Rivolgo a lei una domanda che faccio agli altri testimoni. Non le sembra improbabile che milleseicento persone stiano tutte insieme al tavolino di un bar?
Testimone: Eravamo un gruppo molto unito e a quell´ora giocavamo a carte, Quattro giocavano e gli altri millecinquecento guardavano. Inoltre sfruttavamo bene lo spazio. Io ad esempio ero dentro la tazza di un cappuccino.
Giudice: Caldo o freddo?
-Obiezione – dice l´avvocato Ghedini dalla sedia a rotelle – anche a nome degli altri settanta avvocati della difesa, dico che la domanda è inutile e pretestuosa.
- Obiezione accolta. Avanti un altro testimone.
Testimone: Sono il testimone duemilacentouno. (leggendo da un foglio) Mi trovavo con alcuni amici muratori nel solito bar di porto Cervo quando vidi il signor Dell´Utri tornare dalla spiaggia in accappatoio e incrociare Totò Riina in bicicletta. Mi ricordo come fosse oggi che Totò Riina frenò, i due si guardarono e non si salutarono né parlarono tra loro.
Giudice: Signor testimone, lei ha sbagliato processo lungo. Accompagnatelo nell´aula di fronte. Avanti un altro .
Testimone: Sono il duemilacentodue. Ero in un bar di Segrate con un migliaio di amici, quando vidi l´avvocato Mills camminare lentamente di buon passo sul marciapiede. Un´auto blu si fermò e ne scese l´onorevole BerlusconiI
Giudice: (con aria annoiata) Lo so, e nemmeno si salutarono.
Testimone: no no ,si salutarono. Il presidente Berlusconi diede a Mills una busta. L´avvocato Mills la aprì e conteneva un biglietto di auguri di Natale con la polverina d´oro, e neanche un euro. L´avvocato Mills sembrò contrariato…
Giudice: Interessante. La sua testimonianza è diversa dalle altre.
Testimone: Mi hanno pagato di meno.
-Obiezione!- grida l‘avvocato Ghedini- il testimone è evidentemente confuso.
Giudice: Va bene. Avanti un altro.
Testimone: Sono il testimone duemilacentotre e… non m i ricordo cosa dovevo dire…
Momento di tensione. L´avvocato Ghedini cerca di suggerire, il giudice lo zittisce.
Testimone: Ecco adesso mi ricordo cosa. Mi trovavo in una bocciofila a Segrate. E giocavamo a bocce seicento contro seicento. In una pausa andai al bar e vidi Berlusconi camminare lentamente di buon passo. Da un´auto blu scese l´avvocato Mills con due ragazze dalle forme prosperose evidentemente egiziane. Passò davanti a Berlusconi che li guardò con aria indifferente, anzi si fece il segno della croce.
Giudice: La sua testimonianza collima con altre seicentosei. Ci sono altri testimoni della difesa ?
Ghedini: Per oggi no, eccellenza, il pullman del Milan che doveva portarli è fermo in un ingorgo sulla tangenziale.
Giudice(sbadigliando): Succede. La seduta è chiusa.
Scena: aula di tribunale. Giudice: Dichiaro aperta la duemilacentesima udienza del processo. Ci sono testimoni della difesa ? Testimone: Ci sono io.
Giudice: Bene. Mi dica allora cosa ha da testimoniare. Testimone: Ero alle sette di sera in agosto con milleseicento amici in un bar nei pressi di Segrate quando vidi l´avvocato Mills col cappotto passeggiare su marciapiede. E nel contempo il cavalier Berlusconi camminare con la scorta. Giuro che si incrociarono, nemmeno si salutarono e sparirono alla mia vista. Giudice: La sua testimonianza collima con altre milleseicento testimonianze, con la variante che lei dice “col cappotto”.
Testimone: Esattamente.
Giudice: Rivolgo a lei una domanda che faccio agli altri testimoni. Non le sembra improbabile che milleseicento persone stiano tutte insieme al tavolino di un bar?
Testimone: Eravamo un gruppo molto unito e a quell´ora giocavamo a carte, Quattro giocavano e gli altri millecinquecento guardavano. Inoltre sfruttavamo bene lo spazio. Io ad esempio ero dentro la tazza di un cappuccino.
Giudice: Caldo o freddo?
-Obiezione – dice l´avvocato Ghedini dalla sedia a rotelle – anche a nome degli altri settanta avvocati della difesa, dico che la domanda è inutile e pretestuosa.
- Obiezione accolta. Avanti un altro testimone.
Testimone: Sono il testimone duemilacentouno. (leggendo da un foglio) Mi trovavo con alcuni amici muratori nel solito bar di porto Cervo quando vidi il signor Dell´Utri tornare dalla spiaggia in accappatoio e incrociare Totò Riina in bicicletta. Mi ricordo come fosse oggi che Totò Riina frenò, i due si guardarono e non si salutarono né parlarono tra loro.
Giudice: Signor testimone, lei ha sbagliato processo lungo. Accompagnatelo nell´aula di fronte. Avanti un altro .
Testimone: Sono il duemilacentodue. Ero in un bar di Segrate con un migliaio di amici, quando vidi l´avvocato Mills camminare lentamente di buon passo sul marciapiede. Un´auto blu si fermò e ne scese l´onorevole BerlusconiI
Giudice: (con aria annoiata) Lo so, e nemmeno si salutarono.
Testimone: no no ,si salutarono. Il presidente Berlusconi diede a Mills una busta. L´avvocato Mills la aprì e conteneva un biglietto di auguri di Natale con la polverina d´oro, e neanche un euro. L´avvocato Mills sembrò contrariato…
Giudice: Interessante. La sua testimonianza è diversa dalle altre.
Testimone: Mi hanno pagato di meno.
-Obiezione!- grida l‘avvocato Ghedini- il testimone è evidentemente confuso.
Giudice: Va bene. Avanti un altro.
Testimone: Sono il testimone duemilacentotre e… non m i ricordo cosa dovevo dire…
Momento di tensione. L´avvocato Ghedini cerca di suggerire, il giudice lo zittisce.
Testimone: Ecco adesso mi ricordo cosa. Mi trovavo in una bocciofila a Segrate. E giocavamo a bocce seicento contro seicento. In una pausa andai al bar e vidi Berlusconi camminare lentamente di buon passo. Da un´auto blu scese l´avvocato Mills con due ragazze dalle forme prosperose evidentemente egiziane. Passò davanti a Berlusconi che li guardò con aria indifferente, anzi si fece il segno della croce.
Giudice: La sua testimonianza collima con altre seicentosei. Ci sono altri testimoni della difesa ?
Ghedini: Per oggi no, eccellenza, il pullman del Milan che doveva portarli è fermo in un ingorgo sulla tangenziale.
Giudice(sbadigliando): Succede. La seduta è chiusa.
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