7.12.18

Gilet gialli - A Parigi la nuda lotta di classe

di Bruno Giorgini  (Radio Popolare)

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. 24 giugno 1793, Parigi, Francia.

Art. 33 – La resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo.

Art. 34 – Vi è oppressione contro il corpo sociale quando uno solo dei suoi membri è oppresso. Vi è oppressione contro ogni membro quando il corpo sociale è oppresso.

Art. 35 – Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri.

Karl Marx scrive nel 1842 uno dei suoi primi articoli politici. É appena laureato all’università di Jena, ma già attivo nell’area dei cosidetti hegeliani di sinistra. La questione in ballo è una legge che, per salvaguardare i boschi, vieta ai contadini di tagliare i rami, comminando varie pene ai trasgressori. Una legge che oggi potremmo definire ecologica. Epperò i contadini, in specie poveri, altro non possono che continuare nel “furto del legno boschivo”, a meno di non morire dal freddo. Marx li difende accanitamente. Anzi arriva a assumerli come punta di lancia delle ribellione contro lo stato prussiano, alfieri di una rivoluzione che egli già intravede come necessaria. Non così i suoi amici hegeliani, molto rispettosi del bosco, e delle leggi. Si può dire che con questo lavoro Marx diventa marxista, ovvero materialista mettendo i piedi nel piatto della condizione materiale e nei bisogni degli uomini in carne e ossa, e quello di scaldarsi in inverno non è dei minori.

A Parigi e in tutta la Francia da alcune settimane centinaia di migliaia di persone sono in rivolta contro il Presidente Macron e il suo governo (“La Francia ha una piramide sociale e al suo vertice siede Macron. Vogliamo che venga a sentire l’odore che c’è qua, in basso”). Si sentono sfruttati e si ribellano. Uomini e donne da ogni parte delle terre di Francia e di Navarra indossano la pettorina gialla mettendosi in cammino contro il potere costituito, assunto come il responsabile primo della loro oppressione. Crescono di giorno in giorno, con la solidarietà della grande maggioranza dei loro connazionali. Finora non avevano altro che i loro nudi corpi, e la fatica del lavoro, quando c’è, tirando la cinghia. Adesso hanno deciso di esistere, come corpo sociale collettivo. Di farsi classe insorgendo attraverso la lotta, in presa diretta. Con una loro organizzazione orizzontale in gran parte veicolata attraverso la rete, in altra parte coi contatti diretti, nel villaggio, nel caseggiato, nel quartiere, sul treno, nel pulman, nel parcheggio quando si parte per Parigi, Tolosa, Marsiglia, la capitale e le grandi città dove altri Gilet Jaunes li aspettano. Ma senza alcuna politica, senza alcuna mediazione politica. Non sono di destra, non sono di sinistra, il centro poi chissà cos’è. La loro è nuda lotta di classe. Col che la loro stessa insorgenza come corpo sociale che si fa classe nella lotta mette in crisi il paradigma algoritmico del controllo su cui Macron ha fondato il suo potere, la sua autorità. Quando i corpi si mettono in movimento imprevisto e imprevedibile, quando il libero arbitrio individuale insorge fondendosi con gli altri mille aneliti di libertà e eguaglianza, quando le antiche tradizioni di lotta di strada che vengono dalla Rivoluzione dell’89 e dalla Comune sembrano rinascere, e le menti si forgiano nella rivolta, l’intera rete delle nervature sociali cambia e si stravolge, fin dove, e come, oggi è difficile dire. Assisteremo a una torsione verso destra, autoritaria e/o parafascista. Oppure le grandi parole di libertè, egalitè, fraternitè e di lotta contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo acquisteranno un nuovo spessore e slancio.

La nuda lotta di classe degli sfruttati contro gli sfruttatori di per sè non garantisce che i valori della sinistra e/o anticapitalistici e/o libertari e/o egualitari e/o ecologisti e/o della differenza sessuale, e quant’altro, diventino materia costituente il corpo sociale. Ci vuole la coscienza di classe, giungendo finanche alla coscienza rivoluzionaria. Quella che Lenin intendeva dovesse essere iniettata dall’esterno, perchè non insorge spontaneamente con la rivolta. A questo proposito un gruppo di giovani studenti il cui nome in italiano recita “soffia il vento, urla la bufera”, dove democratici radicali e ribelli anarco marxisti camminano e manifestano la mano nella mano – si impegna su due fronti. Per un verso portano il verbo rivoluzionario alle masse “sulle barricate”, e/o comunque in tutte le occasioni di lotta e azione cui attivamente partecipano, non credo avendo in mente Lenin ma piuttosto praticando una discussione politico ideologica, dove apprendono dai Gilet Jaunes la dura materia dei bisogni “proletari”, mentre a loro volta propongono linguaggi e obiettivi che vanno oltre le rivendicazioni sociali, in un certo senso dicendo: questa è una lotta per il potere e non soltanto per abolire la tassa sul macinato (benzina e gasolio). Sul secondo fronte lavorano a allargare l’arco sociale della rivolta alle scuole e università, con un buon successo dal punto di vista del blocco della didattica e del numero di istituti occupati, seppure è difficile dire quanti studenti siano realmente coinvolti in prima persona. E non è l’unico gruppo d’azione in tal senso. Tutta la costellazione dei gauchistes è presente, in particolare nelle grandi città, Parigi, Tolosa, Marsiglia dove i militanti si sono buttati a corpo morto dentro il movimento, quasi non credendo ai propri occhi. Con loro i sindacati, CGT in testa, le associazioni laiche e cattoliche di mutuo soccorso e molti collettivi di lavoratori sotto le più varie sigle. D’altra parte i Gilet Jaunes (GJ) vanno a dare il proprio sostegno per esempio ai lavoratori di Amazon in sciopero, mentre i ferrovieri si schierano coi giubbetti gialli, scaldando i motori per scendere in pista. Insomma più passa il tempo più la nuda lotta di classe dei GJ diventa composita e complessa. Ovviamente si immergono nel movimento anche i gruppi di estrema destra, a quel che ho potuto constatare soprattutto con azioni “militari”, ma per ora senza un lavoro ideologico e una presa politica sul movimento o sue parti significative. Per fare un paragone con l’Italia, non si sono viste fin qui all’opera organizzazioni come casa Pound e/o Forza Nuova che si nutrono di obiettivi sociali, e anche i miltanti del Front National stanno schisci, con un basso profilo. Sempre in confronto al nostro paese, sono piuttosto presenti gruppi di picchiatori come i naziskin e/o Ordine Nuovo.

Per ora in generale nessun partito è riuscito a mettere le braghe ai moderni sansculottes, e d’altra parte Macron stesso aveva ridotto le formazioni tradizionali, repubblicani eredi del gaullismo e socialisti eredi di Mitterand, a larve, dando fiato alle trombe della sua appendice “En Marche”, inabile però di fronte a una crisi delle dimensioni attuali; En Marche dove proliferano gli yes man tecnocratici, quando va bene, altrimenti decerebrati e basta. In presenza di uno scontro sociale così duro, esteso e fondamentale, l’assenza della mediazione e rappresentanza politica apre un varco naturale al confronto diretto sulla base della forza, che quindi può in un batter d’occhi diventare pratica della violenza. Così le manifestazioni diventano un mero problema di ordine pubblico, da tenere a bada o reprimere. Ho esaminato molti video degli scontri a Parigi sugli Champs-Elysées e anche in altri luoghi, dove è evidente l’intento della Polizia a sgomberare i manifestanti del tutto pacifici costi quel che costi, e a tentare di mettere loro paura con pestaggi violentissimi su persone inermi, spesso giovanissimi/e. Una politica dell’ordine pubblico demenziale, se sul serio si fosse voluto mantenere l’ordine urbano; invece spiegabile come il tentativo di “spezzare le reni al movimento col manganello”, che però non ha funzionato, perchè nessuno è scappato, anzi i GJ hanno resistito, spesso con mezzi di fortuna, e col contributo di molte donne anziane e/o di mezz’età che facevano scudo e velo alle cariche, molte, moltissime in prima fila. E i famosi, famigerati casseurs o black bloc come qualche giornalista italiano in preda alle traveggole ha detto? Certamente ci saranno stati, fatto è che gli arrestati e immediatamente processati sono falegnami, saldatori, elettricisti, muratori, cantonieri, fattorini, conduttori di trattore, disoccupati, ecc..: tra le 70 persone comparse davanti ai giudici lunedì mattina non c’è neppure un teppista, o un facinoroso, o un casseur, no tutte persone comuni, molte venute dalla provincia tutte incensurate e onesti cittadini, con alcuni episodi grotteschi come i quattro arrestati appena scesi dall’auto che avevano parcheggiato lontano dagli scontri, e considerati dal PM potenziali colpevoli perchè si stavano recando all’Arc de Triomphe dove si svolgeva un “raduno proibito con violenze contro la polizia” (fonte Le Monde). Tra l’altro l’autorità del Presidente Macron in termini di ordine pubblico aveva subito un duro colpo per l’affaire Benalla, quando il sopradetto capo della scorta presidenziale, era stato fotografato e filmato durante la manifestazione del primo maggio mentre in tenuta antisommossa pestava a sangue due giovani manifestante senza averne nessun titolo, non facendo egli parte delle forze di polizia. Macron lo aveva giustificato e difeso, cumulando bugie e omissioni, finchè in Luglio aveva dovuto cedere, licenziandolo. Ma la frittata ormai era fatta e la linda camicia bianca del giovane leone imbrattata in modo indelebile. Forse l’intervento inconsulto e violentissimo di Alexandre Benalla fu la spia di una tendenza dello stesso Presidente a “presiedere” un uso della forza e della violenza contro i “contestatori” e critici del suo potere, chissà. Comunque sia un Presidente così non piace ai francesi, e infatti l’indice di gradimento nei sondaggi è ormai al 21%, o meno.

A questo punto dobbiamo vedere quali obiettivi, al di là della goccia di benzina e gasolio che ha fatto traboccare il vaso, questo movimento si sta dando. In sintesi per quel che fin qui è possibile leggere, siamo in presenza di un movimento massivo per la redistribuzione della ricchezza e del reddito, per la giustizia sociale con forti venature nazionaliste. Citiamo alcune proposte e obiettivi di un documento, discusso e approvato in rete da, dicono gli “autori”, 30000 persone, indirizzato ai deputati della Republique sotto il titolo: Le direttive del popolo perchè voi le trasformiate in legge.

Zero senza domicilio fisso: URGENTE, Imposta più progressiva sul reddito, SMIC, salario minimo, a 1300 euro netti,(..)nessuna pensione sotto i 1200 euro, salario massimo fissato a 15000 euro, scala mobile, limitazione degli affitti + alloggi a affitto moderato, divieto di vendere i beni appartenenti alla Francia, pensione a 60 anni per tutti, e per i lavori usuranti (per esempio muratore) a 55 anni, gas e elettricità vogliamo che tornino pubblici, fine della politica d’austerità col rimborso del solo debito e non più degli interessi dichiarati illegittimi, protezione all’industria francese, vietate le delocalizzazioni, e via così in una mixitè di obiettivi alcuni volti a ridurre fortemente le diseguaglianze e altri a “rinforzare” la nazione, senza però razzismo contro i migranti seppure la politica di integrazione venga forzata fino a: vivere in Francia implica diventare francesi eccetera, e infine non possono mancare le tracce di una politica ecologica, come lo sviluppo dell’autombile a idrogeno e la costruzione di immobili a basso consumo energetico.

A questo punto i Gilet Jaunes si ergono invitti, e Macron giace reclino essendo però sempre il capo dello Stato, il Presidente della Republique. Ci sarà alla prossima mobilitazione a Parigi una palingenesi rivoluzionaria nello scontro frontale tra lo Stato e gli insorti? Oppure il Presidente sarà capace di trovare una soluzione politica giusta e democratica, senza schierare e muovere le truppe? Macron potrebbe convocare un referendum, che però con tutta probabilità perderebbe. Oppure potrebbe dimissionare il governo, ma chi altro poi potrebbe scegliere non si sa. Altra soluzione in campo potrebbe essere lo scioglimento del Parlamento con elezioni anticipate. Al buio, con i partiti tradizionali in pappa, mentre il suo movimento En Marche non pare proprio sulla breccia, possibile che si afflosci come un soufflè mal cotto. Elezioni non facili dunque nel bel mezzo d’ una tempesta sociale senza precedenti. Infine i GJ potrebbero dotarsi in un tempo strettissimo di una rappresentanza politico sociale in grado di iniziare una trattativa con lo Stato, il che a tutt’oggi non pare proprio una soluzione a portata di mano.

Comunque sia, per dirla con Camus: Je me révolte, donc nous sommes.

26.11.18

Così Jean-Claude Juncker ha ucciso il sogno dell'Europa

Favori giganteschi alle multinazionali. Aiuti ai miliardari. E beffe ai cittadini. Ecco come il numero uno della Commissione ha scatenato il populismo
di Paolo Biondani e Leo Sisti

Una voragine nei conti dei 28 Paesi dell’Unione europea: mille miliardi di euro all’anno, tra elusione ed evasione fiscale. Multinazionali che non pagano le imposte e smistano decine di miliardi di dollari dei loro profitti, accantonati grazie a operazioni finanziarie privilegiate in Lussemburgo, verso altri paradisi rigorosamente “tax free”. Stati membri dell’Unione che si fanno concorrenza sleale sulle tasse. È disastroso il bilancio che sta lasciando Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, nonché ex padre-padrone del Granducato, mentre imbocca l’ultimo anno del suo mandato, in scadenza dopo le elezioni del 2019: il suo viale del tramonto. Ormai ogni giorno il numero uno della Ue deve incrociare i ferri con populisti e sovranisti, pronti a sfidare regole, limiti e vincoli europei. In Italia ad attaccarlo è soprattutto Matteo Salvini, con un avvertimento: «Pensi al suo paradiso fiscale in Lussemburgo». Dove Juncker è stato presidente del Consiglio dal 1995 al 2013 e, già prima, più volte ministro delle Finanze, esordendo con il primo incarico politico nel 1982, ad appena 28 anni. Ed è proprio il Lussemburgo il vero nodo del caso Juncker, di cui ora approfittano i nemici dell’Europa. Il nodo di un paese fondatore della Ue che spinge i ricchissimi a eludere le tasse.

Lo scandalo si apre il 5 novembre 2014. Quattro giorni dopo l’insediamento di Juncker alla guida della Commissione europea, un network giornalistico internazionale svela i segreti fiscali del Lussemburgo. A guidare la ricerca, durata sette mesi, è l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), a cui aderisce anche L’Espresso, che nel 2016 si imporrà con i Panama Papers. “LuxLeaks” è il nome in codice dell’inchiesta, dove “Lux” sta per Lussemburgo e “Leaks” per fuga di notizie. L’Espresso, insieme a quaranta media di tutto il mondo, accede a un archivio con 28 mila documenti sottratti da due impiegati, poi condannati, della sede lussemburghese di PriceWaterhouseCoopers (Pwc), un colosso della consulenza e revisione societaria. Intese riservatissime che garantiscono a 340 multinazionali, da Amazon ad Abbott, da Deutsche Bank a Pepsi Cola, di pagare meno dell’uno per cento di tasse. Un sistema sviluppato proprio in Lussemburgo. Lo scoop provoca interventi parlamentari, denunce, indagini giudiziarie. Il 20 novembre L’Espresso, in copertina, chiede le dimissioni di Juncker, «inadatto a guidare l’Europa». Juncker però è rimasto presidente. Ed è diventato il simbolo di un’Europa sempre più in crisi.

Solo dal 2002 al 2010, mentre Juncker era premier del Lussemburgo, il suo paese ha attirato 220 miliardi di dollari grazie a quegli accordi fiscali confidenziali. Il 2003 è un anno chiave. Jeff Bezos, fondatore di Amazon, decide di fissare nel Granducato il suo quartier generale europeo. Merito di un corteggiamento assiduo di Juncker, che allora se ne vantava: «Amazon è venuta in Lussemburgo non solo per motivi fiscali, ma anche per il contatto con il governo». Robert Comfort, per undici anni responsabile fiscale del colosso americano in Europa, in un’intervista è ancora più esplicito: «Il messaggio di Juncker era questo: se avete qualche problema che non riuscite a risolvere, tornate da me. Cercherò di aiutarvi». Juncker dunque ha aiutato il suo paese. Per questo, quando scoppia LuxLeaks, anche un suo avversario politico, come il premier Xavier Bettel che gli è subentrato nel 2013, si precipita a difendere il sistema, con parole volgari: «È intollerabile che si getti il Lussemburgo nella merda».

Juncker e il sistema fiscale lussemburghese sembrano vacillare quando tra i 751 parlamentari europei inizia una raccolta di firme per una mozione di censura. Nel testo, presentato dalle destre (tra cui Lega e Movimento 5 Stelle) dopo che un precedente tentativo delle sinistre era andato a vuoto, si leggeva: «Juncker è direttamente responsabile delle frodi fiscali che hanno fatto risparmiare miliardi alle multinazionali». Ma il 27 novembre 2014 la coalizione tra popolari (lo stesso gruppo di Juncker) e socialisti forma un blocco compatto, salvando Mister Euro: mozione respinta con 461 voti contrari, 101 a favore e 88 astensioni.

La guerra delle tasse però continua su un altro fronte. Da più parti s’invoca una commissione parlamentare. Ma di che tipo? Una vera commissione d’inchiesta? Oppure una semplice “commissione speciale”? La differenza non è da poco, perché solo con la prima scatta l’obbligo per gli Stati membri di presentare i documenti richiesti dai deputati. Lo scontro è frontale. A favore della commissione d’inchiesta si schierano verdi, estrema sinistra, una parte dei liberali, conservatori e cinquestelle. Il verde Philippe Lamberts è soddisfatto: «Si verserà così tanto sangue sul tappeto, che nessuno sarà in grado di pulirlo». Non sa che una sorta di golpe è dietro l’angolo. Il 12 febbraio 2015 una controffensiva di popolari e socialisti evita l’inchiesta e approva solo una commissione speciale, denominata Taxe. A presiederla sarà Alain Lamassoure, francese come il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, entrambi con un passato da ministri in patria. Durerà sei mesi e avrà 45 membri. Tra i suoi compiti, il più importante è richiedere agli Stati membri di trasmettere tutti gli accordi fiscali (tax ruling) emessi fin dal primo gennaio 1991. Evidente lo scopo: stanare i patti agevolati, capire se qualche Stato ha garantito alle multinazionali «risparmi di tasse derivanti da trasferimenti artificiali di utili».

L’attività della commissione speciale è una débâcle: nessun governo nazionale fornisce i suoi tax ruling, trincerandosi dietro impegni di confidenzialità e riservatezza. Ma c’è di peggio. Lo dimostra un carteggio, iniziato nell’aprile 2015, proprio tra Lamassoure e Moscovici. Il primo preme sul secondo perché gli Stati consegnino i verbali del cosiddetto “Gruppo codice di condotta”. Si tratta di un comitato di tecnici delle finanze, istituito nel 1998 dall’Ecofin, il consesso dei ministri dell’economia della Ue, per valutare le pratiche fiscali nocive. Quindi, in teoria, per bloccare schemi tributari che favoriscono le multinazionali. In pratica però i pareri degli esperti restano sostanzialmente ignorati. Perché in questa materia vige il criterio dell’unanimità. Quindi basta il veto di un solo Stato per fermare qualunque cambiamento. E così, dopo numerose proteste, quando le prime carte arrivano finalmente alla commissione speciale Taxe, ecco la sorpresa: molte parti degli atti risultano censurate.

Per gli europarlamentari c’è un ulteriore diktat: chi è ammesso a consultarli, deve firmare una dichiarazione impegnandosi a «non divulgarne il contenuto a terze persone». E le carte si possono leggere solo in una “reading room”, una stanza speciale a porte chiuse, tra le 9.30 e le 18.30, senza portare telefoni o computer. Ricorda Fabio De Masi, esponente della Linke tedesca: «Era vietato fare fotocopie. Vietato anche appuntare note, almeno all’inizio. Inoltre la Commissione Juncker ha precisato che una consistente fetta di documenti era andata persa durante un trasloco: nessuno li ha mai visti». Commenta Lamberts: «È indegno di una democrazia, è una gran buffonata».

La conclusione più amara viene dall’europarlamentare Sven Giegold dei Verdi tedeschi: «Sapevamo che c’era un’evasione di massa. E sapevamo che c’era una colossale elusione fiscale, con le multinazionali come protagoniste. Voi giornalisti del consorzio Icij avete pubblicato un elenco di casi estremi, però non potevate immaginare fino a che punto fosse giunto il sistema in Lussemburgo. Leggendo le carte, abbiamo scoperto che il principio dei tax ruling era conosciuto da vent’anni. Nella “reading room” abbiamo rinvenuto verbali di incontri del Consiglio europeo degli ultimi due decenni. Possiamo ricostruire che cosa è avvenuto. Sappiamo che qualcuno ha cercato di chiudere le scappatoie fiscali: senza successo, perché occorreva il consenso unanime. E sappiamo che alcuni paesi hanno fermato il cambiamento: soprattutto Lussemburgo, Belgio, Olanda, tutti difesi dal Regno Unito. Per vent’anni alcuni stati membri hanno impedito il cammino dell’Europa verso una tassazione pulita. Lo sappiamo, ma non possiamo provarlo pubblicamente: perché carte non possiamo averne».

Già dopo i primi sei mesi, sarebbe prevista la chiusura dei lavori di Taxe, che però continuano. Finalmente, il 25 novembre 2015 la commissione speciale vota una “risoluzione”. Ovvero una serie di raccomandazioni, che non hanno carattere vincolante, ma consistono in un invito rivolto alla Commissione Juncker perché formuli proposte di direttive, che per diventare leggi dovranno superare il vaglio del Consiglio europeo, formato dai capi di Stato e di governo dell’Unione. Un percorso ad ostacoli. Nel testo finale, in particolare, viene rigettato un emendamento, proposto da De Masi e altri europarlamentari, che mirava a definire il Lussemburgo «centro di operazioni fiscali aggressive, frutto di strategie globali sotto la supervisione di Juncker». L’unica censura ammessa riguarda la sparizione di una pagina da un rapporto sulle frodi fiscali nel Granducato: un dossier commissionato nel 1996 proprio dall’allora premier Juncker a un suo parlamentare, ma riemerso soltanto nel settembre 2015, poco dopo la sua audizione a Bruxelles. Un mistero mai chiarito.

La risoluzione concede un plauso all’inchiesta LuxLeaks e qualche cenno a misure concrete, come l’idea di obbligare le multinazionali a redigere un rendiconto per ogni paese dove hanno filiali, invece di un solo bilancio globale. Solo un passaggio del testo cita «pratiche fiscali discutibili promosse da società di revisione in un determinato Stato membro». Senza nemmeno nominare il Lussemburgo.

La commissione speciale viene poi autorizzata a proseguire i lavori con una seconda fase, da gennaio a luglio 2016, chiamata Taxe 2. Qui si riapre la polemica sulla documentazione del Gruppo codice di condotta, disponibile in quantità maggiore. Ma con un vincolo paralizzante: per esaminare molte nuove carte importanti, si deve attendere l’autorizzazione degli Stati interessati. Che rallenta i lavori. O non arriva mai.

Quanto a Juncker, il suo nome non viene neppure sfiorato. Nessuna accusa, nessuna responsabilità politica. Del resto, la sua linea di difesa è sempre stata una sola: tutti colpevoli, nessun colpevole. Il caso LuxLeaks? «Non riguarda il solo Lussemburgo, dovremmo parlare di EuLeaks», ha sempre risposto Juncker, evidenziando che i tax ruling «esistono anche in altri ventidue Stati europei». Autocritiche? Nessuna. Nemmeno sul suo passato da premier lussemburghese: «Oggi farei la stessa cosa: volevamo diversificare la nostra economia». Dalle banche alla finanza. Parola di Juncker. Di cui potranno rallegrarsi i 550 mila abitanti del Lussemburgo, che secondo gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale oggi sono primi al mondo per Pil pro capite: 120 mila dollari all’anno a testa. Ricchi con le tasse altrui, mentre l’Europa affonda.

13.11.18

Tim Marshall e la fenomenologia del filo spinato

Intervista. Parla il giornalista britannico autore di «I muri che dividono il mondo», pubblicato da Garzanti. «Un terzo degli stati nazionali hanno costruito recinzioni lungo i confini; metà di quelle erette a partire dalla Seconda guerra mondiale è stata creata tra il 2000 e oggi»


Guido Caldiron (il manifesto)

«Come ogni altro muro, anch’esso era ambiguo, bifronte. Quel che stava al suo interno e quel che stava al suo esterno dipendevano dal lato da cui lo si osservava». Non è forse un caso se Tim Marshall ricorre alle parole di Ursula Le Guin, la scrittrice di fantasy e fantascienza scomparsa quest’anno, creatrice di mondi immaginari che riflettono tutte le contraddizioni del reale, per definire il significato più profondo di quella che si va delineando come una sorta di «età dei muri».

Veterano del giornalismo inglese, a lungo corrispondente della Bbc dalle zone di guerra dei Balcani e del Medioriente, con I muri che dividono il mondo (Garzanti, pp. 272, euro 19), Marshall completa la sua trilogia – nel nostro paese è già stato pubblicato Le 10 mappe che spiegano il mondo) – che indaga il ruolo degli elementi naturali, dei simboli e delle identità collettive nel definire le coordinate del mondo contemporaneo, offrendo delle valide «istruzioni per l’uso» ad una realtà sempre più complessa.

Marshall, che ha presentato in questi giorni il suo libro nel nostro paese, spiega infatti come «negli ultimi vent’anni sono stati eretti in tutto il mondo muri e recinti per migliaia di chilometri. Almeno 75 paesi, più di un terzo degli stati nazionali del mondo, hanno costruito barriere lungo i propri confini; metà di quelle erette a partire dalla Seconda guerra mondiale è stata creata tra il 2000 e oggi». Dall’Europa agli Stati uniti, passando per l’Africa e il mondo arabo, ripercorrendo l’attualità del fenomeno come le tracce della sua storia pregressa, il reporter fotografa attraverso il crinale delle nuove barriere il volto sfuggente e contraddittorio del presente.

Con la caduta del muro di Berlino si è pensato si aprisse una nuova stagione della storia contrassegnata dalla libera circolazione degli individui. La globalizzazione ha fatto il resto, al punto che nel 2005 il premio Pulitzer Thomas Friedman ha scritto un celebre saggio intitolato «Il mondo è piatto». Da queste promesse di libertà ci siamo però destati con i vari Trump, Orbán e Salvini. Cosa è andato storto?
In realtà credo che quella promessa abbia sempre contenuto una certa dose di ambiguità: cercava di celare la natura binaria del mondo, il permanere di profonde divisioni all’interno di ciascuna società, quale che fosse l’estensione dei muri che stavano venendo giù o il superficiale annuncio di uguaglianza con cui si presentava la mondializzazione dei mercati. Inoltre, non si è tenuto conto fino in fondo del fatto che i muri, penso in primo luogo proprio a quello di Berlino, «congelano» le comunità che racchiudono o separano, i cui umori più profondi tenderanno poi ad emergere. Basti guardare il modo in cui il razzismo è emerso nella ex Germania Est, dove non si era neppure mai parlato di «cultura della differenza». Su tutto questo si è poi abbattuta la crisi economica e sociale più devastante dal 1929. Popolazioni impaurite e indebolite hanno cercato rifugio nella propria identità e i «venditori di muri» si sono trasformati negli uomini del momento.

Trump è forse la figura che più ha puntato sulla «politica del muro» e sul significato pervasivo di questo simbolo. Lo slogan «Rendiamo di nuovo grande l’America» si è concretizzato nella promessa di una barriera con il Messico: il suo «muro» serve a ridefinire l’identità americana?
Come spiega il geografo dell’Università delle Hawaii, Reece Jones, nel suo libro Violent Borders, «i muri non funzionano quasi mai, ma sono potenti simboli di azione contro problemi percepiti». Trump ha utilizzato il simbolo del muro per indicare a quella parte dei suoi concittadini preoccupati per la crisi economica come per la crescita del ruolo delle minoranze nella società, l’orizzonte di un nuovo nazionalismo, evocato dallo slogan «America First». Così, il muro, è proposto come un mezzo per preservare il concetto stesso di nazione, la sua «santità» così come il mito vuole sia stata tramandata dai Padri pellegrini che affidarono l’America a Dio. Così, Trump ha messo in moto una potente macchina mitologica, capace di proiettarsi ben oltre i fatti concreti.
Il giornalista britannico Tim Marshall

A proposito di un’altra delle vicende chiave di questi anni, la Brexit, lei cita il Vallo di Adriano, costruito da Cesare per separare la Britannia romana dalle bellicose tribù del Nord, come metafora di quanto è accaduto con il voto del 2016.
In effetti, la tentazione di evocare quella barriera di pietra i cui resti sono ancora oggi visibili nel Northumberland, era troppo forte. Quel «muro» contribuì a dar forma a ciò che sarebbe diventato in seguito il Regno Unito. Al di sotto del vallo l’ambiente divenne sempre più romanizzato, mentre sopra, in quelli che sono oggi il Galles e la Scozia, rimasero forti le tracce della cultura celtica. E quest’ultimo elemento indica anche un altro aspetto che accompagna spesso la costruzione di un «muro», vale a dire le divisioni che produce, o che cerca al contrario di sanare, non oltre la sua cinta, ma all’interno della comunità che lo ha edificato. Proprio il voto in favore della Brexit ha espresso tutta la complessità della situazione, facendo emergere in tanti «muri invisibili» che caratterizzano le nostre società. David Goodhart, un altro autore che cito nel libro, ha sottolineato come alla base del successo del referendum contro la Ue vi sia stata la divisione tra coloro che definisce come «anywhere» e «somewhere», vale a dire, rispettivamente, chi vede il mondo in una prospettiva globale e chi, invece, in quella locale. In qualche modo si tratta di una contrapposizione che sta emergendo in tutto l’Occidente: da un lato chi occupa una posizione sociale più agiata o si trova a vivere una dimensione cosmopolita, dall’altro chi sconta sulla propria pelle le conseguenze più negative della globalizzazione, perché ha perso il lavoro o fatica a trovare un ruolo nelle nuove professioni che richiedono maggiore formazione e cerca rifugio in ciò che conosce, o pensa di conoscere, come la propria identità, le proprie radici. Razzismo, sciovinismo e chiusura identitaria finiscono così per mescolarsi ad una domanda di maggiore tutela che ha una base concreta. Quanto al risultato, è sotto gli occhi di tutti: molti di coloro che hanno votato per la Brexit si sono già pentiti, visto che nelle loro vite non è cambiato assolutamente nulla, mentre per il paese sono iniziati nuovi problemi.

Nel libro si parla di «muri visibili e invisibili» anche a proposito del conflitto tra palestinesi e israeliani. Oltre alla «barriera» costruita da Israele, altri «muri» stanno crescendo laggiù?
All’interno della società israeliana sono emerse via via una serie di divisioni. Dal confronto tra i cittadini ebrei e quelli arabi, a quello tra gli ebrei di origine ashkenazita e sefardita che ha caratterizzato la storia del paese fin dalla sua fondazione. Però, negli ultimi anni è emerso soprattutto un vero e proprio «muro» culturale e politico tra laici e religiosi che sta scivolando verso una forma di scontro quotidiano, talvolta anche violento, che sta modificando il volto stesso di Israele. Non solo. La crescita del ruolo politico dei religiosi, e la loro crescente alleanza con i gruppi nazionalisti – non a caso gli studiosi parlano al riguardo di «destra nazional-religiosa» – peserà sempre più anche sulla già fragile ipotesi di una soluzione equa del conflitto con i palestinesi. Questo perché per coloro che considerano sacra la terra che oggi è contesa tra le due comunità, qualunque concessione o divisione del territorio è percepita come un tradimento nei confronti dei propri valori o, ancor di più, come un’autentica rinuncia alla fede. Qualcosa di inammissibile.

Buona parte dei nuovi muri sono pensati per «tenere fuori» i migranti. Ma dato che le migrazioni sono fenomeni epocali e inarrestabili, che futuro per l’umanità annunciano tutte queste barriere?
Un rischio e una possibilità. Cominciamo da quest’ultima. Nelle società industrializzate che continueranno ad avere bisogno di immigrati si dovrà aprire necessariamente un dibattito salutare su come ridefinire la propria identità collettiva a partire da questo elemento. Il rischio, al contrario, è che «la politica dei muri» sovrasti ogni confronto razionale e ci faccia precipitare in un orizzonte ancora più cupo di quello attuale: quello nel quale ogni paese si contrappone all’altro, fino alle estreme conseguenze.

27.10.18

Desirée e quel padre dalla doppia morale

 di Gabriele Romagnoli (La Stampa)

Ogni storia contiene al proprio interno un'altra storia. Perfino, ogni tragedia ne racchiude un'altra, non meno esemplare. Nel caso di Desirée, la ragazza violentata e uccisa a San Lorenzo, riaffermata in modo egualmente incondizionato la pietà per la vittima e l'esecrazione per i carnefici, avanza dallo sfondo una figura non secondaria, una drammatica maschera italiana, quella del padre.

L'uomo, che alla figlia non ha dato il nome, è, lo affermano indagini di polizia e sentenze della magistratura, un commerciante di droga, anzi un capo del traffico nella sua zona. Voleva però impedire alla figlia di fare uso delle sostanze che lui stesso smerciava e, per riuscirci, non esitava a ricorrere alle maniere forti, al punto che lei lo aveva denunciato.

Non è difficile individuare in questo comportamento una contorsione che annulla ogni buona intenzione. Il barlume di saggezza che induce a prevenire la disgrazia per la propria discendenza è spento dall'indifferenza con cui si lucra sulla stessa debolezza quando affligge quella altrui. Non c'è morale, neppure un principio, ma soltanto ipocrisia.

Proprio per questo il padre di Desirée (a cui non si dà qui volutamente il nome) diviene una maschera italiana, una delle peggiori, eppur diffuse. "Non vogliamo stranieri a casa nostra", però li ingaggiano per lavori poco pagati e per nulla registrati o si accompagnano furtivamente a femmine esotiche raccattate sulle provinciali.

"Più chiese e meno moschee", ma per qualche euro (lira, direbbero) in più vendono l'edificio al temibile islamico e che sostituisca pure il campanile con il minareto (salvo indignarsi quando accadrà). Sia chiaro che questa dissonanza è bipartisan, anzi universale, e quindi, a scanso di equivoci, mettiamoci pure: "Bisogna essere solidali e accoglienti", ma per favore tenete lontani i profughi da Capalbio che abbiamo appena ritinteggiato.

È sempre a casa di qualcun altro che tutto è permesso o, addirittura, doveroso. È il comportamento degli altri a essere inaccettabile. Per se stessi si trova una motivazione, un alibi o addirittura una necessità. La doppia morale è come la doppia negazione: annulla tutto. Resta solo il dispiegarsi inesorabile della storia, anche di quella piccola e infame.

Gli autori delle tragedie greche e quelli del più tragico dei testi, la Bibbia, hanno cercato di incutere agli uomini il più grande e fondato dei timori. Esiste un dio, laicamente chiamato destino, in osservazione e in ascolto.

Qualche volta è distratto, qualche altra è mite, ma sono eccezioni. E così il padre agli arresti domiciliari, impossibilitato a inseguire la figlia ribelle, ha ordinato di farle terra bruciata intorno, di non venderle la droga nella sua zona e l'ha sospinta verso la capitale, i suoi antri oscuri, i suoi buchi di legalità, quei mostri al servizio di altri capi del traffico in altre zone. La regola è l'avverarsi di spietate conseguenze, non sempre evidenti, avvolte come una storia nella storia.

Il nemico sbagliato

di Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano)

Draghi avvelena il clima invece di tifare per l’Italia”. Questa replica di Luigi Di Maio alle dichiarazioni del presidente della Bce denota una buona dose di infantilismo e di inadeguatezza. E non è degna di un vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo. Ma neppure di un leader politico che dovrebbe essere sintonizzato con i cittadini o, quantomeno, con i suoi elettori. Chiunque abbia qualche euro da parte, incluso chi vota 5Stelle e Lega, è allarmato dallo spread che non accenna a calare e per le turbolenze e le speculazioni sui mercati che portano con sé i guai delle banche imbottite di titoli di Stato e i declassamenti del nostro mostruoso debito pubblico. Cioè danneggiano le tasche non degli speculatori, che anzi ci campano, ma dei risparmiatori, che ci rimettono. E anche il più gialloverde dei risparmiatori sa benissimo che cosa merita di essere ascoltato fra le analisi argomentate di Draghi e le repliche sgangherate dei ministri italiani. Draghi, oltre a essere uno dei più autorevoli e stimati personaggi che vanti oggi l’Italia, non è un euroburocrate in campagna elettorale, diversamente dai vari Oettinger, Moscovici e Juncker. E non è neppure un nemico dell’Italia, visto che si è scontrato duramente con gli ultrà tedeschi, filo-tedeschi e anti-italiani allergici alle cannonate del Quantitative easing che con l’acquisto massiccio di titoli di Stato ha aiutato per cinque anni i Paesi europei più indebitati, Italia in primis.
Se Draghi avesse voluto associarsi ai giochini ributtanti della Commissione europea per rovesciare o commissariare il governo gialloverde, non gliene sarebbero mancate le occasioni. Invece ha fatto esattamente l’opposto: ha spiegato più volte che le parole, con mercati così sensibili e volubili, pesano come pietre, e che chi dall’opposizione sale nelle istituzioni dovrebbe cambiare linguaggio, perché anche le sparate degli urlatori grillo-leghisti fanno danni incalcolabili. Quanto alla manovra, non l’ha mai presa di petto, anzi ha ricordato che non è la prima volta che l’Italia o un altro governo europeo sfora i limiti fissati e si è detto favorevole a un compromesso fra Ue e Italia e persino ottimista sulla possibilità di ottenerlo. L’ha ripetuto l’altroieri (“Sono fiducioso che un accordo sarà trovato”), anche se Di Maio&C. non se ne sono accorti. Ed è arrivato a dire che allo spread contribuiscono più le uscite degli urlatori anti-euro (ormai esclusivamente leghisti, specie dopo le rassicurazioni di Conte, Tria, Di Maio e perfino Salvini sulla permanenza dell’Italia nell’eurozona) che non una manovra sul 2,4% deficit-Pil.
Tutto questo, per chi sa leggere anche quello che, per il suo ruolo, il presidente della Bce non può dire, è un assist importante al governo soprattutto ai 5Stelle. Molto diverso dalle minacce e degli ultimatum degli agonizzanti sparafucile di Bruxelles. Tradotto in soldoni: nessuno vi chiede di ritirare la manovra; potreste persino lasciarla così com’è, o quasi; purché mettiate la museruola ai vostri urlatori che regalano appigli agli speculatori, salvo poi dire che parlavano a titolo personale quando ormai il danno è fatto; perché le commissioni Ue passano, ma gli speculatori restano, ed è meglio tenerli lontani dal nostro culo. Se così stanno le cose – e abbiamo ottimi motivi per ritenere che stiano così (leggete Stefano Feltri a pag. 3), e la parte più responsabile del governo (Conte, Tria, Giorgetti, persino il vituperato Savona) l’ha capito da un pezzo – è stupefacente che Di Maio non se ne renda conto e continui a respingere la mano tesa di Draghi, accomunandolo ai rottweiler di Bruxelles e rinunciando a incunearsi fra le divisioni di chi cerca il dialogo con l’Italia e chi vuole la guerra con un occhio alle elezioni. Che Salvini giochi al “tanto peggio tanto meglio”, si è capito: il Cazzaro Verde pensa (o si illude: lo spread preoccupa anche la parte più avveduta dei suoi elettori) di lucrare più voti strillando fino a primavera che ce l’han tutti con noi.
Ma, se abbiamo capito bene, non è questa la strategia dei 5Stelle: al Circo Massimo, Di Maio e Fico hanno annunciato alleanze nel prossimo Europarlamento con tutte le forze che non si riconoscono nel decrepito fronte Ppe-Pse (attualmente al governo), né nella destra salvinian-lepeniana, né nei liberalconservatori dell’Alde (nel cui gruppo peraltro il M5S aveva provato a entrare, invano). Cosa resta? La sinistra-sinistra (che l’altroieri, con Mélenchon e altri, ha difeso la manovra italiana nell’indifferenza dei 5Stelle) e i Verdi (i più simili ai pentastellati, malgrado le diffidenze reciproche). Se non vogliono stare né con chi ha rovinato l’Europa né con chi vorrebbe distruggerla definitivamente, ma con chi vuole cambiarla seriamente, i 5Stelle dovrebbero cambiare linguaggio e uscire dall’infantilismo che ieri ha portato Di Maio a mandare a quel paese Draghi, cioè l’unica autorità europea che non fa campagna elettorale contro l’Italia e tenta, per quel che può, di aiutarla. Dargliene atto e comportarsi di conseguenza, magari iniziando a pensare a una patrimoniale, non significa ritirare o stravolgere la manovra, cedere ai diktat dell’Ue, dei mercati e dello spread, rinunciare a dialogare con la Russia (lo chiede anche Prodi, molto più “amico di Putin” di Salvini, che manco lo conosce) o con Trump (chi si scandalizza per la sua telefonata a Conte dimentica 70 anni di alleanza con gli Usa e i salamelecchi di Gentiloni a The Donald) o con la Cina. Significa guardarsi dai veri nemici, distinguerli dagli amici insospettabili, parlare un linguaggio da statisti e non da asilo Mariuccia o da osteria, smetterla di fare gli struzzi per esorcizzare la dura realtà dei numeri. Cioè fare gli interessi del tanto strombazzato “popolo”.

6.10.18

Reddito di cittadinanza. Una certa idea di povertà

Dietro il veto sulle spese "immorali" c'è il pensiero che i più bisognosi siano inaffidabili 

Chiara Saraceno (La Repubblica)

Che siano 8 o 10 i miliardi che alla fine saranno destinati al reddito di cittadinanza, si tratta sempre di una cifra di gran lunga superiore a quanto nessun governo italiano abbia mai impegnato per il contrasto alla povertà. Si avvicina molto a quanto è stato stimato necessario per portare tutti coloro che si trovano in povertà assoluta (i cinque milioni di persone di cui si parla, che includono anche oltre un milione di stranieri regolari) al livello della soglia che la identifica. Anche se è molto meno di quanto sarebbe necessario per coprire tutti coloro che si trovano in povertà relativa, sarebbe una buona notizia. Chi si scandalizza per l'entità dell'impegno di spesa dovrebbe piuttosto farlo per quella, quasi analoga, impegnata per garantire l'abbassamento dell'età della pensione ad un numero molto più ridotto di persone — 400 mila si stima — che non solo non si trovano in stato di bisogno, ma rappresentano un gruppo relativamente privilegiato, spesso con speranze di vita più lunghe sia di chi è povero, sia di chi, lavoratore o lavoratrice, non potendosi permettere di prendere una pensione esigua o non avendo ancora maturato l'anzianità contributiva richiesta, dovrà invece continuare a lavorare anche in condizioni pesanti. O per il condono fiscale, contrabbandato per pace fiscale a spese dei contribuenti onesti. Lo scandalo, a mio, parere, sta nel modo in cui Di Maio, Castelli e compagni stanno ridefinendo il cosiddetto reddito di cittadinanza. Dopo avergli dato un nome che, intenzionalmente o meno, consentiva fraintendimenti — un reddito dato a tutti, in modo incondizionato — ora si ripromettono di trasformarlo in uno strumento non solo, come era già dall'inizio, selettivo, cioè destinato ai poveri, anche se con qualche confusione e incertezza su come identificarli, ma fortemente paternalistico.

Non verrà concesso in moneta liquida, ma su una carta di debito. Potrà essere speso solo su suolo italiano (non sia mai che un povero comasco attraversi la frontiera svizzera per comprarsi del caffè), in esercizi italiani (verranno esclusi Carrefour, , Auchan e simili?) e possibilmente per prodotti italiani. Non potrà assolutamente essere speso per consumi voluttuari, immagino definiti da apposita commissione etica, e nemmeno risparmiato. Ciò che non si spende della somma mensile assegnata verrà perso, come i minuti e i giga dei contratti dei cellulari. Dietro questo approccio c'è l'antica idea che i poveri siano inaffidabili, moralmente deboli. Lasciati a se stessi, invece di comprare latte e scarpe per i bambini e pagare l'affitto, si darebbero al bere e al gioco d'azzardo o alle spese pazze. Vanno messi sotto tutela. Riceveranno reddito in cambio di cessione di cittadinanza. Aggiungo che la scelta della carta invece del denaro liquido, già sperimentata con il Sia (Sostegno per l'inclusione attiva) e non del tutto superata neppure con il Rei (Reddito di inclusione), pone anche altri problemi. Lascia tutto il potere di spesa al titolare della carta, a detrimento degli altri componenti adulti della famiglia. Espone all'umiliazione di vedersi rifiutati alcuni prodotti alla cassa del supermercato. Molti piccoli negozi, specie nei paesi, non hanno il bancomat. Lo stesso vale per molte persone, specie tra i più poveri. Anche impedire di risparmiare in vista di spese future — ad esempio scarpe per i figli, una nuova cucina a gas, la riparazione del motorino con cui si va a lavorare, un regalo — contrasta con l'obiettivo di aiutare le persone e le famiglie a gestire il proprio bilancio, a programmare, quindi anche a risparmiare. Così si trasformano i poveri non in cittadini, ma in consumatori forzati sotto tutela.

15.9.18

Quando la vita imita la letteratura

Guido Vitiello, insegnante e saggista

14 settembre 2018 

Gentile bibliopatologo,

temo di aver instaurato con un autore e una sua opera, in particolare, un rapporto a tal punto viscerale da travalicare il mero e sano apprezzamento, sconfinando in quel processo mentale che la psicoanalisi definisce “traslazione”. L’autore è Philip Roth, il libro L’animale morente. L’ho letto una decina di volte, introiettando ossessioni e fragilità della protagonista e trasponendo, più o meno consciamente, un’esperienza parallela alla sua nel mio vissuto. Disfarsi del libro basterà a liberarsi di questa struggente parabola che pare ormai destinata a perpetuarsi all’infinito?

-Wanda O.

Cara Wanda,
scrisse una volta Umberto Saba che “niente consola più di un bel verso pessimista”. Per esempio, diceva, versi come questi di Goethe, dal secondo Canto notturno del viandante (“Abbi pazienza. In breve / riposerai anche tu”), possono salvare un giovane dalla disperazione: “Sono versi eminentemente sociali”. Volendo, puoi considerarli i precursori letterari del Telefono amico.

Purtroppo Goethe li scrisse solo nel 1780: troppo tardi per farli leggere al giovane Werther e ai tanti disperati per amore che, imitando pedissequamente il protagonista del suo romanzo di sei anni prima, avevano preso il brutto vizio di spararsi un colpo alla tempia. Chissà, magari tutta la storia avrebbe preso un’altra piega. Allo stesso modo, supponeva Ennio Flaiano, se Madame Bovary avesse letto Madame Bovary forse non si sarebbe avvelenata.

Tu parli di traslazione, ma la parola più adatta credo sia un’altra: emulazione. Faccenda antica quanto la letteratura – Paolo e Francesca non imitavano forse Lancillotto e Ginevra? E Don Chisciotte non era un plagio ambulante dei romanzi cavallereschi? – che tuttavia, nella nostra epoca intossicata dalla fiction, ci è un po’ scappata di mano.

Ne ha scritto di recente Luca Mastrantonio in Emulazioni pericolose, un saggio che si apre con “l’effetto Werther” e procede con un lussureggiante inventario di casi noti e meno noti: la moda della roulette russa dopo il Cacciatore di Michael Cimino, Mark Chapman che spara a John Lennon dichiarando di essersi rifatto al Giovane Holden, le stragi scolastiche ispirate a Ossessione di Stephen King, i lenti avvelenamenti da tallio – facile da somministrare attraverso cibi e bevande – compiuti usando come manuale un romanzo di Agatha Christie, Un cavallo per la strega (propongo un’integrazione all’ipotesi di Flaiano: se Madame Bovary avesse letto anche la Christie, non solo non si sarebbe uccisa, ma avrebbe condito ogni giorno con il tallio la zuppa di cipolle del marito).

Il tuo sembrerebbe un caso di emulazione erotica, e nel libro di Mastrantonio ce n’è un buon esempio, anche se su un modello meno raffinato di Roth. Dalla febbre imitativa scatenata da Cinquanta sfumature di grigio di E.L. James si avvantaggiarono in molti. I sex shop moltiplicarono le vendite degli accessori che Christian Grey fa provare ad Anastasia, specie le “palline della geisha”; una grande catena di ferramenta inglese dovette approntare un vademecum per i dipendenti, un po’ sconcertati da tutte quelle richieste di corde, cavi e scotch da elettricisti; alcuni alberghi si attrezzarono per ospitare stanze a tema. Tutti soddisfatti, con un’eccezione:

Gli unici che si sono lamentati del boom delle Sfumature sono stati i vigili del fuoco di Londra, che nei tre anni successivi all’uscita del romanzo hanno visto aumentare considerevolmente le chiamate per “rimozione oggetti dalle persone” e “rimozione persone dagli oggetti”: espressioni asettiche che raggruppano casi di uomini con il pene incastrato nell’aspirapolvere o donne legate al letto con manette che non si aprono più.

Grazie alle peripezie di lettrici e lettori di adorabile goffaggine, un romanzo sadomasochistico un po’ incolore – ben più innocuo e blando della Venere in pelliccia a cui il tuo pseudonimo ammicca – ha offerto lo spunto per chissà quante gag comiche, con pompieri e fabbri impegnati a districare combinazioni anatomicamente spericolate. Capisci dove voglio arrivare? Il tuo registro fatalistico e melodrammatico – “struggente parabola che pare ormai destinata a perpetuarsi all’infinito” – non tiene conto di una cosa: ogni emulazione è una riscrittura, o se vogliamo un esperimento di fan fiction. Non potresti riprodurre la stessa storia neppure con tutto l’impegno del mondo. Magari la tua versione dell’Animale morente è destinata a un finale epico, con gli elicotteri dei pompieri che accorrono la notte di Capodanno sulle note della Cavalcata delle Valchirie.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

Dal 5 al 7 ottobre Guido Vitiello terrà un workshop sull’arte della recensioneal festival di Internazionale a Ferrara.

IL BIBLIOPATOLOGO RISPONDE


18.8.18

The Italian government’s foolish reaction to the Genoa bridge collapse only compounds a nation’s tragedy

Blaming EU budget constraints is plainly wrong: planned improvement works that could have averted the collapse were bitterly opposed by one of the government coalition parties

Editorial (Indipendent)

Shameless even by their own low standards, the gang of populists currently trying to govern Italy have attempted to exploit the tragic collapse of the bridge at Genoa for political purposes. Matteo Salvini, deputy prime minister, minister of the interior and leader of the Northern League party, wasted to no time in blaming the detested European Union for the loss of life. His argument was that the EU’s budgetary restraints on member states prevents them from carrying out expensive infrastructure projects.

It is, of course, wrong. All that the fiscal rules require is for member states of the single European currency to safeguard the euro’s integrity to sticking to broad limits on budget deficits and the overall level of national debt. No one in Europe has ever vetoed any scheme to make a bridge safe.

What in fact went wrong, among other factors, was that the planned improvement works to the bridge were bitterly opposed by Mr Salvini’s coalition partners, the Five Star Movement – it said warnings of the Morandi Bridge’s risk of collapse were a “favoletta” – a fairy tale of children’s fantasy. Five Star, true to its crude populist instincts, wanted to win political support from local residents who resented the disruption and change the works would create. It is what the British call “nimbyism”, but elevated into a political philosophy. Had the works gone ahead, there is at least the possibility that the tragedy would have been averted.

To blame the European Union for the bridge’s collapse while your populist allies tried to wreck the scheme takes special quality of chutzpah, or faccia tosta in Italian. Then again, it is a feature of the successful politician that they can distort the truth as they wish, while indignantly attacking those who seek to report real news – Donald Trump being the globally pre-eminent exponent of the art.
Italian bridge collapses: part of highway gives way in Genoa

Mr Salvini seems to be emerging as the de facto leader of Italy – he is after all nicknamed Il Capitano – shading the actual prime minister, Giuseppe Conte, a hardline anti-immigrant Europhobe who lacks Mr Salvini's talent for publicity.

These ugly arguments in Italy remind the Italian people and the wider European community that the country is embarked upon a uniquely dangerous exercise. There are hard-rightists in government or coalitions elsewhere in the EU, and in most states far-right or populist movements command strong support by historical standards. The Swedish Democrats, for example, are heading for elections on 9 September and is running second in the opinion polls – proof, as with trends in Austria, Germany and Switzerland, that the swing to the hard right is not confined to the poor reaches of the European continent. We have become inured to this since the start of the century, but by any benchmarks it is a disturbing and indeed frightening development.

Yet it is in Italy that the clownishness and denigration of normal political debate is being played out with the most risk and danger. The Italian government is openly discussing printing its own money – denominated in euros – as a way for evading its responsibilities under the rules of the European Central Bank, which has the sole right to run the euro.

The Italian government is also conducting the most heartless measures against refugees arriving from Africa. Mr Salvini made a great show of “closing the ports”, for example. His frustration, though, like that of many Italians, was understandable, or least comprehensible. Italy’s European Union partners have simply not done enough – with the honourable exceptions of Sweden and Germany – to share the cost and settlement of the refugees and economic migrants. The EU has failed to help Greece, Malta and Italy, who just happen to have coastlines nearest to the migrants’ jumping-off points for the hazardous journeys to Europe. None of this excuses or justifies the extreme reaction of the Italian state, however. Sooner or later, agents of that state will be responsible for the deaths of innocent people. It is unlikely that Mr Salvini and his colleagues will feel much remorse.

Italy has huge economic challenges, none of them the product of the refugee crisis. For years – long before the boats from Libya started arriving – the economy has stagnated, the public finances have been mismanaged, and the banking system increasingly used as a sort of piggy bank for hard-up Italian ministries. As in Greece, the strictures of the euro have made matters worse – but that is the nature of a single currency system that lacks any mechanism for “fiscal transfers” from richer to poorer regions, as in most unitary states.

Behind much of that lies Italy’s disastrous demographics. The ageing population means the outlook for public services remains bleak and a rise in living standards for all unlikely. The great irony is that migration – which overwhelmingly consists of younger workers – could start to fix the demographic imbalances and the consequent economic strain. Instead, Italy’s government blames and victimises the very people who could help the country to rebuild shoddy infrastructure and create jobs. That is a further national tragedy.

19.7.18

Salvini andrebbe fermato. Anche con modi bruschi

ilfattoquotidiano.it
Salvini andrebbe fermato. Anche con modi bruschi

C’è qualcosa di insopportabilmente osceno nell’uso che viene fatto delle immagini della madre e del suo bimbo morti in mezzo al mare. Non ci riferiamo ovviamente allo strazio che suscitano e neppure alla cronaca che ce le ha mostrate. Ma al “dibattito” che subito si è acceso intorno a quei cadaveri, nel tentativo di tirarli da questa o da quella parte. O di tirarseli addosso. Il fatto è che quei poveri corpi – come tutti i corpi sepolti nel grande cimitero chiamato Mediterraneo – ci appartengono. In quanto partecipi della nostra natura umana. In quanto vittime dell’olocausto permanente che si svolge sotto i nostri occhi.
No, per carità, qui non c’entra la suprema idiozia del siamo tutti responsabili (affinché nessuno possa essere dichiarato tale). Chi è credente potrà recitare l’atto di dolore chiedendo misericordia per tutta quella sofferenza. Pregando che un giorno non ci ritorni addosso. Chi vive nella realtà di questo mondo potrà, dovrà, molto laicamente interrogarsi. Su ciò che è stato e che non è stato fatto. Su ciò che “noi” potevamo fare. Se dunque, oggi, al centro di questo rancoroso campo di Agramante ci sono Matteo Salvini e le sue politiche sull’immigrazione, cominciamo dalla parte più difficile. Da questa, a cui sento di appartenere. La parte del “bene”. Per non fare torto a nessuno rivolgerò anche a me stesso le domande (e i rimproveri) che non è possibile eludere con un taglio netto, dicendo semplicemente che tutto il “male” alligna nel campo opposto.
A pensarci bene, la domanda resta una soltanto. L’ho scritto e lo ripeto: dov’ero io, dov’era la nostra sacrosanta indignazione, dov’erano le nostre magliette rosse negli ultimi quindici anni quando – sicuramente prima dell’avvento di Salvini al Viminale – nel mare nostrum sono annegati 34.361 (trentaquattromilatrecentosessantuno) esseri umani. Come minuziosamente documentato (data e causa del decesso, genere, età, luogo di origine, quasi tutti N.N.) nel rapporto ufficiale (datato 5 maggio 2018) meritoriamente pubblicato dal manifesto, insieme ad altre testate europee, lo scorso 22 giugno. Cinquantasei pagine nere che noi “buoni” dovremmo tenere sul comodino in memoria della nostra (mia) ignavia. Con questo non mi permetterei mai di accomunare nel giudizio quel mondo silenzioso che malgrado tutto ha salvato, ha curato, ha ospitato. E che ha avuto la forza di raccontare. Due nomi per tutti: Giovanni Maria Bellu, che svelò la tragedia di Portopalo; le pagine su Lampedusa, frontiera dell’inferno, scritte da Fabrizio Gatti. Non sorprende che nello strepitio di questi giorni le loro voci non si siano udite.
Matteo Salvini non è un fascista. E neppure un assassino. Per quelle cose ci vuole talento. Salvini è l’uomo dalla biografia senza qualità che dopo lunghi anni di attesa nelle retrovie della politica, mentre cominciava a perdere i capelli si è chiesto ‘cosa farò da grande’. Così si è accorto che, grazie soprattutto a quelli che c’erano stati prima, si era formato nel Paese un lago sotterraneo che ribolliva di rabbia e di paura inespressa. Ha pensato che poteva essere uno straordinario business elettorale e ha cominciato a pompare in superficie grandi quantità di quella rabbia e di quella paura dicendo: ora che ci sono io, per gli untori che causano questa peste la pacchia è finita.
Il fatto è che nel mentre veniva nominato ministro degli Interni, una delle cause che maggiormente avevano suscitato paura (e rabbia) – l’immigrazione clandestina – era in via d’esaurimento. E anche la “pacchia” non era poi così evidente. Poteva il nuovo profeta dell’ordine (e di una carabina per tutti) rassegnarsi a gestire scartoffie o ad avvicendare qualche prefetto? Infatti, in men che non si dica ha chiuso i porti alle Ong. Ha dato mano libera, e fornito navi militari, ai poco affidabili libici. Ha stretto accordi con il gruppo di Visegrad, che vogliono rispedirci indietro migranti a volontà. Cosicché sulle coste italiane gli approdi continuano a diminuire. Perché aumentano i morti. Sì, la pacchia è davvero finita.
Adesso Salvini andrebbe seriamente fermato. Anche con modi bruschi. Ma dubitiamo che Conte, Di Maio e i Cinque Stelle ne abbiano davvero voglia. Certo è che continuare a gridargli assassino di bambini fa solo il suo gioco. La guerra tra ipocrisia e cinismo sulla pelle (nera) della disperazione non si sopporta più.

16.7.18

Elogio del libro contro tutti i muri

 di Massimo Recalcati (La Repubblica)

La civiltà dell’immagine e della digitalizzazione sospinta ha messo all’angolo il libro e con esso l’esperienza stessa della lettura. Lo si constata in ogni luogo: nelle sale d’attesa di ogni genere, nei vagoni della metropolitana o del treno, nei parchi o nelle spiagge, dentro le nostre case. La testa china del lettore sulle pagine del libro sembra aver lasciato il posto al movimento veloce della mano che scorre sugli smartphone e che consente il passaggio rapido da una informazione all’altra, da un’immagine all’altra.
L’iperattivismo della nuova tecnologia touch sembra aver stracciato l’amuleto del libro e il suo fascino segreto. La lenta pratica della lettura ha lasciato irreversibilmente il posto al consumo compulsivo delle immagini che come un’aspirapolvere perennemente in moto risucchia ogni genere di contenuto sparso nell’orizzonte caotico del Web.
In un convegno di qualche anno fa assistevo strabiliato all’orazione appassionata di uno psicologo nordamericano che sentenziava che in un futuro recente i libri sarebbero stati, rispetto alla digitalizzazione tecnologica della comunicazione, come i velieri per la nautica contemporanea: antichi relitti di una storia gloriosa ma definitivamente alla nostra spalle.
In una straordinaria installazione dell’artista messicano Jorge Mendez Blake titolata L’impatto del libro (2003) viene messa in scena con grande incisività la forza del libro. Alla base di un lungo muro fatto di mattoni rossi è stato inserito un libro. La sua presenza introduce un dislivello che, seppur minimo, si ripercuote sulla presenza immobile del muro. Non è questa la forza che abita il libro?
Generare una incrinatura nel muro, minare la sua apparente solidità, introdurre nella sua compattezza una discrepanza, una fessura. Mentre, infatti, il muro chiude, definisce confini e identità rigide, il libro apre, spalanca mondi nuovi, contamina la nostra vita con quella di infiniti altri libri. Mentre il muro vorrebbe riparare la vita dalla sua esposizione all’alterità, il libro impone al lettore l’incontro rinnovato con una alterità sempre nuova e sempre in movimento. La lezione del libro è la lezione dell’aperto contro il chiuso. Se il muro si impegna a difendere la vita dallo straniero, il libro ci invita invece a fare amicizia. Se il muro innalza il confine, il libro lo dilata. La lezione del libro consiste, infatti, nello scompaginare ogni muro, nel rompere l’illusione tetra del muro perché nella lettura del libro l’identità deve perdersi in un nuovo mondo prima di ricostituirsi. In ogni libro impariamo l’esistenza di mondi e di lingue differenti. Se il muro vive nella nostalgia dello Stesso (incarna il bastione, la difesa, la fortezza, la cortina), il libro si offre sempre come nudo, fragile, aperto. La sua esistenza cartacea non lo può riparare dal fuoco e dall’offesa. I fascisti di ogni tempo hanno sempre bruciato i libri. Hanno innalzato muri e bruciato libri. La mano di Goebbels di fronte all’evocazione del libro non poteva non impugnare la pistola. Ma il libro è nemico dell’odio salvo quando non diventa esso stesso muro. Allora una metamorfosi orrenda lo investe.
Ogni libro che diviene “sacro” rischia di trasformarsi in un muro. La sua sacralizzazione impone la sua solidificazione. Il Corano o il Libro rosso di Mao Tze Tung, la Bibbia o gli Scritti di Lacan, allo stesso modo, se diventano Il Libro – se cioè escludono altri libri possibili, tutti i libri che oltrepassano necessariamente Il Libro trasfigurano fatalmente il libro in muro. È il destino cupo di ogni dogmatismo. Quando un libro diventa un oggetto di culto perde il respiro del libro per solidificarsi in muro. Noi abbiamo invece bisogno di libri come dell’aria che respiriamo.
Abbiamo bisogno di libri capaci di incrinare i muri. Mentre il Libro che diventa muro grazie al potere ipnotico del dogma è un libro che esclude con arroganza tutti gli altri libri, dovremmo sempre ricordare che ogni libro può contenere una infinità di libri. La lezione del libro è che esistono sempre altri libri al di là di ogni libro. Sicché nessun libro può mai essere la fine del Libro.
Ogni libro sopravvive alla sua fine attraverso l’esistenza di altri libri. Per questa ragione i sogni di biblioteche straordinarie in grado di raccogliere tutti i libri del mondo si svelano sempre come deliranti. Non esiste possibilità di una simile biblioteca perché anche se essa esistesse non potrebbe mai raccogliere tutto il sapere; in nessun libro, può, infatti, essere scritto esaustivamente il libro del mondo. Il libro non si lascia mai ridurre alla semplice presenza della cosa. Ogni vero libro è un libro vivo. Per questo tutte le dittature devono riscrivere i libri, devono cioè rendere il libro morto, privo di vita. Devono cancellare i libri con altri libri nell’illusione di fare del libro un muro. Ma la grande lezione del libro è la lezione della bellezza dell’apertura. Ogni libro non è un muro ma un mare e come il mare ogni libro è sempre aperto.
Mentre apre a mondi impensati, inauditi, non ancora visti, non ancora conosciuti, apre anche la testa del lettore, ovvero lo aiuta a rinunciare alla tentazione folle del muro.
I fascisti di ogni tempo hanno sempre innalzato barriere e bruciato volumi ma la lettura è nemica dell’odio
Però ogni testo che diviene “sacro” e cioè esclude altri testi va incontro al destino cupo del dogmatismo

12.7.18

I ministri Salvini

di Marco Travaglio (ilfattoquotidiano)

La notizia che Matteo Salvini ha spiccato un mandato di cattura, a carico dei migranti ammutinati sul rimorchiatore Vos Thalassa prima di essere trasbordati su una nave della Guardia costiera italiana non può che riempire di entusiasmo chi riteneva sprecato il Cazzaro Verde negli angusti panni di segretario della Lega, vicepresidente del Consiglio, ministro degli Interni, nonché aspirante ministro delle Infrastrutture e Trasporti ma soprattutto Porti, degli Esteri, della Difesa, della Giustizia, dell’Economia, del Lavoro, ma anche twittatore folle, protagonista compulsivo di dirette Facebook e storie Instagram. Ieri, mentre la nave Diciotti della nostra Marina si avvicinava al porto di Trapani, come disposto dal ministro competente Danilo Toninelli, per la semplice ragione che trattasi d’imbarcazione italiana, il ministro incompetente ha dichiarato, con la consueta sobrietà e prudenza: “Prima di concedere qualsiasi autorizzazione attendo di sapere nomi, cognomi e nazionalità dei violenti dirottatori che dovranno scendere dalla Diciotti in manette. Non autorizzerò lo sbarco finché non avrò garanzia che delinquenti finiscano in galera”. Ce l’aveva con due dei 67 migranti che avrebbero dato in escandescenze sulla Vos Thalassa per non essere passati alla Guardia costiera libica che li avrebbe riportati a Tripoli.

Ora, è vero che a norma del vecchio e polveroso Codice penale, scritto nel 1930 dal noto radical chic Alfredo Rocco, Guardasigilli del governo buonista Mussolini, a decidere l’eventuale cattura dei due reprobi dovrebbe essere la magistratura. Nella fattispecie, la Procura e il Gip di Trapani. Ma lo statista padano non bada a queste sottigliezze e lo stesso procuratore trapanese, Alfredo Morvillo, cognato di Giovanni Falcone, si sentirà senz’altro sollevato dall’ennesimo carico di lavoro che stava per aggiungersi agli altri. D’ora in poi, a norma del Codice Salvini, le Procure saranno sgravate dal compito di esaminare le notizie di reato a carico di migranti e di disporre i provvedimenti cautelari del caso: penserà a tutto il ministro di Tutto. Nei ritagli di tempo fra una diretta Facebook, un tweet e una storia Instagram, vergherà le richieste di custodia, poi cambierà tavolo e le esaminerà, poi – dopo lunga riflessione – le accoglierà e le diramerà alle forze dell’ordine. A quel punto gli arrestati ricorreranno al Tribunale del Riesame, oggi formato da tre giudici ma in futuro da uno solo, Salvini, che nelle vesti di Tribunale del Cazzaro rigetterà tutti i ricorsi.

Ai detenuti non resterà che appellarsi alla Cassazione, ma anche lì, con loro grande sorpresa, s’imbatteranno nel giudice Matteo che in qualità di Ermellino Monocratico si riunirà in camera di consiglio con se stesso, allo specchio, e confermerà le decisioni precedentemente assunte da sé medesimo. Lo stesso accadrà al processo, che lo vedrà saltellare come Arturo Brachetti dal banco dell’accusa al seggio del Tribunale, e poi in appello e in Cassazione sugli scranni dei rispettivi procuratori generali e collegi giudicanti. Con notevole risparmio di tempo e denaro per la giustizia italiana, notoriamente lenta e costosa. È un vero peccato che questa riforma della Giustizia non fosse ancora in vigore quando partì il processo sui fondi pubblici rubati dalla Lega, che ha portato al recente ordine della Cassazione di confiscare 49 milioni di refurtiva in tutti i conti presenti e futuri del (o riferibili al) partito. Anzi, all’epoca, Salvini pareva piuttosto felice per le condanne di Bossi e Belsito, anche perché senza quei processi il segretario della Lega sarebbe ancora il Senatur e il povero Matteo un oscuro parlamentare europeo (oscuro soprattutto per gli altri parlamentari europei, che lo vedevano di rado), costretto a strillare ogni giorno contro l’Europa ladrona che gli pagava un lauto quanto immotivato stipendio. Non aveva calcolato che il figlio unico eredita tutto, il bello e il brutto. Anche i debiti. E così aveva ritirato la costituzione di parte civile contro Bossi e Belsito, confermando – ove mai ve ne fosse bisogno – che la “nuova” Lega non si sente affatto vittima dei reati commessi dalla vecchia. Quindi non dev’essere risarcita, ma deve risarcire. L’altro giorno il giureconsulto padano ha chiesto udienza al presidente Sergio Mattarella per parlare della sentenza della Cassazione, come se il presidente della Repubblica e del Csm fosse il quarto grado di giudizio. Mattarella ovviamente l’ha fatto parlare di tutto fuorché di quello. Lui però è uscito molto soddisfatto.

Ora che si elegge il nuovo Csm, c’è pure l’eventualità che tenti di diventarne membro laico, o magari togato. Il suo caso ricorda quello dell’avvocato Carlo Taormina che, sul delitto di Cogne, riuscì a incarnare tutte le parti processuali: prima accusatore televisivo di Annamaria Franzoni, poi avvocato difensore, poi per un certo periodo indagato per certi depistaggi del suo detective a base di sangue di gatto (scoperti perché realizzati ex post sopra il Luminol anziché sotto). E poi concesse il bis quando divenne sottosegretario all’Interno del secondo governo B., mentre difendeva un boss contro cui il suo governo era parte civile. Fu allora che Michele Serra lo ribattezzò “gli avvocati Taormina”. Ora abbiamo “i ministri Salvini” (cognome non a caso plurale), che pretendono pure di fare i pm e i gip. Qualcuno potrebbe spiegargli, se non la separazione dei poteri (concetto troppo complesso per la sua fragile cultura), almeno la separazione delle funzioni. Se fai il pm, non puoi essere gip, e viceversa. Ma il rischio è che risponda: “Per la jeep è finita la pacchia, ora comanda la ruspa”.

13.6.18

Virzì: “Amici di sinistra che avete votato M5s, prendetevi le vostre responsabilità”

Il regista: “Mi davano della Cassandra quando io dicevo ‘guardate che questi sono fascisti’. Oh, purtroppo ho avuto ragione”

David Allegranti
13 Giugno 2018
Virzì: “Amici di sinistra che avete votato M5s, prendetevi le vostre responsabilità”
Dice Paolo Virzì, regista, livornese con residenza a Roma, quindi “in esilio” come un altro livornese Simone Lenzi, di cui peraltro è amico (solo che uno sta nella Capitale l’altro, fedifrago, nel Pisano), insomma dice Paolo Virzì che aveva ragione lui. I suoi amici “de sinistra” lo sfottevano quando li metteva in guardia sui Cinque stelle: “Mi davano della Cassandra – spiega al Foglio – quando io dicevo ‘guardate che questi sono fascisti’. Oh, purtroppo ho avuto ragione: sono fascisti per davvero! Mobilitare le persone utilizzando l’odio, il disprezzo, sulla base di un mantra motivazionale – ‘non è stata colpa tua ma degli altri’ – come nei rehab per gli alcolisti anonimi. Funziona su quelle persone che si sentono tagliate fuori, escluse, fragili.
 
“Molti elettori del M5s sono persone che si sono sentite escluse e frustrate, scatenano la loro rabbia quando scrollano la loro timeline”
Ed è sostanzialmente una tecnica parafascista, era chiaro fin da subito. Il disprezzo per la cultura e per gli artisti sono un classico della predicazione fascista e nazista goebbelsiana. E a Grillo, che è un comico – anche se non mi fa ridere dal 1982 – ogni tanto scappa di bocca quella mezza verità propria dei giullari: ‘siamo dei nazisti light’, disse lui ridendo. Quelle tecniche di mobilitazione del consenso sono tipicamente naziste, goebbelsiane. E’ bastato sostituire gli ebrei con i negri e gli intellettuali ‘della casta’. Questa narrazione potentissima funziona, ma sono stati poco accorti ad allearsi con qualcuno più spregiudicato di loro, che va a toccare le corde del fascismo antropologico, razzista, maschilista, quello intimo e naturale degli italiani”.

Ben rappresentato, dice Virzì, dalla “miseria umana di Alessandro Di Battista, il peggior scrittore del mondo. A Hollywood danno non solo gli Oscar per i film più belli ma anche i Razzie Award per quelli più brutti. Ecco, se ne esistesse uno per la scrittura lo vincerebbe Di Battista, con la sua prosa a metà fra la retorica adolescenziale e il narcisismo patologico e mitomane, senza un briciolo di controllo, senza l’ombra di ironia, di consapevolezza del tono: il vuoto totale. Il video dove con la fidanzata annuncia la restituzione della liquidazione è un capolavoro di melensaggine fasulla, fa ridere ma mette anche i brividi per il cattivo gusto. Ecco per esempio questo signore dice che antifascismo e fascismo sono cose del passato; chi ha invece un briciolo di confidenza con la storia del nostro paese sa che il fascismo è la condizione naturale del nostro paese, ‘una malattia morale’, diceva Croce, ‘l’autobiografia di una nazione’, aggiungeva Gobetti. L’antifascismo è stato l’antidoto praticato da una minoranza virtuosa, grazie alla quale abbiamo aspirato a una possibile guarigione. I partigiani erano qualche migliaio di persone e hanno culturalmente vinto, ma non è mai stata una conquista consolidata, non siamo diventati tutti antifascisti di colpo. E’ stata l’aspirazione di essere migliori di quella cosa ridicola e tremenda che eravamo stati e che siamo. La nostra natura è fondamentalmente fascista e chi lavora con gli umori della rete lo sa bene. I dententori del sentiment della rete e chi usa le tecnologie per fare propaganda tengono bene a mente questa cosa. Roberto Saviano scrive un tweet e la gente gli risponde che deve morire o che gli devono togliere la scorta. Riflessi del nostro squadrismo naturale, direi organico e biologico”.

“Mi rivolgo a chi da sinistra li ha votati: abbiate il coraggio di dire che avevate voglia di un tocco di nuovo fascismo”
Ma tutto, ripete sempre Virzì, era chiaro fin dall’inizio. “Non c’era bisogno di Salvini che governa i traffici migratori con i tweet per accertare una cosa che era chiara fin da subito: si tratta di fascismo. E’ stato il fascismo a indebolire i corpi intermedi e a prendersela con le fasce deboli del paese. E’ stato il fascismo a mobilitare la rabbia delle persone. E’ la nostra storia. Poi, certo, ci sono elementi di cretinismo naturale. Si è avverata la profezia di Fruttero e Lucentini. La prevalenza del cretino. La rivolta del cretino che perfettamente si sposa con la mediocrità italiana. Molti elettori del M5s sono persone che si sono sentite escluse e frustrate, scatenano la loro rabbia quando scrollano la loro timeline. Sono personcine, impiegatucci, baby pensionati, falsi invalidi che non vedono l’ora di non sentirsi più in soggezione verso nessuno. Che sia Saviano o Sergio Mattarella. Ho tanti amici di sinistra che hanno votato per i Cinque stelle. Mi rivolgo a loro: abbiate il coraggio di dire che avevate voglia di fascismo; è rincuorante e galvanizza. Ha pure gli inni, le marce, le canzoncine”.


“I cinque stelle si trovano in una posizione che non meritano. E’ una commedia: io ci vedo la rivincita e la vendetta di una società mediocre”
In Italia, dice Virzì, “è stato creato un racconto deformato della realtà, al quale hanno contribuito in tantissimi. Dai costituzionalisti per il No del 4 dicembre agli autorevoli commentatori del Corriere della Sera. Hanno dipinto l’Italia come una fogna. E’ stata la madre di tutte le fake news, e cioè che bastasse chiunque pur di sostituire questi ‘criminali’ e questi ‘mafiosi’ che stavano governando l’Italia. I primi risultati sono arrivati nelle realtà locali, dove sono state indebolite le istituzioni e dove hanno fatto fare un passo indietro drammatico alla cosa pubblica. Su internet gira questo video beffardo. All’inizio si vede Virginia Raggi che nel 2013 va in un parchettino vicino casa sua ed esibisce tre pezzettini di vetro e una cornice di legno, mostrandoli con dovizia di particolari. Sul finale del video si vede com’è oggi il parco, cioè una discarica, una giungla impenetrabile con sorci e vipere. Nel mio quartiere, all’Aventino, ormai la raccolta dell’immondizia la fanno i benestanti che mandano i loro camerieri a portarla via. Dove governano i Cinque stelle il servizio pubblico è insomma venuto meno. A Livorno uguale: la gente va a curarsi a Pisa. Il risultato è che sparisce il welfare, che è l’unica cosa di sinistra in questi tempi difficili. Lo stato sociale. I servizi, la scuola. Gli aiuti per gli svantaggiati. I Cinque stelle con la loro retorica gentista hanno fatto arretrare le istituzioni e il risultato è che i più poveri e i disagiati, come dicono a Livorno, ‘la pigliano ner culo’”.

Quello del M5s, dice Virzì, è “un progetto di presa del potere che ha garantito a tantissimi ragazzi un’occupazione che non avevano. Il M5s è anche una straordinaria agenzia di collocamento. Ho sentito con le mie orecchie mamme apprensive per il futuro dei loro figli zucconi a scuola, suggerire: ‘Ma perché non ti candidi con i 5 stelle? Tanto i rimborsi mica devi restituirli tutti…’. Ecco, in un paese in cui l’ascensore è bloccato questa prospettiva può essere appetitosa. Quanti sono tra consiglieri comunali, regionali e parlamentari? I Cinque stelle hanno realizzato una specie di miracolo italiano. Naturalmente a spese della verità. Per merito di una macchina formidabile, che lavora sporco grazie alle bolle consolatorie di Facebook che mettono in connessione pensionati e casalinghe disperate, e che dà la polvere agli strumenti tradizionali e di mobilitazione politica, i Cinque stelle si trovano oggi in una posizione che non meritano. E’ una commedia all’italiana: io ci vedo la rivincita e la vendetta del mediocre. L’ho visto in piccolo a Livorno: tutti quelli che andavano male a scuola improvvisamente oggi hanno delle cariche pubbliche. Il M5s è questo: è la rivincita di quelli che andavano male a scuola”.

Racconta Virzì: “I primi tempi che ho avuto a che fare con il M5s mi sembravano un movimento antiberlusconiano più radicato; dei girotondi più sboccati. Lo sentivo sui temi che mi sembrano importantissimi e riguardano l’ambiente e la sostenibilità dei processi industriali. Poi mi è capitato un episodio che mi ha turbato. Nel 2013, quando ero il direttore del Torino film festival, conferimmo il premio alla carriera a Carlo Mazzacurati. Un uomo profondo, mite, gentile. Sapevo che stava morendo di cancro e con sua moglie ci rendemmo conto che non avrebbe fatto in tempo a vedere l’uscita del nuovo film cui aveva lavorato. I Cinque stelle di Torino chiesero a Mazzacurati, come avevano già fatto con Ken Loach l’anno prima, di non ritirare il premio in solidarietà con certe proteste dei lavoratori dei servizi assunti dall’organizzazione per il festival. Da direttore assicurai la massima visibilità a quei lavoratori, che non avevano tutti i torti visto che erano sottopagati, come accade in tutti i festival. Succede a Venezia, a Cannes. A Carlo, che era una persona delicata e mi chiese cosa fare, io dissi: ‘Ci penso io a dare ascolto e palcoscenico a queste persone, ma il premio prenditelo, te lo meriti’. Ecco, un senatore del M5s ricoprì Carlo di insulti.

 “Mi davano della Cassandra quando io dicevo ‘guardate che questi sono pericolosi. Purtroppo ho avuto ragione: lo sono davvero!”
E dire che era un senatore pagato dai cittadini, non un povero sfigato senza altri mezzi per farsi sentire. Mi colpì la violenza squadrista di quell’iniziativa, di un movimento all’epoca ancora minoritario. Sentii subito odore di fascismo. Era il 2013. In questi anni mi sono beccato shitstorm su internet, mi hanno bucato le gomme della bicicletta e al mercato della Garbatella con mia moglie sono stato assaltato con urlacci. C’era un loro gazebino, mi hanno urlato ‘Virzì ridacci i finanziamenti pubblici!’. Sono stati convinti dai loro spin doctor che lavorano nella comunicazione che nella sede del Pd c’è un grande ufficio dove si finanziano i film. ‘I film te li ha finanziati Renzi!’, mi gridavano. Ora, io capisco che chi è stato deluso dai partiti tradizionali, dai sindacati, ha il desiderio di una maggiore radicalità, di fare una battaglia viva e di essere rappresentato. Ma non si può non rendere conto che quella roba lì, il M5s, fa parte di un progetto di presa del potere di un’azienda, la Casaleggio Associati, che mobilita interessi non so quanto trasparenti, non respingendo le tecniche peggiori di mobilitazione del consenso attraverso odio, paura e disprezzo. Lo si è visto, appunto, nei comuni. A livello nazionale invece, siccome sono delle pippe, si fanno mangiare da una volpe arruffona di categoria B qual è Salvini. Non c’è da temere il Terzo Reich solo perché non hanno il talento per poterlo mettere in campo. Gli manca Hitler, hanno solo mediocri arrampicatori. Quindi, dico ai miei amici e compagni che per delusione hanno votato 5 stelle: svegliatevi. Prendetevi le vostre responsabilità. Non è sempre colpa degli altri, spesso è colpa nostra. Si torni a parlare la lingua della civiltà, che si contrapponga a questo fanatismo che sta devastando le persone, a questo rigurgito di fascismo e di razzismo che tira fuori il peggio della nostra antropologia. Prima ribolliva ma si vergognava di manifestarsi. Se queste persone di sinistra sono stati solo ingannati, si sfoghino con un bel pianto liberatorio, avranno la nostra comprensione. Ma se sentiremo ancora ripetere la tiritera magica che ‘è colpa del Pd, di Soros, dei signori dello spread’, allora sono corresponsabili del degrado di questo paese”. Beh, Marco Travaglio lo dice sempre che è colpa del Pd se c’è il governo Conte. “E’ una tecnica, si chiama capro espiatorio. Funziona bene. Un giorno magari riguarderemo cosa è successo negli ultimi 4 anni, dal 2014 al 2018, e forse scopriremo che avevamo il miglior governo della Repubblica italiana e che siamo riusciti – mi ci metto anche io – con il nostro fastidio e la nostra suscettibilità, a sminuirlo, ad aprire le praterie a questo nuovo nazifascismo”. Ma quindi era meglio Renzi? “I cicli politici si esauriscono ed è giusto che ci siano dei ricambi. Renzi ha avuto una stagione relativamente lunga stando ai parametri della sinistra, almeno dal post Occhetto in poi. Prima di lui, i leader non facevano in tempo a prendere confidenza con l’ufficio della segreteria che già dovevano andarsene. Renzi è insomma durato abbastanza. Ora chissà che succederà. Di fronte a questi sentimenti meschini e trogloditi, avrei voglia di essere invaso da tutti questi africani forti, giovani, temerari. Solo che purtroppo l’invasione non c’è, contrariamente a quel che dice Salvini, perché abbiamo allontanato i problemi in modo in fondo molto pragmatico e cinico, accordandoci con malviventi libici. Ma continuo a sperare in una futura invasione. Siamo diventati un popolo brutto, triste, meschino, ignorante, con un crollo demografico totale, destinato quindi a estinguersi; non resta che sperare nell’energia di questi popoli che col loro dolore e la loro forza possono solo migliorarci”.

20.4.18

Bullismo, la scuola è sola

Alba Sasso (il manifesto)

Quel che colpisce nelle immagini diffuse dai media sui fatti della scuola di Lucca è un’aria di tragica normalità. Ricorda altre recenti vicende come quella di una insegnante, quasi in «balia» di una classe in pieno subbuglio, rassegnata, impossibilitata ad agire.

Tanto da non essere neppure stata lei a denunciare il fatto. Non è comunque sempre la stessa liturgia: in alcuni casi la classe sembra indifferente o estranea a quanto avviene, in altri casi parteggia per l’una o per l’altra parte.

Ma quel che è più preoccupante è che al di là dei fatti, quel che sembra interessare gli alunni è la «visualizzazione» di quegli stessi fatti e la loro diffusione nel web. Che finisce col contare, anche di più della vita reale. E allora non siamo più solo in una situazione di allarme singolo.

Siamo in una situazione nella quale quello a cui stiamo assistendo rischia di essere solo la punta di un iceberg: l’evidenza di un malessere più profondo, che le recenti riforme o presunte tali non solo non hanno risolto, ma addirittura aggravato.Quella scuola che ci raccontano quei video è una scuola antica, quella della lezione frontale, dove conta il voto che assolve o condanna. Dove gli insegnanti sembrano stremati e soli, senza neanche la voglia di socializzare i problemi. Dove il tema di cosa si insegna e si impara a scuola, e come, sembra una questione dimenticata.

Vi ricordate:«un po’di inglese, un po’ di informatica» o le quattro chiacchiere a proposito di sapere della scuola contenute nella legge 107?

Ma questa scuola non è la realtà. Anzi le è antitetica. L’individualismo ha permeato la società, le famiglie sostengono i figli, anziché educarli, tutto marcia al contrario.

Si è interrotta, e da tempo, nonostante l’impegno «accanito» di tanti docenti che continuano a fare una «buona scuola», una riflessione sul rapporto tra cultura della scuola e contemporaneità, sul sapere capace di fornire strumenti per conoscere, capire, diventare cittadine e cittadini di un mondo sempre più vasto. E si è pensato addirittura che per essere preparati al mondo, che poi sarebbe solo quello della produzione, possa bastare l’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro, realizzata come fosse un’ altra materia di studio. E con esperienze denunciate dalle stesse studentesse e studenti come inutili o addirittura negative. (Dai McDonald a Zara).

Manca da tempo un’attenzione, forse anche un bilancio di quel che sta succedendo nelle scuole. Dove certo, i fatti di questi giorni non sono la norma, ma rappresentano un allarme, di cui tener conto.

Colpisce ancora il silenzio delle famiglie di fronte a questi fenomeni, quelle famiglie che spesso si comportano solo da utenti, alle volte rissosi e violenti, piuttosto che come componente essenziale del più complessivo governo del sistema.

La scuola è sola, di fronte a problemi enormi. Sono soli i suoi insegnanti, «stanchi di guerra», sono soli quei bulli, sono sole le famiglie e sono soli persino i dirigenti. E purtroppo la scuola torna alla ribalta solo per questi «scandali».

E allora bisogna ricominciare a ricostruire quel tessuto solidale nella scuola e intorno alla scuola, come già tante scuole e territori fanno- ma di loro non c’è traccia nei media- perché hanno capito, a differenza dei mestieranti della politica, che i luoghi della formazione sono decisivi per costruire un futuro migliore per tutte e tutti.

19.4.18

Scuola, l’America fa dietrofront: più conoscenze, meno competenze

Le conclusioni di un panel di esperti consultati dall’Ente nazionale di valutazione americano: gli studenti non imparano più a leggere perché a scuola si fanno solo test e si trascurano storia e letteratura, arte e scienze

Perché gli studenti americani non riescono a migliorare le loro capacità di lettura nonostante tutti gli investimenti fatti negli ultimi due decenni proprio per rafforzare questa competenza strategica? Per tentare di rispondere a questa domanda il Naep, l’Invalsi americano, la settimana scorsa ha convocato un gruppo di esperti a Washington. E la risposta finale è stata: perché leggere non è come andare in bicicletta. Non basta saper pedalare: per capire un testo bisogna poter contare su un solido bagaglio di conoscenze, mentre il sistema scolastico americano da vent’anni a questa parte ha puntato tutto e solo sulle competenze, a scapito della ricchezza del curriculum. Era il 2001 - presidente George W. Bush - quando il Congresso americano approvò con un voto bipartisan la legge chiamata No child left behind che, almeno nelle intenzioni, doveva servire a dare a tutti i ragazzi - ricchi o poveri - delle solide competenze in lettura e matematica grazie a un sistema di test diventato negli anni sempre più pervasivo. Dai risultati di queste prove standardizzate, infatti, dipendeva una buona parte dei fondi federali, cosicché le scuole pian piano finirono per appiattire i programmi sui test (il cosiddetto «teaching to the test») impoverendo la qualità della didattica. Risultato: i livelli dei ragazzi sono rimasti gli stessi mentre la forbice fra ricchi e poveri si è ulteriormente allargata tanto che nel 2015 - presidente Barack Obama - la vecchia legge è stata sostituita dal nuovo Every Student Succeeds Act, che ha modificato (delegandoli ai singoli Stati) ma non eliminato il sistema di test standardizzati obbligatori in tutte le scuole dal terzo all’ottavo grado (cioè dalla quarta elementare alla terza media).
«Don’t know much about history»
La storia di questo fallimento educativo è stata ricostruita da The Atlantic in un lungo e documentato articolo in cui si rimarca come il meccanismo perverso dei test abbia agito negativamente soprattutto sulle scuole dei distretti più poveri, quelle che avevano più difficoltà a raggiungere i traguardi prefissati dal governo e che dunque erano più facilmente esposte al rischio di tagliare materie come la storia e la letteratura, l’arte o la scienza che, non essendo misurate dai test governativi, venivano considerate dei rami secchi, per concentrarsi solo sui test. Col risultato paradossale che così finivano per moltiplicare lo svantaggio di chi non aveva alle spalle una famiglia con un patrimonio culturale da trasmettergli. Perché la lettura è un’abilità complessa che richiede non solo la capacità di decodificare un testo ma quella assai più articolata di comprenderlo. E nelle comprensione di un brano scritto conta più il nostro bagaglio di conoscenze che le cosiddette abilità di lettura - le reading skills misurate dalle prove standardizzate. Come ha spiegato uno degli esperti che hanno partecipato alla riunione di martedì scorso, lo psicologo cognitivo Daniel Willingham, il fatto che i lettori capiscano o meno un testo dipende molto di più dalle loro conoscenze e dalla ricchezza del loro vocabolario che da quanto si sono esercitati con domande del tipo «Qual è l’argomento principale del testo?» o «Che conclusioni trai dalla lettura di questo brano?». Se un ragazzo arriva alle superiori senza sapere nulla della Guerra civile americana perché non l’ha mai studiata a scuola, non importa quanti test ha fatto: farà molta più fatica a rispondere a qualsiasi domanda relativa a quell’argomento di un suo collega più colto anche se magari meno allenato di lui nei quiz.
Alzare l’asticella
Ma non basta. Come osservato da Timothy Shanahan, professore emerito all’Università dell’Illinois e autore di oltre 200 pubblicazioni sulla «reading education», il sistema dei test commette un altro errore gravissimo: quello di misurare le capacità dei ragazzi usando dei brani considerati alla loro altezza. Mentre al contrario diverse ricerche dimostrano che gli studenti imparano molto di più quando leggono testi che sono al di sopra del loro livello di competenze e che proprio per questa ragione li portano a sforzarsi arricchendo il loro vocabolario e le loro capacità di comprensione. Perciò se vogliamo davvero migliorare le capacità di lettura degli alunni piantiamola di farli esercitare con i bugiardini dei farmaci o le istruzioni degli elettrodomestici. E semmai puntiamo su un curriculum ricco in storia scienze letteratura e arte che fornisca ai ragazzi una cassetta degli attrezzi - intesa come un sistema di nozioni e un vocabolario articolato - servibile per ogni occasione.
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Articolo originale: Why American Students Haven't Gotten Better at Reading in 20 Years  (The Atlantic)