19.9.07

I quattro cavalieri della globalizzazione

Gli eredi del neoliberismo della prima ora perseguono strade diverse per salvare il libero mercato. Ma tendono però a chiudere gli occhi sul fallimento del progetto «globalista», respingendo i progetti di deglobalizzazione portati avanti dai movimenti sociali
Walden Bello

Quando lo scorso anno due studi hanno descritto come il centro di ricerca della Banca Mondiale avesse sistematicamente manipolato i dati per dimostrare che le riforme neoliberiste sul mercato stessero promuovendo la crescita e riducendo la povertà nei paesi in via di sviluppo non ci fu nessuna reazione di sorpresa da parte dei «circoli» intellettuali, economici e politici che si occupano di politiche dello sviluppo. Gli sconvolgenti risultati dell'analisi svolta dal Robin Broad dell'American University e il rapporto di Angus Deaton della Princeton University e dell'ex direttore del Fondo Monetario Internazionale Ken Rogoff erano l'ultimo atto del collasso di ciò che è stato chiamato Washington Consensus.
Imposto ai paesi in via di sviluppo attraverso la formula dei programmi di «aggiustamento strutturale» finanziati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, il Washington Consensus ha regnato fino ai tardi anni '90 quando fu evidente che l'obiettivi perseguito - crescita sostenuta, riduzione della povertà e dell'ineguaglianza - era lungi dall'essere raggiunto. Ed è proprio alla metà di questo decennio che il «consenso» viene meno. Il neoliberismo rimane sempre lo «standard», ma molti economisti e tecnocrati hanno ormai perso fiducia in esso.

Washington Consensus Plus
Coscienti dei fallimenti del Washington Consensus, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale stanno ora promuovendo quello che il premio Nobel Joseph Stiglitz ha chiamato con sdegno il Washington Consensus Plus, in base al quale le riforme a favore del libero mercato che pur erano indispensabili non sono state da sole sufficienti. Le riforme finanziarie, per esempio, devono avere sequenzialità, se si vuole evitare debacle come le crisi finanziarie asiatiche degli anni Novanta. Memori della discesa della Russia nel capitalismo mafioso degli anni '90, le due istituzioni ora parlano anche dell'importanza di accompagnare la riforma del mercato con riforme legali e istituzionali che possano far rispettare proprietà privata e contratti. Tra gli altri principi che devono accompagnare gli «aggiustamenti strutturali» ci sono la «buona gestione» e politiche per «sviluppare il capitale umano».
Il mix di riforme istituzionali e sostegno al libero mercato è stato consolidato nei primi anni di questo decennio nei cosiddetti «Programmi strategici per la riduzione della povertà» (in inglese la sigla è Prsp, n.d.r.). Contrariamente a quello che un analista ha definito «neoliberalismo a pugno nudo», i Prsp sono infatti liberal per quanto riguarda i processi decisionali, che devono vedere una consultazione tra le diversi parti interessate tra cui le organizzazioni della società civile. Questo non significa che l'obiettivo dei «programmi contro la povertà» sia diverso da quello del suo antenato - liberalizzazione, deregulation, privatizzazione e commercializzazione della terra e delle risorse -, ma si propone di raggiungerlo attraverso il limitato coinvolgimento delle comunità «interessate». Un coinvolgimento mediato però da organizzazioni non-governative di matrice liberal piuttosto che attraverso la partecipazione dei movimenti sociali. I Psrp sono dunque programmi di aggiustamento strutturale di seconda generazione che cercano di ammorbidire l'impatto negativo delle riforme.

Neoliberismo neoconservatore
Un secondo erede del Washington Consensus è il «neoliberaismo neoconservatore», un approccio che orienta l'operato dell'amministrazione Bush e che ha avuto il suo battesimo con il famoso rapporto del 2000 stilato dalla commissione del Congresso sulle istituzioni multilaterali guidata da Alan Meltzer. Il rapporto sostiene - quantomeno a livello di retorica - una riduzione del debito delle nazioni più povere per dirottare le risorse finanziarie derivanti dalla riduzione del debito alla costituzione di specifici «fondi a concorso». Inoltre, i «fondi a concorso» consentono un coordinamento delle riforme a favore del libero mercato in accordo con la «sicurezza nazionale» statunitense e le strategie delle multinazionali americane.

La «buona» e «cattiva» sinistra
C'è anche un terzo erede del Washington Consensus. Si tratta del «neostrutturalismo», un approccio che viene associato alla Commissione Economica per l'America Latina (Cepal). Secondo la teoria neostrutturalista le politiche neoliberiste sono state troppo costose e a lungo termine non produttive. Per i sostenitori di questo approccio equità e crescita non si escludono a vicenda e potrebbero operare in piena «sinergia». Una minore ineguaglianza dovrebbe infatti sostenere la crescita economica, perché garantisce stabilità politica e macroeconomica, aumenta la capacità di risparmio dei poveri, innalza i livelli di educazione ed espande la domanda aggregata.
I neostrutturalisti propongono quindi politiche di redistribuzione del reddito attraverso politiche sanitarie, educative e abitative. Questo è il tipo di programmi che caratterizza quella che l'opinionista messicano Jorge Castaneda ha chiamato la «buona sinistra» dell'America Latina, riferendosi al governo di Lula in Brasile e all'alleanza governativa «Concertacion» in Cile. Concentrandosi sui trasferimenti per proteggere e potenziare la capacità dei poveri, l'approccio neostrutturalista non interferisce con le forze del mercato al livello di produzione, diversamente dalla linea della «cattiva sinistra» (Hugo Chavez e altri) che interviene direttamente nella produzione e nelle politiche salariali. I neostrutturalisti abbracciano la globalizzazione, e sostengono che un obiettivo chiave delle loro riforme è rendere i paesi più competitivi a livello globale. Siccome le riforme neostrutturaliste puntano a ridurre le disparità di reddito sono considerate una strada per rendere la globalizzazione più appetibile se non popolare.
Secondo l'economista cileno Fernando Leiva le politiche neostrutturaliste rappresentano tuttavia un «paradosso eretico»: la ricerca di una competitività generale da parte delle economie nazionali hanno infatti condotto «alla consolidazione politico-economica delle pratiche neoliberiste». In fondo, il neostrutturalismo come il Washington Consensus Plus non sovvertono il neoliberismo, piuttosto ne mitigano la povertà le ineguaglianze. I programmi mirati anti-povertà del governo Lula possono certamente aver ridotto le fila dei «miserabili», ma l'istituzionalizzazione delle politiche neoliberiste continuano comunque a produrre produrre povertà, ineguaglianza e stagnazione nella più grande realtà economica dell'America Latina.

Socialdemocrazia globale
Accanto al neostrutturaliamo e il neoliberismo neoconservatore ha preso forma e si è sviluppata la «socialdemocrazia globale», un approccio che viene identificato con l'economista Jeffrey Sachs, il sociologo David Held, il premio Nobel Joseph Stiglitz e la ong britannica Oxfam. Diversamente dai tre approcci precedenti, questa prospettiva ammette il fatto che la crescita e l'equità possono essere in conflitto e pone l'equità chiaramente al di sopra della crescita. Questo approccio mette inoltre in dubbio una tesi centrale del neoliberismo, cioè che la liberalizzazione del commercio sia benefica a lungo termine.
Stiglitz sostiene infatti che, nel lungo periodo, la liberalizzazione del commercio potrebbe condurre a una situazione in cui «la maggior parte dei cittadini è messa peggio». Infine i socialdemocratici globali chiedono cambiamenti fondamentali nelle istituzioni e nelle regole della governance globale come l'Fmi, il Wto, e gli accordi sulla proprietà intellettuale per fini commerciali (Trip). David Held, ad esempio, chiede «la riforma, se non l'abolizione completa degli accordi Trip», mentre Stiglitz dice che «i paesi ricchi dovrebbero aprire i mercati ai paesi più poveri, senza reciprocità e senza porre condizioni politiche ed economiche».
I socialdemocratici globali vedono infine nel movimento anti-globalizzazione un alleato, che Sachs ringrazia «per aver messo alla luce le ipocrisie e gli evidenti fallimenti della governance globale e per aver messo fine ad anni di auto-celebrazione dei ricchi e dei potenti». Ma la globalizzazione è però il punto sul quale i socialdemocratici globali pongono il loro aut aut. Questo perché similmente al neoliberismo della prima ora, al Washington Consensus Plus, al neoconservatorismo statunitense e al neostrutturalismo la socialdemocrazia globale vede nella globalizzazione un fenomeno che se fosse gestito bene porterebbe benefici ai più.
I socialdemocratici globali vedono infatti se stessi come i salvatori della globalizzazione, temendo che la sua crisi provochi un ritorno al passato. Di fronte al questa eventualità ricordano le conseguenze nefaste della turbolenta inversione della prima ondata di globalizzazione dopo il 1914. Per Sachs, Held e Stiglitz, il mondo ha dunque bisogno di una globalizzazione socialdemocratica o «illuminata» in cui l'integrazione globale del mercato vada avanti, ma sia gestita in modo equo e sia accompagnata da una progressiva «integrazione sociale globale».
Ci sono diversi problemi che derivano da questa adesione alla globalizzazione da parte della socialdemocrazia globale. Prima di tutto, è discutibile che la rapida integrazione dei mercati e della produzione - l'essenza della globalizzazione - possa avere luogo al di fuori di una cornice neoliberista il cui precetto centrale è abbattere i muri delle tariffe doganali ed eliminare le restrizioni agli investimenti. In secondo luogo, è ugualmente discutibile che, se si potesse pensare a una globalizzazione in regime di equità sociale, questa dovrebbe essere effettivamente desiderabile. Le persone desiderano veramente essere parte di un'economia globale funzionalmente integrata dove scompaiono le barriere tra il nazionale e l'internazionale? Non preferirebbero invece essere parte di sistemi economici che possano essere controllati a livello locale e che siano protetti dall'andamento ondivago dell'economia internazionale? La reazione contro la globalizzazione non dipende infatti solo dalle ineguaglianze e dalla povertà che essa ha creato ma anche dal sentire di uomini e donne che hanno perso ogni parvenza di controllo sull'economia a favore di forze internazionali impersonali. Uno dei temi che riecheggiano maggiormente nel movimento antiglobalizzazione è la richiesta di bloccare la crescita finalizzata alle esportazioni e la creazione di strategie di sviluppo tanto a livello locale che globale, all'interno però di una regolamentazione dell'economia.

La sfida perduta
Il problema fondamentale con gli eredi del Washington Consensus è la loro incapacità di radicare la loro analisi nelle dinamiche del capitalismo come sistema di produzione. In questo modo essi non sono in grado di vedere che la globalizzazione neoliberista non è una nuova fase nell'evoluzione del capitalismo ma un tentativo disperato e fallimentare di superare le crisi di sovraccumulazione, sovrapproduzione e stagnazione che hanno colpito le economie capitalistiche centrali a partire dalla metà degli anni '70. Rompendo il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro nato nel secondo dopoguerra ed eliminando le barriere nazionali al commercio e all'investimento, le politiche economiche neoliberali hanno cercato di invertire la tendenza alla crisi dello sviluppo economico e dei profitti.
Questa «fuga verso il globale» ha avuto luogo sullo sfondo di un processo conflittuale più ampio segnato da una rinnovata competizione inter-imperialista tra i principali centri di potere capitalistico, l'ascesa di nuove centri capitalistici, la destabilizzazione ambientale, un'ulteriore sfruttamento del Sud - quello che David Harvey ha chiamato «accumulazione per espropriazione» - e una resistenza che emerge tutt'intorno.
La globalizzazione ha fallito nel fornire al capitale una via d'uscita dalle sue crisi di accumulazione. Con il suo fallimento, ora vediamo le élite capitaliste che la abbandonano per ritornare a strategie nazionali di protezione e competizione con il sostegno dello stato per il controllo dei mercati e le risorse globali, con la classe capitalista statunitense che fa da apripista. Questo è il contesto che Jeffrey Sachs e altri socialdemocratici non riescono a comprendere quando propongono la loro utopia: la creazione di un «capitalismo globale illuminato» che dovrebbe «umanizzare» la globalizzazione.
Il tardo capitalismo ha un irreversibile logica distruttiva. Invece che impegnarsi nel compito impossibile di umanizzare un fallito progetto globalista, la sfida urgente che ci sta di fronte è gestire il ritiro dalla globalizzazione in modo che non provochi la proliferazione di conflitti incontrollabili e sviluppi destabilizzanti come quelli che segnarono la fine della prima ondata di globalizzazione nel 1914.
Traduzione di Paolo Gerbaudo
ilmanifesto.it

18.9.07

La feconda eredità di un pensiero materialista proiettato sul presente

Il Meridiano delle «Opere» di Baruch Spinoza. Una raccolta e una bella traduzione di tutti gli scritti unita a una efficace nota che scandisce la vita del filosofo olandese. L'interpretazione di Spinoza è stata in perenne rinnovamento, anche se non mancano ancora studiosi che cercano di neutralizzare un pensiero la cui eredità permette di uscire dalla crisi della cultura della sinistra italiana
Toni Negri

In una recente intervista Pierre-François Moreau (oggi punto di riferimento degli studi francesi su Spinoza) ha notato che l'Italia è forse il paese nel quale si pubblica di più sull'opera di Spinoza. Paradossalmente, nel nostro paese non c'era tuttavia un'edizione di riferimento che, in buon italiano, comprendesse l'intera opera del grande autore seicentesco. Oggi, questa Opera finalmente c'è: pubblicata da Mondadori nei Meridiani, a cura e con un saggio introduttivo di Filippo Mignini (che ha anche lavorato alle traduzioni ed alle note con Omero Proietti). Quest'edizione è importantissima perché raccoglie, come s'è detto, tutta l'opera di Spinoza, perché la traduce bene, perché contiene un'utile introduzione teorica, un accurato accenno storico alla fortuna di Spinoza e soprattutto perché offre un'accurata cronologia ragionata sulla vita di Spinoza e sull'ambiente olandese nel quale la sua filosofia si è formata. (A proposito chi ne ha il tempo può ancora visitare a Parigi, nel Musée d'Art et d'Histoire du Judaisme, una ricchissima ed appassionante esposizione sull'Amsterdam ebraica di Rembrant e Spinoza). Era ora che questo strumento essenziale fosse messo a disposizione degli studiosi italiani.
Un autore azzerato
Come ben si segnala nell'introduzione, l'interpretazione di Spinoza e la sua fortuna sono state in perenne rinnovamento. Anche a chi scrive è richiesto di prendere posizione su questo terreno e di misurare in che prospettiva mettersi nello spendere o forse, meglio, nell'investire le fortune lasciateci da Spinoza. Ho tra le mani la recensione che alla traduzione Mignini-Proietti, ha fatto Emanuele Severino ne Il Corriere della Sera. S'intitola: «Spinoza, Dio e il Nulla. Il Maestro del Seicento, lontano dalla religione, ma tentato di negare il mondo» (30 Giugno 2007). Severino aderisce all'affermazione di Mignini che la filosofia di Spinoza rappresenti: «il più radicale ed alternativo sistema della storia filosofica dell'Occidente dopo la venuta di Cristo» - ma, come spesso gli storici della filosofia hanno fatto (allo scopo di neutralizzare questa potente radicalità alternativa), aggiunge che l'immanenza spinozista si sporge sul nulla, che l'assoluto della produzione sembra confondersi in quello della distruzione e che queste spinte opposte «hanno in comune la convinzione decisiva ed abissale che le cose del mondo sono nulla».
Questo sforzo di neutralizzazione è stato probabilmente - nella sua forma più sofisticata - elaborato da Hegel quando, dopo aver affermato che «se non si è spinozisti, non può filosofare» - che cioè solo l'assunzione dell'assoluto e l'immersione in esso aprono alla filosofia - immediatamente aggiunge: non solo Spinoza non ha la capacità di sviluppare quest'assolutezza perché non è trinitario, dialettico, perché è ebreo ma anche perché, «povero tisicuzzo», non ne ha la forza. Quale smalcazonata! Perdura, tuttavia, questo stile di polemica e permette a chi vede nell'essere una tendenza alla morte, di rimproverare a chi scriveva: «l'uomo libero a nulla pensa di meno che alla morte, e la sua saggezza è meditazione non della morte ma della vita» (Ethica), di confondere l'essere e il non essere. Eppure no: «la nostra mente, in quanto percepisce le cose con verità, è una parte dell'intelletto infinito di Dio» (Ethica). Possiede dunque la potenza del divino - questa natura, questa materia della quale siamo fatti, hanno quella potenza.
Collocandoci dentro una storia di investimenti della potenza spinozista, chiediamoci che cosa sia oggi, come possa per noi configurarsi, il materialismo spinozista. Non è un materialismo dell'oggetto inerte, diremo, e neppure è quello che semplicemente promana da sequenze causali necessarie: è bensì un materialismo delle differenze attive e dei dispositivi soggettivi, ovvero un'affermazione della materia come forza produttiva, attraverso l'attività di quelle modalità che costituiscono la sostanza. Questa linea interpretativa ha, nell'ultimo trentennio dopo il '68, invaso il terreno delle letture spinoziste ed è difficile pensare che oggi, e forse per un lungo periodo, ci si possa dire spinozisti (e quindi cominciare a filosofare) evitandone l'efficia.
Un'etica dell'azione
Da questo punto di vista, la pubblicazione dell'Opera omnia di Spinoza offre un'ottima occasione per la ripresa del dibattito sul problema della cultura di sinistra in Italia. Il socialismo positivista ha finito da tempo di dare i suoi frutti ed anche le rifioriture engelsiane si sono ampiamente dissolte. Quanto al togliattismo, ovvero allo storicismo piegato alle esigenze della politica del partito, anch'esso ha da tempo terminato di esercitare qualche influenza. Che mille fiori fioriscano, allora! In realtà sono già fioriti: non saranno mille ma per quanto minuscolo il campo della critica di sinistra possa essere, è sicuramente originale e sta ridefinendo i suoi orizzonti. Forse già si può dire: questo secolo sarà spinozista! Foucault lo disse per Deleuze, Deleuze lo disse per Marx, Marx lo dice per Spinoza. Ciascuno di questi autori ha proceduto mascherato per chiarirci quell'unico modo di fare una filosofia materialista che apra ad un'etica dell'azione.
Fra gli anni '60 e '70 abbiamo vissuto un'epoca di profondissima crisi dell'ideologia socialista e di critica del pensiero marxiano. Possiamo forse oggi ritrovare le origini spinoziste di quella riflessione. Un esempio fra altri possibili. Quando Althusser definisce una «cesura» radicale nello sviluppo del pensiero marxiano, egli forse non pensa ancora che la rottura fra la metodologia scientifica del Marx maturo ed il suo umanesimo iniziale potesse essere interpretata in termini spinozisti. Solo più tardi, nel momento più difficile della sua conversione postmarxista, confusamente Althusser suggerirà una tale determinante del suo passaggio. Straordinariamente efficace questa allusione! Essa significava che Spinoza ci poteva finalmente liberare da ogni dialettismo, da ogni teleologia; essa affidava la conoscenza alla resistenza e la felicità alla passione razionale della moltitudine. Ecco perché, quando il quadro della lotta per l'emancipazione umana si allarga, e la critica aggancia lo sviluppo capitalistico nella fase della sussunzione reale, nella fase imperiale cioè, nel postcolonialismo - è allora che sulla «cesura» marxiana si impone apertamente la «matrice» spinozista.
È un materialismo dei dispositivi ontologici e della produzione di soggettività che qui apertamente si esprime. È un passaggio storico nel quale stanno tutti coloro che attorno all'emancipazione, hanno sviluppato un pensiero della differenza, antiteleologico ed immanentista.Mario Tronti e Luisa Muraro, nel nostro (grande) piccolo, ma poi tutti gli altri che, del postmoderno, hanno fatto un'arma di emancipazione: la Spivak come gli altri postcoloniali, per parlare solo di alcuni - ma soprattutto ci sta Foucault. È questo il momento nel quale il nuovo materialismo spinozista comincia a produrre i suoi effetti, a mostrarci - attraverso le articolazioni della sostanza - la produttività dei modi, ossia la piega singolare, rivoluzionaria che essi assumono.
L'offensiva storicista
Attenzione tuttavia ai contrefeux che sono opposti a questa nuova fondazione del pensiero materialista o del pensiero politico di una sinistra rivoluzionaria. Vi è chi sostiene che, aderendo a questo materialismo, si rischia di giocare col fuoco, con il vitalismo e/o un irrazionalismo che ormai fan parte del mercato. Redemption business. Tom Nairn ha sostenuto questa tesi in un recente numero del London Review of Books: era la stizzosa reazione di un esponente della vecchia guardia socialista contro le nuove esperienze e i nuovi bisogni del proletariato cognitivo. Più pericolosa, d'altro lato, si è presentata, ben agguerrita, un'offensiva storicista, intesa a neutralizzare «l'anomalia spinoziana». È soprattutto Jonathan Israel - nel suo per altri versi importante Radical Enlightment - che ha operato in questo senso appiattendo la specificità dello spinozismo in un vago illuminismo riformista.
Ma Spinoza non è mai stato un riformista, non ha mai pensato l'essere come una dinamica che non facesse salti: anzi, è proprio su queste rotture, su questa vivace presenza dei modi, sulla singolarità che l'eterno loro garantisce, e sulla libertà, che il futuro si presenta. E così Spinoza rompe con ogni filosofia accademica (ed ogni neutralizzazione del sapere) perché mette la sua metafisica al servizio diretto della liberazione dell'umanità, e dei movimenti, contro le istituzioni del potere. E' da qui che si apre un'alternativa definitiva alla modernità e a tutti i suoi orpelli ideologici.
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La morte dell'istantanea nell'era delle immagini rubate

Il superamento della fotografia come frammento di tempo congelato e il ruolo essenziale delle manipolazioni nel caustico e a tratti debordante pamphlet «Meglio ladro che fotografo» di Ando Gilardi In una società sempre più opaca come è quella attuale, fotografare significa misurare lo scacco di una tecnica ottocentesca basata sugli indizi e sulle tracce
Antonello Frongia

All'inizio di un recente, folle libretto intitolato Meglio ladro che fotografo, Ando Gilardi lascia cadere tra le righe una piccola osservazione provocatoria: fare fotografie richiede «tanta forza e cultura quanta ce ne vuole per suonare il campanello di una porta». Una volta suonato il campanello, però, quella che si presenta davanti a noi non è un'epifania o un'illuminazione, ma l'immagine duplicata di noi stessi e della nostra società, un rispecchiamento con l'illusione di una scoperta.
Questa scenetta didattica è ricca di implicazioni. Sintetizza due immagini mitiche della storia della fotografia e della sua funzione sociale. Da una parte c'è il «piccolo bastardo abbandonato sulla soglia dell'arte», la condizione eterna della fotografia come tecnica marginale e servile, mai completamente accettata nel novero delle arti maggiori. Dall'altra, c'è il famoso slogan pubblicitario della Kodak di fine Ottocento, «voi premete il pulsante, noi facciamo il resto»: dove il «resto» non è solo il processo di sviluppo e stampa, ma anche l'illusione di trasformare i kodakers (come li chiamava sdegnosamente Stieglitz) in artisti.
Manipolazioni e riappropriazioni
Per Gilardi (come per Benjamin) l'aspetto rivoluzionario della fotografia è proprio l'opposto: l'idea che non abbia nulla da creare o da inventare, ma solo da riprendere e rubare. Il problema del fotografo non è quello di ridefinire stili e forme, ma di fare riproduzioni e disseminare immagini. Il baricentro dell'attenzione si sposta dall'esperienza ineffabile dell'autore all'interpretazione sempre incerta (e per questo tanto più ricca e rinnovabile) di fruitori sempre diversi.
Così per Gilardi i veri autori delle opere che compaiono nei libri di storia dell'arte non sono i pittori, ma i fotografi: sono le loro riproduzioni, anche infedeli, a rendere accessibili quei dipinti e quelle sculture al di fuori dei musei affollati e al tempo stesso iperprotetti. L'avvento delle macchine fotografiche digitali, dei programmi di elaborazione grafica e di internet segneranno secondo Gilardi una nuova era nella storia delle rappresentazioni: la fine di quella che chiama «fotografia fatalistica» o «immagine determinista», il superamento dell'istantanea come frammento di tempo congelato, della sua forma estetica senza passato né futuro, in favore della manipolazione e della riappropriazione.
Meglio ladro che fotografo è un pamphlet a tratti debordante: una libera conversazione tra Ando Gilardi e Patrizia Piccini che sfocia in disquisizioni sull'ideologia, la filosofia e addirittura la teologia, come fa notare a un certo punto la paziente interlocutrice. In effetti non si può essere d'accordo con tutto Gilardi: in particolare, con la sua idea che il mondo (fotografico) sarà salvato da Google e dal «superlativo Photoshop». Ma non si capisce l'ironia e la polemica di questo libro se non si ha in mente chi è Ando Gilardi: un «irregolare» della fotografia che osserva il mondo attuale dalla prospettiva di oltre sessant'anni di lavoro sul campo.
Nato nel 1921, nel 1945 Gilardi è stato fotografo di documentazione per le istruttorie dei processi ai crimini di guerra; negli anni cinquanta ha lavorato nella riproduzione delle opere d'arte e ha documentato il sud per la Cgil di Di Vittorio e per antropologi come Ernesto De Martino; è stato responsabile tecnico di «Popular Photography Italiana» e co-fondatore di «Photo 13», una importante quanto dimenticata rivista sperimentale degli anni settanta; è stato giornalista, curatore di mostre e docente; ha collezionato per decenni immagini anonime, popolari e fuorilegge, che oggi costituiscono la base della sua «Fototeca storica nazionale»; è stato in Italia l'unico storico «sociale» di questi materiali che, come egli stesso suggerisce, vanno considerati come sintomi di processi antropologici piuttosto che come oggetti preziosi di un mercato antiquario.
Meglio ladro che fotografo andrebbe dunque letto nel contesto di una storia della fotografia italiana del dopoguerra che rimane ancora tutta da ricostruire, ma può anche essere visto come un'utile postilla a due testi fondamentali elaborati da Gilardi nel corso degli anni settanta e ultimamente ripubblicati: la Storia sociale della fotografia del 1976 e Wanted! del 1978.
Uno degli elementi di grande attualità del pensiero di Gilardi risiede proprio nella funzione sociale che egli attribuisce al lavoro fotografico e alla fotografia in generale. In Italia questo tema ha subìto un decorso particolare, caratterizzato da una distinzione molto netta, persino un'opposizione ideologica, tra impegno civile e ricerca formale. Nella migliore produzione dei paesi anglosassoni, indagine sociale, ricerca formale e sperimentazione linguistica sono stati tradizionalmente aspetti diversi del medesimo postulato: vedere significa pensare; far vedere, significa far pensare. Negli anni trenta questo atteggiamento è stato alla base della fotografia «documentaria» e del dibattito teorico che indagava il rapporto fra immagine e racconto. Negli anni sessanta, già prima del '68, fotografi estremamente formali come Lee Friedlander e Garry Winogrand erano considerati i maggiori indagatori del social landscape americano.
Nell'Italia del dopoguerra il rapporto tra estetica e politica della fotografia è stato marcato dall'annosa polemica tra neorealismo e formalismo; una antinomia che negli anni settanta si è riproposta in forme diverse tra «fotoreporter» e fotografi «di ricerca». Da una parte la testimonianza dei «fatti», il viaggio d'inchiesta, la fotografia in bianco e nero in stile diretto che accompagna la notizia sulla pagina del quotidiano; dall'altra la ricerca tematica, i tempi lunghi della meditazione colta, la scoperta del colore fotografico, il libro e la mostra come testi visivi silenziosi e metafisici.
Dentro la società opaca
Oggi l'industria culturale sta riassorbendo questa distinzione in una nuova versione dell'arte pubblica. L'opera di fotografi come Armin Linke e Francesco Jodice ambisce a una sintesi di entrambe le tradizioni del passato. Ed è significativo, se le parole hanno un senso, che l'agenzia fotografica Contrasto abbia aperto a Milano uno spazio espositivo molto importante chiamandolo «Forma». Ma in realtà è soprattutto l'oggetto stesso della fotografia socialmente impegnata a richiedere una riformulazione dei vecchi problemi. Oggi non esiste più (o risulta meno efficace fotografarla) una struttura sociale chiaramente definita, come quella che Jacob Riis e Lewis Hine affrontavano per la prima volta tra Otto e Novecento, nella metropoli che opponeva tycoons del capitalismo e masse di proletari immigrati. In una società come l'attuale, considerata sempre più opaca, la visibilità dei fenomeni viene minata alla base - non di rado intenzionalmente.
Fotografare significa sempre più spesso misurare lo scacco di una tecnica ottocentesca basata sull'indizio e sulla traccia, in un'epoca in cui i processi fondamentali sono considerati immateriali e la società «liquida» o «molecolare». Il fotografo del passato si presentava alle porte del mondo e premendo il pulsante suonava un campanello d'allarme; per le nuove generazioni Flickr, Google e Youtube sono come rubinetti dell'acqua calda, confortevole e sempre a portata di mano.
A un altro livello, Gilardi ci ricorda che il vasto territorio chiamato «storia sociale della fotografia» è un po' come la luna: dopo un paio di eroiche missioni, nessuno si è curato di tornarvi di persona. I suoi lavori degli anni settanta sulla fotografia pornografica, giudiziaria e psichiatrica rimangono un patrimonio prezioso per la storiografia italiana. Tuttavia molto rimane ancora da fare proprio in un paese come il nostro, che ha vissuto processi di modernizzazione peculiari rispetto a quelli già noti e storicizzati di Gran Bretagna, Germania, Francia e Stati Uniti.
Nel segno di Diderot
Che funzione ha avuto l'introduzione di una tecnica «meccanica» di rappresentazione in una cultura come quella italiana, dominata nei secoli dal dibattito sul rapporto tra pittura e parola? Chi ha comprato, commissionato, collezionato, visto (ma anche distrutto e disperso) la fotografie di due secoli d'Italia? Se altrove la posizione sociale del fotografo è stata chiaramente quella del professionista o dell'amateur, dell'artista o dell'attivista politico, che ruolo hanno veramente giocato da noi figure come Giacomo Caneva, Leopoldo Alinari, Giuseppe Primoli o lo stesso Ando Gilardi?
Queste sono solo alcune delle tantissime domande suggerite dalla lettura di un altro preziosissimo libro, apparso per la prima volta nel 1985 nella collana Nuovo Politecnico di Einaudi e ora meritoriamente ripubblicato dalla Scuola Normale Superiore di Pisa: Arte, industria, rivoluzioni di Enrico Castelnuovo. Si tratta di una antologia di saggi scritti tra il 1969 e il 1978, che esplorano potenzialità e limiti di una storia sociale dell'arte a partire dalle ricerche di Francis Klingender, Frederick Antal e Arnold Hauser. Non sembra una coincidenza che a Diderot - analizzato da Castelnuovo per la sua riabilitazione delle attività «meccaniche» rispetto a quelle «liberali» nella Encyclopédie del 1751 - Gilardi abbia dedicato il suo Meglio ladro che fotografo.
È nelle rivoluzioni economiche, politiche e sociali della modernità che la fotografia ha trovato il proprio fondamento, anche se per la storia delle forme si tratta di una tecnica che perpetua in forme nuove la prospettiva rinascimentale. Tuttavia è chiaro, e Castelnuovo utilmente ce lo ricorda, che nessuna forma di rappresentazione è un mero rispecchiamento di questi fenomeni generali.
Dialettiche irrisolte
Nella fotografia (in quanto industria e pratica sociale) e nelle singole fotografie (in quanto documenti storici) si inscrive la dialettica sempre irrisolta, talvolta persino tragica, tra i processi di lunga durata e le immagini, le memorie e le attese degli individui che osservano la storia dal basso, con i propri occhi.
A distanza di decenni, i saggi di Castelnuovo propongono ancora oggi stimoli di ricerca attualissimi per un inquadramento interdisciplinare della storia della fotografia e persino della fotografia contemporanea. La sua discussione della pittura inglese dell'Ottocento, ad esempio, potrebbe essere traslata con le opportune verifiche alla situazione italiana degli anni ottanta. «Le più importanti mutazioni avvennero in provincia e non nella capitale», scrive Castelnuovo. Si potrebbe sostenere ad esempio che per Luigi Ghirri, come Joseph Wright of Derby, la periferia fu un punto di osservazione privilegiato, che rese possibile istituire rapporti più innovativi e meno stereotipati tra artisti, istituzioni e pubblico.

ilmanifesto.it

16.9.07

La nouvelle vague della decrescita

Alcune riflessioni critiche sull'ultimo libro di Serge Latouche edito da Feltrinelli presentato come «un vero e proprio manifesto per la Società della decrescita» da realizzare attraverso un programma che punti alla diminuzione delle merci prodotte Il crollo prossimo venturo La proposta dello studioso francese di trasformare la società attraverso comportamenti virtuosi è espressione di una «pedagogia delle catastrofi» in cui la denunci
Luigi Cavallaro

Da quando il tracollo dell'esperimento sovietico è sembrato riportare le lancette della storia all'epoca del «trionfo della borghesia», per dirla col titolo del celeberrimo libro di Eric J. Hobsbawm, una nuova idea ha cominciato a farsi strada tra gli orfani irreconciliati dell'idea «crollista». L'idea, molto in sintesi, è che il capitalismo, assai più gravemente che da un antagonismo di classe nel frattempo annacquatosi, sarebbe minato da un rapporto contraddittorio addirittura con la «natura»: la sua propensione alla «crescita illimitata», infatti, prima o poi dovrebbe indurlo a sbattere il muso contro la finitezza del pianeta Terra e delle sue risorse.
È stata la legge dell'entropia a offrire il pilastro teorico su cui edificare una narrazione ancor più fosca del declino irreversibile del modo di produzione (nuovamente) dominante. La presa di coscienza del fatto che tutti i tipi di energia sono destinati prima o poi a trasformarsi in calore non più utilizzabile e che il sistema solare tutto tende verso una «morte termodinamica» ha indotto, infatti, i «neocrollisti» a formulare critiche «radicali» all'idea che il processo economico potesse essere descritto in termini circolari e a esigerne con forza una rappresentazione in termini unidirezionali, rispettosa della «freccia del tempo».
La catastrofe annunciata
La termodinamica, in tal modo, è diventata la «fisica del valore economico» e la legge dell'entropia «la radice della scarsità economica», come scrisse l'economista e statistico di origine rumena Nicholas Georgescu-Roegen. E, complice l'ignoranza delle ragioni che, nel secondo dopoguerra, avevano portato gli economisti a identificare nel Prodotto interno lordo la misura della ricchezza delle nazioni, i neocrollisti hanno individuato nella crescita del Pil la spia di codesta contraddizione fra il capitalismo e la natura, giungendo coerentemente a indicare nella «decrescita» il rimedio capace di salvare la Terra e l'umanità dall'incipiente catastrofe.
Parallelamente, essi hanno cominciato a diffondere visioni ireniche della preistoria dei rapporti di produzione moderni.
Le forme di vita delle piccole comunità di cacciatori-raccoglitori e, in genere, delle società precapitalistiche sono state descritte come altrettanti Eden, in cui gli individui vivevano in armonia con l'ambiente circostante, appropriandosene giusto quel tanto che serviva a sfamarsi e a riprodursi. Il fatto che l'arrivo dell'Homo sapiens sapiens in un qualche nuovo territorio fosse immancabilmente seguito da un'ondata di estinzioni di animali di grossa taglia, che molte comunità contadine praticassero un'agricoltura basata sul metodo «taglia e brucia», che eventi atmosferici banali potessero condannare intere comunità alla fame e che le condizioni di lavoro e di vita fossero terrificanti è stato semplicemente dimenticato. Così come è stata dimenticata una lettera in cui Engels commentava severamente con Marx le pretese di un tal Podolinskij di «esprimere rapporti economici in misure di fisica». La teoria marxista è stata anzi ritenuta corriva col peggior capitalismo e l'insistenza di Marx sullo sviluppo delle forze produttive è stata additata come matrice ideologica dei disastri ambientali del «socialismo reale», dall'esplosione del reattore di Chernobyl al disseccamento del lago d'Aral.
I drogati del produttivismo
Una brillante sintesi degli approdi più recenti ai quali è pervenuto il «neocrollismo» ci viene ora dall'ultimo libro di Serge Latouche, lo studioso francese che può esserne considerato il principale rappresentante. La bibliografia che correda La scommessa della decrescita (Feltrinelli, pp. 215, euro 16) si presenta infatti come una sorta di who's who della nouvelle vague e il volume stesso, in molte parti, è costruito con la tecnica del «citazionario», utilissima per sapere chi ha detto cosa e dove e quando. La quarta di copertina, poi, ci informa che questo libro è «un vero e proprio manifesto teorico della Società della decrescita». Proprio così, con la S maiuscola.
Latouche comincia col dirci cosa la «decrescita» non è. Non è lo «stato stazionario» degli economisti classici, «né una forma di regressione, di recessione o di "crescita negativa", e neppure la crescita zero». Non è nemmeno un concetto, «almeno non nel senso tradizionale del termine». E' piuttosto «uno slogan politico con implicazioni teoriche, è un "termine esplosivo" che cerca di interrompere la cantilena dei "drogati" del produttivismo». Più che di decrescita, precisa anzi lo studioso, bisognerebbe parlare di «a-crescita», perché «si tratta di abbandonare la fede e la religione della crescita, del progresso e dello sviluppo». Ma siccome «decrescita» è un termine ormai entrato nell'uso, vale la pena di mantenerlo e semmai di qualificarlo opportunamente con l'aggettivo «conviviale», secondo l'accezione che ne propose negli anni '70 Ivan Illich: si tratta infatti di sollecitare la «capacità da parte di una collettività umana di sviluppare un interscambio armonioso tra gli individui e i gruppi che la compongono e della capacità di accogliere ciò che è estraneo a questa collettività».
Ma cos'è che dovremmo fare «decrescere»? Come molti ecologisti, Latouche afferma perentoriamente che «una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito». Non è però chiaro se stia parlando della crescita dei valori d'uso o della crescita del loro valore di scambio espresso in moneta. E' solo per i primi, infatti, che valgono le leggi fisiche; il secondo può aumentare in maniera indefinita. Non c'è alcuna impossibilità «fisica» capace di impedire che il valore di scambio di un paio di scarpe cresca di dieci, cento o mille volte, ci può essere al massimo una difficoltà fisica di accrescere di cento o mille volte la produzione mondiale di valori d'uso che abbiano «natura» di scarpe. Solo se si ritiene che il prezzo delle merci rifletta la loro «scarsità» - una credenza tipicamente neoclassica, che s'impose ai tempi della rifondazione della teoria economica da parte di Jevons, Menger e Walras - si può rinvenire nella «crescita del Pil» una misura dello «sforzo» imposto dalla società all'ambiente. Ma che il prezzo delle merci sia una funzione delle reciproche scarsità relative è un'affermazione teoricamente infondata, come hanno dimostrato Garegnani e Sraffa ormai quasi cinquant'anni fa. Dunque, perché prendersela con la «crescita del Pil»?
Il programma delle «otto R»
Lo stesso Latouche, peraltro, ricorda che «le convenzioni sulle quali si fonda il calcolo del Pil contengono indubbiamente alcuni elementi di arbitrarietà dal momento che alcuni beni e servizi non mercantili possono essere più o meno inclusi». Volendo essere precisi, ciò significa che dal calcolo del Pil dovrebbe essere escluso l'intero ammontare della produzione pubblica costituita da beni e servizi non destinati alla vendita: scuola e sanità, infatti, non sono merci, dunque non hanno un valore di scambio che possa renderle commensurabili con un'automobile Fiat. Ma di nuovo, quand'anche togliessimo dal Pil l'intero ammontare delle spese pubbliche, facendolo così «decrescere» del 40-50 per cento rispetto ai suoi valori attuali, non avremmo eliminato il consumo di energia e materia che la produzione di quei beni e servizi ha richiesto. E anche sotto quest'altra forma riapparirebbe che i «critici del Pil» stanno in realtà prendendosela coi mulini a vento.
Ma facciamo finta che la confusione non ci sia e che, quando parla di «decrescita», Latouche intenda riferirsi solo ad una decrescita della produzione di valori d'uso. Come arrivarci? «Il cambiamento reale di prospettiva può essere realizzato attraverso il programma radicale, sistematico, ambizioso delle "otto R": rivalutare, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare», e la leva che lo studioso francese si propone di agire è la tassazione. Aumentando di «dieci volte» i costi di trasporto e incrementando la tassazione sulle macchine, «le aziende che seguono la logica capitalistica sarebbero ampiamente scoraggiate. In un primo tempo, un gran numero di attività non sarebbe più "redditizia" e il sistema resterebbe bloccato».
A quel punto, sarebbe senz'altro possibile «togliere sempre maggior quantità di terra all'agricoltura intensiva», semplicemente - aggiungiamo noi - perché le aziende agricole capitalistiche avrebbero decretato fallimento, e si potrebbe senz'altro «darla all'agricoltura contadina, biologica, rispettosa degli ecosistemi». E questa dinamica, che farebbe sì che «ogni produzione che può essere realizzata su scala locale e al fine di soddisfare bisogni locali» venga «realizzata localmente», contribuirebbe «anche a risolvere il problema della disoccupazione»: già, perché la decuplicazione della tassazione e il consequenziale blocco delle imprese capitalistiche avrebbero anche questa spiacevole conseguenza - qualche centinaio di milioni di disoccupati.
Sarebbe comunque una questione momentanea: presto le persone tornerebbero «ad apprezzare il territorio circostante» e «a temere di allontanarsi da casa loro», e comincerebbero «a riparare, a comprare prodotti di seconda mano, senza provare il sentimento di svalorizzazione di sé». E' il «paradiso» immaginato da Latouche: una società in cui «le vettovaglie sono molto meno numerose, ma ciascuno ne ha quante bastano e regna un clima di gioia inebriante suscitata da una condivisa frugalità».
La leva delle tasse
Il lettore un po' addentro alla teoria dell'economia pubblica e appena consapevole della complessità della dinamica dei sistemi sociali non potrà che stupirsi di fronte all'attribuzione di una potenza così «distruttivamente creatrice» alla tassazione. Si potrebbe supporre che un passaggio intermedio per approdare a codesto «paradiso» sia la nazionalizzazione delle terre, tanto più che, seppur di passata, nel volume si accenna al fatto che viviamo in una società «attraversata dalla lotta di classe» e si legge perfino che «il nodo del problema è proprio la questione del potere». Ma Latouche non si propone affatto di resuscitare Vladimir Il'ic (Lenin), ma di glorificare Ivan Illich. Scopriamo così che presupposto indispensabile per la riuscita del programma delle «otto R» è un'«autotrasformazione» non violenta della «società», che non faccia uso di leggi, decreti o polizia e che sia nondimeno capace di «suscitare un numero sufficiente di comportamenti virtuosi».
Non è chiaro se Latouche immagini un processo in cui sempre più persone comprano i suoi libri, si convincono della bontà delle sue idee, si danno appuntamento in piazza o in altro luogo «conviviale» e cominciano a concertarsi su come attuare il programma delle «otto R», ma non ci sembra di intravedere altro modo per produrre il presupposto indispensabile al suo obiettivo. E se la «pedagogia delle catastrofi» rivendicata nell'ultimo capitolo del suo libro genera proposte politiche del genere, sovviene per la «decrescita» un distico caro a Marx: «là dove mancano i concetti / s'insinua al momento giusto una parola».
ilmanifesto.it

Quando i potenti dei ritornano nella città degli uomini

Le religioni nel mondo globale secolarizzato. Rinascita della fede o patogenesi dei monoteismi? La diagnosi di Juergen Habermas e il suo invito al dialogo fra laici e credenti in un convegno della Società italiana di filosofia politica. Con qualche disincantata controindicazione
Ida Dominijanni

In Italia la cronaca non dà tregua. Che si tratti di aborto, procreazione assistita, staminali, testamento biologico, eutanasia, Dico, l'intervento della Chiesa è immediato e costante, con pretese di indirizzo non solo morale ma anche politico e legiferativo. Ma per quanto appesantita dalla presenza «in casa» del Vaticano, l'Italia è solo la punta di un iceberg globale, che ha riportato a galla la pretesa delle religioni a riconquistare quel protagonismo politico che la lunga vicenda del Leviatano moderno sembrava avere archiviato per sempre almeno in Occidente. Lo scenario più drammatico di questa pretesa è il cosiddetto «scontro di civiltà» inscenato dal fondamentalismo islamico e dal fondamentalismo democratico di Bush; l'icona più espressiva, le immagini delle Twin towers in fiamme penetrate dai due aerei-bomba caricati di benzina religiosa, che anche nell'immaginario occidentale evocarono immediatamente echi biblici apocalittici.
Juergen Habermas fu tra i primi, in un discorso alla Fiera del libro di Francoforte dell'ottobre 2001, a individuare nell'11 settembre l'evento che riapriva per tutti, «occidentali» e «antioccidetali», credenti e laici, la questione del rapporto fra religione e secolarizzazione e fra fede e ragione, diagnosticando che da quel momento in poi sempre più saremmo stati costretti a fare i conti non solo con i fondamentalismi estranei alle società secolarizzate, ma con gli elementi di religiosità e di fondamentalismo permanenti e risorgenti al loro stesso interno. Poi venne il suo dialogo con l'allora cardinal Ratzinger, dove fra laici e credenti proponeva la via di un dialogo basato su un «doppio processo di apprendimento» che portasse gli uni e gli altri a riflettere sui limiti delle proprie rispettive tradizioni.
Chiamato nei giorni scorsi a tornare sul tema a Roma, all'interno del convegno su «Religione e politica nella società post-secolare» organizzato dalla società italiana di filosofia politica, Habermas riconferma nella sostanza la sua ricetta, ma cerca anche di sottrarla agli usi «neoguelfi» in cui può incorrere. La sua sottolineatura dei «potenziali semantici» racchiusi nelle religioni, che la ragione post-metafisica dovrebbe imparare a riconoscere e ad acquisire a partire dal proprio stesso indebitamento con la tradizione giudaico-cristiana, può portare acqua al mulino di chi attribuisce alla religiosità non solo una riserva di senso, ma il monopolio del senso nelle società democratiche «disincantate» di oggi. Quella sottolineatura va dunque puntellata in primo luogo rivolgendo alle religioni l'invito complementare a riconoscere e acquisire, a loro volta, «la democrazia, il pluralismo religioso e l'autorità laica della scienza», in secondo luogo ribadendo «la nettezza del confine» fra fede e scienza, in terzo luogo consentendo a una presenza delle chiese nella società civile ma non al loro interventismo politico. Ma soprattutto, cercando di collocare l'attuale fenomenologia della «rinascita della religione» all'interno di un'analisi sistematica delle dinamiche del mondo globale.
Qui Habermas chiude la porta alla tesi ratzingeriana dell'«eccezione» europea, che vede nella compiuta secolarizzazione del vecchio continente una «deviazione da correggere» rispetto a un trend globale di ripresa del ruolo pubblico della religione. Per Habermas, viceversa rispetto al trend della secolarizzazione che è vincente in occidente (Europa, Canada, Australia, Nuova Zelanda), l'eccezione è quella degli Stati uniti, dove la vitalità religiosa ha le sue spiegazioni demografiche (la forte immigrazione da società tradizionali) e sociali (l'insicurezza dovuta alla debolezza del welfare). E anche sul piano globale, la ripresa religiosa (fatta insieme di attività missionarie, fondamentalismi e uso della violenza) non contraddice ma coesiste con il trend inarrestabile della modernizzazione. Ma di una modernizzazione che, mentre unifica il mondo con la forma-merce, i modelli di urbanizzazione, la cultura di massa e il web, contemporaneamente lo divide lungo fratture culturali fra diverse «civiltà», che si scontrano proprio sul senso da dare alla modernità. La «rinascita delle religioni» e del loro uso pubblico va collocata in questo quadro.
Ma questo quadro per Habermas rilancia, pur imponendole alcuni compiti nuovi, la via europea alla secolarizzazione. L'Europa si configura infatti come una società «post-secolare», che deve adattarsi alla «persistenza di comunità regiose in un ambiente sempre più secolarizzato», rinunciando all'antica certezza che la modernizzazione vada di pari passo con la progressiva scomparsa della fede e avviando il dialogo fra credenti e laici nei termini che abbiamo visto. D'altra parte, sul piano globale, lo scontro cultural-religioso attuale non potrà che pervenire anch'esso alla negoziazione di un accordo laico su alcuni principi condivisi di giustizia politica, in cui ogni cultura dovrà prendere la strada di un «autodistanziamento riflessivo» dal proprio orientamento religioso. Va da sé dunque che questo processo prefigura una riconferma della ragione laica e di una democrazia costituzionale laica fondata su presupposti razionali, ma a patto che la laicità sappia anch'essa distanziarsi dagli eccessi di una riserva laicista contro le religioni e limitarsi a «un mite agosticismo».
Qui però i problemi non si chiudono ma si aprono, e prima che sugli esiti del processo sui suoi presupposti. L'analisi habermasiana di una «rinascita» della religiosità in un contesto post-secolare, presuppone una visione delle religioni che ne salvaguarda troppo il profilo di fede originario a fronte della configurazione aggressiva, identitaria e strumentale che esse vanno assumendo oggi. Giacomo Marramao infatti rovescia il paradigma, definendo non post-secolare ma post-religiosa la scena attuale, in cui le religioni non esprimono un'esigenza di fede ma un bisogno di appartenenza e di comunità, fungendo da vero e proprio surrogato dell'ideologia in un mondo in cui la politica, ridotta a volontà di potenza e ad amministrazione, ha ormai abdicato alla funzione che le sarebbe propria di costruire un orizzonte di senso «per la progettazione della vita umana su questa terra». Non tanto di una rinascita religiosa si tratta dunque quanto di una patogenesi dei tre monoteismi, che assumono un ruolo insieme idiosincratico e rassicurante rispetto ai traumi e alle insicurezze indotti dal processo di secolarizzazione tutt'ora in pieno dispiegamento, e costruiscono quelle «comunità immaginate» transnazionali, cementate da pretesi legami di fede e tradizione, che si sostituiscono alle comunità nazionali finite con lo stato-nazione. Le religioni di oggi sono dunque di una fattispecie tutta diversa dal passato, e lungi dall'aprirsi e dal prestarsi al dialogo con la ragione laica irrigidiscono e armano i confini identitari, coprendo con il gergo dell'autenticità i processi reali di ibridazione e contaminazione. Alla ragione laica spetta così, paradossalmente, il compito di salvare la religiosità dalla patogenesi dei monoteismi: se un tempo l'invocazione ultima era «solo un Dio ci può salvare», oggi «solo un uomo può salvare Dio».
D'altra parte, anche guardando agli esiti del processo prospettato da Habermas qualche dubbio disincantato è d'obbligo. Gustavo Zagrebelsky ricorda giustamente le strumentali alleanze in corso fra «una certa tradizione laica, che nulla ha a che vedere con il riconoscimento di valori religiosi rispetto ai quali è indifferente se non beffarda», e la potente capacità delle religioni nel rilegittimare valori tradizionali e reazionari. In Italia ne sappiamo quanto negli Stati uniti, e più che negli Stati uniti vediamo che di compromesso in compromesso la natura del patto costituzionale fra Chiesa e Stato si modifica. Quando sono troppi i campi dell'etica pubblica in cui la Chiesa pretende di avere l'ultima parola, «la lealtà costituzionale della Chiesa diventa un problema», e quando scattano troppi non possumus, il confronto fra fede e laicità diventa inevitabilmente uno scontro. Possiamo cercare di allontanarlo, ma «non possiamo illuderci che la pacificazione definitiva sia a portata di mano. La città degli uomini e la città di Dio, chiunque sia il nostro Dio, non coincideranno mai».
ilmanifesto.it

15.9.07

Il terrore che annuncia la fortuna del mercato

«Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri», la controstoria del neoliberismo di Naomi Klein. L'uso della crisi per imporre la privatizzazione dello stato
Benedetto Vecchi

Una cosa è certa. Naomi Klein, dopo il successo di NoLogo, non è rimasta con le mani in mano. Si è nuovamente messa in viaggio, visitando o vivendo per brevi periodi in Argentina, Brasile, Sudafrica, Cile, Bolivia, Iraq, Sri Lanka, Thailandia, Libano, la Russia e ovviamente Stati Uniti. Da questi paesi ha inviato reportage, intervistato economisti e attivisti per giornali come «The Guardian», «The Nation», «New York Times». Nello stesso tempo ha accumulato informazioni su come stava cambiando il neoliberismo dopo l'attacco al World Trade Center di New York l'11 settembre di sei anni fa. Con il passare del tempo, tuttavia, ha maturato la convinzione che il capitalismo novecentesco presentava forti elementi di continuità ma anche di una grande discontinuità rispetto a quelli che la saggistica contemporanea chiama i gloriosi trent'anni, cioè il periodo di sviluppo economico e sociale seguito alla Seconda Guerra Mondiale che vedeva in molti paesi la forte presenza regolatrice dello stato nell'economia e nella vita sociale.
La continuità era data appunto dal welfare state, seppur nelle diverse traduzioni nazionali che esso ha avuto, e da un rapporto di dominio di alcuni paesi forti nei confronti di altri paesi «deboli», spesso usati come laboratori per spregiudicate politiche economiche che nel potente Nord avrebbero incontrato non poche resistenze da parte delle forze sindacali e politiche del movimento operaio e dagli altri movimenti sociali. Difficile, invece, era delineare le discontinuità. Ed proprio attorno alla discontinuità che Naomi Klein ha focalizzato la sua attenzione.
La costellazione neoliberista
Il risultato è un libro che può essere letto come controstoria del capitalismo contemporaneo e che ha come titolo Shock economy (Rizzoli, pp. 540, euro 20,50). Un titolo, quello scelto per l'edizione italiana, tuttavia meno efficace dell'originale The shock doctrine che introduce subito la tesi del volume: le crisi - economiche o sociali o politiche - e le catastrofi ambientali sono state usate per introdurre le riforme neoliberiste che hanno portato alla demolizione del welfare state.
Il volume conduce inizialmente nel pieno della guerra fredda. In quegli anni il futuro premio Nobel per l'economia Milton Friedman comincia a tessere la sua tela per costruire una rete intellettuale di studiosi a favore del libero mercato. E' un economista brillante, ma le sue proposte a favore della demolizione dell'intervento statale nella società e nell'economia sono ritenute troppo «estremiste» rispetto a quanto fanno le imprese e il governo di Washington. E tuttavia il suo centro di ricerche riceve finanziamenti da fondazioni private e dal governo. Milton Friedman sostiene già allora che le crisi possono essere usate per una «shockterapia» a favore del libero mercato.
Milton Friedman diventa l'agit-prop del neoliberismo, mentre i suoi discepoli sono inviati nel mondo a fare proseliti. Le sue ricette diventeranno poi i programmi di politica economica in Cile, Paraguay, Argentina, Brasile, Guatemala, Venezuela. C'è un piccolo problema. Sono programmi applicati con i carri armati nelle strade e la tortura sistematica nelle prigioni, mentre il numero dei desaparecidos diventa così alto che anche i media statunitensi non lo possono ignorare.
La parte del libro che parla degli anni Sessanta e Settanta racconta di golpe e uso sistematico della violenza contro gli oppositori politici e può apparire un deja vu di storie note da tempo. Ma è proprio sulla prima crisi del neoliberismo che Naomi Klein si sofferma. Il Cile, l'Argentina e il Paraguay sono laboratori che certo fanno arricchire molte multinazionali statunitensi, consentendo loro di appropiarsi di molte materie prima e di aprire nuovi mercati per le loro merci. Una specie di rinnovata accumulazione primitiva dislocata fuori dai confini nazionali. Per questi motivi vale la pena di finanziare, assieme a Washington, il terrorismo di stato cileno, argentino, brasiliano e paraguaiano. Ed è sempre in questo periodo che la rete intellettuale tessuta da Friedman si consolida e allarga allo stesso tempo.
E' impressionante il lavoro fatto da Naomi Klein per ricostruire le carriere politiche, i legami d'amicizia, i rapporti di affari di uomini - da Dick Cheney a Donald Rumsfeld, da John Aschcroft a Domingo Cavallo, da Michel Camdessus a Paul Bremer a Paul Wolfowitz alla famiglia Bush - che passano da un consiglio di amministrazione di qualche multinazionale alla direzione di un think thank neoliberista, da posti di responsabilità in qualche governo agli uffici della Banca Mondiale o del Fondo monetario internazionale.
Quella finora raccontata è storia nota fuori dagli Stati Uniti. Naomi Klein lo sa, ma è consapevole anche che negli Stati Uniti è la storia appresa o svelata solo da una minoranza di attivisti o intellettuali radical. Da qui un'opera di sistematizzazione delle informazioni per raccontare la seconda ondata neoliberista, che ha, come la prima, un apostolo. E' un altro economista, si chiama Jeffrey Sachs, e vuol dimostrare come il libero mercato non sia incompatibile con la democrazia, come invece è accaduto in America Latina. È un vero e proprio «evangelista del capitalismo democratico» e vede nel crollo dell'Unione sovietica e del socialismo reale la migliore opportunità per conciliare la democrazia con le «leggi naturali» del business. Consiglia, ascoltato, la Polonia di Lech Walesa e la Russia di Boris Eltsin di una deregulation radicale delle loro economie. La sua ricetta sarà un fallimento, ma è a questo punto che la «shockterapia» trova un valido alleato nel Fondo monetario internazionale, oramai epurato da qualsiasi presenza di economisti legati ancora alle teoria di Lord Maynard Keynes. Il debito sarà l'arma vincente dei neoliberisti, che concederanno prestiti solo a condizione di una completa deregulation dell'economia. È il cosiddetto Washington consensus con il suo corollario di «programmi di aggiustamento strutturale». Come in passato le multinazionali faranno affari d'oro, ma Sachs come altri «evangelisti del libero mercato» sostiene che ora tocca a tutte le attività produttive o i servizi sociali gestiti dallo stato a dovere essere messi in vendita, anche a costo di sacrificare centinaia di migliaia di posti di lavoro sull'altare della competitività internazionale. La povertà, continuano a ripetere, è un effetto collaterale che sarà però tolto di mezzo dalla mano invisibile del mercato.
La «shockterapia» si nutre ormai di strategie di marketing, propaganda e falsificazione dei dati, miranti a dimostrare che il libero mercato è l'unica strada per sfuggire al declino economico e alla povertà di massa. E il consenso deve essere però conquistato con le elezioni, anche se questo può rallentare le «riforme».
La politica woodoo
Per rimuovere questo intoppo c'è una strategia ben affinata durante la «guerra del debito» in America Latina: creare il panico e poi fare pressioni affinché vengano adottate «terapie» economiche neoliberiste. La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale sono quindi le istituzioni sovranazionali adatte all'obiettivo di limitare la sovranità popolare e esautorare i governi nazionali da qualsiasi autonomia decisionale. I programmi economici sono dunque stilati a Washington, ma la loro applicazione in loco è garantita da personale politico «fedele alla linea». Naomi Klein documenta come anche le crisi asiatiche degli anni Novanta hanno visto protagonisti il Fmi e la Banca mondiale, che hanno sapientemente orchestrato la crisi finanziaria per demolire qualsiasi presenza statale in economia. E quando la Thailandia, Filippine, Malaysia, Indocina e Corea del Sud capitoleranno di fronte al Fmi, un chicago boys scriverà un commento sul Financial Times in cui paragona la rivoluzione del libero mercato in Asia a una «seconda caduta del Muro».
In America Latina la situazione è diversa. Le dittature crollano una dopo l'altra e salgono al potere molte coalizioni di centrosinistra. E' il tempo, afferma Naomi Klein, della politica woodoo, caratterizzata da programmi elettorali keynesiani e successive politiche economiche rigidamente neoliberiste.
La matassa ingarbugliata che Naomi Klein pazientemente srotola illumina non tanto un comitato d'affari della borghesia, ma un trust di imprese che ha come business lo svuotamento dello stato di ogni funzione, compresa quella della guerra. E' la nascita dello «stato corporativista», come lo definisce l'autrice, dove una ristretta élite passa da un'impresa a cariche pubbliche senza nessun rispetto delle norme liberali contro il conflitto di interessi. Il «capitalismo dei disastri» deve tuttavia continuamente rinnovare l'insicurezza sociale. L'11 settembre è da questo punto di vista una manna per i neoliberisti. La «guerra al terrore» diviene così la retorica dietro cui offuscare la svendita della difesa nazionale alle imprese private e il pieno controllo del petrolio.
Con l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq il warfare, cioè l'uso della guerra per rilanciare l'economia, è elevato a sistema, perché la guerra al terrore è una guerra totale che coinvolge non solo il settore militare ma tutta la società. Illuminante è, a questo proposito, il capitolo che la giornalista canadese dedica a Israele, individuando nello sviluppo dell'industria hig-tech della sicurezza e nell'arrivo dei ebrei dell'Europa dell'est dopo la caduta del Muro di Berlino due delle chiavi interpretative, centro non le uniche, del passaggio da un'ipotesi di pace con i palestinesi alla funerea passeggiata di Ariel Sharon nella spianata delle moschee che dà il via alla seconda Intifada. I profughi dell'est europeo possono sostituire la forza-lavoro palestinese a basso prezzo, mentre le imprese high-tech possono offrire le loro merci al mondo intero, visto che la guerra al terrore è la guerra della civiltà occidentale contro i suoi nemici.
L'economia della catastrofe
Quando Naomi Klein comincia ad analizzare gli effetti devastanti dell'uragano Kathrina e dello Tsunami, scopre che anche qui le catastrofi sono utilizzate dal Fmi come mission creep, cioè espansione indebita di una missione, in questo caso della macchina pubblica. Gli ultimi baluardi dello stato come garante della convivenza sociale sono messi sotto attacco. New Orleans è diventato il laboratorio di questo ulteriore privatizzazione dello stato. Così come lo Tsunami viene utilizzato per trasformare alcune ragioni o nazioni (Sri Lanka, Thailandia e Maldive) nel club vacanze delle élite globali.
Il capitalismo dei disastri è così narrato. Naomi Klein, così come aveva fatto con NoLogo, non vuol costruire una teoria sullo sviluppo capitalistico. È un'ottima mediattivista e giornalista investigativa che si pone sempre la domanda giusta: come organizzare la resistenza al neoliberismo. Certo la sua difesa del welfare state può apparire ingenua, ma quando comincia ad elencare cosa fanno e cosa propongono i movimenti sociali il suo è un keynesismo che apre le porte all'autogoverno da parte dei movimenti sociali e a una democrazia radicale.
Shock economy è dunque un libro ambizioso, perché vuol fornire una mappa del «capitalismo dei disastri». È certamente un affresco sulla riorganizzazione del capitalismo dopo l'11 settembre e comincia a individuare i suoi punti di forza, le imprese leader che stanno emergendo, la sua vocazione globale. Ma individua anche i suoi punti deboli. È cioè una mappa utile da leggere anche per prepararsi e resistere alla prossima ondata di shockterapia, alimentata dalla prossima catastrofe ambientale o dalla prossima tappa della guerra preventiva. O dall'annunciato e italianissimo taglio alle spese sociali per contrastare il declino economico
ilmanifesto.it

13.9.07

I terribili Simpson siamo noi e una risata ci sepellirà

Arriva nelle sale italiane il film del popolare cartoon. Un capolavoro di umorismo amaro

Da anni sono gli unici che riescono a tenere tutta la famiglia davanti alla tv
Va oltre l´antipolitica verso uno stadio più avanzato di dissoluzione sociale
Esce domani il primo film di un cartoon ormai globalizzato

L´egemonia culturale della famiglia Simpson

CHE i Simpson siano uno dei capolavori della cultura pop di tutti i tempi lo pensiamo in parecchi. Un successo planetario raggiunto "nonostante" l´altissima qualità della satira di Matt Groening e del suo staff. E, per noi fan più stagionati, uno dei pochi momenti di comunione intellettuale con i figli adolescenti, perché i Simpson (miracolo!) riescono a tenere insieme la formidabile, nevrotica velocità del racconto televisivo e il peso specifico di una critica sociale raffinata e molto ma molto "scritta".

Capita così che, guardando insieme i Simpson, noi genitori dobbiamo farci spiegare dai figli le battute troppo veloci, che sfuggono ai nostri lenti neuroni, mentre i figli chiedono ai genitori ragguagli sulle allusioni politiche e storiche che sfuggono alla loro breve esperienza. Probabile, dunque, che il primo film dei Simpson (che approda da domani nei cinema italiani) riesca a ricostituire nelle sale lo stesso, non comune mix di adulti e ragazzini che già si raduna, da anni, davanti al video. "Famiglia", del resto, è un concetto molto simpsoniano. Oltre a essere la ragione sociale dei cinque solisti Homer, Marge, Bart, Lisa e Maggie (padre, madre e tre figli), è anche la sola forma di aggregazione e sostegno che regge nella esilarante ma mostruosa America nella quale vivono i Simpson.
Nel film questo elemento è ancora più avvertibile. Per usare i (piccoli) parametri di casa nostra, diciamo che siamo ben oltre la cosiddetta antipolitica. In uno stadio molto più avanzato di dissoluzione sociale. Perché se il potere (economico e politico) è sistematicamente raffigurato come un insieme di paranoici, di imbecilli e di corrotti, il popolo non è certo migliore. È una folla avida e meschina, manipolabile dai media e dalla pubblicità. Pronta a linciare il vicino di casa o a riconoscerlo salvatore del mondo nel giro di un equivoco, di un sospetto, di una fola. Chi ama i Simpson ride molto, e ride amaro, non solamente alla spalle del Palazzo (pratica, questa, molto comoda e dunque molto seguita qui in Italia), ma anche alle spalle dell´uomo della strada, in genere una piccola canaglia che inveisce contro le grandi canaglie del potere: la differenza è solo di calibro, non di qualità. I cinque Simpson, dunque, sono costretti a confidare solamente in loro stessi, come naufraghi di una catastrofe antropologica che si aggrappano alla famiglia non perché la "amino", o ne percepiscano una qualche superiorità etica, ma solo perché è l´ultima zattera disponibile. Un´Arca scalcinata, comicamente inadeguata, dopo il diluvio che ha sommerso ogni altro vincolo sociale. (E vengono in mente Vonnegut, Palahniuk, e parecchia altra letteratura americana degli ultimi decenni).
Detta così, la morale del film, e dell´intera saga dei Simpson, rischierebbe di essere quasi ratzingeriana: in una società mostrificata dal consumismo e dal cinismo, la famiglia è l´unica salvezza. Ma il bello dei Simpson (e anche il brutto, a pensarci bene) è che l´allegria satirica non si ferma davanti ad alcuna "moralità". La famiglia Simpson non ha proprio niente d´immune o di "diversamente etico". Il capofamiglia, lungi da essere un modello, è un cialtrone bulimico, schiavo della televisione, il figlio maschio un analfabeta etico, esibizionista e sbruffone, la figlia Lisa una petulante caricatura del moralismo politicamente corretto, l´eterna neonata Maggie un fagotto trascurato. Forse solo la madre, la malinconica Marge, può apparire custode di qualche tabernacolo affettivo. Sopportare Homer, la sua pancia sconciamente esposta, i suoi rutti e la sua inettitudine sociale è di per sé un atto di eroismo. Sì, è la madre la vera eroina della situazione: ma quanto valga battersi per una famiglia che si alimenta di tutti i peggiori miti e vizi del consumismo, succube della propria mediocrità, è una risposta che la satira, per fortuna, non vuole e non deve porsi.
Magari, dopo avere molto riso (il film è un capolavoro di umorismo: sceneggiatura e dialoghi non perdono mezzo colpo), qualche domanda possiamo farcela noi. I Simpson hanno ottenuto un clamoroso successo planetario, di pubblico e di critica, mettendo in ridicolo (e per questo sono detestati dalla destra americana) tutti o quasi i presupposti dell´Impero: il patriottismo, il sogno americano, il merito economico, lo zelo religioso come pretestuosa ragione di superiorità. E perfino il solido e glorioso mito dell´Individuo onesto e coraggioso, che rimane integro e in virtù di questa integrità può salvare il mondo, nel film è fatto a pezzi: a innescare il disastro ambientale che sta per distruggere il pianeta è proprio Homer, l´americano medio (l´Alberto Sordi degli States, potremmo dire), il cui stile di vita è di per sé un attentato alla logica prima ancora che all´ecologia.
Infine, dunque, se possiamo rintracciare un bandolo "etico" nel notevole piacere che ci dà vedere i Simpson (se, cioè, non vogliamo dirci definitivamente cinici, e rassegnati), ebbene il bandolo può essere proprio questo: nessuno è assolto, nessuno è immune, tutti siamo coinvolti. Imparando a ridere prima di tutto di noi stessi, della nostra bulimia e del nostro egoismo, della nostra stupidità di sudditi; e finendola, una volta per tutte, di pensare di essere solamente vittime del Potere: solo allora riusciremo a capire in che mondo viviamo, di quale pazzia siamo affetti, di quante responsabilità siamo carichi. Non è vero che "una risata vi seppellirà". Semmai, una risata "ci" seppellirà. È molto diverso. Ed è la ragione profonda per la quale vado matto per i Simpson.
cinemagay.it

Quelle dispute attorno al divenire della critica al capitalismo

Percorsi di ricerca che si intersecano per poi divaricarsi all'interno di quella «crisi del marxismo» tratteggiata da Louis Althusser. Da una parte una teoria sulla «contigenza», dall'altra la continuità tra vita e politica
Roberto Ciccarelli

Ci sono dispute intellettuali che non sono mai cominciate. Quella che Alain Badiou, filosofo, drammaturgo e matematico, professore emerito alla Normale di Parigi avrebbe desiderato avere con Gilles Deleuze è una di queste. Questa strana categoria dell'incontro mancato, lo scrivere con qualcuno senza che questo qualcuno abbia mai manifestato un desiderio in tal senso, è diventata teoria, e rivendicazione di un rapporto esclusivo da parte di Badiou, ne Il clamore dell'Essere (tradotto da Einaudi nel 2004), un libro tanto smilzo, quanto provocatorio, pubblicato nel 1997. In quelle pagine Badiou ha rivelato che Deleuze, con il quale aveva intrattenuto un epistolario, arrivò nel 1994 a distruggere tutte le lettere che gli aveva scritto, proibendogli ogni pubblicazione (promessa solo in parte mantenuta). Quel forte gesto simbolico riassumeva molte cose: un taglio netto con chi nei primi anni Settanta lo aveva definito «fascista» per la sua filosofia «anarco-desiderante» (che oggi Badiou ammette, per sua e nostra fortuna, che non rappresenta affatto Deleuze). Un'accusa infantile che Deleuze a sua volta tacciò di «suicidio intellettuale».
Un corsivo di commiato
Alla fine degli anni Ottanta Badiou si rese conto che la sua ricerca convergeva con quella di Deleuze. Entrambe rifiutavano le retoriche sulla «fine della filosofia»; si battevano contro i golpisti viennesi che avevano preso il potere nelle università americane introducendovi il credo della filosofia analitica; entrambe erano «fedeli» al marxismo.
Timide, al limite della freddezza, furono le risposte di Deleuze: prima un biglietto per un volume di Badiou nel 1982 (Théorie du Sujet) al quale Badiou rispose con una lunga recensione al libro di Deleuze su Leibniz nel 1989. Poi un segnale più deciso nell'ultimo libro scritto nel 1991 con Félix Guattari Che cos'è la filosofia?. In un corsivo si legge che nel pensiero di Badiou c'è un tentativo di restaurare l'anacronistico primato della filosofia sulla scienza, di restaurare la partizione dell'«Essere» secondo l'«Uno» e il «Molteplice», quando invece l'«Essere» si dice in un solo e medesimo senso, quello delle molteplicità e delle singolarità.
La ricerca delle fonti
Instancabile, anche se con moderata sensibilità auto-critica, Badiou ha continuato a coltivare negli anni successivi un confronto che il suo interlocutore gli ha negato in vita, in particolare sulla teoria delle molteplicità e sull'interpretazione del pensiero matematico. Lo testimonia questa antologia di scritti edita da Ombre Corte.
Tutto parte dalla critica che Badiou muove agli «allievi» di Deleuze, accusandoli di non avere mai preso sul serio, e indagato a fondo, le sue fonti: Spinoza, Nietzsche, Bergson, e Whitehead. Curioso, poi, constatare che l'unico che dice di averlo fatto sia lo stesso Badiou il quale, dopo un'analisi sommaria e liquidatoria, ha concluso che in realtà tutti questi autori non hanno fatto altro che rafforzare il platonismo di Deleuze. È questa la tesi che non tardò a suo tempo a sollevare l'indignazione generale. Colui che ha attribuito alla filosofia il compito di «rovesciare il platonismo», un platonico? Per Badiou, Deleuze era proprio un platonico inconsapevole.
Il tono polemico con cui Badiou ha risposto alla critiche della sue tesi sul platonismo di Deleuze non è dettato solo dal fastidio di non avere rispettato la filologia dei tesiti deleuziani. Nel suo caso, infatti, non si tratta solo di una vanità ferita. Il merito della contesa è il giudizio sulla politica di Deleuze.
Oggi si può dire che Deleuze sia stato l'unico teorico novecentesco a pensare la politica al di là del binomio rappresentanza-rappresentazione, quel vincolo teologico-politico che ha incatenato la modernità davanti all'alternativa Schmitt o Kelsen: da una parte il decisionismo, dall'altra parte il normativismo. Badiou ha abbracciato il paradigma decisionista, declinando Schmitt con Lenin per arrivare ad una teoria della «contingenza» politica. Quando Badiou sostiene che in Deleuze manca una «teoria» della politica che vada oltre la mera analisi del capitalismo ha ragione e torto insieme. Ragione perché l'analisi del capitalismo non genera automaticamente una teoria della politica, casomai una critica dell'economia politica, che è altra cosa, anche se certo non estranea ad essa. Torto perché, se teoria della politica deve esistere, non è detto che sia improntata sempre al decisionismo.
A Badiou sfugge infatti il fatto che Deleuze abbia tentato la decostruzione di tutti i presupposti teologici, occasionalistici e generalmente metafisici sui quali si è retta una parte cospicua della teoria politica novecentesca. E va detto che la critica del potere e l'analisi del «divenire minoritario» delle lotte rappresentano quanto di meglio tra gli anni Settanta e gli anni Novanta è stato prodotto in sede di teoria della politica dopo la crisi del marxismo (quella per intendersi descritta da Louis Althusser) e, più in generale, dell'idea di «soggetto» politico antagonista.
Il presente inafferrabile
Sebbene la tesi del Plato Redivivus resista caparbia nel corso dei sette articoli raccolti in questa antologia, non è detto che Badiou non abbia tuttavia avvertito l'esigenza di una nuova interrogazione del pensiero deleuziano alla luce della necessità di coniugare la singolarità politica con una nuova definizione dell'universale rispettoso delle differenze.
Su questo punto Badiou centra il bersaglio e raccoglie in tre massime ciò che Deleuze dice al nostro presente: eludere il controllo (massima negativa), credere nel mondo (massima soggettiva), partecipare agli eventi (massima creativa). Che significa: il nuovo non ha il sapore dell'antico, ma si produce nella vita, nei concetti, negli affetti. Quale migliore viatico etico-politico per una politica immobile. Basterebbe poco a fare un gioco diverso da quello dominante, piuttosto che continuare ad ingrossare i Pantheon di partito ed evocare «culture politiche» che non ci sono. Ogni epoca ha il suo gusto. La nostra, quello necrofilo.
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Riflessioni fuori dalla zona grigia

Silvia Calamandrei

Con A ferro e fuoco Enzo Traverso offre un ambizioso compendio di riflessione sul revisionismo storico interpretando la prima metà del «secolo breve» in chiave di guerra civile. L'autore riprende, rovesciandolo, il concetto elaborato dal primo teorico del revisionismo storico, Ernst Nolte, per dar conto di un'età di guerre, rivoluzioni e controrivoluzioni in cui i valori della democrazia liberale sono in profonda crisi. Rivisita dunque gli eventi non dal punto di vista delle «vittime» o della «zona grigia», ma degli attori, vincitori e vinti che si richiamano a ideologie «totalitarie» oggi condannate.
Traverso è perplesso di fronte alla valorizzazione della «zona grigia» con i criteri del XXI secolo, per cui gli unici veri eroi sono gli Schindler autori di gesti umanitari. Rimette al centro la guerra civile che ha spaccato l'Europa contrapponendo frontalmente fascisti e antifascisti e per definirla si rifà al controverso Carl Schmitt di Ex captivitate salus (1947), non mancando di rilevarne l'affinità con il Trotskij di Terrorismo e comunismo. E rimette in questione anche la posizione di osservatore super partes dello storico, rivendicando il proprio punto di vista per cui ricordare le atrocità commesse dai repubblicani spagnoli non significa metterli sullo stesso piano dei franchisti. La dimensione è quella del «ciclo» braudeliano a cui Traverso si richiama: «Il concetto di guerra civile europea non designa né un avvenimento né una tendenza secolare, ma appunto un ciclo in cui una catena di avvenimenti catastrofici - crisi, guerre, rivoluzioni - condensa una mutazione storica le cui premesse si sono accumulate, nella lunga durata, nel corso del secolo anteriore». Già due altri storici hanno utilizzato il concetto, con punti di vista opposti, Hobsbawm e Furet, l'uno per sostenere che quella guerra civile andava combattuta e che ha salvato l'Europa, l'altro per sostenere che era meglio «restare fuori della mischia».
L'autore rimette al centro i grandi dilemmi, nella loro tragicità: lo «stato d'eccezione» a cui si richiamano il decisionismo di Schmitt e il nichilismo messianico del Benjamin del Frammento teologico-politico, «due teologie politiche che si affrontano sulla base di una diagnosi comune - la crisi del presente, la necessità di prendere una decisione per uscirne - formulata a partire delle medesime categorie analitiche, ma che sfocia in terapie politiche opposte: rivoluzione e controrivoluzione». Il dialogo anche epistolare tra i due si interrompe negli anni '30, con l'ascesa di Hitler al potere; e Traverso evidenzia la contemporanea rottura nella cultura politica tedesca tra Heidegger e i suoi discepoli di sinistra, e tra Schmitt e Neumann e Kirchmeier.
Più problematica è la ricostruzione di Traverso del dilemma etico di fronte ai processi di Mosca degli anni '30, che vede contrapposti da un lato Victor Serge e John Dewey e dall'altro Trotskij. Dewey presiede una commissione d'inchiesta su quei processi, ivi comprese le imputazioni che erano state rivolte all'esule Trotskij, e pubblica le conclusioni con una prefazione di Serge, che ha conosciuto la realtà dei gulag. Il libertario e il liberale concordano nella condanna degli esiti aberranti della rivoluzione russa scorgendo nelle sinistre messe in scena di Viscinskij la prova del suo fallimento. È paradossalmente Trotskij, con l'opuscolo La loro morale e la nostra, ad ergersi a difensore della violenza bolscevica contro ogni condanna in nome di principi morali universali, sostenendo che «la guerra civile, forma culminante della lotta di classe, abolisce violentemente tutti i legami morali tra le classi nemiche». Stalin è condannabile come «termidoriano», ma non per i metodi: l'opuscolo fornisce un'apologia del terrore rivendicando le misure prese durante la guerra civile, molte personalmente da Trotskij medesimo.
Nella loro risposta Dewey e Serge prendono le distanze da Trotskij e vedono nei metodi bolscevichi il germe della degenerazione stalianiana. Secondo Traverso, se è vero che in Serge troviamo la testimonianza di uno «spirito antitotalitario» e in Trotskij la difesa della propria biografia politica, sono però «le tesi dell'ex capo dell'armata rossa quelle che restituiscono meglio lo spirito della guerra civile, con la sua morale ed i suoi eccessi». Per Traverso «Trotskij resta una figura enigmatica, al tempo stesso dittatore inflessibile e rivoluzionario perseguitato. La sua prosa è ritmata dal soffio di un'età di ferro e di fuoco».
Interessante infine la breve incursione di autobiografia generazionale dell'autore nell'introduzione, a proposito degli anni Settanta, e dei residui ideologici della lunga stagione della guerra civile che si reimpastano nei conflitti di una società avanzata, riproponendo modelli del passato e originando anche le derive tragiche del terrorismo. È l'esito dell'89 che secondo Traverso rimette tutto in discussione, consegnando «questi dibattiti strategici all'arsenale ideologico di un secolo ormai chiuso» ed esigendo un radicale ripensamento delle strade per «cambiare il mondo».

ilmanifesto.it

12.9.07

Finzioni nate dalle macerie

Nonostante sei anni siano pochi, è considerevole il numero degli autori che hanno raccolto la sfida di raccontare in chiave romanzesca l'attacco alle Torri. Da Amis a McEwan, da Updike a DeLillo, da Ken Kalfus a Claire Messud. Ma la prova migliore è di Cormac McCarthy con «La strada», che oggi esce da Einaudi Forse sarà un caso, ma il primo romanzo a contenere un riferimento diretto all'attacco al World Trade Center lo ha scritto un autore di fantascienza
Tommaso Pincio

Nei giorni in cui l'America si preparava a rispondere all'attacco subito l'11 settembre 2001, cominciò a circolare una barzelletta un po' becera. In un futuro prossimo venturo un uomo porta il figlio a visitare Ground Zero. «Qui sorgevano le Torri Gemelle un tempo» spiega l'uomo al figlio. «Poi sono venuti certi arabi cattivi che hanno distrutto quei bellissimi grattacieli sbattendoci contro con due aerei rubati». Il bambino guarda il monumento che ricorda il tragico fatto, rimane un attimo assorto e poi domanda: «Papà, chi sono gli arabi?» Ovviamente, nessuno, nemmeno sull'onda dell'emozione, osò asserire che i musulmani andassero sterminati. Tuttavia eventi del genere mettono in campo dosi di emotività incalcolabile e la barzelletta rifletteva una più che serpeggiante sete di vendetta. In un articolo comparso sul finire di quell'anno, Don DeLillo - uno fra i più compassati scrittori contemporanei - affermava che quanto «accaduto ha contaminato, psicologicamente, l'aria che respiriamo» e invitava a immaginare «migliaia e migliaia di persone che si accalcano astiose giurando vendetta».
Inventare storie è immorale?
Raccontare può rivelarsi un'impresa improba quando la mente è soggiogata dai sentimenti. La narrativa, inclusa quella più visionaria, esige un minimo di logica, la capacità di poter allontanarsi quel tanto da dominare nella sua interezza e da più lati l'oggetto del racconto. Non per nulla, con una delle sue tipiche iperboli, Martin Amis dichiarò che «il 12 settembre, dopo essere stati un paio d'ore seduti alla scrivania, tutti gli scrittori della Terra avevano considerato, seppure controvoglia, la possibilità di cambiare mestiere».
La parola chiave è controvoglia. Come è naturale, gli scrittori desiderano che la propria opera rappresenti in maniera adeguata l'epoca alla quale appartiene. Accade dunque che di fronte a eventi di tali proporzioni, persino gli autori più inclini alla finzione vacillino. Si fa strada in loro il dubbio che forse c'è qualcosa di davvero immorale nell'inventare storie. Sono scossi da un rigurgito di realtà, per così dire, una rinnovata voglia di affacciarsi fuori della finestra per guardare e descrivere sciagure. Al riguardo, Ian McEwan dichiarò che si era stancato di confrontarsi con personaggi inventati. «Volevo che mi si parlasse del mondo. Volevo essere informato. Avvertivo di essere passato attraverso grandi cambiamenti e adesso era tempo di tornare a scuola». Da tanta voglia di imparare è scaturito Sabato (Einaudi, pp. 292, euro 17,50), romanzo nel quale l'angoscioso retaggio dell'11 settembre fa da sfondo a una giornata quasi qualunque di un neurochirurgo londinese di mezza età.
Nonostante il tempo trascorso sia relativamente poco, il numero degli autori che si sono cimentanti nell'improba sfida di raccontare in chiave romanzesca i non ancora metabolizzati eventi dell'11 settembre è considerevole. Martin Amis ha voluto osare più degli altri con Gli ultimi giorni di Mohammed Atta, comparso su «New Yorker» nel 2006. Per la sua brevità - è infatti un racconto - questo viaggio nella mente dell'uomo che fu alla testa del commando responsabile dell'attacco alle Torri Gemelle è però più una provocazione infarcita di stereotipi sulla cultura islamica che un vero tentativo di immedesimarsi nelle motivazioni di un terrorista.
Una prospettiva analoga ma di gran lunga più elaborata guida la storia del giovane Ahmad proposta da John Updike nel Terrorista (Guanda, pp. 293, euro 13,50). Sangue misto, figlio di una madre di origine irlandese e un padre egiziano datosi alla macchia, incapace di intrattenere rapporti con i coetanei, Ahmad è un alienato tra gli alienati. L'avvicinamento all'islam e il successivo progetto di far saltare in aria il Lincoln Tunnel di New York vengono descritti da Updike come l'estremo prodotto di una cultura che reagisce col delirio al proprio inesorabile declino.
Fin da subito gli scrittori americani hanno visto nell'11 settembre non una semplice aggressione da parte di una civiltà nemica - l'asse del male, come lo ha definito l'amministrazione Bush - bensì il segnale eclatante che qualcosa fosse sbagliato, o comunque corrotto, in quello stile di vita americano che in Falling Man, l'ultimo romanzo di Don DeLillo, viene chiamato il «cuore narcisistico dell'occidente». D'altra parte, già dai tempi in cui Conrad dava alle stampe L'agente segreto, ovverosia all'inizio del secolo scorso, il terrorismo è stato letto come una minaccia al sistema sociale centrato sul benessere della borghesia, il cosiddetto ceto medio di oggi.
Per un curioso scherzo del destino, appena una settima prima dell'11 settembre 2001 uscì negli Stati Uniti Le Correzioni, nel quale Jonathan Franzen mise in scena, con risultati peraltro notevoli, l'eterno dramma del sogno americano contrapposto al suo malriuscito doppio, la vita reale, per l'occasione simbolizzata dall'estinguersi di uno dei tanti focolari domestici di questo grande paese, una famiglia middle class come ce ne sono tante nel Midwest. A fare da cardine era per l'appunto il termine «middle». Le correzioni è infatti una totalizzante immersione nel cuore di quel vivere «normale» per cui la dissoluzione della famiglia quale microcosmo compatto e indissolubile è avvertito con la gravità di una tragedia greca, sebbene le Casalinghe disperate fossero ormai dietro l'angolo. Logica vorrebbe che all'indomani di una catastrofe epocale, il pubblico se ne freghi di un romanzo su una famiglia qualunque. C'era il rischio che quella di Franzen restasse fatica sprecata e invece, grazie anche alla conduttrice televisiva nonché opinion-maker più ascoltata d'America, Oprah Winfrey, Le Correzioni è diventato uno dei più grandi bestseller della storia recente e un classico della letteratura contemporanea.
È oltremodo significativo che quasi tutti gli autori che si sono confrontati con l'11 settembre abbiano partorito romanzi in cui viene ricalcato il modello familiare delle Correzioni. Ken Kalfus, per esempio, interessante scrittore che finora aveva prediletto trame e contesti non convenzionali, pensò bene di immergersi in un bagno di quotidianità con la trita storia del fallimento di una coppia, una guerra tra lui e lei. Lui dovrebbe recarsi alle Torri Gemelle, dove lavora, ma fa tardi per flirtare con la maestra d'asilo della figlia. Lei dovrebbe prendere un aereo per San Francisco, ma il destino le risparmia di schiantarsi insieme agli altri passeggeri in Pennsylvania. Lui gioirà nell'intimo per il grande attentato terroristico della storia confidando che lei sia morta, lei farà altrettanto. È Uno stato particolare di disordine (Fandango, pp. 269, euro 18), quello descritto da Kalfus, dove regna l'incapacità di trovare un equilibrio tra la microsfera dei fatti propri e il grande palcoscenico dell'umanità. Una incapacità ormai cronica, degenerata; tanto che per risolvere una squallida questione di divorzio si auspica l'apocalisse.
Il quadretto dell'ultimo DeLillo è praticamente lo stesso: coppia in crisi sullo sfondo dell'11 settembre. E qui non si può fare a meno di notare che l'autore si era già cimentato nel tema quasi due decenni prima. La differenza è che in Rumore Bianco la catartica catastrofe della nube era un evento immaginario e il tutto appariva paradossalmente meno forzato. Sarà dunque un caso che Pattern Recognition (ovvero L'accademia dei sogni, Mondadori pp. 357, euro 8,40), il primo romanzo in assoluto a contenere un riferimento diretto all'11 settembre, lo abbia scritto nel 2003 un autore di fantascienza, William Gibson? La protagonista, una ragazza che si guadagna da vivere grazie alla sua idiosincrasia per i logo, ha infatti perso il padre a Manhattan proprio in quel giorno.
Se ne potrebbe dedurre che, quando il tempo trascorso è ancora breve, il realismo non sia lo strumento migliore per raccontare la storia. Tanto il romanzo di Kalfus che quello di DeLillo hanno un che di artificioso, ottenendo alla fine effetti opposti dalle intenzioni degli autori. Più credibile e umanamente vero pare Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, pp. 381, euro 18) dove Jonathan Safran Foer sceglie di osservare a ritroso il dramma delle Torri Gemelle attraverso gli occhi di un bambino figlio di una delle tante persone che si gettarono nel vuoto per sfuggire alle fiamme.
Di livello ancora superiore è un libro da noi passato ingiustamente quasi inosservato, I figli dell'imperatore di Claire Messud (Mondadori, pp. 493, euro 18,50): intorno a un fascinoso giornalista liberal di mezzà età, guru della scena culturale newyorchese, orbita una serie di personaggi tanto glamour quanto velleitari, che danno vita a una dark comedy il cui sipario cala per l'appunto l'11 settembre.
Il romanzo più riuscito
Al momento però la prova migliore in assoluto l'ha data Cormac McCarthy. Quantunque La strada (in uscita oggi per Einaudi nella bella traduzione di Martina Testa, pp. 218, euro 16,80) possa ascriversi al genere della fantascienza apocalittica, è praticamente impossibile non leggerlo come una cupa metafora della sindrome di quel giorno dopo. Finora McCarthy si era distinto come il supremo cantore di un'America delle origini dove gli uomini sono feroci e affettuosi come animali e su tutto domina una natura incontaminata. Il mondo di questo romanzo è invece una irriconoscibile e desolata distesa di cenere, l'America all'indomani di una catastrofe nucleare. Qualcuno ha voluto leggervi una sorta di rifacimento letterario di Night of the Living Dead, e in effetti in una delle rare battute di dialogo il protagonista pronuncia parole che suonano come un esplicito richiamo al film di George Romero: «Noi non siamo i sopravvissuti. Siamo i morti viventi di un film dell'orrore».
McCarthy non è mai stato un grande tessitore di intrecci, mai come in questo romanzo, però, la trama - semmai di trama di possa parlare - è ridotta al nulla. Un uomo e suo figlio avanzano in questa terra di cenere in cerca di cibo e di riparo dalle bande di cannibali. Non c'è trama perché i due non hanno alcun posto dove andare.
Camminano ma la loro unica metà è sopravvivere. La sola cosa che impedisce loro di rannicchiarsi in un anfratto e lasciarsi morire è l'affetto che li lega. «Il mio compito è quello di prendermi cura di te», dice il padre al figlio, «e mi è stato assegnato da Dio. Ucciderò chiunque osi toccarti».
Notizie dal mondo che fu
Per la sua scarnificata struttura, più che un romanzo La strada ha l'andamento di un tenebroso poema in prosa sull'amore filiale quale estrema fonte di senso. Ma è anche altro: una riflessione sul valore della memoria e del raccontare. L'assunto di partenza, in fondo, è lo stesso della becera barzelletta in cui il figlio chiede al padre chi sono gli arabi. Anche il bambino di McCarthy non sa nulla del mondo di prima. Il padre che ne serba il ricordo cerca di tramandargli questo patrimonio ogni qualvolta si imbattono nei resti del tempo che fu: vecchi giornali che riportano «strane notizie», lattine di Coca-Cola rimaste miracolosamente intatte. Un uomo e un bambino, le cose che c'erano e quelle che ci sono. La strada è questa, e non è una barzelletta. Riguarda il modo in cui va il mondo, da sempre, tanto l'11 settembre che qualunque giorno della storia dell'umanità.
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La seconda guerra dei trent'anni nell'Europa del secolo breve

«A ferro e fuoco» di Enzo Traverso. La critica alla mitologia sul «secolo delle ideologie assassine» e al conformismo retrospettivo di molti studiosi che hanno elevato la condanna morale dei «totalitarismi» all'analisi storiografica
Gianpasquale Santomassimo

La prima metà del secolo scorso, e più precisamente i trentun anni che vanno dallo scoppio della prima guerra mondiale alla fine della seconda, sono da tempo i più assiduamente presenti e ricorrenti nella storia, nella memoria, nell'immaginario collettivo. Il nocciolo duro del Novecento, che proietta senso e immagine sull'intero secolo trascorso, che in quella luce diviene una sorta di buco nero della storia, il «secolo delle ideologie assassine», della violenza, degli stermini e dei genocidi. Ci sarebbe molto da discutere sulla congruità di questa rappresentazione spontanea o indotta, che sacrifica o mette nell'ombra tutti i risvolti di quel grande secolo non riassumibili attraverso quel canone interpretativo; come pure su senso e limiti della effettiva centralità di quel breve periodo nella vicenda novecentesca.
Sta di fatto che esso ci appare il periodo più vicino e più lontano, vicino nell'evocazione quasi quotidiana e obbligata, distante nella logica e nelle mentalità. È pur vero che la sua aura è sopravvissuta a lungo nel linguaggio e nelle categorie, piegate a raffigurare realtà vecchie in contesti nuovi e diversi (rivoluzione, controrivoluzione, tattica, strategia, fascismo, bolscevismo, partito); ma la sua ormai irrevocabile distanza non sembra aver favorito il consolidarsi di una prospettiva storica. L'intento di Enzo Traverso nel suo A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945 (Il Mulino, pp. 273, euro 23) è appunto quello di storicizzare in forma analitica e ragionata un mondo che malgrado la frequenza ossessiva dei richiami storici sta di fatto diventando inafferrabile nella sua logica.
Oltre il prisma del totalitarismo
Questo è tanto più necessario dopo un «ventennio di regressione storiografica» nel quale, secondo Traverso, «abbiamo fatto indigestione di versioni anticomuniste del Breve corso di storia del Pcus», e dove la condanna si è sostituita all'analisi («la nostra sensibilità postotalitaria rischia di creare un equivoco, trasformando una categoria etico-politica in una categoria storica, se pensa che la condanna della violenza possa sostituirne l'analisi e l'interpretazione»).
Il conformismo retrospettivo delle interpretazioni più diffuse, di storici come di giornalisti, riposa su un anacronismo evidente, che è quello di rileggere l'Europa fra le due guerre con gli occhiali della democrazia liberale odierna, come se i suoi principi «fossero norme assiomatiche senza tempo». Per inciso, si può aggiungere alle argomentazioni di Traverso che anche ciò che noi oggi intendiamo per «liberaldemocrazia» si forma faticosamente, prende corpo e sostanza, attraverso quella età di crisi, che è in gran parte il frutto anche della inadeguatezza del vecchio mondo liberale a far fronte ai nuovi problemi della democrazia e della società di massa.
Il prisma del totalitarismo, la fortunata astrazione che ha riassunto e unificato fenomeni storicamente contrapposti, non consente di leggere e comprendere un'epoca di guerre, rivoluzioni e controrivoluzioni (che generano gli stessi totalitarismi, al plurale), che impone di fatto una sua logica e proprie «leggi» a cui tutti i contendenti devono conformarsi, compresi coloro che combattono per riconquistare libertà e democrazia perdute.
La formula adottata da Traverso è quella della guerra civile europea. Non nuova, diffusa talvolta anche tra i contemporanei e poi rilanciata in tempi recenti da Ernst Nolte, ma dove è decisivo porre l'inizio al 1914 anziché al 1917, a differenza di Nolte, ponendo la rivoluzione bolscevica nella sua dimensione di frutto e conseguenza della rottura già intervenuta anziché quale motore immobile della storia novecentesca. Beninteso, l'Europa in guerra con se stessa non è tutto il mondo, ma ne è, per l'inerzia di una vecchia centralità che si frantuma proprio al volgere di questi anni, la parte trainante, che detta logica e ritmi, pensieri e sentimenti.
È quella della guerra civile europea una chiave di lettura che individua e propone una logica, e che consente di istituire una cornice solida in cui si articola il quadro estremamente minuzioso fornito dall'autore. La mappa concettuale offerta dal libro è sicuramente tra le più esaurienti che il lettore oggi possa trovare, e la rinuncia alla narrazione consente di focalizzare l'attenzione sugli elementi che contraddistinguono l'epoca, scomponendoli nella loro relativa autonomia.
La guerra civile implica ovviamente la violenza, la sua giustificazione, spesso la sua teorizzazione. Le forme più diffuse non sono però di violenza «calda» e arcaica, che erompe solo in particolari momenti, ma ciò che dà il segno dell'epoca è soprattutto il prevalere di fredda violenza amministrativa, burocratica e tecnologica. Le culture della guerra moderna dalle trincee della prima guerra mondiale si dilatano all'intera società (è nell'interventismo, a ben vedere, che troviamo gli incunaboli del totalitarismo). La guerra contro i civili e la giustizia dei vincitori sono altri due fenomeni nuovi, e ricchi di implicazioni, che vengono discussi nel libro.
Scontro di civiltà
Per brevità, accenniamo però solo a due punti, tra i più originali e controversi, toccati da Traverso. Una è la vexata quaestio dell'antifascismo, dove la prospettiva demonizzante di Furet viene rovesciata. Non il cavallo di Troia del comunismo sovietico, ma l'antifascismo come luogo di naturale e obbligata politicizzazione degli intellettuali, in un'epoca e in un contesto in cui la neutralità non troverebbe spazio, proprio per il carattere totale di una guerra che non prevede neutralità. Qui la tesi di Traverso sembra però molto legata alla soggettività delle fonti (dell'epoca o retrospettive) e trascura i prolungati e ricorrenti momenti di disincanto e disimpegno dei singoli come dei gruppi (una zona grigia, per usare un termine ormai acquisito, con tutti i suoi equivoci, alla moda storiografica, che non si produce solo nei momenti di guerra guerreggiata).
L'altra questione, in parte collegata alla precedente, è il ricondurre, con le dovute cautele, la contesa a uno scontro tra Illuminismo e Contro-Illuminismo. Esito di un conflitto manifesto o sotterraneo di lunga durata, dipanatosi per tutto il «lungo Ottocento». Non solo la corposa persistenza dell'ancien régime, introdotta nella discussione storica da Arno Mayer, ma soprattutto quella contrapposizione, teorizzata da Jünger e da altri, tra due modi opposti d'intendere la civiltà europea, riconducibili a due differenti tradizioni: l'illuministica e la romantico-nazionale. La tradizione antifascista si colloca nettamente nel solco della prima, come testimoniano i frequenti richiami ai principi illuministici; altrettanto proclamata e manifesta è l'opposizione dei fascismi agli ideali e alle conseguenze della Rivoluzione francese. L'alleanza nel corso della seconda guerra mondiale tra il liberalismo e il comunismo va interpretata anche come il confluire di due tradizioni figlie dell'illuminismo.
Gli estremi che non si toccano
La parte più nuova e suggestiva introdotta da Traverso è la riconsiderazione di quel tema, estremamente caro al conformismo retrospettivo della vulgata corrente, della coincidentia oppositorum. Fascisti e comunisti uniti in lotta contro la democrazia liberale, e il Totalitarismo che sfila in un'unica ideale parata tra Mosca e Berlino. In realtà gli estremi non si toccano, salvo alcuni casi (la Polonia del 1939, esito possibile nella particolare logica tripolare che regge la politica internazionale di quegli anni). C'è piuttosto una reciproca attenzione, che viene giustamente messa in luce (particolarmente suggestiva è la documentazione del breve dialogo a distanza tra due personalità assolutamente dissimili come Walter Benjamin e Konrad Schmitt). Esiste in quei trent'anni un «pensiero apocalittico» (termine che ricorre spesso) rivoluzionario o controrivoluzionario; nella critica della vecchia società, dei suoi fondamenti, della sua legittimità, si possono trovare assonanze o stimoli reciproci.
Nonostante il lascito pesantissimo, la forza d'inerzia di pratiche e di mentalità, la vitalità residua di teorie e immagini, quel periodo si chiude per sempre e in maniera irrevocabile nel 1945. Il cerchio della guerra civile europea si chiude e neppure le nuove mobilitazioni della guerra fredda riusciranno a ricreare lontanamente quel clima. L'approccio stesso alla guerra nell'immaginario collettivo muta radicalmente si segno. «L'immaginario di chi apre la guerra civile europea, la generazione del 1914, è diverso da quello della generazione che la conclude, la generazione del 1945». Ma proprio cogliere in tutti i suoi aspetti e chiaroscuri questo passaggio fondamentale, dall'esaltazione guerresca al rifiuto della guerra, è uno dei temi di riflessione analitica futura più importante.
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5.9.07

A colpi di mouse per disinnescare l'arma letale dei Faraoni

«La strategia dell'ariete» del gruppo di scrittura Kai-Zen. Una misteriosa bomba batteriologica negli Stati Uniti sotto l'incubo dell'antrace
Mauro Trotta

«Chi incontra il demone muore, chi non muore diventa schiavo, chi non diventa schiavo diffonderà il demone». Queste enigmatiche parole descrivono gli effetti della più potente arma batteriologica mai inventata dall'umanità, creata in Egitto più di 4.500 anni fa, all'epoca del regno di Cheope.
Il respiro di Seth, questo è il nome dell'incredibile arma, stimola l'interesse di molti. Soprattutto da quando uno scienziato tedesco, il professor Einrich T. Hofstadter, si è messo sulle sue tracce. Così, in una girandola di avventure e colpi di scena, l'azione si sposta dalla Shangai degli anni Venti al Sudamerica, punto d'approdo dei nazisti in fuga dopo la sconfitta, dall'America degli annni Cinquanta fino ai giorni nostri. E, sullo sfondo agisce una società segreta, l'Ariete, da sempre custode del tremendo segreto, che complica ulteriormente la quest per la venefica sostanza.
Questa, in estrema sintesi, è la trama di La strategia dell'Ariete (Mondadori, pp. 455, euro 16,50), romanzo d'esordio dell'ensamble narrativo Kai Zen, già noto per La potenza di Eymerinch, scritto in collaborazione con Valerio Evangelista. Ideatori di vari progetti di scrittura collettiva, rintracciabili nei siti www.kaizenlab.it e www.romanzototale.it, i membri del gruppo sono Jadel Andreeto, Bruno Fiorini, Guglielmo Pispisa e Aldo Soliani. Provengono da città diverse - Bologna, Bolzano, Messina e Milano - ed internet rappresenta per loro uno strumento fondamentale, come mezzo di creazione e produzione letteraria.
Questa scelta si rispecchia appieno nella struttura del romanzo che si caratterizza per uno sviluppo «reticolare», dove una serie di luoghi e di snodi narrativi si rimandano l'un l'altro, portando avanti una trama avvincente e avvolgente, all'interno della quale agiscono una miriade di personaggi. In più, l'opera letteralmente esplode sul web sul sito www.lastrategiadellariete.org, arricchendosi non solo di particolari, immagini, precisazioni ma anche di nuovi sentieri narrativi.
Appassionante come un thriller, anarchico per la sua assenza di gerarchie narrative e al contempo preciso come un orologio nella costruzione dei meccanismi narrativi, il testo di Kai Zen miscela efficacemente storia, politica e i miti dell'immaginario collettivo. Ci si trova davvero di tutto, dalla nascita del partito comunista cinese alle triadi, da scorci degni di film come La mummia all'impotenza del migrante, dallo scienziato pazzo al tipico nazista, all'attualità politica più recente e così via.
Un mix che si incarna, ad esempio, in un personaggio come Shanfeng, servo fedele del profesor Hofstadter, ma anche spietato assassino per conto delle triadi e, ancora, collaboratore fidato di Mao e, poi, migrante ricattato.
A volte sembra di stare all'interno di un vecchio film in bianco e nero con Marlene Dietrich, altre volte in un fumetto di Milton Canniff o di Hugo Pratt, altre ancora in una scoppiettante e colorata avventura di Indiana Jones.
Forse è proprio l'avventura, come chimera, desiderio, ineffabilità il vero segreto di cui narra questo libro.
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