16.9.07

Quando i potenti dei ritornano nella città degli uomini

Le religioni nel mondo globale secolarizzato. Rinascita della fede o patogenesi dei monoteismi? La diagnosi di Juergen Habermas e il suo invito al dialogo fra laici e credenti in un convegno della Società italiana di filosofia politica. Con qualche disincantata controindicazione
Ida Dominijanni

In Italia la cronaca non dà tregua. Che si tratti di aborto, procreazione assistita, staminali, testamento biologico, eutanasia, Dico, l'intervento della Chiesa è immediato e costante, con pretese di indirizzo non solo morale ma anche politico e legiferativo. Ma per quanto appesantita dalla presenza «in casa» del Vaticano, l'Italia è solo la punta di un iceberg globale, che ha riportato a galla la pretesa delle religioni a riconquistare quel protagonismo politico che la lunga vicenda del Leviatano moderno sembrava avere archiviato per sempre almeno in Occidente. Lo scenario più drammatico di questa pretesa è il cosiddetto «scontro di civiltà» inscenato dal fondamentalismo islamico e dal fondamentalismo democratico di Bush; l'icona più espressiva, le immagini delle Twin towers in fiamme penetrate dai due aerei-bomba caricati di benzina religiosa, che anche nell'immaginario occidentale evocarono immediatamente echi biblici apocalittici.
Juergen Habermas fu tra i primi, in un discorso alla Fiera del libro di Francoforte dell'ottobre 2001, a individuare nell'11 settembre l'evento che riapriva per tutti, «occidentali» e «antioccidetali», credenti e laici, la questione del rapporto fra religione e secolarizzazione e fra fede e ragione, diagnosticando che da quel momento in poi sempre più saremmo stati costretti a fare i conti non solo con i fondamentalismi estranei alle società secolarizzate, ma con gli elementi di religiosità e di fondamentalismo permanenti e risorgenti al loro stesso interno. Poi venne il suo dialogo con l'allora cardinal Ratzinger, dove fra laici e credenti proponeva la via di un dialogo basato su un «doppio processo di apprendimento» che portasse gli uni e gli altri a riflettere sui limiti delle proprie rispettive tradizioni.
Chiamato nei giorni scorsi a tornare sul tema a Roma, all'interno del convegno su «Religione e politica nella società post-secolare» organizzato dalla società italiana di filosofia politica, Habermas riconferma nella sostanza la sua ricetta, ma cerca anche di sottrarla agli usi «neoguelfi» in cui può incorrere. La sua sottolineatura dei «potenziali semantici» racchiusi nelle religioni, che la ragione post-metafisica dovrebbe imparare a riconoscere e ad acquisire a partire dal proprio stesso indebitamento con la tradizione giudaico-cristiana, può portare acqua al mulino di chi attribuisce alla religiosità non solo una riserva di senso, ma il monopolio del senso nelle società democratiche «disincantate» di oggi. Quella sottolineatura va dunque puntellata in primo luogo rivolgendo alle religioni l'invito complementare a riconoscere e acquisire, a loro volta, «la democrazia, il pluralismo religioso e l'autorità laica della scienza», in secondo luogo ribadendo «la nettezza del confine» fra fede e scienza, in terzo luogo consentendo a una presenza delle chiese nella società civile ma non al loro interventismo politico. Ma soprattutto, cercando di collocare l'attuale fenomenologia della «rinascita della religione» all'interno di un'analisi sistematica delle dinamiche del mondo globale.
Qui Habermas chiude la porta alla tesi ratzingeriana dell'«eccezione» europea, che vede nella compiuta secolarizzazione del vecchio continente una «deviazione da correggere» rispetto a un trend globale di ripresa del ruolo pubblico della religione. Per Habermas, viceversa rispetto al trend della secolarizzazione che è vincente in occidente (Europa, Canada, Australia, Nuova Zelanda), l'eccezione è quella degli Stati uniti, dove la vitalità religiosa ha le sue spiegazioni demografiche (la forte immigrazione da società tradizionali) e sociali (l'insicurezza dovuta alla debolezza del welfare). E anche sul piano globale, la ripresa religiosa (fatta insieme di attività missionarie, fondamentalismi e uso della violenza) non contraddice ma coesiste con il trend inarrestabile della modernizzazione. Ma di una modernizzazione che, mentre unifica il mondo con la forma-merce, i modelli di urbanizzazione, la cultura di massa e il web, contemporaneamente lo divide lungo fratture culturali fra diverse «civiltà», che si scontrano proprio sul senso da dare alla modernità. La «rinascita delle religioni» e del loro uso pubblico va collocata in questo quadro.
Ma questo quadro per Habermas rilancia, pur imponendole alcuni compiti nuovi, la via europea alla secolarizzazione. L'Europa si configura infatti come una società «post-secolare», che deve adattarsi alla «persistenza di comunità regiose in un ambiente sempre più secolarizzato», rinunciando all'antica certezza che la modernizzazione vada di pari passo con la progressiva scomparsa della fede e avviando il dialogo fra credenti e laici nei termini che abbiamo visto. D'altra parte, sul piano globale, lo scontro cultural-religioso attuale non potrà che pervenire anch'esso alla negoziazione di un accordo laico su alcuni principi condivisi di giustizia politica, in cui ogni cultura dovrà prendere la strada di un «autodistanziamento riflessivo» dal proprio orientamento religioso. Va da sé dunque che questo processo prefigura una riconferma della ragione laica e di una democrazia costituzionale laica fondata su presupposti razionali, ma a patto che la laicità sappia anch'essa distanziarsi dagli eccessi di una riserva laicista contro le religioni e limitarsi a «un mite agosticismo».
Qui però i problemi non si chiudono ma si aprono, e prima che sugli esiti del processo sui suoi presupposti. L'analisi habermasiana di una «rinascita» della religiosità in un contesto post-secolare, presuppone una visione delle religioni che ne salvaguarda troppo il profilo di fede originario a fronte della configurazione aggressiva, identitaria e strumentale che esse vanno assumendo oggi. Giacomo Marramao infatti rovescia il paradigma, definendo non post-secolare ma post-religiosa la scena attuale, in cui le religioni non esprimono un'esigenza di fede ma un bisogno di appartenenza e di comunità, fungendo da vero e proprio surrogato dell'ideologia in un mondo in cui la politica, ridotta a volontà di potenza e ad amministrazione, ha ormai abdicato alla funzione che le sarebbe propria di costruire un orizzonte di senso «per la progettazione della vita umana su questa terra». Non tanto di una rinascita religiosa si tratta dunque quanto di una patogenesi dei tre monoteismi, che assumono un ruolo insieme idiosincratico e rassicurante rispetto ai traumi e alle insicurezze indotti dal processo di secolarizzazione tutt'ora in pieno dispiegamento, e costruiscono quelle «comunità immaginate» transnazionali, cementate da pretesi legami di fede e tradizione, che si sostituiscono alle comunità nazionali finite con lo stato-nazione. Le religioni di oggi sono dunque di una fattispecie tutta diversa dal passato, e lungi dall'aprirsi e dal prestarsi al dialogo con la ragione laica irrigidiscono e armano i confini identitari, coprendo con il gergo dell'autenticità i processi reali di ibridazione e contaminazione. Alla ragione laica spetta così, paradossalmente, il compito di salvare la religiosità dalla patogenesi dei monoteismi: se un tempo l'invocazione ultima era «solo un Dio ci può salvare», oggi «solo un uomo può salvare Dio».
D'altra parte, anche guardando agli esiti del processo prospettato da Habermas qualche dubbio disincantato è d'obbligo. Gustavo Zagrebelsky ricorda giustamente le strumentali alleanze in corso fra «una certa tradizione laica, che nulla ha a che vedere con il riconoscimento di valori religiosi rispetto ai quali è indifferente se non beffarda», e la potente capacità delle religioni nel rilegittimare valori tradizionali e reazionari. In Italia ne sappiamo quanto negli Stati uniti, e più che negli Stati uniti vediamo che di compromesso in compromesso la natura del patto costituzionale fra Chiesa e Stato si modifica. Quando sono troppi i campi dell'etica pubblica in cui la Chiesa pretende di avere l'ultima parola, «la lealtà costituzionale della Chiesa diventa un problema», e quando scattano troppi non possumus, il confronto fra fede e laicità diventa inevitabilmente uno scontro. Possiamo cercare di allontanarlo, ma «non possiamo illuderci che la pacificazione definitiva sia a portata di mano. La città degli uomini e la città di Dio, chiunque sia il nostro Dio, non coincideranno mai».
ilmanifesto.it

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