Gli eredi del neoliberismo della prima ora perseguono strade diverse per salvare il libero mercato. Ma tendono però a chiudere gli occhi sul fallimento del progetto «globalista», respingendo i progetti di deglobalizzazione portati avanti dai movimenti sociali
Walden Bello
Quando lo scorso anno due studi hanno descritto come il centro di ricerca della Banca Mondiale avesse sistematicamente manipolato i dati per dimostrare che le riforme neoliberiste sul mercato stessero promuovendo la crescita e riducendo la povertà nei paesi in via di sviluppo non ci fu nessuna reazione di sorpresa da parte dei «circoli» intellettuali, economici e politici che si occupano di politiche dello sviluppo. Gli sconvolgenti risultati dell'analisi svolta dal Robin Broad dell'American University e il rapporto di Angus Deaton della Princeton University e dell'ex direttore del Fondo Monetario Internazionale Ken Rogoff erano l'ultimo atto del collasso di ciò che è stato chiamato Washington Consensus.
Imposto ai paesi in via di sviluppo attraverso la formula dei programmi di «aggiustamento strutturale» finanziati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, il Washington Consensus ha regnato fino ai tardi anni '90 quando fu evidente che l'obiettivi perseguito - crescita sostenuta, riduzione della povertà e dell'ineguaglianza - era lungi dall'essere raggiunto. Ed è proprio alla metà di questo decennio che il «consenso» viene meno. Il neoliberismo rimane sempre lo «standard», ma molti economisti e tecnocrati hanno ormai perso fiducia in esso.
Washington Consensus Plus
Coscienti dei fallimenti del Washington Consensus, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale stanno ora promuovendo quello che il premio Nobel Joseph Stiglitz ha chiamato con sdegno il Washington Consensus Plus, in base al quale le riforme a favore del libero mercato che pur erano indispensabili non sono state da sole sufficienti. Le riforme finanziarie, per esempio, devono avere sequenzialità, se si vuole evitare debacle come le crisi finanziarie asiatiche degli anni Novanta. Memori della discesa della Russia nel capitalismo mafioso degli anni '90, le due istituzioni ora parlano anche dell'importanza di accompagnare la riforma del mercato con riforme legali e istituzionali che possano far rispettare proprietà privata e contratti. Tra gli altri principi che devono accompagnare gli «aggiustamenti strutturali» ci sono la «buona gestione» e politiche per «sviluppare il capitale umano».
Il mix di riforme istituzionali e sostegno al libero mercato è stato consolidato nei primi anni di questo decennio nei cosiddetti «Programmi strategici per la riduzione della povertà» (in inglese la sigla è Prsp, n.d.r.). Contrariamente a quello che un analista ha definito «neoliberalismo a pugno nudo», i Prsp sono infatti liberal per quanto riguarda i processi decisionali, che devono vedere una consultazione tra le diversi parti interessate tra cui le organizzazioni della società civile. Questo non significa che l'obiettivo dei «programmi contro la povertà» sia diverso da quello del suo antenato - liberalizzazione, deregulation, privatizzazione e commercializzazione della terra e delle risorse -, ma si propone di raggiungerlo attraverso il limitato coinvolgimento delle comunità «interessate». Un coinvolgimento mediato però da organizzazioni non-governative di matrice liberal piuttosto che attraverso la partecipazione dei movimenti sociali. I Psrp sono dunque programmi di aggiustamento strutturale di seconda generazione che cercano di ammorbidire l'impatto negativo delle riforme.
Neoliberismo neoconservatore
Un secondo erede del Washington Consensus è il «neoliberaismo neoconservatore», un approccio che orienta l'operato dell'amministrazione Bush e che ha avuto il suo battesimo con il famoso rapporto del 2000 stilato dalla commissione del Congresso sulle istituzioni multilaterali guidata da Alan Meltzer. Il rapporto sostiene - quantomeno a livello di retorica - una riduzione del debito delle nazioni più povere per dirottare le risorse finanziarie derivanti dalla riduzione del debito alla costituzione di specifici «fondi a concorso». Inoltre, i «fondi a concorso» consentono un coordinamento delle riforme a favore del libero mercato in accordo con la «sicurezza nazionale» statunitense e le strategie delle multinazionali americane.
La «buona» e «cattiva» sinistra
C'è anche un terzo erede del Washington Consensus. Si tratta del «neostrutturalismo», un approccio che viene associato alla Commissione Economica per l'America Latina (Cepal). Secondo la teoria neostrutturalista le politiche neoliberiste sono state troppo costose e a lungo termine non produttive. Per i sostenitori di questo approccio equità e crescita non si escludono a vicenda e potrebbero operare in piena «sinergia». Una minore ineguaglianza dovrebbe infatti sostenere la crescita economica, perché garantisce stabilità politica e macroeconomica, aumenta la capacità di risparmio dei poveri, innalza i livelli di educazione ed espande la domanda aggregata.
I neostrutturalisti propongono quindi politiche di redistribuzione del reddito attraverso politiche sanitarie, educative e abitative. Questo è il tipo di programmi che caratterizza quella che l'opinionista messicano Jorge Castaneda ha chiamato la «buona sinistra» dell'America Latina, riferendosi al governo di Lula in Brasile e all'alleanza governativa «Concertacion» in Cile. Concentrandosi sui trasferimenti per proteggere e potenziare la capacità dei poveri, l'approccio neostrutturalista non interferisce con le forze del mercato al livello di produzione, diversamente dalla linea della «cattiva sinistra» (Hugo Chavez e altri) che interviene direttamente nella produzione e nelle politiche salariali. I neostrutturalisti abbracciano la globalizzazione, e sostengono che un obiettivo chiave delle loro riforme è rendere i paesi più competitivi a livello globale. Siccome le riforme neostrutturaliste puntano a ridurre le disparità di reddito sono considerate una strada per rendere la globalizzazione più appetibile se non popolare.
Secondo l'economista cileno Fernando Leiva le politiche neostrutturaliste rappresentano tuttavia un «paradosso eretico»: la ricerca di una competitività generale da parte delle economie nazionali hanno infatti condotto «alla consolidazione politico-economica delle pratiche neoliberiste». In fondo, il neostrutturalismo come il Washington Consensus Plus non sovvertono il neoliberismo, piuttosto ne mitigano la povertà le ineguaglianze. I programmi mirati anti-povertà del governo Lula possono certamente aver ridotto le fila dei «miserabili», ma l'istituzionalizzazione delle politiche neoliberiste continuano comunque a produrre produrre povertà, ineguaglianza e stagnazione nella più grande realtà economica dell'America Latina.
Socialdemocrazia globale
Accanto al neostrutturaliamo e il neoliberismo neoconservatore ha preso forma e si è sviluppata la «socialdemocrazia globale», un approccio che viene identificato con l'economista Jeffrey Sachs, il sociologo David Held, il premio Nobel Joseph Stiglitz e la ong britannica Oxfam. Diversamente dai tre approcci precedenti, questa prospettiva ammette il fatto che la crescita e l'equità possono essere in conflitto e pone l'equità chiaramente al di sopra della crescita. Questo approccio mette inoltre in dubbio una tesi centrale del neoliberismo, cioè che la liberalizzazione del commercio sia benefica a lungo termine.
Stiglitz sostiene infatti che, nel lungo periodo, la liberalizzazione del commercio potrebbe condurre a una situazione in cui «la maggior parte dei cittadini è messa peggio». Infine i socialdemocratici globali chiedono cambiamenti fondamentali nelle istituzioni e nelle regole della governance globale come l'Fmi, il Wto, e gli accordi sulla proprietà intellettuale per fini commerciali (Trip). David Held, ad esempio, chiede «la riforma, se non l'abolizione completa degli accordi Trip», mentre Stiglitz dice che «i paesi ricchi dovrebbero aprire i mercati ai paesi più poveri, senza reciprocità e senza porre condizioni politiche ed economiche».
I socialdemocratici globali vedono infine nel movimento anti-globalizzazione un alleato, che Sachs ringrazia «per aver messo alla luce le ipocrisie e gli evidenti fallimenti della governance globale e per aver messo fine ad anni di auto-celebrazione dei ricchi e dei potenti». Ma la globalizzazione è però il punto sul quale i socialdemocratici globali pongono il loro aut aut. Questo perché similmente al neoliberismo della prima ora, al Washington Consensus Plus, al neoconservatorismo statunitense e al neostrutturalismo la socialdemocrazia globale vede nella globalizzazione un fenomeno che se fosse gestito bene porterebbe benefici ai più.
I socialdemocratici globali vedono infatti se stessi come i salvatori della globalizzazione, temendo che la sua crisi provochi un ritorno al passato. Di fronte al questa eventualità ricordano le conseguenze nefaste della turbolenta inversione della prima ondata di globalizzazione dopo il 1914. Per Sachs, Held e Stiglitz, il mondo ha dunque bisogno di una globalizzazione socialdemocratica o «illuminata» in cui l'integrazione globale del mercato vada avanti, ma sia gestita in modo equo e sia accompagnata da una progressiva «integrazione sociale globale».
Ci sono diversi problemi che derivano da questa adesione alla globalizzazione da parte della socialdemocrazia globale. Prima di tutto, è discutibile che la rapida integrazione dei mercati e della produzione - l'essenza della globalizzazione - possa avere luogo al di fuori di una cornice neoliberista il cui precetto centrale è abbattere i muri delle tariffe doganali ed eliminare le restrizioni agli investimenti. In secondo luogo, è ugualmente discutibile che, se si potesse pensare a una globalizzazione in regime di equità sociale, questa dovrebbe essere effettivamente desiderabile. Le persone desiderano veramente essere parte di un'economia globale funzionalmente integrata dove scompaiono le barriere tra il nazionale e l'internazionale? Non preferirebbero invece essere parte di sistemi economici che possano essere controllati a livello locale e che siano protetti dall'andamento ondivago dell'economia internazionale? La reazione contro la globalizzazione non dipende infatti solo dalle ineguaglianze e dalla povertà che essa ha creato ma anche dal sentire di uomini e donne che hanno perso ogni parvenza di controllo sull'economia a favore di forze internazionali impersonali. Uno dei temi che riecheggiano maggiormente nel movimento antiglobalizzazione è la richiesta di bloccare la crescita finalizzata alle esportazioni e la creazione di strategie di sviluppo tanto a livello locale che globale, all'interno però di una regolamentazione dell'economia.
La sfida perduta
Il problema fondamentale con gli eredi del Washington Consensus è la loro incapacità di radicare la loro analisi nelle dinamiche del capitalismo come sistema di produzione. In questo modo essi non sono in grado di vedere che la globalizzazione neoliberista non è una nuova fase nell'evoluzione del capitalismo ma un tentativo disperato e fallimentare di superare le crisi di sovraccumulazione, sovrapproduzione e stagnazione che hanno colpito le economie capitalistiche centrali a partire dalla metà degli anni '70. Rompendo il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro nato nel secondo dopoguerra ed eliminando le barriere nazionali al commercio e all'investimento, le politiche economiche neoliberali hanno cercato di invertire la tendenza alla crisi dello sviluppo economico e dei profitti.
Questa «fuga verso il globale» ha avuto luogo sullo sfondo di un processo conflittuale più ampio segnato da una rinnovata competizione inter-imperialista tra i principali centri di potere capitalistico, l'ascesa di nuove centri capitalistici, la destabilizzazione ambientale, un'ulteriore sfruttamento del Sud - quello che David Harvey ha chiamato «accumulazione per espropriazione» - e una resistenza che emerge tutt'intorno.
La globalizzazione ha fallito nel fornire al capitale una via d'uscita dalle sue crisi di accumulazione. Con il suo fallimento, ora vediamo le élite capitaliste che la abbandonano per ritornare a strategie nazionali di protezione e competizione con il sostegno dello stato per il controllo dei mercati e le risorse globali, con la classe capitalista statunitense che fa da apripista. Questo è il contesto che Jeffrey Sachs e altri socialdemocratici non riescono a comprendere quando propongono la loro utopia: la creazione di un «capitalismo globale illuminato» che dovrebbe «umanizzare» la globalizzazione.
Il tardo capitalismo ha un irreversibile logica distruttiva. Invece che impegnarsi nel compito impossibile di umanizzare un fallito progetto globalista, la sfida urgente che ci sta di fronte è gestire il ritiro dalla globalizzazione in modo che non provochi la proliferazione di conflitti incontrollabili e sviluppi destabilizzanti come quelli che segnarono la fine della prima ondata di globalizzazione nel 1914.
Traduzione di Paolo Gerbaudo
ilmanifesto.it
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