Alcune riflessioni critiche sull'ultimo libro di Serge Latouche edito da Feltrinelli presentato come «un vero e proprio manifesto per la Società della decrescita» da realizzare attraverso un programma che punti alla diminuzione delle merci prodotte Il crollo prossimo venturo La proposta dello studioso francese di trasformare la società attraverso comportamenti virtuosi è espressione di una «pedagogia delle catastrofi» in cui la denunci
Luigi Cavallaro
Da quando il tracollo dell'esperimento sovietico è sembrato riportare le lancette della storia all'epoca del «trionfo della borghesia», per dirla col titolo del celeberrimo libro di Eric J. Hobsbawm, una nuova idea ha cominciato a farsi strada tra gli orfani irreconciliati dell'idea «crollista». L'idea, molto in sintesi, è che il capitalismo, assai più gravemente che da un antagonismo di classe nel frattempo annacquatosi, sarebbe minato da un rapporto contraddittorio addirittura con la «natura»: la sua propensione alla «crescita illimitata», infatti, prima o poi dovrebbe indurlo a sbattere il muso contro la finitezza del pianeta Terra e delle sue risorse.
È stata la legge dell'entropia a offrire il pilastro teorico su cui edificare una narrazione ancor più fosca del declino irreversibile del modo di produzione (nuovamente) dominante. La presa di coscienza del fatto che tutti i tipi di energia sono destinati prima o poi a trasformarsi in calore non più utilizzabile e che il sistema solare tutto tende verso una «morte termodinamica» ha indotto, infatti, i «neocrollisti» a formulare critiche «radicali» all'idea che il processo economico potesse essere descritto in termini circolari e a esigerne con forza una rappresentazione in termini unidirezionali, rispettosa della «freccia del tempo».
La catastrofe annunciata
La termodinamica, in tal modo, è diventata la «fisica del valore economico» e la legge dell'entropia «la radice della scarsità economica», come scrisse l'economista e statistico di origine rumena Nicholas Georgescu-Roegen. E, complice l'ignoranza delle ragioni che, nel secondo dopoguerra, avevano portato gli economisti a identificare nel Prodotto interno lordo la misura della ricchezza delle nazioni, i neocrollisti hanno individuato nella crescita del Pil la spia di codesta contraddizione fra il capitalismo e la natura, giungendo coerentemente a indicare nella «decrescita» il rimedio capace di salvare la Terra e l'umanità dall'incipiente catastrofe.
Parallelamente, essi hanno cominciato a diffondere visioni ireniche della preistoria dei rapporti di produzione moderni.
Le forme di vita delle piccole comunità di cacciatori-raccoglitori e, in genere, delle società precapitalistiche sono state descritte come altrettanti Eden, in cui gli individui vivevano in armonia con l'ambiente circostante, appropriandosene giusto quel tanto che serviva a sfamarsi e a riprodursi. Il fatto che l'arrivo dell'Homo sapiens sapiens in un qualche nuovo territorio fosse immancabilmente seguito da un'ondata di estinzioni di animali di grossa taglia, che molte comunità contadine praticassero un'agricoltura basata sul metodo «taglia e brucia», che eventi atmosferici banali potessero condannare intere comunità alla fame e che le condizioni di lavoro e di vita fossero terrificanti è stato semplicemente dimenticato. Così come è stata dimenticata una lettera in cui Engels commentava severamente con Marx le pretese di un tal Podolinskij di «esprimere rapporti economici in misure di fisica». La teoria marxista è stata anzi ritenuta corriva col peggior capitalismo e l'insistenza di Marx sullo sviluppo delle forze produttive è stata additata come matrice ideologica dei disastri ambientali del «socialismo reale», dall'esplosione del reattore di Chernobyl al disseccamento del lago d'Aral.
I drogati del produttivismo
Una brillante sintesi degli approdi più recenti ai quali è pervenuto il «neocrollismo» ci viene ora dall'ultimo libro di Serge Latouche, lo studioso francese che può esserne considerato il principale rappresentante. La bibliografia che correda La scommessa della decrescita (Feltrinelli, pp. 215, euro 16) si presenta infatti come una sorta di who's who della nouvelle vague e il volume stesso, in molte parti, è costruito con la tecnica del «citazionario», utilissima per sapere chi ha detto cosa e dove e quando. La quarta di copertina, poi, ci informa che questo libro è «un vero e proprio manifesto teorico della Società della decrescita». Proprio così, con la S maiuscola.
Latouche comincia col dirci cosa la «decrescita» non è. Non è lo «stato stazionario» degli economisti classici, «né una forma di regressione, di recessione o di "crescita negativa", e neppure la crescita zero». Non è nemmeno un concetto, «almeno non nel senso tradizionale del termine». E' piuttosto «uno slogan politico con implicazioni teoriche, è un "termine esplosivo" che cerca di interrompere la cantilena dei "drogati" del produttivismo». Più che di decrescita, precisa anzi lo studioso, bisognerebbe parlare di «a-crescita», perché «si tratta di abbandonare la fede e la religione della crescita, del progresso e dello sviluppo». Ma siccome «decrescita» è un termine ormai entrato nell'uso, vale la pena di mantenerlo e semmai di qualificarlo opportunamente con l'aggettivo «conviviale», secondo l'accezione che ne propose negli anni '70 Ivan Illich: si tratta infatti di sollecitare la «capacità da parte di una collettività umana di sviluppare un interscambio armonioso tra gli individui e i gruppi che la compongono e della capacità di accogliere ciò che è estraneo a questa collettività».
Ma cos'è che dovremmo fare «decrescere»? Come molti ecologisti, Latouche afferma perentoriamente che «una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito». Non è però chiaro se stia parlando della crescita dei valori d'uso o della crescita del loro valore di scambio espresso in moneta. E' solo per i primi, infatti, che valgono le leggi fisiche; il secondo può aumentare in maniera indefinita. Non c'è alcuna impossibilità «fisica» capace di impedire che il valore di scambio di un paio di scarpe cresca di dieci, cento o mille volte, ci può essere al massimo una difficoltà fisica di accrescere di cento o mille volte la produzione mondiale di valori d'uso che abbiano «natura» di scarpe. Solo se si ritiene che il prezzo delle merci rifletta la loro «scarsità» - una credenza tipicamente neoclassica, che s'impose ai tempi della rifondazione della teoria economica da parte di Jevons, Menger e Walras - si può rinvenire nella «crescita del Pil» una misura dello «sforzo» imposto dalla società all'ambiente. Ma che il prezzo delle merci sia una funzione delle reciproche scarsità relative è un'affermazione teoricamente infondata, come hanno dimostrato Garegnani e Sraffa ormai quasi cinquant'anni fa. Dunque, perché prendersela con la «crescita del Pil»?
Il programma delle «otto R»
Lo stesso Latouche, peraltro, ricorda che «le convenzioni sulle quali si fonda il calcolo del Pil contengono indubbiamente alcuni elementi di arbitrarietà dal momento che alcuni beni e servizi non mercantili possono essere più o meno inclusi». Volendo essere precisi, ciò significa che dal calcolo del Pil dovrebbe essere escluso l'intero ammontare della produzione pubblica costituita da beni e servizi non destinati alla vendita: scuola e sanità, infatti, non sono merci, dunque non hanno un valore di scambio che possa renderle commensurabili con un'automobile Fiat. Ma di nuovo, quand'anche togliessimo dal Pil l'intero ammontare delle spese pubbliche, facendolo così «decrescere» del 40-50 per cento rispetto ai suoi valori attuali, non avremmo eliminato il consumo di energia e materia che la produzione di quei beni e servizi ha richiesto. E anche sotto quest'altra forma riapparirebbe che i «critici del Pil» stanno in realtà prendendosela coi mulini a vento.
Ma facciamo finta che la confusione non ci sia e che, quando parla di «decrescita», Latouche intenda riferirsi solo ad una decrescita della produzione di valori d'uso. Come arrivarci? «Il cambiamento reale di prospettiva può essere realizzato attraverso il programma radicale, sistematico, ambizioso delle "otto R": rivalutare, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare», e la leva che lo studioso francese si propone di agire è la tassazione. Aumentando di «dieci volte» i costi di trasporto e incrementando la tassazione sulle macchine, «le aziende che seguono la logica capitalistica sarebbero ampiamente scoraggiate. In un primo tempo, un gran numero di attività non sarebbe più "redditizia" e il sistema resterebbe bloccato».
A quel punto, sarebbe senz'altro possibile «togliere sempre maggior quantità di terra all'agricoltura intensiva», semplicemente - aggiungiamo noi - perché le aziende agricole capitalistiche avrebbero decretato fallimento, e si potrebbe senz'altro «darla all'agricoltura contadina, biologica, rispettosa degli ecosistemi». E questa dinamica, che farebbe sì che «ogni produzione che può essere realizzata su scala locale e al fine di soddisfare bisogni locali» venga «realizzata localmente», contribuirebbe «anche a risolvere il problema della disoccupazione»: già, perché la decuplicazione della tassazione e il consequenziale blocco delle imprese capitalistiche avrebbero anche questa spiacevole conseguenza - qualche centinaio di milioni di disoccupati.
Sarebbe comunque una questione momentanea: presto le persone tornerebbero «ad apprezzare il territorio circostante» e «a temere di allontanarsi da casa loro», e comincerebbero «a riparare, a comprare prodotti di seconda mano, senza provare il sentimento di svalorizzazione di sé». E' il «paradiso» immaginato da Latouche: una società in cui «le vettovaglie sono molto meno numerose, ma ciascuno ne ha quante bastano e regna un clima di gioia inebriante suscitata da una condivisa frugalità».
La leva delle tasse
Il lettore un po' addentro alla teoria dell'economia pubblica e appena consapevole della complessità della dinamica dei sistemi sociali non potrà che stupirsi di fronte all'attribuzione di una potenza così «distruttivamente creatrice» alla tassazione. Si potrebbe supporre che un passaggio intermedio per approdare a codesto «paradiso» sia la nazionalizzazione delle terre, tanto più che, seppur di passata, nel volume si accenna al fatto che viviamo in una società «attraversata dalla lotta di classe» e si legge perfino che «il nodo del problema è proprio la questione del potere». Ma Latouche non si propone affatto di resuscitare Vladimir Il'ic (Lenin), ma di glorificare Ivan Illich. Scopriamo così che presupposto indispensabile per la riuscita del programma delle «otto R» è un'«autotrasformazione» non violenta della «società», che non faccia uso di leggi, decreti o polizia e che sia nondimeno capace di «suscitare un numero sufficiente di comportamenti virtuosi».
Non è chiaro se Latouche immagini un processo in cui sempre più persone comprano i suoi libri, si convincono della bontà delle sue idee, si danno appuntamento in piazza o in altro luogo «conviviale» e cominciano a concertarsi su come attuare il programma delle «otto R», ma non ci sembra di intravedere altro modo per produrre il presupposto indispensabile al suo obiettivo. E se la «pedagogia delle catastrofi» rivendicata nell'ultimo capitolo del suo libro genera proposte politiche del genere, sovviene per la «decrescita» un distico caro a Marx: «là dove mancano i concetti / s'insinua al momento giusto una parola».
ilmanifesto.it
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