12.9.07

La seconda guerra dei trent'anni nell'Europa del secolo breve

«A ferro e fuoco» di Enzo Traverso. La critica alla mitologia sul «secolo delle ideologie assassine» e al conformismo retrospettivo di molti studiosi che hanno elevato la condanna morale dei «totalitarismi» all'analisi storiografica
Gianpasquale Santomassimo

La prima metà del secolo scorso, e più precisamente i trentun anni che vanno dallo scoppio della prima guerra mondiale alla fine della seconda, sono da tempo i più assiduamente presenti e ricorrenti nella storia, nella memoria, nell'immaginario collettivo. Il nocciolo duro del Novecento, che proietta senso e immagine sull'intero secolo trascorso, che in quella luce diviene una sorta di buco nero della storia, il «secolo delle ideologie assassine», della violenza, degli stermini e dei genocidi. Ci sarebbe molto da discutere sulla congruità di questa rappresentazione spontanea o indotta, che sacrifica o mette nell'ombra tutti i risvolti di quel grande secolo non riassumibili attraverso quel canone interpretativo; come pure su senso e limiti della effettiva centralità di quel breve periodo nella vicenda novecentesca.
Sta di fatto che esso ci appare il periodo più vicino e più lontano, vicino nell'evocazione quasi quotidiana e obbligata, distante nella logica e nelle mentalità. È pur vero che la sua aura è sopravvissuta a lungo nel linguaggio e nelle categorie, piegate a raffigurare realtà vecchie in contesti nuovi e diversi (rivoluzione, controrivoluzione, tattica, strategia, fascismo, bolscevismo, partito); ma la sua ormai irrevocabile distanza non sembra aver favorito il consolidarsi di una prospettiva storica. L'intento di Enzo Traverso nel suo A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945 (Il Mulino, pp. 273, euro 23) è appunto quello di storicizzare in forma analitica e ragionata un mondo che malgrado la frequenza ossessiva dei richiami storici sta di fatto diventando inafferrabile nella sua logica.
Oltre il prisma del totalitarismo
Questo è tanto più necessario dopo un «ventennio di regressione storiografica» nel quale, secondo Traverso, «abbiamo fatto indigestione di versioni anticomuniste del Breve corso di storia del Pcus», e dove la condanna si è sostituita all'analisi («la nostra sensibilità postotalitaria rischia di creare un equivoco, trasformando una categoria etico-politica in una categoria storica, se pensa che la condanna della violenza possa sostituirne l'analisi e l'interpretazione»).
Il conformismo retrospettivo delle interpretazioni più diffuse, di storici come di giornalisti, riposa su un anacronismo evidente, che è quello di rileggere l'Europa fra le due guerre con gli occhiali della democrazia liberale odierna, come se i suoi principi «fossero norme assiomatiche senza tempo». Per inciso, si può aggiungere alle argomentazioni di Traverso che anche ciò che noi oggi intendiamo per «liberaldemocrazia» si forma faticosamente, prende corpo e sostanza, attraverso quella età di crisi, che è in gran parte il frutto anche della inadeguatezza del vecchio mondo liberale a far fronte ai nuovi problemi della democrazia e della società di massa.
Il prisma del totalitarismo, la fortunata astrazione che ha riassunto e unificato fenomeni storicamente contrapposti, non consente di leggere e comprendere un'epoca di guerre, rivoluzioni e controrivoluzioni (che generano gli stessi totalitarismi, al plurale), che impone di fatto una sua logica e proprie «leggi» a cui tutti i contendenti devono conformarsi, compresi coloro che combattono per riconquistare libertà e democrazia perdute.
La formula adottata da Traverso è quella della guerra civile europea. Non nuova, diffusa talvolta anche tra i contemporanei e poi rilanciata in tempi recenti da Ernst Nolte, ma dove è decisivo porre l'inizio al 1914 anziché al 1917, a differenza di Nolte, ponendo la rivoluzione bolscevica nella sua dimensione di frutto e conseguenza della rottura già intervenuta anziché quale motore immobile della storia novecentesca. Beninteso, l'Europa in guerra con se stessa non è tutto il mondo, ma ne è, per l'inerzia di una vecchia centralità che si frantuma proprio al volgere di questi anni, la parte trainante, che detta logica e ritmi, pensieri e sentimenti.
È quella della guerra civile europea una chiave di lettura che individua e propone una logica, e che consente di istituire una cornice solida in cui si articola il quadro estremamente minuzioso fornito dall'autore. La mappa concettuale offerta dal libro è sicuramente tra le più esaurienti che il lettore oggi possa trovare, e la rinuncia alla narrazione consente di focalizzare l'attenzione sugli elementi che contraddistinguono l'epoca, scomponendoli nella loro relativa autonomia.
La guerra civile implica ovviamente la violenza, la sua giustificazione, spesso la sua teorizzazione. Le forme più diffuse non sono però di violenza «calda» e arcaica, che erompe solo in particolari momenti, ma ciò che dà il segno dell'epoca è soprattutto il prevalere di fredda violenza amministrativa, burocratica e tecnologica. Le culture della guerra moderna dalle trincee della prima guerra mondiale si dilatano all'intera società (è nell'interventismo, a ben vedere, che troviamo gli incunaboli del totalitarismo). La guerra contro i civili e la giustizia dei vincitori sono altri due fenomeni nuovi, e ricchi di implicazioni, che vengono discussi nel libro.
Scontro di civiltà
Per brevità, accenniamo però solo a due punti, tra i più originali e controversi, toccati da Traverso. Una è la vexata quaestio dell'antifascismo, dove la prospettiva demonizzante di Furet viene rovesciata. Non il cavallo di Troia del comunismo sovietico, ma l'antifascismo come luogo di naturale e obbligata politicizzazione degli intellettuali, in un'epoca e in un contesto in cui la neutralità non troverebbe spazio, proprio per il carattere totale di una guerra che non prevede neutralità. Qui la tesi di Traverso sembra però molto legata alla soggettività delle fonti (dell'epoca o retrospettive) e trascura i prolungati e ricorrenti momenti di disincanto e disimpegno dei singoli come dei gruppi (una zona grigia, per usare un termine ormai acquisito, con tutti i suoi equivoci, alla moda storiografica, che non si produce solo nei momenti di guerra guerreggiata).
L'altra questione, in parte collegata alla precedente, è il ricondurre, con le dovute cautele, la contesa a uno scontro tra Illuminismo e Contro-Illuminismo. Esito di un conflitto manifesto o sotterraneo di lunga durata, dipanatosi per tutto il «lungo Ottocento». Non solo la corposa persistenza dell'ancien régime, introdotta nella discussione storica da Arno Mayer, ma soprattutto quella contrapposizione, teorizzata da Jünger e da altri, tra due modi opposti d'intendere la civiltà europea, riconducibili a due differenti tradizioni: l'illuministica e la romantico-nazionale. La tradizione antifascista si colloca nettamente nel solco della prima, come testimoniano i frequenti richiami ai principi illuministici; altrettanto proclamata e manifesta è l'opposizione dei fascismi agli ideali e alle conseguenze della Rivoluzione francese. L'alleanza nel corso della seconda guerra mondiale tra il liberalismo e il comunismo va interpretata anche come il confluire di due tradizioni figlie dell'illuminismo.
Gli estremi che non si toccano
La parte più nuova e suggestiva introdotta da Traverso è la riconsiderazione di quel tema, estremamente caro al conformismo retrospettivo della vulgata corrente, della coincidentia oppositorum. Fascisti e comunisti uniti in lotta contro la democrazia liberale, e il Totalitarismo che sfila in un'unica ideale parata tra Mosca e Berlino. In realtà gli estremi non si toccano, salvo alcuni casi (la Polonia del 1939, esito possibile nella particolare logica tripolare che regge la politica internazionale di quegli anni). C'è piuttosto una reciproca attenzione, che viene giustamente messa in luce (particolarmente suggestiva è la documentazione del breve dialogo a distanza tra due personalità assolutamente dissimili come Walter Benjamin e Konrad Schmitt). Esiste in quei trent'anni un «pensiero apocalittico» (termine che ricorre spesso) rivoluzionario o controrivoluzionario; nella critica della vecchia società, dei suoi fondamenti, della sua legittimità, si possono trovare assonanze o stimoli reciproci.
Nonostante il lascito pesantissimo, la forza d'inerzia di pratiche e di mentalità, la vitalità residua di teorie e immagini, quel periodo si chiude per sempre e in maniera irrevocabile nel 1945. Il cerchio della guerra civile europea si chiude e neppure le nuove mobilitazioni della guerra fredda riusciranno a ricreare lontanamente quel clima. L'approccio stesso alla guerra nell'immaginario collettivo muta radicalmente si segno. «L'immaginario di chi apre la guerra civile europea, la generazione del 1914, è diverso da quello della generazione che la conclude, la generazione del 1945». Ma proprio cogliere in tutti i suoi aspetti e chiaroscuri questo passaggio fondamentale, dall'esaltazione guerresca al rifiuto della guerra, è uno dei temi di riflessione analitica futura più importante.
ilmanifesto.it

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