18.9.07

La morte dell'istantanea nell'era delle immagini rubate

Il superamento della fotografia come frammento di tempo congelato e il ruolo essenziale delle manipolazioni nel caustico e a tratti debordante pamphlet «Meglio ladro che fotografo» di Ando Gilardi In una società sempre più opaca come è quella attuale, fotografare significa misurare lo scacco di una tecnica ottocentesca basata sugli indizi e sulle tracce
Antonello Frongia

All'inizio di un recente, folle libretto intitolato Meglio ladro che fotografo, Ando Gilardi lascia cadere tra le righe una piccola osservazione provocatoria: fare fotografie richiede «tanta forza e cultura quanta ce ne vuole per suonare il campanello di una porta». Una volta suonato il campanello, però, quella che si presenta davanti a noi non è un'epifania o un'illuminazione, ma l'immagine duplicata di noi stessi e della nostra società, un rispecchiamento con l'illusione di una scoperta.
Questa scenetta didattica è ricca di implicazioni. Sintetizza due immagini mitiche della storia della fotografia e della sua funzione sociale. Da una parte c'è il «piccolo bastardo abbandonato sulla soglia dell'arte», la condizione eterna della fotografia come tecnica marginale e servile, mai completamente accettata nel novero delle arti maggiori. Dall'altra, c'è il famoso slogan pubblicitario della Kodak di fine Ottocento, «voi premete il pulsante, noi facciamo il resto»: dove il «resto» non è solo il processo di sviluppo e stampa, ma anche l'illusione di trasformare i kodakers (come li chiamava sdegnosamente Stieglitz) in artisti.
Manipolazioni e riappropriazioni
Per Gilardi (come per Benjamin) l'aspetto rivoluzionario della fotografia è proprio l'opposto: l'idea che non abbia nulla da creare o da inventare, ma solo da riprendere e rubare. Il problema del fotografo non è quello di ridefinire stili e forme, ma di fare riproduzioni e disseminare immagini. Il baricentro dell'attenzione si sposta dall'esperienza ineffabile dell'autore all'interpretazione sempre incerta (e per questo tanto più ricca e rinnovabile) di fruitori sempre diversi.
Così per Gilardi i veri autori delle opere che compaiono nei libri di storia dell'arte non sono i pittori, ma i fotografi: sono le loro riproduzioni, anche infedeli, a rendere accessibili quei dipinti e quelle sculture al di fuori dei musei affollati e al tempo stesso iperprotetti. L'avvento delle macchine fotografiche digitali, dei programmi di elaborazione grafica e di internet segneranno secondo Gilardi una nuova era nella storia delle rappresentazioni: la fine di quella che chiama «fotografia fatalistica» o «immagine determinista», il superamento dell'istantanea come frammento di tempo congelato, della sua forma estetica senza passato né futuro, in favore della manipolazione e della riappropriazione.
Meglio ladro che fotografo è un pamphlet a tratti debordante: una libera conversazione tra Ando Gilardi e Patrizia Piccini che sfocia in disquisizioni sull'ideologia, la filosofia e addirittura la teologia, come fa notare a un certo punto la paziente interlocutrice. In effetti non si può essere d'accordo con tutto Gilardi: in particolare, con la sua idea che il mondo (fotografico) sarà salvato da Google e dal «superlativo Photoshop». Ma non si capisce l'ironia e la polemica di questo libro se non si ha in mente chi è Ando Gilardi: un «irregolare» della fotografia che osserva il mondo attuale dalla prospettiva di oltre sessant'anni di lavoro sul campo.
Nato nel 1921, nel 1945 Gilardi è stato fotografo di documentazione per le istruttorie dei processi ai crimini di guerra; negli anni cinquanta ha lavorato nella riproduzione delle opere d'arte e ha documentato il sud per la Cgil di Di Vittorio e per antropologi come Ernesto De Martino; è stato responsabile tecnico di «Popular Photography Italiana» e co-fondatore di «Photo 13», una importante quanto dimenticata rivista sperimentale degli anni settanta; è stato giornalista, curatore di mostre e docente; ha collezionato per decenni immagini anonime, popolari e fuorilegge, che oggi costituiscono la base della sua «Fototeca storica nazionale»; è stato in Italia l'unico storico «sociale» di questi materiali che, come egli stesso suggerisce, vanno considerati come sintomi di processi antropologici piuttosto che come oggetti preziosi di un mercato antiquario.
Meglio ladro che fotografo andrebbe dunque letto nel contesto di una storia della fotografia italiana del dopoguerra che rimane ancora tutta da ricostruire, ma può anche essere visto come un'utile postilla a due testi fondamentali elaborati da Gilardi nel corso degli anni settanta e ultimamente ripubblicati: la Storia sociale della fotografia del 1976 e Wanted! del 1978.
Uno degli elementi di grande attualità del pensiero di Gilardi risiede proprio nella funzione sociale che egli attribuisce al lavoro fotografico e alla fotografia in generale. In Italia questo tema ha subìto un decorso particolare, caratterizzato da una distinzione molto netta, persino un'opposizione ideologica, tra impegno civile e ricerca formale. Nella migliore produzione dei paesi anglosassoni, indagine sociale, ricerca formale e sperimentazione linguistica sono stati tradizionalmente aspetti diversi del medesimo postulato: vedere significa pensare; far vedere, significa far pensare. Negli anni trenta questo atteggiamento è stato alla base della fotografia «documentaria» e del dibattito teorico che indagava il rapporto fra immagine e racconto. Negli anni sessanta, già prima del '68, fotografi estremamente formali come Lee Friedlander e Garry Winogrand erano considerati i maggiori indagatori del social landscape americano.
Nell'Italia del dopoguerra il rapporto tra estetica e politica della fotografia è stato marcato dall'annosa polemica tra neorealismo e formalismo; una antinomia che negli anni settanta si è riproposta in forme diverse tra «fotoreporter» e fotografi «di ricerca». Da una parte la testimonianza dei «fatti», il viaggio d'inchiesta, la fotografia in bianco e nero in stile diretto che accompagna la notizia sulla pagina del quotidiano; dall'altra la ricerca tematica, i tempi lunghi della meditazione colta, la scoperta del colore fotografico, il libro e la mostra come testi visivi silenziosi e metafisici.
Dentro la società opaca
Oggi l'industria culturale sta riassorbendo questa distinzione in una nuova versione dell'arte pubblica. L'opera di fotografi come Armin Linke e Francesco Jodice ambisce a una sintesi di entrambe le tradizioni del passato. Ed è significativo, se le parole hanno un senso, che l'agenzia fotografica Contrasto abbia aperto a Milano uno spazio espositivo molto importante chiamandolo «Forma». Ma in realtà è soprattutto l'oggetto stesso della fotografia socialmente impegnata a richiedere una riformulazione dei vecchi problemi. Oggi non esiste più (o risulta meno efficace fotografarla) una struttura sociale chiaramente definita, come quella che Jacob Riis e Lewis Hine affrontavano per la prima volta tra Otto e Novecento, nella metropoli che opponeva tycoons del capitalismo e masse di proletari immigrati. In una società come l'attuale, considerata sempre più opaca, la visibilità dei fenomeni viene minata alla base - non di rado intenzionalmente.
Fotografare significa sempre più spesso misurare lo scacco di una tecnica ottocentesca basata sull'indizio e sulla traccia, in un'epoca in cui i processi fondamentali sono considerati immateriali e la società «liquida» o «molecolare». Il fotografo del passato si presentava alle porte del mondo e premendo il pulsante suonava un campanello d'allarme; per le nuove generazioni Flickr, Google e Youtube sono come rubinetti dell'acqua calda, confortevole e sempre a portata di mano.
A un altro livello, Gilardi ci ricorda che il vasto territorio chiamato «storia sociale della fotografia» è un po' come la luna: dopo un paio di eroiche missioni, nessuno si è curato di tornarvi di persona. I suoi lavori degli anni settanta sulla fotografia pornografica, giudiziaria e psichiatrica rimangono un patrimonio prezioso per la storiografia italiana. Tuttavia molto rimane ancora da fare proprio in un paese come il nostro, che ha vissuto processi di modernizzazione peculiari rispetto a quelli già noti e storicizzati di Gran Bretagna, Germania, Francia e Stati Uniti.
Nel segno di Diderot
Che funzione ha avuto l'introduzione di una tecnica «meccanica» di rappresentazione in una cultura come quella italiana, dominata nei secoli dal dibattito sul rapporto tra pittura e parola? Chi ha comprato, commissionato, collezionato, visto (ma anche distrutto e disperso) la fotografie di due secoli d'Italia? Se altrove la posizione sociale del fotografo è stata chiaramente quella del professionista o dell'amateur, dell'artista o dell'attivista politico, che ruolo hanno veramente giocato da noi figure come Giacomo Caneva, Leopoldo Alinari, Giuseppe Primoli o lo stesso Ando Gilardi?
Queste sono solo alcune delle tantissime domande suggerite dalla lettura di un altro preziosissimo libro, apparso per la prima volta nel 1985 nella collana Nuovo Politecnico di Einaudi e ora meritoriamente ripubblicato dalla Scuola Normale Superiore di Pisa: Arte, industria, rivoluzioni di Enrico Castelnuovo. Si tratta di una antologia di saggi scritti tra il 1969 e il 1978, che esplorano potenzialità e limiti di una storia sociale dell'arte a partire dalle ricerche di Francis Klingender, Frederick Antal e Arnold Hauser. Non sembra una coincidenza che a Diderot - analizzato da Castelnuovo per la sua riabilitazione delle attività «meccaniche» rispetto a quelle «liberali» nella Encyclopédie del 1751 - Gilardi abbia dedicato il suo Meglio ladro che fotografo.
È nelle rivoluzioni economiche, politiche e sociali della modernità che la fotografia ha trovato il proprio fondamento, anche se per la storia delle forme si tratta di una tecnica che perpetua in forme nuove la prospettiva rinascimentale. Tuttavia è chiaro, e Castelnuovo utilmente ce lo ricorda, che nessuna forma di rappresentazione è un mero rispecchiamento di questi fenomeni generali.
Dialettiche irrisolte
Nella fotografia (in quanto industria e pratica sociale) e nelle singole fotografie (in quanto documenti storici) si inscrive la dialettica sempre irrisolta, talvolta persino tragica, tra i processi di lunga durata e le immagini, le memorie e le attese degli individui che osservano la storia dal basso, con i propri occhi.
A distanza di decenni, i saggi di Castelnuovo propongono ancora oggi stimoli di ricerca attualissimi per un inquadramento interdisciplinare della storia della fotografia e persino della fotografia contemporanea. La sua discussione della pittura inglese dell'Ottocento, ad esempio, potrebbe essere traslata con le opportune verifiche alla situazione italiana degli anni ottanta. «Le più importanti mutazioni avvennero in provincia e non nella capitale», scrive Castelnuovo. Si potrebbe sostenere ad esempio che per Luigi Ghirri, come Joseph Wright of Derby, la periferia fu un punto di osservazione privilegiato, che rese possibile istituire rapporti più innovativi e meno stereotipati tra artisti, istituzioni e pubblico.

ilmanifesto.it

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