Lo storico convoca al PalaMandela la prima assemblea nazionale del "manifesto" su cui si fonda un soggetto politico ancora senza nome che ha l'ambizione "di rendersi protagonista della vita democratica del paese"
di SIMONA POLI
Non è ancora un partito ma è già qualcosa di più di un movimento il nuovo "soggetto politico" battezzato a Firenze dallo storico Paul Ginsborg e dai mille riuniti al PalaMandela nella prima assemblea nazionale ispirata al "manifesto per un'altra politica nelle forme e nelle passioni" firmato finora da quattromila persone (tra cui Stefano Rodotà e Luciano Gallino). L'assemblea ha appena scelto il nome del nuovo soggetto: sarà Alba, che significa Alleanza per Lavoro Beni comuni e Ambiente. Questo acronimo è stato preferito agli altri, gettonatissimi, Lavoro e Bene Comune; Italia bene Comune; Alternativa Democratica.
"Da anni chiediamo ai partiti di autoriformarsi", spiega Ginsborg. "Abbiamo organizzato manifestazioni, dibattiti, girotondi, appelli ma niente di quello che abbiamo detto è stato ascoltato. E allora tocca a noi scendere in campo, portando idee e proposte con l'obiettivo di unire la sinistra e allo stesso tempo stimolarla a rimettere al centro dell'attenzione le regole della democrazia e i temi del lavoro e della tutela dei diritti. Il Pd non ci teme, siamo troppo piccoli. Mi ha chiamato un dirigente per chiedermi se facciamo sul serio. Certo che facciamo sul serio, siamo molto motivati e anche arrabbiati per quello che sta accadendo in Italia. Ma la nostra parola guida è mitezza: la forza degli argomenti e del ragionamento deve prevalere sempre nella discussione politica".
Insieme a Ginsborg parlano il politologo Marco Revelli, il giurista torinese Ugo Mattei, Paolo Cacciari, Gianni Rinaldini del direttivo della Cgil. Interviene anche il vendoliano Fratoianni, che è qui insieme a Giuseppe Brogi, Alessia Petraglia e Marisa Nicchi. In platea in veste di osservatori ci sono l'ex portavoce del Social forum genovese Marco Agnoletto, il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero e molti esponenti di Sel, della Federazione della Sinistra, dei movimenti, della Fiom e dei sindacati di base. Seduto in seconda fila "ma solo per ascoltare", precisa, il senatore del Pd Vincenzo Vita, che commenta: "Voglio interpretare questa novità che si sta muovendo a sinistra, anche se trovo eccessivi alcuni attacchi al Pd che ho sentito in vari interventi. E vorrei che nella giusta critica che si fa al governo Monti non ci si dimenticasse che prima di lui il paese era ad un passo dal baratro".
Lo pensa anche Sergio Staino, non particolarmente entusiasta del dibattito. "Sono venuto per capire quale sia il progetto ma francamente non potrei dire di esserci riuscito. Più che mitezza parlerei di tenerezza, perché è questo il sentimento che si prova quando qualcuno mette a disposizione la sua esperienza per cercare di realizzare qualcosa di nuovo. Non condivido comunque l'idea che Monti sia stato messo lì dal capitalismo finanziario, vorrei che ogni tanto qualcuno si ricordasse che il precedente premier era Berlusconi..."
Tantissimi gli interventi al microfono, rigidamente limitati a sette minuti. Il politologo Marco Revelli non è tra quelli che hanno voglia di fondare un altro "partitino" ma di sicuro si colloca nella schiera degli italiani molto incavolati per la situazione economica e politica: "Vogliamo essere un soggetto costituzionale che si candida ad essere protagonista dio una fase in cui la sfiducia nei partiti è totale. Mentre gli imprenditori si suicidano Bersani, Casini e Alfano dichiarano di non voler rinunciare ai soldi del finanziamento pubblico, è una follia. Ormai è inutile sperare nella capacità dei partiti di autoriformarsi, non ci crediamo più. E siamo preoccupati per l'emergenza sociale che il governo affronta con la ricetta del neoliberismo, un dogma che ha fallito e che non potrà risanare l'economia di questo paese".
"Questo movimento non teme di confrontarsi", dice Alberto Lucarelli, assessore ai beni comuni di Napoli, tra i principali autori del manifesto di Ginsborg. "Noi non diciamo o con noi o contro di noi ma ci poniamo nell'ambito di una cultura della sinistra che si contrappone a queste forme di liberismo economico che hanno deformato lo stato sociale".
Tra i firmatari del manifesto c'è Luciano Gallino, professore emerito all'università di Torino. Convinto che "per creare rapidamente occupazione occorre che lo Stato operi come datore di lavoro di ultima istanza, assumendo direttamente il maggior numero di persone". Gallino auspica la nascita di un'Agenzia per l'occupazione con cui si dovrebbe puntare ad assumere rapidamente almeno un milione di persone". Una proposta inviata all'assemblea fiorentina, così dettagliata: "L'Agenzia per l'occupazione dovrebbe essere simile alla Works Progress Administration del New Deal americano. Le assunzioni verrebbero effettuate e gestite unicamente su scala locale, da Comuni, Regioni, enti del volontariato, servizi del lavoro. Le persone assunte dovrebbero venire impiegate unicamente in progetti di pubblica utilità. L'operazione sarebbe finanziata da una molteplicità di fonti: fondi europei; cassa depositi e prestiti; una patrimoniale di scopo dell'1% sui patrimoni finanziari superiori a 200.000 euro".
Infuocatissimo l'intervento del giurista dell'ateneo torinese Ugo Mattei, autore dello Statuto del Teatro Valle. "Inserire il pareggio di bilancio in Costituzione è stato0 un vero e proprio golpe bianco", dice, "e il Pd non doveva votare. Siamo in un'emergenza drammatica, la gente non sa come campare e ci sono un milione di irresponsabili che banchettano allegramente. E questa non è anti politica ma pura verità".
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
29.4.12
28.4.12
Province, Titanic da 18 miliardi tenuto a galla dai doppi incarichi
Protette dal Parlamento, accumulano spese. E sprechi
Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella (Corriere)
Ci sono italiani che vivono su Marte. La prova è in una delibera della Provincia di Reggio Calabria. Che il 23 dicembre 2011, il giorno dopo il varo della manovra lacrime e sangue per salvare l' Italia dal baratro, stanziava 120 mila euro per comprare un pianoforte a coda per dare dei concerti a palazzo.
Cosa se ne fa di un pianoforte, direte voi, una Provincia che come le altre sta per essere soppressa? Ecco il nodo: l' idea di chiudere, a molti, non passa neanche per la testa. Il bello è che la Provincia di Reggio è perfino meno sgangherata (si fa per dire.) delle sorelle calabresi. Lo dice l' ultima classifica dei buchi di bilancio pubblicata dal Sole 24 Ore. Che vede i reggini con un debito pro capite provinciale di 236,8 euro, cioè meno della metà di quello stratosferico dei crotonesi (493,7), dei vibonesi (564), dei catanzaresi (564,9) e dei cosentini, che svettano nella hit-parade (dove sono calabresi le prime quattro Province dalle mani bucate) con 591,1 euro di buco a testa. Con dei conti così disastrati, vi chiederete, nei mesi in cui imprenditori asfissiati dai debiti e operai disoccupati si impiccano, come può venire in mente a un amministratore pubblico di comprare un pianoforte a coda? La delibera merita di essere letta per il linguaggio surreale. L' acquisto, infatti, viene motivato dalla necessità di «avviare nel corso del 2012 una stagione concertistica che contribuisca (.) ad avvicinare i cittadini all' istituzione». Testuale. Apriti cielo! «Ma siete pazzi?», hanno chiesto i giornali locali mentre sul web giravano insulti irripetibili. Risposta di Edoardo Lamberti Castronuovo, che dopo essere stato il candidato al comune della sinistra è oggi l' assessore alla Cultura della destra: «Mi domando perché molti non si sono preoccupati degli sprechi del passato e oggi contestano l' acquisto di un bene che diventa patrimonio della gente». Insomma, affittare un pianoforte a Catania costava ogni volta duemila euro! Insurrezione del Conservatorio: «Ma se ne abbiamo due noi!» Sigillo finale: d' accordo, stop, ma l' acquisto è solo rinviato finché si abbassa il polverone. E pare davvero di sentirle, le note dell' ultimo valzer, mentre il Titanic delle Province si avvia verso l' iceberg nella incredulità generale: possibile che, alla fine, si faccia sul serio e si vada allo scioglimento? Un po' di navigazione ancora la vorrà ben concedere. Ed ecco che i presidenti delle Province di Como, Vicenza, La Spezia, Genova, Ancona e Belluno, che sarebbero decaduti il 6 maggio per fine mandato, resteranno ancora un poco al loro posto. Il ministro dell' Interno Anna Maria Cancellieri ha deciso di nominarli commissari di se stessi, in attesa che entro l' anno, come stabilito dal decreto «Salva Italia» si faccia la legge con la quale gli enti dovrebbero scomparire. Il solo presidente della Provincia di Genova, Alessandro Repetto, ha detto «Non ci sto». E si è dimesso. Ma sono in tanti a non volersi rassegnare. Non si rassegnano i nordisti che a maggio 2011, quando già la campana suonava a morto, per bocca del senatore leghista Sergio Divina proponevano una legge per istituire la Ladinia, terza Provincia autonoma nella Regione Trentino Alto Adige. Ma non si rassegnano neppure i meridionali. Giorni fa il disegno di legge regionale che prevedeva la soppressione delle Province siciliane è saltato. Tutto rimandato. In compenso, come racconta LiveSicilia, è comparsa una sorpresina maleodorante: invece di abolire le Province, si è abolita l' incompatibilità fra sindaco o assessore e dipendente di aziende sanitarie. Prosit. Il fatto è che le Province hanno potentissimi sostenitori in Parlamento. Dove sono seduti ben dieci presidenti. E ci resteranno fino alla fine della legislatura. Soltanto due mesi fa la giunta per le elezioni di Montecitorio ha stabilito che l' incarico di parlamentare non è incompatibile con quello di presidente di Provincia. E ciò nonostante la legge al riguardo sia esplicita: non si può. Ma tant' è. La deputata Maria Teresa Armosino resterà quindi presidente della Provincia di Asti, al pari di Luigi Cesaro che governa quella di Napoli, Edmondo Cirielli (Salerno), Domenico Zinzi (Caserta), Antonello Iannarilli (Frosinone), Daniele Molgora (Brescia), Antonio Pepe (Foggia) e Roberto Simonetti (Biella). Tutti di centrodestra. E l' unico «giano bifronte» del centrosinistra? Il senatore Daniele Bosone, presidente della Provincia di Pavia: appartiene al Pd, che alla Camera s'era opposto fermamente ai doppi incarichi. Allora se ne va? No, resta. Ma quanto costano le Province? Le stime, a seconda delle fonti, vanno dai 12 ai 18 miliardi di euro. E chi ne difende la sopravvivenza sostiene che abolendole si risparmierebbe pochissimo. Un miliardo al massimo, considerando che (escluso il licenziamento dei dipendenti) verrebbero meno «solo» 4 mila amministratori. Ma è così? O è solo fumo ostruzionistico per rallentare il processo? Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, l' unico che abbia pubblicamente sostenuto l' inutilità del suo ente, dice che solo ridisegnando la gara d' appalto per il riscaldamento di 300 scuole romane è riuscito a risparmiare 5 milioni l' anno. Una bella somma: niente, però, in rapporto al fiume di denaro che se ne va per iniziative quantomeno discutibili. Come i viaggi delle delegazioni provinciali campane (50 mila euro ciascuna) al Columbus Day. O lo strepitoso Valva Film Festival, organizzato a spese della Provincia a Salerno nell' agosto del 2009, dove fu assegnato a Noemi Letizia, la ninfetta napoletana alla cui festa cominciò il tormentone sul Cavaliere e le minorenni, il premio alla carriera «Per il talento che verrà». O ancora, a Bolzano, la spesuccia costata una condanna della Corte dei Conti (2.400 euro) a Luis Durnwalder. «Se andiamo avanti così non saranno più i politici a decidere quale iniziativa sostenere con un contributo», è sbottato furente. Difficile, però, non condividere le perplessità dei magistrati contabili davanti al finanziamento indagato: 62 mila euro a un torneo di beach volley. A Bolzano! Elemosine, in confronto a qualche iniziativa di Trento. Dove la Provincia, insieme con il comune di Riva del Garda, ha fatto rinascere con i soldi pubblici un lussuoso e storico albergo a 5 stelle, il Lido Palace. Investimento previsto: una trentina di milioni di euro. Prezzi delle stanze: da 730 a 1.959 euro a notte per la junior suite. Perché le Province, e non soltanto quelle autonome, muovono somme importanti. Talvolta con serie ripercussioni finanziarie, come ha documentato una recente relazione della Corte dei conti sulla Provincia di Torino, il cui indebitamento nel 2013 raggiungerebbe 667 milioni. Nell' occasione, i giudici hanno stigmatizzato l' esistenza di un groviglio di partecipazioni. La Provincia di Torino ne ha 165. Una giungla infernale e costosissima, dalla quale ora il presidente Antonio Saitta vorrebbe uscire accorpando tutto in una nuova società regionale. Dice che si potrebbero risparmiare 4 milioni l' anno. Buona fortuna. Quando la scorsa estate il consiglio provinciale doveva decidere la riduzione delle poltrone, magicamente mancò il numero legale. Eppure dovrebbero saperlo: le società pubbliche spesso sono anche fonte di guai. Ricordate la Sogas che gestisce l' aeroporto di Reggio Calabria, i cui azionisti sono con il 67% la Provincia reggina e col 27% quella di Messina? In vent' anni ha accumulato perdite per 35,4 milioni in euro. Una voragine. La cosa dovrebbe servire d' esempio. Invece la febbre degli aeroporti è sempre più alta. Ogni Provincia vuole il suo. Frosinone, Caserta, Sibari. L' Italia ha più del doppio degli scali della Francia, in rapporto alla superficie? Chissenefrega, le ambizioni delle Province non si placano. Al punto che Caserta, nonostante le resistenze, insiste sul bisogno d' uno scalo a Grazzanise, ad appena 33 chilometri da Napoli Capodichino. La società dell' aeroporto di Frosinone, invece, esiste già: ha un capitale di 5,9 milioni, di cui 2,8 della Provincia. E un consiglio di amministrazione pieno zeppo di politici...
Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella (Corriere)
Ci sono italiani che vivono su Marte. La prova è in una delibera della Provincia di Reggio Calabria. Che il 23 dicembre 2011, il giorno dopo il varo della manovra lacrime e sangue per salvare l' Italia dal baratro, stanziava 120 mila euro per comprare un pianoforte a coda per dare dei concerti a palazzo.
Cosa se ne fa di un pianoforte, direte voi, una Provincia che come le altre sta per essere soppressa? Ecco il nodo: l' idea di chiudere, a molti, non passa neanche per la testa. Il bello è che la Provincia di Reggio è perfino meno sgangherata (si fa per dire.) delle sorelle calabresi. Lo dice l' ultima classifica dei buchi di bilancio pubblicata dal Sole 24 Ore. Che vede i reggini con un debito pro capite provinciale di 236,8 euro, cioè meno della metà di quello stratosferico dei crotonesi (493,7), dei vibonesi (564), dei catanzaresi (564,9) e dei cosentini, che svettano nella hit-parade (dove sono calabresi le prime quattro Province dalle mani bucate) con 591,1 euro di buco a testa. Con dei conti così disastrati, vi chiederete, nei mesi in cui imprenditori asfissiati dai debiti e operai disoccupati si impiccano, come può venire in mente a un amministratore pubblico di comprare un pianoforte a coda? La delibera merita di essere letta per il linguaggio surreale. L' acquisto, infatti, viene motivato dalla necessità di «avviare nel corso del 2012 una stagione concertistica che contribuisca (.) ad avvicinare i cittadini all' istituzione». Testuale. Apriti cielo! «Ma siete pazzi?», hanno chiesto i giornali locali mentre sul web giravano insulti irripetibili. Risposta di Edoardo Lamberti Castronuovo, che dopo essere stato il candidato al comune della sinistra è oggi l' assessore alla Cultura della destra: «Mi domando perché molti non si sono preoccupati degli sprechi del passato e oggi contestano l' acquisto di un bene che diventa patrimonio della gente». Insomma, affittare un pianoforte a Catania costava ogni volta duemila euro! Insurrezione del Conservatorio: «Ma se ne abbiamo due noi!» Sigillo finale: d' accordo, stop, ma l' acquisto è solo rinviato finché si abbassa il polverone. E pare davvero di sentirle, le note dell' ultimo valzer, mentre il Titanic delle Province si avvia verso l' iceberg nella incredulità generale: possibile che, alla fine, si faccia sul serio e si vada allo scioglimento? Un po' di navigazione ancora la vorrà ben concedere. Ed ecco che i presidenti delle Province di Como, Vicenza, La Spezia, Genova, Ancona e Belluno, che sarebbero decaduti il 6 maggio per fine mandato, resteranno ancora un poco al loro posto. Il ministro dell' Interno Anna Maria Cancellieri ha deciso di nominarli commissari di se stessi, in attesa che entro l' anno, come stabilito dal decreto «Salva Italia» si faccia la legge con la quale gli enti dovrebbero scomparire. Il solo presidente della Provincia di Genova, Alessandro Repetto, ha detto «Non ci sto». E si è dimesso. Ma sono in tanti a non volersi rassegnare. Non si rassegnano i nordisti che a maggio 2011, quando già la campana suonava a morto, per bocca del senatore leghista Sergio Divina proponevano una legge per istituire la Ladinia, terza Provincia autonoma nella Regione Trentino Alto Adige. Ma non si rassegnano neppure i meridionali. Giorni fa il disegno di legge regionale che prevedeva la soppressione delle Province siciliane è saltato. Tutto rimandato. In compenso, come racconta LiveSicilia, è comparsa una sorpresina maleodorante: invece di abolire le Province, si è abolita l' incompatibilità fra sindaco o assessore e dipendente di aziende sanitarie. Prosit. Il fatto è che le Province hanno potentissimi sostenitori in Parlamento. Dove sono seduti ben dieci presidenti. E ci resteranno fino alla fine della legislatura. Soltanto due mesi fa la giunta per le elezioni di Montecitorio ha stabilito che l' incarico di parlamentare non è incompatibile con quello di presidente di Provincia. E ciò nonostante la legge al riguardo sia esplicita: non si può. Ma tant' è. La deputata Maria Teresa Armosino resterà quindi presidente della Provincia di Asti, al pari di Luigi Cesaro che governa quella di Napoli, Edmondo Cirielli (Salerno), Domenico Zinzi (Caserta), Antonello Iannarilli (Frosinone), Daniele Molgora (Brescia), Antonio Pepe (Foggia) e Roberto Simonetti (Biella). Tutti di centrodestra. E l' unico «giano bifronte» del centrosinistra? Il senatore Daniele Bosone, presidente della Provincia di Pavia: appartiene al Pd, che alla Camera s'era opposto fermamente ai doppi incarichi. Allora se ne va? No, resta. Ma quanto costano le Province? Le stime, a seconda delle fonti, vanno dai 12 ai 18 miliardi di euro. E chi ne difende la sopravvivenza sostiene che abolendole si risparmierebbe pochissimo. Un miliardo al massimo, considerando che (escluso il licenziamento dei dipendenti) verrebbero meno «solo» 4 mila amministratori. Ma è così? O è solo fumo ostruzionistico per rallentare il processo? Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, l' unico che abbia pubblicamente sostenuto l' inutilità del suo ente, dice che solo ridisegnando la gara d' appalto per il riscaldamento di 300 scuole romane è riuscito a risparmiare 5 milioni l' anno. Una bella somma: niente, però, in rapporto al fiume di denaro che se ne va per iniziative quantomeno discutibili. Come i viaggi delle delegazioni provinciali campane (50 mila euro ciascuna) al Columbus Day. O lo strepitoso Valva Film Festival, organizzato a spese della Provincia a Salerno nell' agosto del 2009, dove fu assegnato a Noemi Letizia, la ninfetta napoletana alla cui festa cominciò il tormentone sul Cavaliere e le minorenni, il premio alla carriera «Per il talento che verrà». O ancora, a Bolzano, la spesuccia costata una condanna della Corte dei Conti (2.400 euro) a Luis Durnwalder. «Se andiamo avanti così non saranno più i politici a decidere quale iniziativa sostenere con un contributo», è sbottato furente. Difficile, però, non condividere le perplessità dei magistrati contabili davanti al finanziamento indagato: 62 mila euro a un torneo di beach volley. A Bolzano! Elemosine, in confronto a qualche iniziativa di Trento. Dove la Provincia, insieme con il comune di Riva del Garda, ha fatto rinascere con i soldi pubblici un lussuoso e storico albergo a 5 stelle, il Lido Palace. Investimento previsto: una trentina di milioni di euro. Prezzi delle stanze: da 730 a 1.959 euro a notte per la junior suite. Perché le Province, e non soltanto quelle autonome, muovono somme importanti. Talvolta con serie ripercussioni finanziarie, come ha documentato una recente relazione della Corte dei conti sulla Provincia di Torino, il cui indebitamento nel 2013 raggiungerebbe 667 milioni. Nell' occasione, i giudici hanno stigmatizzato l' esistenza di un groviglio di partecipazioni. La Provincia di Torino ne ha 165. Una giungla infernale e costosissima, dalla quale ora il presidente Antonio Saitta vorrebbe uscire accorpando tutto in una nuova società regionale. Dice che si potrebbero risparmiare 4 milioni l' anno. Buona fortuna. Quando la scorsa estate il consiglio provinciale doveva decidere la riduzione delle poltrone, magicamente mancò il numero legale. Eppure dovrebbero saperlo: le società pubbliche spesso sono anche fonte di guai. Ricordate la Sogas che gestisce l' aeroporto di Reggio Calabria, i cui azionisti sono con il 67% la Provincia reggina e col 27% quella di Messina? In vent' anni ha accumulato perdite per 35,4 milioni in euro. Una voragine. La cosa dovrebbe servire d' esempio. Invece la febbre degli aeroporti è sempre più alta. Ogni Provincia vuole il suo. Frosinone, Caserta, Sibari. L' Italia ha più del doppio degli scali della Francia, in rapporto alla superficie? Chissenefrega, le ambizioni delle Province non si placano. Al punto che Caserta, nonostante le resistenze, insiste sul bisogno d' uno scalo a Grazzanise, ad appena 33 chilometri da Napoli Capodichino. La società dell' aeroporto di Frosinone, invece, esiste già: ha un capitale di 5,9 milioni, di cui 2,8 della Provincia. E un consiglio di amministrazione pieno zeppo di politici...
26.4.12
17 anni di austerity, e oggi l'ultimo capitolo: Monti
di Cesare Del Frate
La parola "austerity", oggi sulla bocca di tutti, è entrata solo recentemente nel nostro vocabolario tramite la comunicazione compassata e professorale del neo-premier Mario Monti. Tuttavia, se intendiamo con "austerity" il rigore di bilancio, e quindi uno Stato che "spende" meno di quanto riceve come "entrate" (devolvendo quanto così risparmiato a ripagare il debito), possiamo vedere come lo Stato italiano abbia applicato misure di austerity dal 1995 ad oggi, ininterrottamente per 17 anni consecutivi. Guardiamo le serie storiche della Banca d'Italia, da questa tabella:
Come si compone il Bilancio dello Stato? Quando lo Stato spende in misura maggiore rispetto alle entrate siamo in DISAVANZO PRIMARIO. Al disavanzo primario vanno aggiunte le spese per ripagare gli interessi sul debito pregresso. Disavanzo primario+spese per interessi=Deficit. Il deficit è dato dalla somma di questi fattori. Prendiamo i dati relativi al 1993: il deficit è di 109 miliardi. Lo Stato spende quindi 109 miliardi in più rispetto alle sue entrate fiscali (aumenta quindi il debito di 109 miliardi per reperire le risorse che non ha). Come si compone questo deficit. Sempre dalla tabella con i dati di Banca Italia vediamo che il deficit è composto al 96% da spese per interessi. Vale a dire: se non ci fossero le spese sugli interessi, il deficit sarebbe pari a 5 miliardi di euro, non a 109. A 109 miliardi ci si arriva tenendo conto delle spese sugli interessi, pari a circa 101 miliardi di euro. Nel 1990 gli interessi compongono il 92,9% del deficit, nel 1991 il 99,3% del deficit, nel 1994 il 91,2%. Possiamo quindi capire come il deficit italiano dei primi anni novanta sia imputabile, per una misura superiore al 90%, alla spesa per il "servizio del debito" (così viene chiamato il ripagare gli interessi sul debito pubblico).
Cosa cambia a partire dal 1995? Succede che a partire da quella data, e in modo costante fino ad oggi, il "servizio del debito" pesa sul deficit per importi superiori al 100%. Nel 1995 il deficit è composto per il 133,9% dal servizio del debito. Cosa significa? Che se togliamo la spesa per interessi, il bilancio dello Stato è in AVANZO PRIMARIO. L'avanzo primario si verifica quando lo Stato spende meno di quanto incasa come entrate. Se ha entrate pari a 100 e spese pari a 90, l'avanzo primario è di 10. Quei 10 sono "risparmiati". Però non abbiamo ancora fatto i conti con gli interessi sul debito. Se devo pagare 5 di interessi sul debito, alla fine non avrò risparmiato 120 ma soltanto 5. Comunque qualcosa avrò risparmiato, e quei 5 potrò usarli per restituire parte del debito in modo che l'anno prossimo avrò interessi minori da pagare. Prendiamo un altro caso: ho risparmiato 10 ma devo ancora pagare 15 di interessi sul debito. In questo caso non solo, alla fine dei conti, non avrò risparmiato nulla, ma dovrò contrarre nuovi debiti pari a 5 (10-15) per ripagare gli interessi sul debito pregresso. Così il mio debito aumenterà e l'anno prossimo gli interessi saranno ancora più onerosi. Benissimo, questo è il caso che si è verificato in Italia dal 1995 ad oggi. Dal 1995 ad oggi siamo in avanzo primario (lo Stato spende meno di quanto incassa), ma ogni anno andiamo "sotto" (in deficit) per via degli interessi sul debito pregresso, costantemente superiori a quanto riusciamo a risparmiare. Ad esempio nel 1997 l'avanzo primario (quanto risparmiato) era pari a 73 miliardi, ma avendo interessi da pagare pari a 97 miliardi siamo andati in rosso (deficit) di 24 miliardi (73-97= - 24). Veniamo a un anno più vicino: il 2008. Avanzo primario: 16 miliardi. Spesa per interessi: 80 miliardi. Deficit: (16-80= - 64) pari a 64 miliardi di euro.
Morale della favola: lo Stato italiano dal 1995 ad oggi ha fatto la formica dell'austerity, ha costantemente speso meno di quanto incassava e ha usato il risparmio per ripagare gli interessi. Però la spesa per interessi è stata costantemente superiore a quanto risparmiato: deficit costante dal 1995 ad oggi. Ecco il paradosso: nonostante 17 anni di risparmi e austerity il debito pubblico non ha fatto che aumentare, costantemente e inesorabilmente anno dopo anno. Oggi Monti non rappresenta nessuna novità, anzi è il perfetto continuatore di una lunga tradizione di austerity (chiamiamola anche neoliberismo) inaugurata nel 1995. L'esito dell'austerity di Monti sarà diverso dall'austerity dei suoi predecessori? A voi giudicare, nei primi tre mesi del suo governo il debito è aumentato di circa 40 miliardi (fonte sempre Banca Italia).
Ultima nota: i risparmi dell'austerity. Come ha fatto lo Stato italiano a spendere meno di quanto incassava dal 1995 ad oggi? Semplice, tagliando le spese. I tagli li conosciamo bene: alla scuola, all'università, alla sanità (aumento dei ticket), alle pensioni, al salario dei dipendenti pubblici, agli investimenti nelle reti stradali e ferroviarie, alla cultura (musei, teatri etc.), alla spesa sociale (welfare), ai licenziamenti nel settore pubblico (uniti alla riduzione del turn-over) etc. etc.
La "dottrina" neoliberista egemone negli ultimi 17 anni (ma a dire il vero dagli anni 80...) ci dice che tagliare la spesa pubblica serve a risanare i conti e a liberare risorse per il mercato. La prima tesi (risanare i bilanci) è falsa: il debito aumenta. La seconda è parimenti falsa: quanto risparmiato NON è andato al "mercato" o all'economia reale ma alla finanza tramite pagamento di interessi sui debiti pregressi. Detto in altri termini: dal 1995 ad oggi lo Stato NON ha mai contratto debiti per coprire la spesa, ha sempre contratto nuovi debiti per ripagare interessi esorbitanti superiori a quanto riuscisse a risparmiare (vi ricorda qualcosa? a me ricorda l'usura). Ha sempre risparmiato per 17 anni ma non era mai abbastanza, gli interessi si divoravano tutto il risparmio e ancora non bastava, bisognava contrarre nuovi debiti solo per ripagare gli interessi su quelli di 17 anni prima!!!!
Possiamo quindi affermare che la dottrina neoliberista dell'austerity ha scopi reali ben distanti da quelli proclamati:
1) L'austerity NON serve a risanare il bilancio, anzi aumenta anno dopo anno il debito
2) L'austerity NON serve a liberare risorse destinate all'economia reale: le risorse liberate finiscono tutte nella finanza tramite gli interessi da pagare
3) L'austerity allora a cosa serve? Serve a destinare quote sempre crescenti della ricchezza nazionale al "servizio del debito". Una quota via via maggiore della ricchezza prodotta annualmente in Italia "evapora", scompare risucchiata dagli interessi sul debito.
Ci sono alternative? Sì. I tassi di interesse devono essere decisi dallo Stato (cvome avveniva in Italia fino al 1981, anno di riforma della Banca Centrale) e non dai "mercati". E inoltre bisogna tornare alla saggezza economica "tradizionale" (quella di Keynes, Galbraith, Krugman, Stiglitz, Minsky etc.) che sostiene la necessità di politiche ANTI-cicliche: risparmi in fase di espansione economica, spendi di più quando sei in recessione (per far ripartire l'economia). In questo modo i debiti che contrai per rilanciare l'economia li ripaghi dopo quando sei in fase di crescita tramite il risparmio. L'austerity fa il contrario: risparmia in fasi di stagnazione e addirittura di recessione aggravando la situazione senza peraltro riuscire a risanare i conti.
17 anni di austerity sono abbastanza? Quanto vogliamo andare avanti a perseguire queste politiche economiche folli e suicide?
La parola "austerity", oggi sulla bocca di tutti, è entrata solo recentemente nel nostro vocabolario tramite la comunicazione compassata e professorale del neo-premier Mario Monti. Tuttavia, se intendiamo con "austerity" il rigore di bilancio, e quindi uno Stato che "spende" meno di quanto riceve come "entrate" (devolvendo quanto così risparmiato a ripagare il debito), possiamo vedere come lo Stato italiano abbia applicato misure di austerity dal 1995 ad oggi, ininterrottamente per 17 anni consecutivi. Guardiamo le serie storiche della Banca d'Italia, da questa tabella:
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Come si compone il Bilancio dello Stato? Quando lo Stato spende in misura maggiore rispetto alle entrate siamo in DISAVANZO PRIMARIO. Al disavanzo primario vanno aggiunte le spese per ripagare gli interessi sul debito pregresso. Disavanzo primario+spese per interessi=Deficit. Il deficit è dato dalla somma di questi fattori. Prendiamo i dati relativi al 1993: il deficit è di 109 miliardi. Lo Stato spende quindi 109 miliardi in più rispetto alle sue entrate fiscali (aumenta quindi il debito di 109 miliardi per reperire le risorse che non ha). Come si compone questo deficit. Sempre dalla tabella con i dati di Banca Italia vediamo che il deficit è composto al 96% da spese per interessi. Vale a dire: se non ci fossero le spese sugli interessi, il deficit sarebbe pari a 5 miliardi di euro, non a 109. A 109 miliardi ci si arriva tenendo conto delle spese sugli interessi, pari a circa 101 miliardi di euro. Nel 1990 gli interessi compongono il 92,9% del deficit, nel 1991 il 99,3% del deficit, nel 1994 il 91,2%. Possiamo quindi capire come il deficit italiano dei primi anni novanta sia imputabile, per una misura superiore al 90%, alla spesa per il "servizio del debito" (così viene chiamato il ripagare gli interessi sul debito pubblico).
Cosa cambia a partire dal 1995? Succede che a partire da quella data, e in modo costante fino ad oggi, il "servizio del debito" pesa sul deficit per importi superiori al 100%. Nel 1995 il deficit è composto per il 133,9% dal servizio del debito. Cosa significa? Che se togliamo la spesa per interessi, il bilancio dello Stato è in AVANZO PRIMARIO. L'avanzo primario si verifica quando lo Stato spende meno di quanto incasa come entrate. Se ha entrate pari a 100 e spese pari a 90, l'avanzo primario è di 10. Quei 10 sono "risparmiati". Però non abbiamo ancora fatto i conti con gli interessi sul debito. Se devo pagare 5 di interessi sul debito, alla fine non avrò risparmiato 120 ma soltanto 5. Comunque qualcosa avrò risparmiato, e quei 5 potrò usarli per restituire parte del debito in modo che l'anno prossimo avrò interessi minori da pagare. Prendiamo un altro caso: ho risparmiato 10 ma devo ancora pagare 15 di interessi sul debito. In questo caso non solo, alla fine dei conti, non avrò risparmiato nulla, ma dovrò contrarre nuovi debiti pari a 5 (10-15) per ripagare gli interessi sul debito pregresso. Così il mio debito aumenterà e l'anno prossimo gli interessi saranno ancora più onerosi. Benissimo, questo è il caso che si è verificato in Italia dal 1995 ad oggi. Dal 1995 ad oggi siamo in avanzo primario (lo Stato spende meno di quanto incassa), ma ogni anno andiamo "sotto" (in deficit) per via degli interessi sul debito pregresso, costantemente superiori a quanto riusciamo a risparmiare. Ad esempio nel 1997 l'avanzo primario (quanto risparmiato) era pari a 73 miliardi, ma avendo interessi da pagare pari a 97 miliardi siamo andati in rosso (deficit) di 24 miliardi (73-97= - 24). Veniamo a un anno più vicino: il 2008. Avanzo primario: 16 miliardi. Spesa per interessi: 80 miliardi. Deficit: (16-80= - 64) pari a 64 miliardi di euro.
Morale della favola: lo Stato italiano dal 1995 ad oggi ha fatto la formica dell'austerity, ha costantemente speso meno di quanto incassava e ha usato il risparmio per ripagare gli interessi. Però la spesa per interessi è stata costantemente superiore a quanto risparmiato: deficit costante dal 1995 ad oggi. Ecco il paradosso: nonostante 17 anni di risparmi e austerity il debito pubblico non ha fatto che aumentare, costantemente e inesorabilmente anno dopo anno. Oggi Monti non rappresenta nessuna novità, anzi è il perfetto continuatore di una lunga tradizione di austerity (chiamiamola anche neoliberismo) inaugurata nel 1995. L'esito dell'austerity di Monti sarà diverso dall'austerity dei suoi predecessori? A voi giudicare, nei primi tre mesi del suo governo il debito è aumentato di circa 40 miliardi (fonte sempre Banca Italia).
Ultima nota: i risparmi dell'austerity. Come ha fatto lo Stato italiano a spendere meno di quanto incassava dal 1995 ad oggi? Semplice, tagliando le spese. I tagli li conosciamo bene: alla scuola, all'università, alla sanità (aumento dei ticket), alle pensioni, al salario dei dipendenti pubblici, agli investimenti nelle reti stradali e ferroviarie, alla cultura (musei, teatri etc.), alla spesa sociale (welfare), ai licenziamenti nel settore pubblico (uniti alla riduzione del turn-over) etc. etc.
La "dottrina" neoliberista egemone negli ultimi 17 anni (ma a dire il vero dagli anni 80...) ci dice che tagliare la spesa pubblica serve a risanare i conti e a liberare risorse per il mercato. La prima tesi (risanare i bilanci) è falsa: il debito aumenta. La seconda è parimenti falsa: quanto risparmiato NON è andato al "mercato" o all'economia reale ma alla finanza tramite pagamento di interessi sui debiti pregressi. Detto in altri termini: dal 1995 ad oggi lo Stato NON ha mai contratto debiti per coprire la spesa, ha sempre contratto nuovi debiti per ripagare interessi esorbitanti superiori a quanto riuscisse a risparmiare (vi ricorda qualcosa? a me ricorda l'usura). Ha sempre risparmiato per 17 anni ma non era mai abbastanza, gli interessi si divoravano tutto il risparmio e ancora non bastava, bisognava contrarre nuovi debiti solo per ripagare gli interessi su quelli di 17 anni prima!!!!
Possiamo quindi affermare che la dottrina neoliberista dell'austerity ha scopi reali ben distanti da quelli proclamati:
1) L'austerity NON serve a risanare il bilancio, anzi aumenta anno dopo anno il debito
2) L'austerity NON serve a liberare risorse destinate all'economia reale: le risorse liberate finiscono tutte nella finanza tramite gli interessi da pagare
3) L'austerity allora a cosa serve? Serve a destinare quote sempre crescenti della ricchezza nazionale al "servizio del debito". Una quota via via maggiore della ricchezza prodotta annualmente in Italia "evapora", scompare risucchiata dagli interessi sul debito.
Ci sono alternative? Sì. I tassi di interesse devono essere decisi dallo Stato (cvome avveniva in Italia fino al 1981, anno di riforma della Banca Centrale) e non dai "mercati". E inoltre bisogna tornare alla saggezza economica "tradizionale" (quella di Keynes, Galbraith, Krugman, Stiglitz, Minsky etc.) che sostiene la necessità di politiche ANTI-cicliche: risparmi in fase di espansione economica, spendi di più quando sei in recessione (per far ripartire l'economia). In questo modo i debiti che contrai per rilanciare l'economia li ripaghi dopo quando sei in fase di crescita tramite il risparmio. L'austerity fa il contrario: risparmia in fasi di stagnazione e addirittura di recessione aggravando la situazione senza peraltro riuscire a risanare i conti.
17 anni di austerity sono abbastanza? Quanto vogliamo andare avanti a perseguire queste politiche economiche folli e suicide?
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24.4.12
La schiavitù dei mercati
Jean Paul Fitoussi (La Repubblica)
È troppo semplicistico dire che i mercati sono crollati a causa della semi-vittoria di Hollande. La settimana scorsa erano pure crollati, per qualche altra ragione. È un bel po´ di tempo, almeno da luglio dello scorso anno, che ci siamo abituati a questa volatilità mozzafiato. E ogni volta si cerca ex post di trovare qualche ragione. Ora è la paura del socialismo: chissà, forse gli operatori sui mercati lo temono veramente, magari perché vedono la giustizia sociale come abbinata a nuove tasse, ma io non l´ho mai creduto neanche un momento. I mercati crollano oggi come ieri, e crolleranno ancora chissà quante volte, perché non è stato risolto il problema di una governance europea innanzitutto che esista, nel senso che si crei una struttura centrale in grado di dettare precise linee di azione, e poi che metta al primo posto i problemi della crescita e non dell´austerità a tutti i costi.
Altrimenti viviamo nella schiavitù dei mercati: quando crollano è come se chiedessero austerità, i governi magari ubbidiscono e poi dopo un po´ di tempo i mercati si accorgono che senza crescita le imprese non possono creare ricchezza, e allora i mercati crollano di nuovo. Tutto questo peraltro va nell´interesse degli speculatori: finché ci sarà questa volatilità esisteranno sempre ampie possibilità di guadagni per chi gioca con freddezza e spregiudicatezza sui mercati.
Il problema insomma non è Hollande. Va anche detto che pure Sarkozy negli ultimi tempi ha preso le distanze dalla rigidità della Merkel, l´asse franco-tedesco dava parecchi segnali di scricchiolio. Al punto che ora non so quanto il rinnovato appoggio della Merkel all´attuale presidente possa dirsi benaugurale: ho l´impressione invece che finirà col sottrarre voti a Sarkozy, una specie di consenso avvelenato, perché la Merkel sarà anche stimata dalle classi dirigenti ma non ha più un vasto consenso popolare, tantomeno in Francia. E quello che conta in un´elezione è il voto del popolo.
In ogni caso, Hollande è stato più chiaro e deciso: ha detto senza equivoci che il fiscal compact così com´è non va, e visto che dev´essere ancora ratificato si può, anzi si deve correggere in modo da orientarlo di più verso la crescita. Altrimenti l´Europa andrà a sbattere contro un muro. È questo il vero problema. Altrimenti si andrà avanti con una debolezza strutturale dell´Europa che inquina lo stesso rapporto fra politica e mercati. Il problema va preso molto sul serio. Nel momento in cui ci renderemo conto che i mercati tutelano la politica, sarà già troppo tardi, perché non ci sarà più spazio per la democrazia. E questo la popolazione non potrà mai tollerare in nessuna parte del mondo. Dunque la normalità è che siano i governi a tutelare i mercati. E i mercati a loro volta sanno che sono sottoposti al rischio di non poter sopravvivere senza l´aiuto dei governi. Questa è stata la grande lezione della crisi finanziaria: dire che bisogna cambiare il voto perché sennò si fa dispiacere ai mercati significa aprire una ferita nella democrazia.
È troppo semplicistico dire che i mercati sono crollati a causa della semi-vittoria di Hollande. La settimana scorsa erano pure crollati, per qualche altra ragione. È un bel po´ di tempo, almeno da luglio dello scorso anno, che ci siamo abituati a questa volatilità mozzafiato. E ogni volta si cerca ex post di trovare qualche ragione. Ora è la paura del socialismo: chissà, forse gli operatori sui mercati lo temono veramente, magari perché vedono la giustizia sociale come abbinata a nuove tasse, ma io non l´ho mai creduto neanche un momento. I mercati crollano oggi come ieri, e crolleranno ancora chissà quante volte, perché non è stato risolto il problema di una governance europea innanzitutto che esista, nel senso che si crei una struttura centrale in grado di dettare precise linee di azione, e poi che metta al primo posto i problemi della crescita e non dell´austerità a tutti i costi.
Altrimenti viviamo nella schiavitù dei mercati: quando crollano è come se chiedessero austerità, i governi magari ubbidiscono e poi dopo un po´ di tempo i mercati si accorgono che senza crescita le imprese non possono creare ricchezza, e allora i mercati crollano di nuovo. Tutto questo peraltro va nell´interesse degli speculatori: finché ci sarà questa volatilità esisteranno sempre ampie possibilità di guadagni per chi gioca con freddezza e spregiudicatezza sui mercati.
Il problema insomma non è Hollande. Va anche detto che pure Sarkozy negli ultimi tempi ha preso le distanze dalla rigidità della Merkel, l´asse franco-tedesco dava parecchi segnali di scricchiolio. Al punto che ora non so quanto il rinnovato appoggio della Merkel all´attuale presidente possa dirsi benaugurale: ho l´impressione invece che finirà col sottrarre voti a Sarkozy, una specie di consenso avvelenato, perché la Merkel sarà anche stimata dalle classi dirigenti ma non ha più un vasto consenso popolare, tantomeno in Francia. E quello che conta in un´elezione è il voto del popolo.
In ogni caso, Hollande è stato più chiaro e deciso: ha detto senza equivoci che il fiscal compact così com´è non va, e visto che dev´essere ancora ratificato si può, anzi si deve correggere in modo da orientarlo di più verso la crescita. Altrimenti l´Europa andrà a sbattere contro un muro. È questo il vero problema. Altrimenti si andrà avanti con una debolezza strutturale dell´Europa che inquina lo stesso rapporto fra politica e mercati. Il problema va preso molto sul serio. Nel momento in cui ci renderemo conto che i mercati tutelano la politica, sarà già troppo tardi, perché non ci sarà più spazio per la democrazia. E questo la popolazione non potrà mai tollerare in nessuna parte del mondo. Dunque la normalità è che siano i governi a tutelare i mercati. E i mercati a loro volta sanno che sono sottoposti al rischio di non poter sopravvivere senza l´aiuto dei governi. Questa è stata la grande lezione della crisi finanziaria: dire che bisogna cambiare il voto perché sennò si fa dispiacere ai mercati significa aprire una ferita nella democrazia.
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21.4.12
La grande beffa delle regole
di Alesssandro Plateroti
Sui mercati finanziari, la differenza tra un bravo e un cattivo trader si misura prima di tutto sulla velocità di reazione: dal «timing», cioè dalla tempestività delle decisioni, dipende non solo il successo di un'operazione, ma anche quello della carriera. «Se si applicasse questa regola anche ai politici o ai regolatori del mercato - ironizza un vecchio banchiere di investimento - sarebbero in pochi a superare il primo esame». L'autocritica, verrebbe da rispondere, non è certamente la qualità dei banchieri. Ma davanti al ritardo con cui politica e regolatori stanno rispondendo ai problemi, ai rischi sistemici e alle distorsioni emerse sui mercati finanziari dopo la crisi dei mutui e il crack di Lehman Brothers è davvero difficile dargli torto. Poco o niente di quanto era stato deciso dal G20, dalle autorità di vigilanza e dai governi di Europa, Stati Uniti e Asia per evitare gli eccessi speculativi e i rischi sistemici, si è infatti tradotto in regole condivise e di efficacia immediata. Soprattutto in Europa, le norme approvate dal legislatore sul controllo dei titoli derivati, sulla trasparenza degli intermediari e delle operazioni, sulla riduzione dei rischi sistemici e sulla protezione del risparmio e del debito sovrano dagli attacchi speculativi, sono ancora in attesa dei regolamenti di attuazione necessari per renderli pienamente operativi. Senza regolamenti, il mercato continua ad agire come un far west. Prendiamo il caso delle banche americane e del loro comportamento speculativo nei confronti dei titoli di Stato europei: ebbene, se le nuove norme approvate dal Parlamento europeo sulla vendita allo scoperto dei Credit default swap sui titoli sovrani avessero già dei regolamenti attuativi, Morgan Stanley e le altre banche Usa non avrebbero potuto speculare su Bonos e BTp. Per avere quei regolamenti bisognerà attendere ancora a lungo: alla luce del ritardo nelle consultazioni, l'obiettivo di fine 2012, sostengono già gli operatori, non potrà mai essere rispettato. E così la bolla torna a gonfiarsi: i derivati finanziari Over the counter (Otc), cioè quelli negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio, nel primo semestre del 2011 sono aumentati in modo stratosferico. Il valore nozionale totale ha raggiunto 708 trilioni di dollari con un aumento del 18% rispetto ai livelli calcolati a fine dicembre 2010! In sei mesi, quindi, le operazioni in derivati sono aumentate di 107 trilioni, cioè di 107.000 miliardi di dollari: invece di mettere un freno al mercato, sono stati superati tutti i record. E si ricordi che alla vigilia della grande crisi, a giugno 2008, il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari. La Bri rivela che l'esplosione dei contratti Otc è determinata quasi totalmente dalla crescita dei derivati accesi sul rischio dei tassi di interesse. Da soli, essi coprono 554 trilioni. In questo campo le operazioni sono aumentate del 19% in 6 mesi. Un altro aspetto preoccupante è che la maggior parte dei contratti ha una scadenza sempre più breve. Quelli con scadenza oltre i 5 anni si sono ridotti del 6%, assestandosi intorno a 130 trilioni di dollari, mentre quelli con scadenza a meno di un anno sono aumentati del 30% raggiungendo i 247 trilioni di dollari. Ciò è sintomo di alta instabilità e di grande volatilità che, nel momento in cui gli Otc entrassero in fibrillazione, potrebbero provocare un devastante «effetto tsunami» soprattutto sulle economie più deboli. È chiaro che questa nuova ondata speculativa - e il ritardo nelle regole - è una manna per gli operatori e gli speculatori della City e di Wall Street. Che nel ritardo delle regole, hanno accelerato il loro processo di concentrazione e di controllo del potere finanziario. Se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l'80% di tutti i derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche (JP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America e Goldman Sachs, ne detengono il 94% del totale). Davanti a queste cifre, è chiaro quanto sia necessario per l'Italia e per l'Europa non solo adottare con celerità le decisioni di propria competenza, ma anche soprattutto di giocare un ruolo più attivo in sede di G20. Dove, purtroppo, finora non si è mai deciso nulla di realmente efficace contro lo strapotere e gli abusi del sistema finanziario.
Sui mercati finanziari, la differenza tra un bravo e un cattivo trader si misura prima di tutto sulla velocità di reazione: dal «timing», cioè dalla tempestività delle decisioni, dipende non solo il successo di un'operazione, ma anche quello della carriera. «Se si applicasse questa regola anche ai politici o ai regolatori del mercato - ironizza un vecchio banchiere di investimento - sarebbero in pochi a superare il primo esame». L'autocritica, verrebbe da rispondere, non è certamente la qualità dei banchieri. Ma davanti al ritardo con cui politica e regolatori stanno rispondendo ai problemi, ai rischi sistemici e alle distorsioni emerse sui mercati finanziari dopo la crisi dei mutui e il crack di Lehman Brothers è davvero difficile dargli torto. Poco o niente di quanto era stato deciso dal G20, dalle autorità di vigilanza e dai governi di Europa, Stati Uniti e Asia per evitare gli eccessi speculativi e i rischi sistemici, si è infatti tradotto in regole condivise e di efficacia immediata. Soprattutto in Europa, le norme approvate dal legislatore sul controllo dei titoli derivati, sulla trasparenza degli intermediari e delle operazioni, sulla riduzione dei rischi sistemici e sulla protezione del risparmio e del debito sovrano dagli attacchi speculativi, sono ancora in attesa dei regolamenti di attuazione necessari per renderli pienamente operativi. Senza regolamenti, il mercato continua ad agire come un far west. Prendiamo il caso delle banche americane e del loro comportamento speculativo nei confronti dei titoli di Stato europei: ebbene, se le nuove norme approvate dal Parlamento europeo sulla vendita allo scoperto dei Credit default swap sui titoli sovrani avessero già dei regolamenti attuativi, Morgan Stanley e le altre banche Usa non avrebbero potuto speculare su Bonos e BTp. Per avere quei regolamenti bisognerà attendere ancora a lungo: alla luce del ritardo nelle consultazioni, l'obiettivo di fine 2012, sostengono già gli operatori, non potrà mai essere rispettato. E così la bolla torna a gonfiarsi: i derivati finanziari Over the counter (Otc), cioè quelli negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio, nel primo semestre del 2011 sono aumentati in modo stratosferico. Il valore nozionale totale ha raggiunto 708 trilioni di dollari con un aumento del 18% rispetto ai livelli calcolati a fine dicembre 2010! In sei mesi, quindi, le operazioni in derivati sono aumentate di 107 trilioni, cioè di 107.000 miliardi di dollari: invece di mettere un freno al mercato, sono stati superati tutti i record. E si ricordi che alla vigilia della grande crisi, a giugno 2008, il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari. La Bri rivela che l'esplosione dei contratti Otc è determinata quasi totalmente dalla crescita dei derivati accesi sul rischio dei tassi di interesse. Da soli, essi coprono 554 trilioni. In questo campo le operazioni sono aumentate del 19% in 6 mesi. Un altro aspetto preoccupante è che la maggior parte dei contratti ha una scadenza sempre più breve. Quelli con scadenza oltre i 5 anni si sono ridotti del 6%, assestandosi intorno a 130 trilioni di dollari, mentre quelli con scadenza a meno di un anno sono aumentati del 30% raggiungendo i 247 trilioni di dollari. Ciò è sintomo di alta instabilità e di grande volatilità che, nel momento in cui gli Otc entrassero in fibrillazione, potrebbero provocare un devastante «effetto tsunami» soprattutto sulle economie più deboli. È chiaro che questa nuova ondata speculativa - e il ritardo nelle regole - è una manna per gli operatori e gli speculatori della City e di Wall Street. Che nel ritardo delle regole, hanno accelerato il loro processo di concentrazione e di controllo del potere finanziario. Se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l'80% di tutti i derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche (JP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America e Goldman Sachs, ne detengono il 94% del totale). Davanti a queste cifre, è chiaro quanto sia necessario per l'Italia e per l'Europa non solo adottare con celerità le decisioni di propria competenza, ma anche soprattutto di giocare un ruolo più attivo in sede di G20. Dove, purtroppo, finora non si è mai deciso nulla di realmente efficace contro lo strapotere e gli abusi del sistema finanziario.
16.4.12
Il co-fondatore di Google confida le sue preoccupazioni per la crescente censura e balcanizzazione del Web
FEDERICO GUERRINI
Per la seconda volta in breve tempo, una grande personalità del Web lancia l'allarme sul futuro della Rete. Forse è davvero ora di iniziare a preoccuparsi. Lo scorso anno era toccato a Tim Berners-Lee, uno dei padri di Internet, schierarsi a difesa di una Rete aperta, dove le informazioni potessero viaggiare liberamente, e di stigmatizzare la progressiva creazione di “walled gardens”, isole non comunicanti fra loro, ognuna con le proprie regole. Lo scienziato faceva riferimento in particolare agli ecosistemi chiusi creati da società come Apple e Facebook.
Questa volta sull'argomento è tornato uno dei co-fondatori di Google, il 38 enne Sergey Brin (nella foto a destra, con Larry Page) che, prima di ritirarsi a studiare la chitarra blues (in una recente intervista ha affermato di voler uscire di scena fra un anno, per inseguire la sua passione), ha confidato al Guardian i suoi timori. “Sono più spaventato di quanto lo sia mai stato in passato – ha affermato – in tutto il mondo e da ogni parte ci sono forze molto potenti che si sono schierate contro la libertà della Rete. È terrificante”.
La critica di Brin non si è concentrata solo sui walled gardens, forse anche per evitare il sospetto di un potenizale conflitto di interessi, visto il possibile interesse di Google a denigrare dei concorrenti, ma si è allargata all'azione censoria di molti governi, e dei grandi gruppi di interesse che combattono la pirateria. La Cina è forse un po' il simbolo della disillusione attuale, il disincanto che ha preso il posto di quello che studiosi come Evgeny Morozov hanno definito “cyber utopismo”: l'idea, in auge fino a qualche tempo fa, che il Web per sua stessa natura non potesse essere imbrigliato e imbavagliato in alcun modo. In realtà, non solo, come ha ammesso Brin, la censura cinese si è rivelata molto più efficace di quanto non si potesse pensare – l'ultimo segno ne è il giro di vite effettuato lo scorso mese sugli utenti dei siti di microblogging, che vengono ora costretti a fornire le proprie generalità per collegarsi ai cloni pechinesi di Twitter- ma h a fatto per così dire “scuola”.
L'Iran, oltre ad avere un proprio sistema di cyber sorveglianza molto sofisticato ambisce ora, a quanto pare, a creare una propria Rete nazionale, una gigantesca Intranet su cui possano transitare solo contenuti approvati dal regime. Il progetto esiste da un po' e la sua realizzazione effettiva è stata annunciata e smentita più volte, ma non è purtroppo solo una fantasia dei media occidentali. In Russia, dopo che il Web è stato il megafono delle proteste anti-Putin, secondo quanto riportato dall'agenzia di Stato Ria Novosti, il ministro dell'Interno vorrebbe creare un centro contro l'estremismo nei mass-media, comprese le testate online e i siti come YouTube.
Nei paesi occidentali, i progetti anti-pirateria come i controversi decreti Sopa e Pipa negli Usa, la legge Hadopi in Francia e varie proposte di legge italiane, nel tentativo di minimizzare le perdite per le major dell'audiovisivo, secondo i loro oppositori, minacciano indirettamente la libertà di espressione su Internet. Un piano del governo britannico contro il crimine, cibernetico e non, consentirebbe alle autorità di monitorare ogni email, ogni sito visitato, ogni messaggio di testo e ogni chiamata telefonica
E, anche altrove, le richieste dei governi di avere accesso ai dati degli utenti, ai loro tweet o ai post su Facebook per indagini di vario tipo, si fanno sempre più frequenti e pressanti.
Per la seconda volta in breve tempo, una grande personalità del Web lancia l'allarme sul futuro della Rete. Forse è davvero ora di iniziare a preoccuparsi. Lo scorso anno era toccato a Tim Berners-Lee, uno dei padri di Internet, schierarsi a difesa di una Rete aperta, dove le informazioni potessero viaggiare liberamente, e di stigmatizzare la progressiva creazione di “walled gardens”, isole non comunicanti fra loro, ognuna con le proprie regole. Lo scienziato faceva riferimento in particolare agli ecosistemi chiusi creati da società come Apple e Facebook.
Questa volta sull'argomento è tornato uno dei co-fondatori di Google, il 38 enne Sergey Brin (nella foto a destra, con Larry Page) che, prima di ritirarsi a studiare la chitarra blues (in una recente intervista ha affermato di voler uscire di scena fra un anno, per inseguire la sua passione), ha confidato al Guardian i suoi timori. “Sono più spaventato di quanto lo sia mai stato in passato – ha affermato – in tutto il mondo e da ogni parte ci sono forze molto potenti che si sono schierate contro la libertà della Rete. È terrificante”.
La critica di Brin non si è concentrata solo sui walled gardens, forse anche per evitare il sospetto di un potenizale conflitto di interessi, visto il possibile interesse di Google a denigrare dei concorrenti, ma si è allargata all'azione censoria di molti governi, e dei grandi gruppi di interesse che combattono la pirateria. La Cina è forse un po' il simbolo della disillusione attuale, il disincanto che ha preso il posto di quello che studiosi come Evgeny Morozov hanno definito “cyber utopismo”: l'idea, in auge fino a qualche tempo fa, che il Web per sua stessa natura non potesse essere imbrigliato e imbavagliato in alcun modo. In realtà, non solo, come ha ammesso Brin, la censura cinese si è rivelata molto più efficace di quanto non si potesse pensare – l'ultimo segno ne è il giro di vite effettuato lo scorso mese sugli utenti dei siti di microblogging, che vengono ora costretti a fornire le proprie generalità per collegarsi ai cloni pechinesi di Twitter- ma h a fatto per così dire “scuola”.
L'Iran, oltre ad avere un proprio sistema di cyber sorveglianza molto sofisticato ambisce ora, a quanto pare, a creare una propria Rete nazionale, una gigantesca Intranet su cui possano transitare solo contenuti approvati dal regime. Il progetto esiste da un po' e la sua realizzazione effettiva è stata annunciata e smentita più volte, ma non è purtroppo solo una fantasia dei media occidentali. In Russia, dopo che il Web è stato il megafono delle proteste anti-Putin, secondo quanto riportato dall'agenzia di Stato Ria Novosti, il ministro dell'Interno vorrebbe creare un centro contro l'estremismo nei mass-media, comprese le testate online e i siti come YouTube.
Nei paesi occidentali, i progetti anti-pirateria come i controversi decreti Sopa e Pipa negli Usa, la legge Hadopi in Francia e varie proposte di legge italiane, nel tentativo di minimizzare le perdite per le major dell'audiovisivo, secondo i loro oppositori, minacciano indirettamente la libertà di espressione su Internet. Un piano del governo britannico contro il crimine, cibernetico e non, consentirebbe alle autorità di monitorare ogni email, ogni sito visitato, ogni messaggio di testo e ogni chiamata telefonica
E, anche altrove, le richieste dei governi di avere accesso ai dati degli utenti, ai loro tweet o ai post su Facebook per indagini di vario tipo, si fanno sempre più frequenti e pressanti.
15.4.12
Monti già in riserva
GALAPAGOS (Il Manifesto)
Le borse anche ieri sono andate a picco e non varrebbe la pena sprecare un riga per commentare il dato se non fosse che dietro l'andamento dei mercati finanziari si cela una situazione drammatica dell'economia reale. In borsa si specula molto, ma «speculare» significa non solo praticare un gioco d'azzardo spesso sporco, ma anche «prevedere» come andrà l'economia nei mesi successivi. Oggi la quasi totalità di chi specula in borsa prevede un futuro nerissimo nel quale l'economia globale è destinata a vivere una lunga fase di recessione e di stagnazione che non si sa quando terminerà.
Basta guardare a quello che sta succedendo in Italia: la recessione è iniziata nel 2008 e l'anno successivo il Pil ha registrato un crollo senza precedenti: oltre il 5%. Poi nel 2010 c'è stata una leggera ripresa, ma già nel 2011 il Prodotto interno lordo è cresciuto di appena mezzo punto. Per quest'anno è attesa una nuova caduta di circa il 2%. Secondo gli economisti più ottimisti l'andamento dell'economia ha un segno grafico rappresentato dalla lettera «W» (double dip, in inglese) che significa recessione, piccola ripresa e nuova recessione. Questo andamento era largamente prevedibile osservando ciò che stava accadendo ai settori produttivi. In primo luogo l'industria che, anche nella fase di ripresa del 2010, non ha mai recuperato i livelli pre-crisi, ma, nel momento migliore, è risultata del 15% inferiore a quei livelli. I dati diffusi ieri dall'Istat (anticipati dal Centro studi Confindustria) confermano che all'inizio di quest'anno (gennaio e febbraio) la caduta della produzione è diventata ancora più violenta. D'altra parte i dati sulle ore concesse di Cassa integrazione l'avevano largamente anticipato. Per Corrado Passera si tratta di dati «attesi» per contrastare i quali, tuttavia, il governo non ha fatto nulla.
La crisi attuale era stata anticipata anche dal Fondo monetario che in un report dell'aprile 2009 aveva scritto che la crisi (allora virulenta a livello mondiale) sembrava avere un andamento grafico a «L» che la rendeva simile alla crisi del '29. Quando a una caduta della produzione (e del Pil) molto forte era seguita una fase di stagnazione lunghissima, interrotta solo dalla «ripresa» conseguente la seconda guerra mondiale. I grandi della terra hanno finto di non accorgersi (come fa oggi Monti) di quello che stava accadendo e hanno concentrato tutte le attenzioni sulla crisi della finanza e sul risanamento dei conti pubblici con manovre restrittive, come sta facendo Monti. E questo ha prodotto un effetto perverso: frenando la crescita del Pil ha provocato un aumento del deficit e del debito pubblico. Di qui la necessità di nuove manovre correttive che a loro volta frenano la domanda globale e creano nuovi disoccupati.
Insomma, siamo di fronte a una situazione drammatica dominata oltretutto da una ideologia perversa: solo le liberalizzazioni, le privatizzazioni e il basso costo del lavoro possono rilanciare i sistemi economici. Produrre più merci anziché allargare l'area del welfare non genererà nuova crescita, ma solo nuove crisi e povertà diffusa.
Le borse anche ieri sono andate a picco e non varrebbe la pena sprecare un riga per commentare il dato se non fosse che dietro l'andamento dei mercati finanziari si cela una situazione drammatica dell'economia reale. In borsa si specula molto, ma «speculare» significa non solo praticare un gioco d'azzardo spesso sporco, ma anche «prevedere» come andrà l'economia nei mesi successivi. Oggi la quasi totalità di chi specula in borsa prevede un futuro nerissimo nel quale l'economia globale è destinata a vivere una lunga fase di recessione e di stagnazione che non si sa quando terminerà.
Basta guardare a quello che sta succedendo in Italia: la recessione è iniziata nel 2008 e l'anno successivo il Pil ha registrato un crollo senza precedenti: oltre il 5%. Poi nel 2010 c'è stata una leggera ripresa, ma già nel 2011 il Prodotto interno lordo è cresciuto di appena mezzo punto. Per quest'anno è attesa una nuova caduta di circa il 2%. Secondo gli economisti più ottimisti l'andamento dell'economia ha un segno grafico rappresentato dalla lettera «W» (double dip, in inglese) che significa recessione, piccola ripresa e nuova recessione. Questo andamento era largamente prevedibile osservando ciò che stava accadendo ai settori produttivi. In primo luogo l'industria che, anche nella fase di ripresa del 2010, non ha mai recuperato i livelli pre-crisi, ma, nel momento migliore, è risultata del 15% inferiore a quei livelli. I dati diffusi ieri dall'Istat (anticipati dal Centro studi Confindustria) confermano che all'inizio di quest'anno (gennaio e febbraio) la caduta della produzione è diventata ancora più violenta. D'altra parte i dati sulle ore concesse di Cassa integrazione l'avevano largamente anticipato. Per Corrado Passera si tratta di dati «attesi» per contrastare i quali, tuttavia, il governo non ha fatto nulla.
La crisi attuale era stata anticipata anche dal Fondo monetario che in un report dell'aprile 2009 aveva scritto che la crisi (allora virulenta a livello mondiale) sembrava avere un andamento grafico a «L» che la rendeva simile alla crisi del '29. Quando a una caduta della produzione (e del Pil) molto forte era seguita una fase di stagnazione lunghissima, interrotta solo dalla «ripresa» conseguente la seconda guerra mondiale. I grandi della terra hanno finto di non accorgersi (come fa oggi Monti) di quello che stava accadendo e hanno concentrato tutte le attenzioni sulla crisi della finanza e sul risanamento dei conti pubblici con manovre restrittive, come sta facendo Monti. E questo ha prodotto un effetto perverso: frenando la crescita del Pil ha provocato un aumento del deficit e del debito pubblico. Di qui la necessità di nuove manovre correttive che a loro volta frenano la domanda globale e creano nuovi disoccupati.
Insomma, siamo di fronte a una situazione drammatica dominata oltretutto da una ideologia perversa: solo le liberalizzazioni, le privatizzazioni e il basso costo del lavoro possono rilanciare i sistemi economici. Produrre più merci anziché allargare l'area del welfare non genererà nuova crescita, ma solo nuove crisi e povertà diffusa.
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13.4.12
La rinascita della politica
Nadia Urbinati (Diritti Globali)
La crisi della politica nel nostro paese è la crisi dei partiti politici. In primo luogo, di quelli che si collocano nella parte ideologica di centrosinistra e rappresentano le idealità democratiche in un senso che è comune a tutti i paesi a democrazia consolidata. È necessario tenere insieme ragioni nazionali e sovrannazionali, poiché la crisi di progettualità politica è l’esito di una costellazione di fattori che sono difficilmente disaggregabili. Se in Italia la crisi della politica democratica è così pronunciata è perché alla crisi di progettualità è corrisposta anche quella strutturale e organizzativa, ovvero la scomparsa fisica dei partiti tradizionali della sinistra.
Continuità e memoria
La fine dei partiti della sinistra italiana ha ragioni strutturali e contingenti che posso solo schematicamente ricapitolare. È l’esito della parabola declinante delle ideologie di emancipazione e liberazione che hanno segnato molta parte del XX secolo. Ed è poi conseguente a scelte politiche specifiche da parte della classe dirigente dei partiti che si sono succeduti dalla fine del PCI e del PSI. Queste scelte hanno peccato spesso di scarsa saggezza perché hanno ignorato un fatto che è importantissimo: le associazioni politiche per resistere e accrescere di influenza devono riuscire a creare una memoria e avere esse stesse una memoria. I teorici che hanno per primi liberato la divisione partitica dallo stigma della malapianta della fazione furono due conservatori: Henry St. James Bolingbroke e Edmund Burke, il primo operò nella prima metà del Settecento e il secondo alla fine di quello stesso secolo. Entrambi videro nella “divisione” sul giudizio della politica del governo una condizione indispensabile per la tenuta e la funzionalità del sistema rappresentativo; ed entrambi sottolinearono che la “divisione” partigiana è sana ma non quando è in ragione degli interessi di ceto o di privilegi; la divisione è sana quando è ideologica oggi diremmo, ovvero quando riguarda l’interpretazione del cammino comune che una società ha fatto, fa e dovrebbe fare. Uniti nel patto costituzionale, gli interpreti del patto sono diversi e questa diversità è positiva perché costruisce l’identità dei programmi politici che competono per il governo del paese.
Costruire una memoria partigiana (cioè di partito) è la condizione per il radicamento della democrazia e dei partiti. Dove il governo rappresentativo è forte, come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, i partiti sono vecchi quasi quanto quei regimi politici e sono strutturati secondo ideologie, lealtà e perfino trasmissione familiare – e non perché abbiano ideologie di tipo religioso come quelle che hanno costituito i partiti della sinistra italiana. Il partito ha bisogno di un nucleo ideale per esistere e persistere, ma non è necessario che questo nucleo abbia una struttuta dogmatica. Ci sono partigianerie laiche, se così si può dire, che fanno perno sui valori democratici e della storia comune di una nazione.
La storia del declino dei partiti della sinistra italiana è rivelatrice della mancanza di ideologie laiche e nello stesso tempo della credenza, sbagliata, che per riformare i partiti occorresse distruggerne il tessuto ideale e organizzativo. I cambiamenti repentini e continui del nome e delle bandiere di partito – cioè dell’unità simbolica che rende un partito riconoscibile a chi vi aderisce e agli avver- sari – ha impedito la sedimentazione dell’unità ideale. In Italia, dalla fine della guerra fredda e per scelta in un caso (PCI) o per necessità nell’altro (PSI), i partiti della sinistra sono diventati come comete o come zone terremotate – benché i leader siano restati grosso modo gli stessi. Sono partita da questa storia risaputa perché la demolizione della memoria politica è secondo me un fattore della crisi della politica che segna il nostro paese da vent’anni; un fattore che ipoteca il futuro poiché nemmeno volendolo possiamo inventare soluzioni salvifiche veloci. Il “largo ai giovani” – come se i giovani venissero da un altro pianeta – non è né sarà la soluzione. Radere al suolo una leadership è un’arte giacobina dagli effetti perversi; la controrivoluzione berlusconiana è anche figlia della decapitazione della classe politica nazionale. Per concludere il primo spunto di riflessione direi che la crisi della sinistra italiana non passerà né con un atto di volontà di alcuni né con un ennesimo cambiamento di nomi e simboli. Prendere consapevolezza di questo può essere utile. La rinascita della politica partitica dovrà passare per un’altra strada, quella più lenta della riflessione sulle mutazioni in corso nelle società democratiche.
Una mutazione epocale
Le ragioni specifiche del declino della sinistra italiana si sono incontrate o hanno coinciso con l’emergere prepotente di un fattore di mutamento ancora più profondo e che attraversa tutte le democrazie consolidate dell’Occidente. Questo mutamento può essere rappresentato come la fine del compromesso tra capitalismo e democrazia in seguito al mutamento del capitalismo da industriale a finanziario. La combinazione di capitalismo e democrazia è stata un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possedeva i primi ha accettato istituzioni politiche nelle quali le decisioni prese a maggioranza erano l’aggregato di voti di uguale peso.
Il keynesianismo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché invece di assistere i poveri come lo Stato aveva fatto nei decenni precendenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche dei governi centrali. Questo comportò l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione. Come ebbe a dire Léon Blum, una migliore distribuzione può rivitalizzare l’occupazione e nello stesso tempo soddisfare la giustizia sociale.
L’esito del compromesso tra democrazia e capitalismo industriale fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L’allargamento dei consumi privati mise in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione ed eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle Costituzioni democratiche dalla fine della seconda guerra mondiale. L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche – dal lavoro ai beni sociali e primari ai sevizi – fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole.
Quel tempo è finito e non soltanto perché i partiti politici sono diventati accumulatori di potere invece che luoghi di mediazione per la gestione del potere e la distribuzione delle risorse. La “casta” non è la ragione della crisi che stiamo vivendo, ma semmai la conseguenza. La combinazione tra democrazia e capitalismo si è interrotta, il compromesso è sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisoni, in particolare la classe che ha il potere economico. Il declino dei partiti (un fenomeno che non è solo italiano) non ha soltanto fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell’emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l’altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c’è bisogno di scomodare Carlo Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata di tutti.
L’ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l’accumulazione del capitale andava negli investimenti produttivi e nell’allargamento del consumo. Negli anni Ottanta una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede perché un nuovo capitalismo si è affermato: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova ridistribuzione, ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Però la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo?
A partire dagli anni Ottanta l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l’aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, le liberalizzazioni. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo negli ultimi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegni a “mai dire mai”. Un altro cambiamento, forse meno indolore seppure non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. Non la soppressione violenta della libertà politica ma alcuni mutamenti rilevanti: ad esempio la diminuzione della partecipazione elettorale, la trasformazione dei partiti in macchine elettorali e la concentranzione dei mezzi di informazione, sono mutamenti che incidono sul tenore e sulla fisionomia della democrazia pur senza sospenderla.
La democrazia che aveva siglato il compromesso con il capitalismo industriale aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro torna a essere come nell’età pre-keynesiana un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha questo significato.
Si è detto che questo articolo aveva comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si è detto, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza della politica. Il limite della “giusta causa” che l’articolo 18 imponeva era un limite che segnalava la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro doveva rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell’articolo rispecchiava quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabiliva la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senza altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide.
Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo porci la seguente domanda: una società nella quale l’accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l’ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma, che tipo di società sarà?
Le sfide
E vengo così alla terza e ultima parte della mia riflessione, che verte sul bisogno di politica e, per quanto riguarda il nostro paese, sulla necessità di uscire prima possibile dal dopo Berlusconi, di chiudere quella che è stata chiamata la fase del governo di emergenza prima di tutto per l’inadeguatezza del governo democraticamente eletto nel 2008 e poi perché come una guerra la crisi finanziaria ed economica ha chiesto e chiede ai governi di prendere decisioni che sono così impopolari che nessun partito può perseguirle pena la perdita dei consensi elettortali. La dialettica politica e partitica mal si adatta ai tempi di emergenza, non c’è bisogno di scomodare Carl Schmitt (il quale del resto sta godendo di grande successo anche negli Stati Uniti dove si invocano esecutivi forti e meno condizionati dal Congresso, luogo di mediazioni e compromessi che rendono le decisioni stentate, lente e deboli). In Italia noi abbiamo un governo dell’emergenza. Quello di Monti è un governo ad interim che per unanime consenso è temporaneo perché di emergenza. Secondo gli scettici della democrazia parlamentare, nei momenti di crisi radicale serve un forte esecutivo che risolva l’impotenza della deliberazione collettiva a decidere con celerità e senza calcoli elettoralistici. In questi mesi di guerra dei mercati finanziari agli Stati democratici, la politica è stata messa all’angolo.
Il fatto poi che l’Italia abbia avuto per anni un governo a dir poco imbarazzante ha reso il silenzio della politica addirittura desiderabile. Ma la politica deve uscire dall’angolo e tornare a coprire il suo ruolo di governo della società per mezzo della libera competizione di programmi e idee. In un’intervista rilasciata qualche settimana fa al quotidiano “la Repubblica”, Gustavo Zagrebelsky ha richiamato l’attenzione sulla provvisorietà di questo tempo e l’urgenza di «riportare in onore la politica», affinché le forze politiche non siano più ridotte «al mugugno o al mugolio» ma parlino, facciano proposte e sappiano rimettere il futuro, la progettualità, al centro del presente.
La rinascita della politica vuol dire ripristino del linguaggio politico; ridare spazio al progetto di governo della società, non per l’oggi soltanto, e senza prostrazione a un’idea dominante che non tollera opinioni discordanti. È questa apertura al possibile che oggi non ha ossigeno. Perché le sfide che la incalzano parlano un solo linguaggio, quello della necessità. Sono almeno due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neoliberalismo. Nato insieme allo Stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo assunto diverse conformazioni a seconda del tipo di Stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell’emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica. Ed è questa la teologia della necessità contro la quale la politica come governo del possibile si dimostra incapace di articolare un linguaggio altro dal “mugugno o mugolio”. La rinascita della politica non potrà che partire di qui: dal rispondere a questa sfida, e saper dire come riportare i valori democratici al centro della progettualità, di quel che siamo e vogliamo essere come paese (questa ricerca è già cominciata, come mostra la recente riunione parigina delle maggiori fondazioni politiche della sinistra europea). Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda “chi” vota, ma “dove” si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta nella seguente domanda: come si deve rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica? Ovvero, per riprendere il filo del secondo argomento qui sviluppato, come si deve attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità?
La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Poiché a queste domande, nessun paese da solo può pensare di dare una risposta. Le interconnessioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. L’Europa è stata da questo punto di vista una creazione lungimirante. Il Vecchio continente ha saputo intercettare con utopica prudenza l’esigenza di una politica sovrannazionale. Oggi, questa potenziale ricchezza rischia di essere dissipata o deturpata a causa dello sbilanciamento di potere economico e finanziario degli Stati membri. La seconda sfida che la politica dovrà affrontare sta in questa domanda: è possibile un’unione tra partner che non sono equipollenti e quando alcuni dominano e tengono altri sotto tutela? Il problema è serissimo poiché vediamo che gli Stati europei hanno idee discordanti su che cosa sia o debba essere l’Europa perché hanno un potere di decisione diverso. Un’unione tra diseguali non è un’unione. Riportare la politica al centro del governo europeo è urgente poiché di qui passa la rinascita della politica a livello nazionale.
Sono queste le due grandi sfide alle quali la politica deve riuscire trovare risposte. Un primo tentativo di rinnovamento è venuto dai movimenti che hanno preso il nome di Occupy Wall Street. Il loro linguaggio è stato quello, giustissimo, della protesta; ma al dissenso non è seguita alcuna domanda che lasciasse intravedere risposte credibili. Eppure, in quella idea di “comunità globale” c’è un’intuizione importante poiché dalla capacità delle società democratiche di pensare in termini che vadano oltre i singoli Stati dipenderà la loro possibilità di ridefinire il rapporto tra democrazia e capitalismo. Senza il quale la prima non ha certezza e il secondo si fa selvaggio. Senza il quale ci troveremo sempre in uno stato di emergenza, con la politica sospesa e governi ad interim permanenti.
Un’indicazione sul percorso verso la rinascita della politica e la risposta a queste sfide ci viene dall’esperienza di questi mesi di governo di emergenza nel nostro paese. Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l’Europa del secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli Stati, hanno eguale peso nel processo decisionale. Di fronte a questa incrinatura palese della democrazia l’assenza della politica è disarmante e rischiosa. Ma sapere da che parte si sta è già un primo importante passo verso la rinascita. La rinascita della politica non sarà probabilmente un fatto repentino, nè avverà dall’oggi al domani. Il declino della partecipazione al voto che tutti i sondaggi stanno misurando, in Italia come nel resto dei paesi occidentali, è segno profondo di quanto grande sia la distanza tra il bisogno di risposte politiche da parte dei cittadini e la volontà o la capacità dei soggetti politici che dovrebbero darle. La rinascita della politica coincide quindi con la ricostituzione del Partito Democratico intorno a un progetto politico che sia consapevole di questi mutamenti che sono epocali, non solamente a livello nazionale, e soprattutto senza la certezza che si possano governare con gli strumenti con i quali sono stati finora governati.
La crisi della politica nel nostro paese è la crisi dei partiti politici. In primo luogo, di quelli che si collocano nella parte ideologica di centrosinistra e rappresentano le idealità democratiche in un senso che è comune a tutti i paesi a democrazia consolidata. È necessario tenere insieme ragioni nazionali e sovrannazionali, poiché la crisi di progettualità politica è l’esito di una costellazione di fattori che sono difficilmente disaggregabili. Se in Italia la crisi della politica democratica è così pronunciata è perché alla crisi di progettualità è corrisposta anche quella strutturale e organizzativa, ovvero la scomparsa fisica dei partiti tradizionali della sinistra.
Continuità e memoria
La fine dei partiti della sinistra italiana ha ragioni strutturali e contingenti che posso solo schematicamente ricapitolare. È l’esito della parabola declinante delle ideologie di emancipazione e liberazione che hanno segnato molta parte del XX secolo. Ed è poi conseguente a scelte politiche specifiche da parte della classe dirigente dei partiti che si sono succeduti dalla fine del PCI e del PSI. Queste scelte hanno peccato spesso di scarsa saggezza perché hanno ignorato un fatto che è importantissimo: le associazioni politiche per resistere e accrescere di influenza devono riuscire a creare una memoria e avere esse stesse una memoria. I teorici che hanno per primi liberato la divisione partitica dallo stigma della malapianta della fazione furono due conservatori: Henry St. James Bolingbroke e Edmund Burke, il primo operò nella prima metà del Settecento e il secondo alla fine di quello stesso secolo. Entrambi videro nella “divisione” sul giudizio della politica del governo una condizione indispensabile per la tenuta e la funzionalità del sistema rappresentativo; ed entrambi sottolinearono che la “divisione” partigiana è sana ma non quando è in ragione degli interessi di ceto o di privilegi; la divisione è sana quando è ideologica oggi diremmo, ovvero quando riguarda l’interpretazione del cammino comune che una società ha fatto, fa e dovrebbe fare. Uniti nel patto costituzionale, gli interpreti del patto sono diversi e questa diversità è positiva perché costruisce l’identità dei programmi politici che competono per il governo del paese.
Costruire una memoria partigiana (cioè di partito) è la condizione per il radicamento della democrazia e dei partiti. Dove il governo rappresentativo è forte, come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, i partiti sono vecchi quasi quanto quei regimi politici e sono strutturati secondo ideologie, lealtà e perfino trasmissione familiare – e non perché abbiano ideologie di tipo religioso come quelle che hanno costituito i partiti della sinistra italiana. Il partito ha bisogno di un nucleo ideale per esistere e persistere, ma non è necessario che questo nucleo abbia una struttuta dogmatica. Ci sono partigianerie laiche, se così si può dire, che fanno perno sui valori democratici e della storia comune di una nazione.
La storia del declino dei partiti della sinistra italiana è rivelatrice della mancanza di ideologie laiche e nello stesso tempo della credenza, sbagliata, che per riformare i partiti occorresse distruggerne il tessuto ideale e organizzativo. I cambiamenti repentini e continui del nome e delle bandiere di partito – cioè dell’unità simbolica che rende un partito riconoscibile a chi vi aderisce e agli avver- sari – ha impedito la sedimentazione dell’unità ideale. In Italia, dalla fine della guerra fredda e per scelta in un caso (PCI) o per necessità nell’altro (PSI), i partiti della sinistra sono diventati come comete o come zone terremotate – benché i leader siano restati grosso modo gli stessi. Sono partita da questa storia risaputa perché la demolizione della memoria politica è secondo me un fattore della crisi della politica che segna il nostro paese da vent’anni; un fattore che ipoteca il futuro poiché nemmeno volendolo possiamo inventare soluzioni salvifiche veloci. Il “largo ai giovani” – come se i giovani venissero da un altro pianeta – non è né sarà la soluzione. Radere al suolo una leadership è un’arte giacobina dagli effetti perversi; la controrivoluzione berlusconiana è anche figlia della decapitazione della classe politica nazionale. Per concludere il primo spunto di riflessione direi che la crisi della sinistra italiana non passerà né con un atto di volontà di alcuni né con un ennesimo cambiamento di nomi e simboli. Prendere consapevolezza di questo può essere utile. La rinascita della politica partitica dovrà passare per un’altra strada, quella più lenta della riflessione sulle mutazioni in corso nelle società democratiche.
Una mutazione epocale
Le ragioni specifiche del declino della sinistra italiana si sono incontrate o hanno coinciso con l’emergere prepotente di un fattore di mutamento ancora più profondo e che attraversa tutte le democrazie consolidate dell’Occidente. Questo mutamento può essere rappresentato come la fine del compromesso tra capitalismo e democrazia in seguito al mutamento del capitalismo da industriale a finanziario. La combinazione di capitalismo e democrazia è stata un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possedeva i primi ha accettato istituzioni politiche nelle quali le decisioni prese a maggioranza erano l’aggregato di voti di uguale peso.
Il keynesianismo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché invece di assistere i poveri come lo Stato aveva fatto nei decenni precendenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche dei governi centrali. Questo comportò l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione. Come ebbe a dire Léon Blum, una migliore distribuzione può rivitalizzare l’occupazione e nello stesso tempo soddisfare la giustizia sociale.
L’esito del compromesso tra democrazia e capitalismo industriale fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L’allargamento dei consumi privati mise in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione ed eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle Costituzioni democratiche dalla fine della seconda guerra mondiale. L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche – dal lavoro ai beni sociali e primari ai sevizi – fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole.
Quel tempo è finito e non soltanto perché i partiti politici sono diventati accumulatori di potere invece che luoghi di mediazione per la gestione del potere e la distribuzione delle risorse. La “casta” non è la ragione della crisi che stiamo vivendo, ma semmai la conseguenza. La combinazione tra democrazia e capitalismo si è interrotta, il compromesso è sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisoni, in particolare la classe che ha il potere economico. Il declino dei partiti (un fenomeno che non è solo italiano) non ha soltanto fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell’emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l’altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c’è bisogno di scomodare Carlo Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata di tutti.
L’ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l’accumulazione del capitale andava negli investimenti produttivi e nell’allargamento del consumo. Negli anni Ottanta una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede perché un nuovo capitalismo si è affermato: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova ridistribuzione, ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Però la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo?
A partire dagli anni Ottanta l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l’aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, le liberalizzazioni. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo negli ultimi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegni a “mai dire mai”. Un altro cambiamento, forse meno indolore seppure non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. Non la soppressione violenta della libertà politica ma alcuni mutamenti rilevanti: ad esempio la diminuzione della partecipazione elettorale, la trasformazione dei partiti in macchine elettorali e la concentranzione dei mezzi di informazione, sono mutamenti che incidono sul tenore e sulla fisionomia della democrazia pur senza sospenderla.
La democrazia che aveva siglato il compromesso con il capitalismo industriale aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro torna a essere come nell’età pre-keynesiana un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha questo significato.
Si è detto che questo articolo aveva comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si è detto, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza della politica. Il limite della “giusta causa” che l’articolo 18 imponeva era un limite che segnalava la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro doveva rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell’articolo rispecchiava quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabiliva la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senza altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide.
Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo porci la seguente domanda: una società nella quale l’accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l’ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma, che tipo di società sarà?
Le sfide
E vengo così alla terza e ultima parte della mia riflessione, che verte sul bisogno di politica e, per quanto riguarda il nostro paese, sulla necessità di uscire prima possibile dal dopo Berlusconi, di chiudere quella che è stata chiamata la fase del governo di emergenza prima di tutto per l’inadeguatezza del governo democraticamente eletto nel 2008 e poi perché come una guerra la crisi finanziaria ed economica ha chiesto e chiede ai governi di prendere decisioni che sono così impopolari che nessun partito può perseguirle pena la perdita dei consensi elettortali. La dialettica politica e partitica mal si adatta ai tempi di emergenza, non c’è bisogno di scomodare Carl Schmitt (il quale del resto sta godendo di grande successo anche negli Stati Uniti dove si invocano esecutivi forti e meno condizionati dal Congresso, luogo di mediazioni e compromessi che rendono le decisioni stentate, lente e deboli). In Italia noi abbiamo un governo dell’emergenza. Quello di Monti è un governo ad interim che per unanime consenso è temporaneo perché di emergenza. Secondo gli scettici della democrazia parlamentare, nei momenti di crisi radicale serve un forte esecutivo che risolva l’impotenza della deliberazione collettiva a decidere con celerità e senza calcoli elettoralistici. In questi mesi di guerra dei mercati finanziari agli Stati democratici, la politica è stata messa all’angolo.
Il fatto poi che l’Italia abbia avuto per anni un governo a dir poco imbarazzante ha reso il silenzio della politica addirittura desiderabile. Ma la politica deve uscire dall’angolo e tornare a coprire il suo ruolo di governo della società per mezzo della libera competizione di programmi e idee. In un’intervista rilasciata qualche settimana fa al quotidiano “la Repubblica”, Gustavo Zagrebelsky ha richiamato l’attenzione sulla provvisorietà di questo tempo e l’urgenza di «riportare in onore la politica», affinché le forze politiche non siano più ridotte «al mugugno o al mugolio» ma parlino, facciano proposte e sappiano rimettere il futuro, la progettualità, al centro del presente.
La rinascita della politica vuol dire ripristino del linguaggio politico; ridare spazio al progetto di governo della società, non per l’oggi soltanto, e senza prostrazione a un’idea dominante che non tollera opinioni discordanti. È questa apertura al possibile che oggi non ha ossigeno. Perché le sfide che la incalzano parlano un solo linguaggio, quello della necessità. Sono almeno due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neoliberalismo. Nato insieme allo Stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo assunto diverse conformazioni a seconda del tipo di Stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell’emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica. Ed è questa la teologia della necessità contro la quale la politica come governo del possibile si dimostra incapace di articolare un linguaggio altro dal “mugugno o mugolio”. La rinascita della politica non potrà che partire di qui: dal rispondere a questa sfida, e saper dire come riportare i valori democratici al centro della progettualità, di quel che siamo e vogliamo essere come paese (questa ricerca è già cominciata, come mostra la recente riunione parigina delle maggiori fondazioni politiche della sinistra europea). Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda “chi” vota, ma “dove” si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta nella seguente domanda: come si deve rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica? Ovvero, per riprendere il filo del secondo argomento qui sviluppato, come si deve attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità?
La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Poiché a queste domande, nessun paese da solo può pensare di dare una risposta. Le interconnessioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. L’Europa è stata da questo punto di vista una creazione lungimirante. Il Vecchio continente ha saputo intercettare con utopica prudenza l’esigenza di una politica sovrannazionale. Oggi, questa potenziale ricchezza rischia di essere dissipata o deturpata a causa dello sbilanciamento di potere economico e finanziario degli Stati membri. La seconda sfida che la politica dovrà affrontare sta in questa domanda: è possibile un’unione tra partner che non sono equipollenti e quando alcuni dominano e tengono altri sotto tutela? Il problema è serissimo poiché vediamo che gli Stati europei hanno idee discordanti su che cosa sia o debba essere l’Europa perché hanno un potere di decisione diverso. Un’unione tra diseguali non è un’unione. Riportare la politica al centro del governo europeo è urgente poiché di qui passa la rinascita della politica a livello nazionale.
Sono queste le due grandi sfide alle quali la politica deve riuscire trovare risposte. Un primo tentativo di rinnovamento è venuto dai movimenti che hanno preso il nome di Occupy Wall Street. Il loro linguaggio è stato quello, giustissimo, della protesta; ma al dissenso non è seguita alcuna domanda che lasciasse intravedere risposte credibili. Eppure, in quella idea di “comunità globale” c’è un’intuizione importante poiché dalla capacità delle società democratiche di pensare in termini che vadano oltre i singoli Stati dipenderà la loro possibilità di ridefinire il rapporto tra democrazia e capitalismo. Senza il quale la prima non ha certezza e il secondo si fa selvaggio. Senza il quale ci troveremo sempre in uno stato di emergenza, con la politica sospesa e governi ad interim permanenti.
Un’indicazione sul percorso verso la rinascita della politica e la risposta a queste sfide ci viene dall’esperienza di questi mesi di governo di emergenza nel nostro paese. Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l’Europa del secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli Stati, hanno eguale peso nel processo decisionale. Di fronte a questa incrinatura palese della democrazia l’assenza della politica è disarmante e rischiosa. Ma sapere da che parte si sta è già un primo importante passo verso la rinascita. La rinascita della politica non sarà probabilmente un fatto repentino, nè avverà dall’oggi al domani. Il declino della partecipazione al voto che tutti i sondaggi stanno misurando, in Italia come nel resto dei paesi occidentali, è segno profondo di quanto grande sia la distanza tra il bisogno di risposte politiche da parte dei cittadini e la volontà o la capacità dei soggetti politici che dovrebbero darle. La rinascita della politica coincide quindi con la ricostituzione del Partito Democratico intorno a un progetto politico che sia consapevole di questi mutamenti che sono epocali, non solamente a livello nazionale, e soprattutto senza la certezza che si possano governare con gli strumenti con i quali sono stati finora governati.
Raffaele Simone: "La izquierda de hoy teme hasta presentarse como izquierda"
Pedro Vallín - La Vanguardia
El lingüista y especialista en filosofía del lenguaje y la cultura, sacudió las conciencia de su país con "El monstruo amable", en el que, a partir de la desaparición de la izquierda tradicional italiana, ensaya las causas del giro del mundo a la derecha.
Lingüista y especialista en filosofía del lenguaje y la cultura, Raffaele Simone ha conseguido sacudir las conciencia de su país con El monstruo amable (Taurus), provocadoramente subtitulado ¿El mundo se vuelve de derechas? en el que, a partir de la desaparición de la izquierda tradicional italiana, subsumida en la democracia cristiana, ensaya las causas del giro del mundo a la derecha y del capitalismo convertido en un marco de confortabilidad que todo lo envuelve —y por tanto es en buena medida invisible— al que llama monstruo amable. Habla un gran castellano, al que traslada una notable capacidad para el trazo fino, extraña cuando no se maneja la lengua materna.
-Una de las conclusiones que recoge en su libro alude a la “naturalidad” del pensamiento de derechas, frente a la condición “artificial” del pensamiento de izquierdas en la medida en que camina contra la tendencia natural al egoísmo.
-Exacto sí, eso es.
-Los científicos evolucionistas, sin embargo, han indicado que la generosidad, la filantropía y la moral son naturales, una ventaja evolutiva en la medida en que el hombre es un ser social. En el mundo primitivo, las sociedades con reglas se imponen a las demás porque permiten crecer en población y el surgimiento de los oficios, etcétera.
-En mi opinión dice exactamente lo mismo que yo postulo. Porque la idea que describo en el libro, con un poco de dramatización, digamos (no es una teoría sino una alegoría un poco dramatizada), es la misma idea de 2001 Odisea en el espacio de Kubrick: al comienzo teórico, al que nadie pudo asistir, los humanos primitivos solían masacrarse. En un momento dado, para evitar la masacre, es decir, como efecto del miedo generalizado, se crearon gradualmente reglas. Y aplicando esta metáfora a la relación entre izquierdas y derechas, creo yo, que estar a la izquierda es menos “natural” que estar a la derecha porque la persona de derechas dice: “Esto es mío y nadie debe tocarlo. Lo que quiero hacer nadie puede contradecirlo”. Son argumentos de tipo “primitivo”, entre comillas por favor, argumentos sin elaborar de ninguna forma. En cambio la izquierda dice: “Tú tienes que renunciar a una parte de lo tuyo porque hay gente que tendrá más necesidad que tú”. O bien: “El interés publico (que es un concepto muy sofisticado) prevalece sobre el interés privado. Lo que tú decides hacer debe ser mediado por una preocupación por el interés de los demás”. Es una actitud para la que yo empleo la imagen del muelle tenso, porque la tendencia natural es al egoísmo, y repartir lo que uno posee entre personas que uno ni conoce es antinatural, en este sentido, encuentra la resistencia del muelle.
-Esto enlaza con el eterno debate, muy intenso en colectivos feministas y entre educadores, entre lo natural y lo cultural. Natural sería ser de derechas y cultural, ser de izquierdas.
-Sí, esa es la oposición, apoyada en este momento por los estudios que usted mencionaba de los etólogos, los estudiosos del comportamiento de los monos superiores, etcétera. Sabemos de lo humano muchísimo más de lo que sabía Rousseau, que en su momento simpatizaba con las posiciones de la Iglesia, que suponen que el hombre es originariamente bueno y que se va haciendo peor con el paso del tiempo. Yo creo instintivamente lo contrario. Y en este caso, es una imagen para explicar el hecho de que es mucho más frecuente y más fácil el paso de izquierda a derecha a nivel individual que el contrario.
-Y además es simétrico.
-¿En qué sentido?
-Cuando uno viene de posiciones extremas de izquierda acaba en posiciones extremas de derechas, y si uno es moderado, termina en posiciones moderadas. Del stalinismo al fascismo, y de la socialdemocracia a la democracia cristiana, por así decir.
-Sí, sí. En Italia tenemos numerosos casos. Es exactamente así. En Italia el partido socialista, casi entero se ha trasladado sin inmutarse a las filas de Berlusconi. Y la gente que es realmente socialista sigue preguntándose cómo han podido. En mi interpretación, es el muelle que, en un momento dado, cansados de la tensión, se deciden a aflojarlo.
-¿Rendirse?
-Exacto.
-Usted cita, y su prologuista también, la escena de Abril (1998), de Nanni Moretti, en la que él mismo se queda ante el televisor gritándole a Mássimo D’Alema: “¡D’Alema, di algo de izquierdas!”. Moretti ya había propuesto una carnavalesca sátira sobre la descomposición del comunismo italiano, Palombella rossa (1993), transmutada en un partido de waterpolo, con un texto explícito sobre la crisis de la izquierda.
-En Moretti hay muchos elementos de este tipo. Además Moretti él activó hace unos años una manifestación de protesta fuerte contra la gestión actual de la izquierda que desembocó en manifestaciones importantes, el movimiento de los Girotondi. Ël fue uno de los iniciadores. En un momento dado se desinfló el movimiento porque era demasiado informal y quizá le faltaban liderazgos, pero fue un movimiento importante que duró varios años.
-¿Es usted muy pesimista?
-No, no. Yo tengo esperanza.
-Cuesta verlo en el libro.
-Creo que es mejor analizar los datos de forma penetrante antes de organizar una respuesta.
-¿No cree que esa pérdida de los principios o de las ideas poderosas de la izquierda que usted denuncia se ha producido de forma gemela en la derecha, que el tradicionalismo o las expresiones más reaccionarias en lo moral han retrocedido?
-Por eso hablo de neoderecha, es una derecha diferente de la anterior. No son fascistas, sólo tienen intereses de tipo material.
-Usted hace una enumeración de las metas no alcanzadas por la izquierda en Europa en los últimos 150 años. Dice que “no se ha producido una elevación estable de instrucción y de cultura”… Las estadísticas de progreso humano de Naciones Unidas dicen otra cosa, que los índices de alfabetización no han dejado de subir.
-No hemos alcanzado la meta.
-Pero usted sostiene que no hay progresos. Luego añade que “no se ha producido una revalorización de la actividad intelectual y creativa”. No le puedo dar datos, pero da la impresión de que es al revés, que nunca el trabajo creativo estuvo mejor remunerado que en el presente.
-Pero no estoy hablando de la modernidad y del resultado en lo moderno de la tradición anterior de la izquierda.
-También dice que no se ha logrado “la difusión generalizada de una mentalidad mínimamente racional y laica”. Esto ha sufrido altibajos.
-Varios momentos, sí. El actual es un momento difícil en España, Italia y Francia. Ustedes tienen un futuro de contrarreformas durísimo.
-Pero sigo: “Ni la creación de una conciencia cívica solidaria y de un espíritu de paz colectivo”. Hay ejemplos de progreso moral muy llamativos: en 2003 por primera vez se produjo una movilización social global y masiva contra una guerra que no había empezado y que iba a suceder a miles de kilómetros. No hay precedente.
-Lo que quería decir aquí yo es que no son todos resultados de tipo socialista. Son resultados de una conciencia nueva, posmoderna, más o menos, en la que la cultura juvenil tiene un papel fundamental no necesariamente de tipo socialista. Es decir, las grandes ilusiones del socialismo pueden haber sido parcialmente realizadas, pero no totalmente. Por ejemplo, la igualdad es un asunto en gravísima crisis y es uno de los rasgos principales de la izquierda. La desigual triunfa en prácticamente todo el mundo y era uno de los rasgos objetivos de la modernidad. Hay otra lista en el libro, las citas históricas, los grandes momentos a los que no acude la izquierda…
-¿Pero esto que usted denuncia de la izquierda no le ocurre también a la derecha? ¿Es decir, la desideologización?
-Pero a la derecha no le interesa de la misma manera, porque ser de derechas supone que los fenómenos, los procesos, se dejen marchar por sí solos.
-¿La neoderecha es entonces apolítica?
-Digamos que no tiene interés en modificar los procesos y en este sentido, argumento en mi libro, la izquierda ha acabado por adoptar las mismas aptitudes que la derecha, porque ha abrazado lo que yo llamo “la infinita tolerancia hacia lo social” que quiere decir que no importa lo que va a ocurrir sino que lo que importa es que pueda fluir tranquilamente. El asunto de la inmigración clandestina es central en este sentido. Ningún país de Europa ha elaborado una postura o un proyecto de gobernar este fenómeno que es inmenso y que va a modificar la faz del mundo en pocos años. Otro tema que a mí me parece muy relevante, otra cita a la que faltó la izquierda, es la revolución digital, que se ha considerado como una innovación tecnológica pura y simple, mientras que en realidad es un cambio de mentalidad.
-Uno de los motores tradicionales de la izquierdas es la idea de progreso, aunque en origen no sea marxista sino propia de la Ilustración.
-Sí, la idea de que la humanidad está en marcha, que camina de forma ascendente.
-¿La izquierda ha abdicado de ella?
-¿Por qué lo dice?
-Porque los mensajes que lanza son, aunque sean legítimos, conservadores: conservemos el medio ambiente, los derechos sociales, el estado de bienestar… es decir, una actitud a la defensiva, como si la izquierda, que era la soberana del futuro, por así decir, ahora tuviera miedo del futuro.
-Exactamente. La izquierda incluso tiene miedo de presentarse como izquierda. Estoy de acuerdo con usted, el lugar del progreso lo ha ocupado el crecimiento, el mito actual es el crecimiento, que yo creo que es otro mito peligrosísimo de la neoderecha. Yo soy bastante partidario del decrecimiento, si no a la Latouche, de otra manera más afable, pero mi idea es que el crecimiento es un gravísimo error. Es un trozo más de mundo que se destruye.
-Tampoco se dice mucho que la evolución demográfica es preocupante.
-Sí, es un problema, por supuesto. En Italia se habla un poco. Es un tema importantísimo porque el mundo está dimensionado para un determinado número de habitantes, que no se puede pasar. Pero, claro aquí de nuevo topamos con el mito de crecimiento. ¿Por qué el futuro ha de ser necesariamente de crecimiento y no de estabilización o redistribución. Por concluir, le diré que la izquierda ha asumido unos mitos de la derecha, liberales o neoliberales sin darse cuenta de lo que estaba haciendo.
-Usted habla mucho sobre la alianza pérfida entre socialdemocracia italiana y la democracia cristiana. Comparten un sustrato filosófico no menor: La pretensión de igualdad, la solidaridad, la compasión. A lo mejor no es una alianza tan contra natura.
-No, no lo es en absoluto. Tienen dos elementos en común, además del espíritu de Iglesia que se le ha atribuido a la izquierda durante años. Es el elemento de estatalismo fundamental, es decir, el Estado ocupa el centro de la vida de la sociedad, y además, al menos en Italia, pero creo que Europa la cosa va más o menos de la misma manera, el espíritu de asistencialismo, que el estado siempre tenga la obligación de asistir a los que tengas necesidades graves. Estos dos elementos aúnan las dos partes, en ese sentido no es una alianza contra natura. Lo que sí es contra natura es que el carácter químicamente infeliz de esta fusión se revela en los temas candentes, como por ejemplo los temas bioéticos. Pero lo que a mí me impresiona más es que el término mismo de socialismo en Italia ha desparecido por completo. Su amigo Walter Veltroni [líder hoy dimitido de la coalición Partido Democrático, que perdió en 2008 contra Berlusconi y ex secretario general de Demócratas de Izquierda. Fue alcalde de Roma y comenzó su carrera política en las filas del Partido Comunista Italiano] declaró a alguien que lo acusaba de insertar un espíritu socialista dentro del programa del Partido Democrático recién nacido: “No, por favor, no hay nada socialista”, como si fuera una acusación, una insinuación ofensiva. Y esta a mí me parece una traición grave, una traición histórica, porque hay gente que se declara socialista, que sigue creyendo en los principios del socialismo, como yo, que sigue teniendo ilusiones de este tipo, y no creo ser el único.
-Una característica también que acerca socialismo y democracia cristiana es la visión paternalista de la sociedad, tal vez hasta condescendiente.
-Creo que sí, porque pese a su preocupación digamos democrática, siguen teniendo fortísimas jerarquías, una esfera prácticamente intocable, los unos y los otros, en Italia pero también en otros países, hay una polémica durísima con los costes de la casta. Este espíritu de casta existe, en la izquierda como en los otros ámbitos. El espíritu democrático no es tan penetrante para eliminar este espíritu de casta.
-Entre las formas aberrantes de la política actual, tanto por la derecha como por la izquierda, es el populismo. Parece que la democracia digital apunta hacia ahí.
-Es por la mediatización del mundo. Es algo que ocurre en todo el mundo, porque los medios permiten a cualquier persona llegar hasta el individuo singular e inducirle a pensar que el poderoso es como ella. Y que tiene las mismas necesidades, gustos, costumbres, mismo lenguaje…
-El movimiento del 15-M, que seguramente es más un síntoma que un fenómeno…
-Sí, es más un indicio que un resultado.
-..es un indicador de que existe una izquierda, pero también de desafección respecto a los partidos de izquierdas.
-Son fenómenos de ebullición, pero la ebullición en política es cosa distinta de las propuestas y la elaboración de programas. En el momento en que nos ponemos a elaborar ideas y programas y proyectos, tenemos que crear una estructura, que es lo contrario del espíritu que se manifiesta en el fenómeno de los indignados. Además los indignados incorporan una idea que históricamente se ha demostrado, no falsa, sino imposible, que es la democracia directa.
-¿Indeseable?
-Para mí indeseable, peligrosísima. Pero siempre presente como ilusión, como esperanza en un momento determinado de la vida. Por eso los partidos de izquierdas no lo rentabilizan. En todo caso, me parece que los políticos deberían reflexionar con detenimiento, detalladamente sobre este fenómeno porque suponen la expresión de una inquietud, un punto de hartazgo frente al que no nos habíamos encontrado nunca antes.
-Se les reprocha no tener un discurso articulado, pero en todo caso es mucho más articulado que el de mayo del 68, que a pesar de tener lemas tan poco sofisticados como “debajo de los adoquines está la playa”, a la larga influyó en todo el pensamiento de izquierdas de las siguientes tres décadas.
-Es verdad, pero, si lo recuerda, pusieron contra las cuerdas al estado francés. En Francia hubo verdadero miedo a un golpe de estado. Además, había un sentimiento de joie de vivre que en los indignados no hay. Aquí aparece la mediatización y la cultura digital. Hay varios elementos muy distintos. En el momento en que un movimiento se concreta bajo la forma de propuesta ya se ha convertido en partido. La diferencia fundamental es la permanencia. En la medida que dure el movimiento, tendrá sus jefes y responsables. En el momento en que los cree y se dé cuenta de que unos jefes son necesarios para existir, se habrá convertido en partido. El movimiento como pura ebullición sólo es un síntoma de inquietud, nada más.
-¿Y cree que revela que hay una mayoría social de izquierdas no articulada?
-No sé si de izquierdas, pero sí expresión de hartazgo. No sé si sólo de izquierdas, porque hay una gran base proletaria en los movimientos de derecha históricos. El fascismo surgió aupado por las clases más desfavorecidas.
El lingüista y especialista en filosofía del lenguaje y la cultura, sacudió las conciencia de su país con "El monstruo amable", en el que, a partir de la desaparición de la izquierda tradicional italiana, ensaya las causas del giro del mundo a la derecha.
Lingüista y especialista en filosofía del lenguaje y la cultura, Raffaele Simone ha conseguido sacudir las conciencia de su país con El monstruo amable (Taurus), provocadoramente subtitulado ¿El mundo se vuelve de derechas? en el que, a partir de la desaparición de la izquierda tradicional italiana, subsumida en la democracia cristiana, ensaya las causas del giro del mundo a la derecha y del capitalismo convertido en un marco de confortabilidad que todo lo envuelve —y por tanto es en buena medida invisible— al que llama monstruo amable. Habla un gran castellano, al que traslada una notable capacidad para el trazo fino, extraña cuando no se maneja la lengua materna.
-Una de las conclusiones que recoge en su libro alude a la “naturalidad” del pensamiento de derechas, frente a la condición “artificial” del pensamiento de izquierdas en la medida en que camina contra la tendencia natural al egoísmo.
-Exacto sí, eso es.
-Los científicos evolucionistas, sin embargo, han indicado que la generosidad, la filantropía y la moral son naturales, una ventaja evolutiva en la medida en que el hombre es un ser social. En el mundo primitivo, las sociedades con reglas se imponen a las demás porque permiten crecer en población y el surgimiento de los oficios, etcétera.
-En mi opinión dice exactamente lo mismo que yo postulo. Porque la idea que describo en el libro, con un poco de dramatización, digamos (no es una teoría sino una alegoría un poco dramatizada), es la misma idea de 2001 Odisea en el espacio de Kubrick: al comienzo teórico, al que nadie pudo asistir, los humanos primitivos solían masacrarse. En un momento dado, para evitar la masacre, es decir, como efecto del miedo generalizado, se crearon gradualmente reglas. Y aplicando esta metáfora a la relación entre izquierdas y derechas, creo yo, que estar a la izquierda es menos “natural” que estar a la derecha porque la persona de derechas dice: “Esto es mío y nadie debe tocarlo. Lo que quiero hacer nadie puede contradecirlo”. Son argumentos de tipo “primitivo”, entre comillas por favor, argumentos sin elaborar de ninguna forma. En cambio la izquierda dice: “Tú tienes que renunciar a una parte de lo tuyo porque hay gente que tendrá más necesidad que tú”. O bien: “El interés publico (que es un concepto muy sofisticado) prevalece sobre el interés privado. Lo que tú decides hacer debe ser mediado por una preocupación por el interés de los demás”. Es una actitud para la que yo empleo la imagen del muelle tenso, porque la tendencia natural es al egoísmo, y repartir lo que uno posee entre personas que uno ni conoce es antinatural, en este sentido, encuentra la resistencia del muelle.
-Esto enlaza con el eterno debate, muy intenso en colectivos feministas y entre educadores, entre lo natural y lo cultural. Natural sería ser de derechas y cultural, ser de izquierdas.
-Sí, esa es la oposición, apoyada en este momento por los estudios que usted mencionaba de los etólogos, los estudiosos del comportamiento de los monos superiores, etcétera. Sabemos de lo humano muchísimo más de lo que sabía Rousseau, que en su momento simpatizaba con las posiciones de la Iglesia, que suponen que el hombre es originariamente bueno y que se va haciendo peor con el paso del tiempo. Yo creo instintivamente lo contrario. Y en este caso, es una imagen para explicar el hecho de que es mucho más frecuente y más fácil el paso de izquierda a derecha a nivel individual que el contrario.
-Y además es simétrico.
-¿En qué sentido?
-Cuando uno viene de posiciones extremas de izquierda acaba en posiciones extremas de derechas, y si uno es moderado, termina en posiciones moderadas. Del stalinismo al fascismo, y de la socialdemocracia a la democracia cristiana, por así decir.
-Sí, sí. En Italia tenemos numerosos casos. Es exactamente así. En Italia el partido socialista, casi entero se ha trasladado sin inmutarse a las filas de Berlusconi. Y la gente que es realmente socialista sigue preguntándose cómo han podido. En mi interpretación, es el muelle que, en un momento dado, cansados de la tensión, se deciden a aflojarlo.
-¿Rendirse?
-Exacto.
-Usted cita, y su prologuista también, la escena de Abril (1998), de Nanni Moretti, en la que él mismo se queda ante el televisor gritándole a Mássimo D’Alema: “¡D’Alema, di algo de izquierdas!”. Moretti ya había propuesto una carnavalesca sátira sobre la descomposición del comunismo italiano, Palombella rossa (1993), transmutada en un partido de waterpolo, con un texto explícito sobre la crisis de la izquierda.
-En Moretti hay muchos elementos de este tipo. Además Moretti él activó hace unos años una manifestación de protesta fuerte contra la gestión actual de la izquierda que desembocó en manifestaciones importantes, el movimiento de los Girotondi. Ël fue uno de los iniciadores. En un momento dado se desinfló el movimiento porque era demasiado informal y quizá le faltaban liderazgos, pero fue un movimiento importante que duró varios años.
-¿Es usted muy pesimista?
-No, no. Yo tengo esperanza.
-Cuesta verlo en el libro.
-Creo que es mejor analizar los datos de forma penetrante antes de organizar una respuesta.
-¿No cree que esa pérdida de los principios o de las ideas poderosas de la izquierda que usted denuncia se ha producido de forma gemela en la derecha, que el tradicionalismo o las expresiones más reaccionarias en lo moral han retrocedido?
-Por eso hablo de neoderecha, es una derecha diferente de la anterior. No son fascistas, sólo tienen intereses de tipo material.
-Usted hace una enumeración de las metas no alcanzadas por la izquierda en Europa en los últimos 150 años. Dice que “no se ha producido una elevación estable de instrucción y de cultura”… Las estadísticas de progreso humano de Naciones Unidas dicen otra cosa, que los índices de alfabetización no han dejado de subir.
-No hemos alcanzado la meta.
-Pero usted sostiene que no hay progresos. Luego añade que “no se ha producido una revalorización de la actividad intelectual y creativa”. No le puedo dar datos, pero da la impresión de que es al revés, que nunca el trabajo creativo estuvo mejor remunerado que en el presente.
-Pero no estoy hablando de la modernidad y del resultado en lo moderno de la tradición anterior de la izquierda.
-También dice que no se ha logrado “la difusión generalizada de una mentalidad mínimamente racional y laica”. Esto ha sufrido altibajos.
-Varios momentos, sí. El actual es un momento difícil en España, Italia y Francia. Ustedes tienen un futuro de contrarreformas durísimo.
-Pero sigo: “Ni la creación de una conciencia cívica solidaria y de un espíritu de paz colectivo”. Hay ejemplos de progreso moral muy llamativos: en 2003 por primera vez se produjo una movilización social global y masiva contra una guerra que no había empezado y que iba a suceder a miles de kilómetros. No hay precedente.
-Lo que quería decir aquí yo es que no son todos resultados de tipo socialista. Son resultados de una conciencia nueva, posmoderna, más o menos, en la que la cultura juvenil tiene un papel fundamental no necesariamente de tipo socialista. Es decir, las grandes ilusiones del socialismo pueden haber sido parcialmente realizadas, pero no totalmente. Por ejemplo, la igualdad es un asunto en gravísima crisis y es uno de los rasgos principales de la izquierda. La desigual triunfa en prácticamente todo el mundo y era uno de los rasgos objetivos de la modernidad. Hay otra lista en el libro, las citas históricas, los grandes momentos a los que no acude la izquierda…
-¿Pero esto que usted denuncia de la izquierda no le ocurre también a la derecha? ¿Es decir, la desideologización?
-Pero a la derecha no le interesa de la misma manera, porque ser de derechas supone que los fenómenos, los procesos, se dejen marchar por sí solos.
-¿La neoderecha es entonces apolítica?
-Digamos que no tiene interés en modificar los procesos y en este sentido, argumento en mi libro, la izquierda ha acabado por adoptar las mismas aptitudes que la derecha, porque ha abrazado lo que yo llamo “la infinita tolerancia hacia lo social” que quiere decir que no importa lo que va a ocurrir sino que lo que importa es que pueda fluir tranquilamente. El asunto de la inmigración clandestina es central en este sentido. Ningún país de Europa ha elaborado una postura o un proyecto de gobernar este fenómeno que es inmenso y que va a modificar la faz del mundo en pocos años. Otro tema que a mí me parece muy relevante, otra cita a la que faltó la izquierda, es la revolución digital, que se ha considerado como una innovación tecnológica pura y simple, mientras que en realidad es un cambio de mentalidad.
-Uno de los motores tradicionales de la izquierdas es la idea de progreso, aunque en origen no sea marxista sino propia de la Ilustración.
-Sí, la idea de que la humanidad está en marcha, que camina de forma ascendente.
-¿La izquierda ha abdicado de ella?
-¿Por qué lo dice?
-Porque los mensajes que lanza son, aunque sean legítimos, conservadores: conservemos el medio ambiente, los derechos sociales, el estado de bienestar… es decir, una actitud a la defensiva, como si la izquierda, que era la soberana del futuro, por así decir, ahora tuviera miedo del futuro.
-Exactamente. La izquierda incluso tiene miedo de presentarse como izquierda. Estoy de acuerdo con usted, el lugar del progreso lo ha ocupado el crecimiento, el mito actual es el crecimiento, que yo creo que es otro mito peligrosísimo de la neoderecha. Yo soy bastante partidario del decrecimiento, si no a la Latouche, de otra manera más afable, pero mi idea es que el crecimiento es un gravísimo error. Es un trozo más de mundo que se destruye.
-Tampoco se dice mucho que la evolución demográfica es preocupante.
-Sí, es un problema, por supuesto. En Italia se habla un poco. Es un tema importantísimo porque el mundo está dimensionado para un determinado número de habitantes, que no se puede pasar. Pero, claro aquí de nuevo topamos con el mito de crecimiento. ¿Por qué el futuro ha de ser necesariamente de crecimiento y no de estabilización o redistribución. Por concluir, le diré que la izquierda ha asumido unos mitos de la derecha, liberales o neoliberales sin darse cuenta de lo que estaba haciendo.
-Usted habla mucho sobre la alianza pérfida entre socialdemocracia italiana y la democracia cristiana. Comparten un sustrato filosófico no menor: La pretensión de igualdad, la solidaridad, la compasión. A lo mejor no es una alianza tan contra natura.
-No, no lo es en absoluto. Tienen dos elementos en común, además del espíritu de Iglesia que se le ha atribuido a la izquierda durante años. Es el elemento de estatalismo fundamental, es decir, el Estado ocupa el centro de la vida de la sociedad, y además, al menos en Italia, pero creo que Europa la cosa va más o menos de la misma manera, el espíritu de asistencialismo, que el estado siempre tenga la obligación de asistir a los que tengas necesidades graves. Estos dos elementos aúnan las dos partes, en ese sentido no es una alianza contra natura. Lo que sí es contra natura es que el carácter químicamente infeliz de esta fusión se revela en los temas candentes, como por ejemplo los temas bioéticos. Pero lo que a mí me impresiona más es que el término mismo de socialismo en Italia ha desparecido por completo. Su amigo Walter Veltroni [líder hoy dimitido de la coalición Partido Democrático, que perdió en 2008 contra Berlusconi y ex secretario general de Demócratas de Izquierda. Fue alcalde de Roma y comenzó su carrera política en las filas del Partido Comunista Italiano] declaró a alguien que lo acusaba de insertar un espíritu socialista dentro del programa del Partido Democrático recién nacido: “No, por favor, no hay nada socialista”, como si fuera una acusación, una insinuación ofensiva. Y esta a mí me parece una traición grave, una traición histórica, porque hay gente que se declara socialista, que sigue creyendo en los principios del socialismo, como yo, que sigue teniendo ilusiones de este tipo, y no creo ser el único.
-Una característica también que acerca socialismo y democracia cristiana es la visión paternalista de la sociedad, tal vez hasta condescendiente.
-Creo que sí, porque pese a su preocupación digamos democrática, siguen teniendo fortísimas jerarquías, una esfera prácticamente intocable, los unos y los otros, en Italia pero también en otros países, hay una polémica durísima con los costes de la casta. Este espíritu de casta existe, en la izquierda como en los otros ámbitos. El espíritu democrático no es tan penetrante para eliminar este espíritu de casta.
-Entre las formas aberrantes de la política actual, tanto por la derecha como por la izquierda, es el populismo. Parece que la democracia digital apunta hacia ahí.
-Es por la mediatización del mundo. Es algo que ocurre en todo el mundo, porque los medios permiten a cualquier persona llegar hasta el individuo singular e inducirle a pensar que el poderoso es como ella. Y que tiene las mismas necesidades, gustos, costumbres, mismo lenguaje…
-El movimiento del 15-M, que seguramente es más un síntoma que un fenómeno…
-Sí, es más un indicio que un resultado.
-..es un indicador de que existe una izquierda, pero también de desafección respecto a los partidos de izquierdas.
-Son fenómenos de ebullición, pero la ebullición en política es cosa distinta de las propuestas y la elaboración de programas. En el momento en que nos ponemos a elaborar ideas y programas y proyectos, tenemos que crear una estructura, que es lo contrario del espíritu que se manifiesta en el fenómeno de los indignados. Además los indignados incorporan una idea que históricamente se ha demostrado, no falsa, sino imposible, que es la democracia directa.
-¿Indeseable?
-Para mí indeseable, peligrosísima. Pero siempre presente como ilusión, como esperanza en un momento determinado de la vida. Por eso los partidos de izquierdas no lo rentabilizan. En todo caso, me parece que los políticos deberían reflexionar con detenimiento, detalladamente sobre este fenómeno porque suponen la expresión de una inquietud, un punto de hartazgo frente al que no nos habíamos encontrado nunca antes.
-Se les reprocha no tener un discurso articulado, pero en todo caso es mucho más articulado que el de mayo del 68, que a pesar de tener lemas tan poco sofisticados como “debajo de los adoquines está la playa”, a la larga influyó en todo el pensamiento de izquierdas de las siguientes tres décadas.
-Es verdad, pero, si lo recuerda, pusieron contra las cuerdas al estado francés. En Francia hubo verdadero miedo a un golpe de estado. Además, había un sentimiento de joie de vivre que en los indignados no hay. Aquí aparece la mediatización y la cultura digital. Hay varios elementos muy distintos. En el momento en que un movimiento se concreta bajo la forma de propuesta ya se ha convertido en partido. La diferencia fundamental es la permanencia. En la medida que dure el movimiento, tendrá sus jefes y responsables. En el momento en que los cree y se dé cuenta de que unos jefes son necesarios para existir, se habrá convertido en partido. El movimiento como pura ebullición sólo es un síntoma de inquietud, nada más.
-¿Y cree que revela que hay una mayoría social de izquierdas no articulada?
-No sé si de izquierdas, pero sí expresión de hartazgo. No sé si sólo de izquierdas, porque hay una gran base proletaria en los movimientos de derecha históricos. El fascismo surgió aupado por las clases más desfavorecidas.
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12.4.12
Il vecchietto dove lo metto
Massimo Gramellini
Diventar vecchi è una tragedia. Ma fortunatamente non più per i vecchi. Per l’umanità intera. Questo delicato pensiero traspare dalla profezia del Fondo Monetario Internazionale, noto ente benefico con il cuore a forma di trappola. «Se entro il 2050 la vita media dovesse aumentare di tre anni più delle stime attuali» sostengono i buttafuori dell’economia globale, «i già elevati costi del Welfare crescerebbero del 50 per cento». Lo scenario è da film catastrofico. Milioni di anziani che vanno e vengono dagli ospedali terremotando i bilanci delle Asl e le mazzette dei politici. I prezzi dei badanti alle stelle (basta vedere quanto ci è costata Rosy Mauro). Il peso di un esercito di indomiti e canuti nullafacenti a gravare sulle spalle di rari lavoratori precari e precocemente invecchiati. I fondi pensione - senza più nessuno che paga la pensione finiranno per andare a fondo, trascinandosi dietro le Borse, gli Stati e lo stesso Fondo Monetario, che per la gioia del suo ex presidente Strauss-Khan sarà costretto a rifugiarsi in Brasile, uno degli ultimi luoghi del pianeta dove le scuole di samba vantano più iscritti delle bocciofile.
Come scongiurare lo sfacelo annunciato? Qualcuno dovrà pur sacrificarsi. Escludendo che quel qualcuno sia il Fondo Monetario, non restiamo che noi, i vecchietti del 2050. Se l’assenza di diluvi universali dovesse malauguratamente protrarsi, ci toccherà mettere in pratica la soluzione avanzata dallo scrittore Martin Amis: entrare in una cabina al compimento del novantesimo anno, schiacciare un bottone e adios. Per lo spread, questo e altro.
Diventar vecchi è una tragedia. Ma fortunatamente non più per i vecchi. Per l’umanità intera. Questo delicato pensiero traspare dalla profezia del Fondo Monetario Internazionale, noto ente benefico con il cuore a forma di trappola. «Se entro il 2050 la vita media dovesse aumentare di tre anni più delle stime attuali» sostengono i buttafuori dell’economia globale, «i già elevati costi del Welfare crescerebbero del 50 per cento». Lo scenario è da film catastrofico. Milioni di anziani che vanno e vengono dagli ospedali terremotando i bilanci delle Asl e le mazzette dei politici. I prezzi dei badanti alle stelle (basta vedere quanto ci è costata Rosy Mauro). Il peso di un esercito di indomiti e canuti nullafacenti a gravare sulle spalle di rari lavoratori precari e precocemente invecchiati. I fondi pensione - senza più nessuno che paga la pensione finiranno per andare a fondo, trascinandosi dietro le Borse, gli Stati e lo stesso Fondo Monetario, che per la gioia del suo ex presidente Strauss-Khan sarà costretto a rifugiarsi in Brasile, uno degli ultimi luoghi del pianeta dove le scuole di samba vantano più iscritti delle bocciofile.
Come scongiurare lo sfacelo annunciato? Qualcuno dovrà pur sacrificarsi. Escludendo che quel qualcuno sia il Fondo Monetario, non restiamo che noi, i vecchietti del 2050. Se l’assenza di diluvi universali dovesse malauguratamente protrarsi, ci toccherà mettere in pratica la soluzione avanzata dallo scrittore Martin Amis: entrare in una cabina al compimento del novantesimo anno, schiacciare un bottone e adios. Per lo spread, questo e altro.
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8.4.12
Le lauree in canottiera
La degradazione del titolo di studio in patacca da rigattiere nella zona più ricca d’Italia non è il dettaglio pittoresco di una ben più seria sconfitta politica
Francesco Merlo (La Repubblica)
Sono il rogo dei libri nelle valli dei dané. E certo si capisce che ora circolino le battute sulla Lega che «chiude per rutto». E si sprecano le volgarità su Rosy Mauro, la nera che «sta rovinando il capo», «la dottoressa ‘Mamma Ebe’» che ha laureato in Svizzera anche il suo giovane compagno, poliziotto ed artista che cantando «ci hanno ridotto a culi nudi» un po’ si presta alla ferocia della satira sboccata. Perciò Mamma Ebe promette di riempire l’Italia di sganassoni con le sue grandi mani di fatica, rosse e nodose, il cerchio all’anulare, mani laureate in Svizzera che è un dettaglio gradasso di Bossi, una pernacchia in più all’Italia dei saperi: «non solo regalo la laurea alla mia badante, ma la compro addirittura in Svizzera», insomma meglio di quella di Mario Monti, meglio di quella della Fornero.
Come si vede, dunque, la degradazione del titolo di studio in patacca da rigattiere nella zona più ricca d’Italia non è il dettaglio pittoresco di una ben più seria sconfitta politica. Al contrario, nel Trota che manda in pensione l’asino e, dopo tre bocciature, il partito gli compra l’agognato e immeritato diploma al mercato nero di chissà dove, c’è già la secessione in atto.
Sulle spalle di questo povero figlio, che dal 2010 frequenta a Londra una misteriosa università («in economia» disse a Vanity Fair) pagata dagli italiani sotto forma di rimborsi elettorali, non c’è solo l’ennesimo aggiornamento del ‘tengo famiglia’ e della logica del cognome che pure spiegano la sua carriera politica. Ma c’è l’aggressione a quel primato dell’ingegno che ancora ci identifica in tutto il mondo, all’Italia che ora cammina sulle gambe di Riccardo Muti e di Renzo Piano, di Umberto Eco e di Carlo Rubbia, a quella che sarà pure diventata una retorica già gravemente minacciata di decadenza, ma che solo la faccia del trota economista a Londra riesce profondamente a umiliare.
Papà Bossi, che lo voleva come delfino ed erede politico, gli ha negato un’individualità, lo ha azzerato e senza offrirgli via di scampo lo ha modellato come pataccaro leghista, ancora più pataccaro e leghista di sé, ha marchiato la sua giovane coscienza con il dio Po e con tutte le altre corbellerie padane sino a fargli presentare, agli esami di maturità, delle tesi su quel Cattaneo che solo papà ha ridotto a piazzista politico e a imbroglione, ma che in realtà è un autore difficile anche per i professori. Il risultato ovvio non è solo la bocciatura, ma anche quella sua faccia apatica su cui si sarebbero esercitati Piero Camporesi e Arnold Gehelen, la faccia come modello d’inconsistenza che sognavano d’incontrare Walter Chiari, Cochi e Renato e i cabarettisti del Derby, la faccia su cui ora si sta crudelmente divertendo l’Italia.
Ebbene, quella faccia andrebbe presa drammaticamente sul serio perché esprime benissimo l’aggressione dell’incultura leghista all’identità nazionale, è la faccia-bandiera della competenza degradata ad incompetenza nella provincia nordista degli Aiazzone dove i libri sono da sempre arredamento.
Ecco perché il cerchio magico che si compra le lauree non è l’evoluzione nordista della vecchia e gloriosa truffa all’italiana. Qui non ci sono Totò e Peppino a Gemonio. E nella signora Bossi, premiata con una scuola privata, la Bosina, per la quale il marito chiede al partito un milione e mezzo di euro, non c’è solo il paese delle mogli, il trionfo della solita economia domestica che è l’unica scienza finanziaria nazionale, né c’è solo il tributo del celodurista spelacchiato all’Italia del matriarcato
dove, nonostante la biologia, è sempre la moglie che ingravida il marito. Certo, la signora Manuela, governando il marito ha governato l’intero governo italiano che della Lega è stato lungamente ostaggio, ma in quella scuola privata c’è qualcosa di più e di peggio, qualcosa forse di irreparabile nel mondo del mito sciaguratamente brianzolizzato del self made man che ora ricicla danaro illecito, nella fuga dalla condizione operaia verso quella dei piccoli padroni che evadono il fisco, nella corruzione politica da record che devasta la Lombardia… La scuola della Bossi è il dileggio finalmente realizzato della cultura che in quel mondo ha una sola funzione: essere dileggiata dall’asino, e dunque comprata ed esibita. È la scuola in canottiera, l’antiscuola, non un nuovo modello Montessori ma il raglio al posto delle grammatiche.
Non sarà facile liberare dall’anticultura e svelenire quella parte dell’Italia del Nord che con Bossi ha ancora un rapporto di identità corporale, non sarà semplice restaurare nei villaggi della val Brembana l’anima italiana, l’identità nazionale fondata sulle eccellenze dei saperi coltivati e depositati. Non c’è infatti nessuna simpatia canagliesca, non c’è nessuna allegria manigolda nelle due lauree — due — che il tesoriere Francesco Belsito, ex autista ed ex venditore di focacce, ‘indossa’ sul corpaccione da buttafuori, il tesoriere più pazzo del mondo, il gorilla leghista dottore in Scienza della comunicazione (università di Malta, scrisse nel sito del governo quando era sottosegretario) e dottore in Scienze politiche a Londra, dove, non avendo valore legale, si vendono lauree ai cialtroni di tutto il mondo, italiani, libanesi, ucraini...
Attenzione, dunque: questo Bossi non è il terrone padano, il solito terrone capovolto. Qui c’è infatti l’attacco alla scuola che non ha solo alfabetizzato l’Italia ma l’ha unita nell’orgoglio rinascimentale, nell’amore per le eccellenze, da Dante sino a Rita Levi Montalcini. Bossi nella sua vita di pataccaro si è finto medico, ha festeggiato per tre volte la laurea mai conseguita e non dimenticheremo mai che la Gelmini, ministro della Pubblica istruzione, convocò il senato accademico dell’Università di Varese pretendendo di dare il tocco e la toga alla volgarità del linguaggio politico, di maritare il Sapere con l’indecenza grammaticale, di adottare l’insulto come forma di comunicazione colta: «Voglio proprio vedere chi avrà il coraggio di mettere in dubbio il buon diritto di Umberto Bossi, che è parte della storia di questo Paese, a ricevere una laurea honoris causa».
Battistrada della via culturale alla secessione la Gelmini, appoggiata da un gruppetto di intellettuali disorientati e rampanti, diffondeva — ricordate? — tutta quella paccottiglia contro i professori meridionali, voleva gli esami in dialetto, fece guerra alla lingua del Manzoni in nome di una improbabile matematica, i numeri contro le lettere, roba che solo adesso, dinanzi al mercato della lauree, assume il suo vero volto di pernacchia. Il cerchio magico acquista solo lauree vere, non cerca la falsa laurea dei vecchi magliari del sud che, sia pure delittuosamente, esprimevano rispetto e soggezione per i professori che imitavano. Non viola in segreto la legge, ma la raggira alla luce del sole: non il delitto che collide con la norma, ma la patacca che collude con la norma; non il delitto che è grandezza e castigo, ma il valore comprato ed esibito, che è scherno e disprezzo. È l’unico vero sputo con cui la Lega ha davvero sporcato l’Italia.
Francesco Merlo (La Repubblica)
Sono il rogo dei libri nelle valli dei dané. E certo si capisce che ora circolino le battute sulla Lega che «chiude per rutto». E si sprecano le volgarità su Rosy Mauro, la nera che «sta rovinando il capo», «la dottoressa ‘Mamma Ebe’» che ha laureato in Svizzera anche il suo giovane compagno, poliziotto ed artista che cantando «ci hanno ridotto a culi nudi» un po’ si presta alla ferocia della satira sboccata. Perciò Mamma Ebe promette di riempire l’Italia di sganassoni con le sue grandi mani di fatica, rosse e nodose, il cerchio all’anulare, mani laureate in Svizzera che è un dettaglio gradasso di Bossi, una pernacchia in più all’Italia dei saperi: «non solo regalo la laurea alla mia badante, ma la compro addirittura in Svizzera», insomma meglio di quella di Mario Monti, meglio di quella della Fornero.
Come si vede, dunque, la degradazione del titolo di studio in patacca da rigattiere nella zona più ricca d’Italia non è il dettaglio pittoresco di una ben più seria sconfitta politica. Al contrario, nel Trota che manda in pensione l’asino e, dopo tre bocciature, il partito gli compra l’agognato e immeritato diploma al mercato nero di chissà dove, c’è già la secessione in atto.
Sulle spalle di questo povero figlio, che dal 2010 frequenta a Londra una misteriosa università («in economia» disse a Vanity Fair) pagata dagli italiani sotto forma di rimborsi elettorali, non c’è solo l’ennesimo aggiornamento del ‘tengo famiglia’ e della logica del cognome che pure spiegano la sua carriera politica. Ma c’è l’aggressione a quel primato dell’ingegno che ancora ci identifica in tutto il mondo, all’Italia che ora cammina sulle gambe di Riccardo Muti e di Renzo Piano, di Umberto Eco e di Carlo Rubbia, a quella che sarà pure diventata una retorica già gravemente minacciata di decadenza, ma che solo la faccia del trota economista a Londra riesce profondamente a umiliare.
Papà Bossi, che lo voleva come delfino ed erede politico, gli ha negato un’individualità, lo ha azzerato e senza offrirgli via di scampo lo ha modellato come pataccaro leghista, ancora più pataccaro e leghista di sé, ha marchiato la sua giovane coscienza con il dio Po e con tutte le altre corbellerie padane sino a fargli presentare, agli esami di maturità, delle tesi su quel Cattaneo che solo papà ha ridotto a piazzista politico e a imbroglione, ma che in realtà è un autore difficile anche per i professori. Il risultato ovvio non è solo la bocciatura, ma anche quella sua faccia apatica su cui si sarebbero esercitati Piero Camporesi e Arnold Gehelen, la faccia come modello d’inconsistenza che sognavano d’incontrare Walter Chiari, Cochi e Renato e i cabarettisti del Derby, la faccia su cui ora si sta crudelmente divertendo l’Italia.
Ebbene, quella faccia andrebbe presa drammaticamente sul serio perché esprime benissimo l’aggressione dell’incultura leghista all’identità nazionale, è la faccia-bandiera della competenza degradata ad incompetenza nella provincia nordista degli Aiazzone dove i libri sono da sempre arredamento.
Ecco perché il cerchio magico che si compra le lauree non è l’evoluzione nordista della vecchia e gloriosa truffa all’italiana. Qui non ci sono Totò e Peppino a Gemonio. E nella signora Bossi, premiata con una scuola privata, la Bosina, per la quale il marito chiede al partito un milione e mezzo di euro, non c’è solo il paese delle mogli, il trionfo della solita economia domestica che è l’unica scienza finanziaria nazionale, né c’è solo il tributo del celodurista spelacchiato all’Italia del matriarcato
dove, nonostante la biologia, è sempre la moglie che ingravida il marito. Certo, la signora Manuela, governando il marito ha governato l’intero governo italiano che della Lega è stato lungamente ostaggio, ma in quella scuola privata c’è qualcosa di più e di peggio, qualcosa forse di irreparabile nel mondo del mito sciaguratamente brianzolizzato del self made man che ora ricicla danaro illecito, nella fuga dalla condizione operaia verso quella dei piccoli padroni che evadono il fisco, nella corruzione politica da record che devasta la Lombardia… La scuola della Bossi è il dileggio finalmente realizzato della cultura che in quel mondo ha una sola funzione: essere dileggiata dall’asino, e dunque comprata ed esibita. È la scuola in canottiera, l’antiscuola, non un nuovo modello Montessori ma il raglio al posto delle grammatiche.
Non sarà facile liberare dall’anticultura e svelenire quella parte dell’Italia del Nord che con Bossi ha ancora un rapporto di identità corporale, non sarà semplice restaurare nei villaggi della val Brembana l’anima italiana, l’identità nazionale fondata sulle eccellenze dei saperi coltivati e depositati. Non c’è infatti nessuna simpatia canagliesca, non c’è nessuna allegria manigolda nelle due lauree — due — che il tesoriere Francesco Belsito, ex autista ed ex venditore di focacce, ‘indossa’ sul corpaccione da buttafuori, il tesoriere più pazzo del mondo, il gorilla leghista dottore in Scienza della comunicazione (università di Malta, scrisse nel sito del governo quando era sottosegretario) e dottore in Scienze politiche a Londra, dove, non avendo valore legale, si vendono lauree ai cialtroni di tutto il mondo, italiani, libanesi, ucraini...
Attenzione, dunque: questo Bossi non è il terrone padano, il solito terrone capovolto. Qui c’è infatti l’attacco alla scuola che non ha solo alfabetizzato l’Italia ma l’ha unita nell’orgoglio rinascimentale, nell’amore per le eccellenze, da Dante sino a Rita Levi Montalcini. Bossi nella sua vita di pataccaro si è finto medico, ha festeggiato per tre volte la laurea mai conseguita e non dimenticheremo mai che la Gelmini, ministro della Pubblica istruzione, convocò il senato accademico dell’Università di Varese pretendendo di dare il tocco e la toga alla volgarità del linguaggio politico, di maritare il Sapere con l’indecenza grammaticale, di adottare l’insulto come forma di comunicazione colta: «Voglio proprio vedere chi avrà il coraggio di mettere in dubbio il buon diritto di Umberto Bossi, che è parte della storia di questo Paese, a ricevere una laurea honoris causa».
Battistrada della via culturale alla secessione la Gelmini, appoggiata da un gruppetto di intellettuali disorientati e rampanti, diffondeva — ricordate? — tutta quella paccottiglia contro i professori meridionali, voleva gli esami in dialetto, fece guerra alla lingua del Manzoni in nome di una improbabile matematica, i numeri contro le lettere, roba che solo adesso, dinanzi al mercato della lauree, assume il suo vero volto di pernacchia. Il cerchio magico acquista solo lauree vere, non cerca la falsa laurea dei vecchi magliari del sud che, sia pure delittuosamente, esprimevano rispetto e soggezione per i professori che imitavano. Non viola in segreto la legge, ma la raggira alla luce del sole: non il delitto che collide con la norma, ma la patacca che collude con la norma; non il delitto che è grandezza e castigo, ma il valore comprato ed esibito, che è scherno e disprezzo. È l’unico vero sputo con cui la Lega ha davvero sporcato l’Italia.
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