L’istituto nato nel 1882 è da lustri il crocevia tra massoneria e finanza cattolica ed è franato per finanziamenti e acquisti dissennati
Ex amministratori e sindaci si sono auto concessi prestiti per 185 milioni oltre a gettoni di presenza da 14 milioni in 5 anni I primi 20 prestiti in sofferenza ammontano a 200 milioni. Tra i beneficiari la famiglia Federici e Bellavista Caltagirone
di Alberto Statera
ROMA “Come è umano lei!” Se non ci fosse già la mestizia per un morto suicida, verrebbe da usare le parole di Giandomenico Fracchia ne “La belva umana” per giudicare “le misure di tipo umanitario” annunciate dal ministro Pier Carlo Padoan a favore dei risparmiatori più poveri, il parco buoi che con le obbligazioni “subordinate” di quattro banche ha perso tutto.
Ruggisce la Chimera di Arezzo verso i 13 ricchi ex amministratori e 5 ex sindaci di Banca Etruria che invece probabilmente non restituiranno mai i 185 milioni che si sono auto-concessi con 198 posizioni di fido finiti in “ sofferenza” e in “incaglio”, settore che in banca curava Emanuele Boschi, fratello del super-ministro Maria Elena. Né, visti i precedenti, restituiranno i 14 milioni riscossi di gettoni negli ultimi cinque anni. Figurarsi poi i 20 primi “sofferenti” per oltre 200 milioni. A cominciare da Francesco Bellavista Caltagirone dell’Acqua Antica Pia Marcia, “un dono fatto all’Urbe dagli dei”(Plinio il Vecchio) esposta con le sue controllate per 80 milioni o la Sacci (40 milioni) della famiglia Federici, passata adesso all’ Unicem, o la Finanziaria Italia Spa del Gruppo Landi di Eutelia (16), o ancora la Realizzazioni e Bonifiche del Gruppo Uno A Erre (10,6) , l’Immobiliare Cardinal Grimaldi, titolare di un mutuo di 11,8 milioni a 40 anni, una durata che non esiste sul mercato, e l’ Acquamare srl (17,1) sempre del gruppo Bellavista Caltagirone.
Tra le storie più deliranti tra quelle nelle quali ci si imbatte percorrendo i sentieri delle quattro banche fallite, la più sconclusionata è quella del panfilo più lussuoso al mondo che doveva essere costruito dalla Privilege Yard Spa a Civitavecchia, lungo 127 metri e già opzionato – si diceva - da Brad Pitt e Angelina Jolie. Dal 2007, quando fu costituito il pool di banche capeggiato dall’Etruria, esiste solo il rendering della nave di carta e la società è fallita con un buco di 200 milioni. L’inventore del bidone si chiama Mario La Via, che si definisce “finanziere internazionale”, e che esibiva come suoi soci l’ex segretario generale dell’Onu Perez de Cuellar, il sultano del Brunei e Robert Miller, azionista di Louis Vuitton e CNN. L’inaugurazione del cantiere fu benedetta dal cardinale Tarcisio Bertone. Nel consiglio figuravano Mauro Masi, ex direttore generale della Rai, Giorgio Assumma, ex presidente della Siae, e il tributarista Tommaso Di Tanno. Per non farsi mancare niente, tra gli sponsor c’era anche Giancarlo Elia Valori, l’unico massone espulso a suo tempo dalla P2 di Licio Gelli. D’altro canto, la Banca Etruria è da lustri teatro dello scontro e anche degli incontri d’interessi tra finanza massonica e finanza cattolica. Quasi tutte storie che vengono dalla notte dei tempi.
La Banca dell’oro, come era chiamata per il ruolo nel mercato dei lingotti, nasce nel 1882 in via della Fiorandola come Banca Mutua Popolare Aretina. Ma è cent’anni dopo, nel 1982, che comincia l’espansione con l’acquisto della Popolare Cagli, della Popolare di Gualdo Tadino e della Popolare dell’Alto Lazio, feudo di Giulio Andreotti che era sull’orlo del default. E comincia il trentennio del padre-padrone Elio Faralli, classe 1922, massone, che rinunciò alla presidenza con una buonuscita di 1,3 milioni e un assegno annuale di 120 mila euro perché a 87 anni non facesse concorrenza alla sua ex banca. Scomparso nel 2013 e sostituito dal cattolico Giuseppe Fornasari, ex deputato democristiano, Faralli sponsorizzò tutte le prime venti operazioni in sofferenza di cui abbiamo dato conto, salvo 20 milioni deliberati ancora per la nave di carta durante la presidenza Fornasari. Risale poi al 2006 l’acquisto di Banca Federico Del Vecchio. Doveva essere la boutique bancaria che portava in Etruria i patrimoni delle ricche famiglie fiorentine, ma si è rivelata un buco senza fondo. Un giorno Faralli si rinchiuse da solo in una stanza col presidente della Del Vecchio e ne uscì con un contratto di acquisto per 113 milioni, contro una stima di 50, mentre mesi fa veniva offerta in vendita a 25 milioni.
“La Banca Etruria non si tocca,” andava proclamando il sindaco di Arezzo Giuseppe Fanfani, nipote del leader storico della Democrazia Cristiana Amintore e figlio del leader locale Ameglio, alla vigilia di lasciare l’incarico per trasferirsi nella poltrona di membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura. Un sindaco aretino, chiunque egli fosse, era costretto a difendere “per contratto” l’icona bancaria cittadina, 186 sportelli e1.800 dipendenti, con un modello fondato su un groviglio di interessi intrecciati tra loro. Lo stesso modello ad Arezzo, come nelle Marche, a Chieti e Ferrara, con banchieri improvvisati, politici locali, imprenditori, azionisti, grandi famiglie feudatarie, truffatori, a spese dei piccoli correntisti spinti ad acquistare prodotti a rischio per loro incomprensibili. Ma il mito della banca semplice, radicata sul territorio, per clienti semplici, dove tutti si fidano, si è infranto definitivamente un mercoledì del febbraio scorso, quando ad Arezzo di fronte ai capi- area convocati per avere comunicazione dei tragici dati di bilancio irrompono due commissari nominati dalla Banca d’Italia, Riccardo Sora e Antonio Pironti. Il presidente vuole annullare la riunione , ma i commissari dicono: “No, la riunione la facciamo noi.” E di fronte ai dirigenti esordiscono così: ”Qualcuno in Consiglio d’amministrazione insiste nel non voler capire bene la situazione”. E dalla sala si alza un commento:”Meglio i commissari che il geometra”, che non è altri che il presidente commissariato Lorenzo Rosi, affiancato dal vice Pier Luigi Boschi. Ma la Banca d’Italia finalmente muscolare non fa miglior figura. Passano due o tre giorni e si scopre che il commissario di Bankitalia Sora è indagato a Rimini, dove era stato commissario della locale Cassa di risparmio per l’acquisto di azioni proprie “a un prezzo illecitamente maggiorato”.
Adesso, con il pellegrinaggio di ieri ad Arezzo di Matteo Salvini ed altri raccogliticci salvatori della patria, le polemiche tutt’altro che ingiustificate sulla Banca d’Italia, che era finora un tabernacolo inviolabile, si spostano dritte dritte sul governo Renzi. Il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo evoca i 238 miliardi di aiuti alle banche messi dalla Germania, che poi ha promosso i vincoli per impedire interventi analoghi agli altri paesi, contro il nostro miliardo. E lamenta gli inadeguati poteri d’intervento e sanzionatori. Ma non spiega perché il commissariamento non fu fatto dopo la terribile ispezione del 2010 o dopo quelle altrettanto tragiche del 2013 e 2014. Quanto al governo, ci ha messo non più di venti minuti per approvare il Salva-banche. Ma, attenzione. Così com’è, c’è chi teme che rischi di provocare altri monumentali guai.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
12.12.15
7.12.15
Sono cambiate le regole del gioco: il voto a Marine Le Pen non è di protesta
Superati ormai gli schemi su cui era basata la dialettica politica tradizionale
Cesare Martinetti
Il Front National è il primo partito di Francia, Marine Le Pen cambia il paradigma politico di un paese fondatore dell’Unione europea e apre una dinamica imprevedibile nel vecchio continente. Un vittoria annunciata ma non per questo meno clamorosa: è un voto che segna qualcosa di molto più profondo, è il superamento dello schema politico novecentesco, saltano le categorie nelle quali si sono formati i partiti delle democrazie occidentali. Il 40 per cento di voti presi da Marine Le Pen e dalla nipotina Marion nella due regioni in cui erano candidate (Nord-Pas-de-Calais e Piccardia, Provenza-Costa Azzurra) costituiscono la somma dei voti di destra e sinistra, ex gollisti e socialisti. Nel resto del Paese il Front è al 30 per cento; secondo partito i “repubblicani” di Sarkozy con il 26. I socialisti sono al 23.
Tutto questo non si può più interpretare con la vecchia formula del voto di protesta. Non basta più. Bisogna prendere atto che la politica sta cambiando, inutili le vecchie formule che ancora si sentono oggi in Francia tipo «far fronte all’estrema destra» che è un modo appena più reticente di dire: no ai fascisti. Più lo si dirà e più voti andranno al Front. Il paese è già altrove. Sono anni che sociologi e sondaggisti avvertono un rimescolamento nel profondo della società.
I voti al Front National arrivano in gran parte dalle classi popolari, molti dei nuovi elettori frontisti hanno votato comunista per anni. È il voto dei delusi, dei dimenticati, è il voto di un paese profondo al quale la politica non sa più parlare. È un voto populista, postideologico e in questo senso introduce stabilmente nel paesaggio politico un soggetto “nuovo” ma non per questo anti-politico.
È un voto contro le élites politiche che giocano una piccola battaglia di apparati. È un voto contro la tecnocrazia gelida di Bruxelles da dove arrivano soltanto diktat cifrati che la gente traduce in perdita secca nella propria quotidianità. Non è un caso che l’unica regione in cui il Front arriva terzo con il 18 per cento dietro la destra al 30 e i socialisti al 25 è l’Ile-de-France e cioè la regione di Parigi: impensabile un voto contro le élites nella capitale delle élites.
È naturalmente un voto di paura dopo gli attentati. Ma sarebbe un errore pensare che i francesi hanno votato Front dopo Charlie Hebdo e le stragi di venerdì 13 novembre.
Una crescita continua
La dinamica elettorale per il Front è positiva da 2002, l’anno in cui il vecchio Jean-Marie Le Pen, padre di Marine riuscì a battere il premier socialista Lionel Jospin nel primo turno delle presidenziali e arrivò al ballottaggio con Chirac. Perse, è vero, per 82 a 18 (per cento). Ma il grande tabù era rotto. Da allora gli altri partiti, in particolare la destra ex gollista con Nicolas Sarkozy si sono lanciati all’inseguimento del paese che sembrava scivolare sempre di più nell’ombra del Front dando così corso a quella «lepenizzazione» degli spiriti che ieri ha sancito la vittoria di Marine Le Pen.
Sarzkoy il grande battuto
In questo senso il grande sconfitto di queste elezioni è proprio Sarkozy che stava faticosamente costruendo la candidatura per le presidenziali 2017 sognando la grande rivincita con Hollande che l’aveva umiliato tre anni e mezzo fa. Dopo questo risultato è molto difficile che Sarko, che ieri sera ha lanciato proclami di battaglia contro l’estrema destra rifiutando qualunque alleanza con il Ps per il secondo turno, possa essere candidato. Il grande rivale moderato Alain Juppé (l’unico che sembra in grado di battere la Le Pen in un ballottaggio perché capace di raccogliere anche molti voti socialisti) ha già annunciato battaglia nel partito.
Hollande e la sinistra divisa
Hollande è stato sconfitto ma meno di quel che si pensava. I voti della sinistra (come sempre dispersi) sommati fra loro fanno quasi ovunque più del Front. Ma si sa che un conto è la matematica e un altro conto la politica. Il presidente ha comunque molto recuperato grazie all’atteggiamento fermo e reattivo di fronte agli attentati. La «guerra» immediatamente dichiarata all’Isis, lo stato di emergenza messo in atto nel paese, l’attivismo diplomatico gli hanno riportato molti consensi persi nel deludente andamento economico del paese. Lui, certamente, sarà il candidato alla propria successione tra poco più di un anno.
Promesse mirabolanti
Detto questo bisognerà anche vedere che uso farà Marine Le Pen di questo risultato elettorale, che naturalmente dovrà essere confermato domenica prossima ai ballottaggi. Ma nel sistema francese le regioni hanno poteri molto meno significativi delle regioni italiane, non si potrà certo misurare il programma di governo del Front. La Pen vince su promesse mirabolanti: l’uscita dall’euro (che in verità negli ultimi tempi ha un po’ attenuato, forse nel timore di doversi poi trovare davvero a metterla in atto), la chiusura dei confini agli stranieri, nazionalizzazioni delle imprese che delocalizzano, etc. Ma questa sarà la partita del 2017 della quale sappiamo da fin d’ora che uno dei due candidati sarà Marine Le Pen. Resta da capire chi potrà (e saprà) sfidarla.
Cesare Martinetti
Il Front National è il primo partito di Francia, Marine Le Pen cambia il paradigma politico di un paese fondatore dell’Unione europea e apre una dinamica imprevedibile nel vecchio continente. Un vittoria annunciata ma non per questo meno clamorosa: è un voto che segna qualcosa di molto più profondo, è il superamento dello schema politico novecentesco, saltano le categorie nelle quali si sono formati i partiti delle democrazie occidentali. Il 40 per cento di voti presi da Marine Le Pen e dalla nipotina Marion nella due regioni in cui erano candidate (Nord-Pas-de-Calais e Piccardia, Provenza-Costa Azzurra) costituiscono la somma dei voti di destra e sinistra, ex gollisti e socialisti. Nel resto del Paese il Front è al 30 per cento; secondo partito i “repubblicani” di Sarkozy con il 26. I socialisti sono al 23.
Tutto questo non si può più interpretare con la vecchia formula del voto di protesta. Non basta più. Bisogna prendere atto che la politica sta cambiando, inutili le vecchie formule che ancora si sentono oggi in Francia tipo «far fronte all’estrema destra» che è un modo appena più reticente di dire: no ai fascisti. Più lo si dirà e più voti andranno al Front. Il paese è già altrove. Sono anni che sociologi e sondaggisti avvertono un rimescolamento nel profondo della società.
I voti al Front National arrivano in gran parte dalle classi popolari, molti dei nuovi elettori frontisti hanno votato comunista per anni. È il voto dei delusi, dei dimenticati, è il voto di un paese profondo al quale la politica non sa più parlare. È un voto populista, postideologico e in questo senso introduce stabilmente nel paesaggio politico un soggetto “nuovo” ma non per questo anti-politico.
È un voto contro le élites politiche che giocano una piccola battaglia di apparati. È un voto contro la tecnocrazia gelida di Bruxelles da dove arrivano soltanto diktat cifrati che la gente traduce in perdita secca nella propria quotidianità. Non è un caso che l’unica regione in cui il Front arriva terzo con il 18 per cento dietro la destra al 30 e i socialisti al 25 è l’Ile-de-France e cioè la regione di Parigi: impensabile un voto contro le élites nella capitale delle élites.
È naturalmente un voto di paura dopo gli attentati. Ma sarebbe un errore pensare che i francesi hanno votato Front dopo Charlie Hebdo e le stragi di venerdì 13 novembre.
Una crescita continua
La dinamica elettorale per il Front è positiva da 2002, l’anno in cui il vecchio Jean-Marie Le Pen, padre di Marine riuscì a battere il premier socialista Lionel Jospin nel primo turno delle presidenziali e arrivò al ballottaggio con Chirac. Perse, è vero, per 82 a 18 (per cento). Ma il grande tabù era rotto. Da allora gli altri partiti, in particolare la destra ex gollista con Nicolas Sarkozy si sono lanciati all’inseguimento del paese che sembrava scivolare sempre di più nell’ombra del Front dando così corso a quella «lepenizzazione» degli spiriti che ieri ha sancito la vittoria di Marine Le Pen.
Sarzkoy il grande battuto
In questo senso il grande sconfitto di queste elezioni è proprio Sarkozy che stava faticosamente costruendo la candidatura per le presidenziali 2017 sognando la grande rivincita con Hollande che l’aveva umiliato tre anni e mezzo fa. Dopo questo risultato è molto difficile che Sarko, che ieri sera ha lanciato proclami di battaglia contro l’estrema destra rifiutando qualunque alleanza con il Ps per il secondo turno, possa essere candidato. Il grande rivale moderato Alain Juppé (l’unico che sembra in grado di battere la Le Pen in un ballottaggio perché capace di raccogliere anche molti voti socialisti) ha già annunciato battaglia nel partito.
Hollande e la sinistra divisa
Hollande è stato sconfitto ma meno di quel che si pensava. I voti della sinistra (come sempre dispersi) sommati fra loro fanno quasi ovunque più del Front. Ma si sa che un conto è la matematica e un altro conto la politica. Il presidente ha comunque molto recuperato grazie all’atteggiamento fermo e reattivo di fronte agli attentati. La «guerra» immediatamente dichiarata all’Isis, lo stato di emergenza messo in atto nel paese, l’attivismo diplomatico gli hanno riportato molti consensi persi nel deludente andamento economico del paese. Lui, certamente, sarà il candidato alla propria successione tra poco più di un anno.
Promesse mirabolanti
Detto questo bisognerà anche vedere che uso farà Marine Le Pen di questo risultato elettorale, che naturalmente dovrà essere confermato domenica prossima ai ballottaggi. Ma nel sistema francese le regioni hanno poteri molto meno significativi delle regioni italiane, non si potrà certo misurare il programma di governo del Front. La Pen vince su promesse mirabolanti: l’uscita dall’euro (che in verità negli ultimi tempi ha un po’ attenuato, forse nel timore di doversi poi trovare davvero a metterla in atto), la chiusura dei confini agli stranieri, nazionalizzazioni delle imprese che delocalizzano, etc. Ma questa sarà la partita del 2017 della quale sappiamo da fin d’ora che uno dei due candidati sarà Marine Le Pen. Resta da capire chi potrà (e saprà) sfidarla.
Etichette:
elezioni,
Francia,
La Stampa,
Le Pen,
Martinetti
19.11.15
Come spiegare ai bambini cosa è successo a Parigi
Davanti a episodi violenti come gli attentati a Parigi si può
provare l’istinto di proteggere i bambini dalle notizie che potrebbero
turbarli, ma secondo gli esperti può essere un errore ritardare il
momento in cui scoprono che è successo qualcosa di terribile.
L’approccio da seguire, per genitori e insegnanti, dipende dall’età dei
bambini.
La prima regola, valida in ogni caso, è trovare il tempo per rispondere alle domande con calma e chiarezza: spesso succede che vengano a sapere cosa è successo da qualcuno fuori dall’ambiente familiare e i genitori devono riuscire a chiarire i dubbi e ad allontanare ansie e paure.
Ecco alcuni consigli, pubblicati da Time, per affrontare il discorso con bambini di diverse età.
La prima regola, valida in ogni caso, è trovare il tempo per rispondere alle domande con calma e chiarezza: spesso succede che vengano a sapere cosa è successo da qualcuno fuori dall’ambiente familiare e i genitori devono riuscire a chiarire i dubbi e ad allontanare ansie e paure.
Ecco alcuni consigli, pubblicati da Time, per affrontare il discorso con bambini di diverse età.
- Bambini in età prescolare. Prima dei sei anni si può evitare di esporre i bambini a queste notizie. I bambini che hanno meno di cinque anni possono confondere i fatti con le paure e per questo è meglio aggiungere dettagli solo per rispondere a domande dirette.
- Bambini tra i sei e i dieci anni. Secondo Harold Koplewicz, presidente del Child mind institute, “a questa età conoscere i fatti può aiutare ad alleviare l’ansia”. Ma è meglio evitare l’eccesso di dettagli, come il numero dei morti, e l’uso di parole che possono spaventare. Secondo la psicoanalista francese Claude Halmos è inutile parlare del gruppo Stato islamico, della religione e delle operazioni militari in Siria. I bambini devono essere rassicurati: se gli adulti sembrano tristi non è perché c’è una minaccia diretta alla famiglia, ma solo per le vittime. È importante far capire ai bambini che sono al sicuro: questi attacchi sono molto rari, “i cattivi” sono stati catturati e i feriti guariranno.
- Bambini tra i dieci e i quattordici anni. I bambini più grandi potrebbero voler conoscere maggiori dettagli, ma gli esperti consigliano di non dargliene troppi. A questa età è importante chiedergli cosa hanno saputo e come si sentono, devono sapere che si può essere tristi anche se non si sente il bisogno di piangere. I bambini potrebbero mostrarsi indifferenti o voler passare del tempo da soli, ma può essere utile incoraggiarli a esprimere le loro paure ed eventualmente parlare di come comportarsi in caso di emergenza.
- Adolescenti, tra i 14 e i 18 anni. I ragazzi che frequentano le scuole superiori probabilmente ricevono informazioni sui più importanti eventi di attualità attraverso i social network e per questo è molto importante aiutarli a distinguere i fatti dalle bufale e dalle congetture. Gli adolescenti potrebbero rifiutare questo tipo di conversazione: per questo è consigliabile affrontare l’argomento mentre si fa qualcos’altro insieme a loro, secondo Koplewicz. Non crederanno di essere al sicuro dagli attacchi terroristici con una semplice rassicurazione, bisogna invitarli a considerare le probabilità e decidere insieme cosa fare in caso di emergenza, cosa dovrebbero fare nel caso in cui non fossero in grado di tornare a casa o contattare i genitori. Infine, è importante parlare con gli adolescenti dell’uso della violenza, dei suoi effetti e delle alternative.
In Francia il ministero dell’istruzione
ha invitato genitori e insegnanti a parlare tra loro per capire come
affrontare il discorso sugli attentati insieme ai bambini. Su un portale
online sono stati messi a disposizione diversi materiali didattici e testi di pedagogia utili per decidere come parlarne in classe.
La rivista per bambini Astrapi ha dedicato un dossier speciale di due pagine per spiegare ai bambini quanto è successo. Anche il quotidiano Libération ha realizzato un’edizione speciale di Le P’tit Libé, pensato per i bambini dai 7 ai 12 anni, per rispondere alle domande dei giovani lettori. I tre quotidiani per bambini e ragazzi del gruppo Play Bac (Le Petit Quotidien, dai 6 ai 10 anni, Mon Quotidien, dai 10 ai 14, e L’Actu, per gli adolescenti) pubblicheranno delle edizioni straordinarie domani, già scaricabili gratuitamente online. Un’attenzione particolare è dedicata alle parole difficili per i bambini, come terrorista, Stato islamico, e jihadista, e alle domande che potrebbero fare, come “è la terza guerra mondiale?” o “i terroristi di venerdì sono degli amici di quelli di Charlie Hebdo?”.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
La rivista per bambini Astrapi ha dedicato un dossier speciale di due pagine per spiegare ai bambini quanto è successo. Anche il quotidiano Libération ha realizzato un’edizione speciale di Le P’tit Libé, pensato per i bambini dai 7 ai 12 anni, per rispondere alle domande dei giovani lettori. I tre quotidiani per bambini e ragazzi del gruppo Play Bac (Le Petit Quotidien, dai 6 ai 10 anni, Mon Quotidien, dai 10 ai 14, e L’Actu, per gli adolescenti) pubblicheranno delle edizioni straordinarie domani, già scaricabili gratuitamente online. Un’attenzione particolare è dedicata alle parole difficili per i bambini, come terrorista, Stato islamico, e jihadista, e alle domande che potrebbero fare, come “è la terza guerra mondiale?” o “i terroristi di venerdì sono degli amici di quelli di Charlie Hebdo?”.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
LEGGI ANCHE
Etichette:
attentati,
bambini,
didattica,
Internazionale,
Parigi,
terrorismo
20.10.15
Lettera alla civiltà aliena del pianeta Terra: “Siamo i Prubelli e vi spieghiamo di cosa pulsa la nostra luce”
di Stefano Benni (La Repubblica)
GENTILE civiltà aliena del pianeta terra. Siamo gli abitanti della stella KIC 8462852 distante 1481 anni luce, quella che state osservando con quel bidone aspiratutto che chiamate satellite Kepler. Sappiamo che siete turbati perché avete notato delle variazioni di luce anomala sulla nostra superficie, e i vostri giornali e scienziati stanno sparando ipotesi. Ci teniamo quindi a precisare quanto segue.
Anzitutto smettetela di chiamarci alieni. Il termine “alieno” è reciproco, quindi se noi siamo alieni per voi, voi siete alieni per noi. La nostra stella non si chiama KIC 8462852, ma Seuisprusbellusdetottukosmox, quindi facciamo uno sforzo linguistico: noi vi chiameremo terrestri e voi chiamateci Prubelli. Vi chiederete perché parliamo la vostra lingua. Beh, non abbiamo né televisione né web né gossip, ma siamo telepatici a lunga distanza, e ci colleghiamo cerebralmente con voi per ridere quando siamo un po’ tristi. Se proprio volete saperlo, nelle nostre barzellette razziste voi siete i nostri carabinieri, i nostri terroni, eccetera. È vero, come avete ipotizzato, che siamo una civiltà superiore alla vostra, ma non per la tecnologia. Siamo semplicemente più pacifici, amichevoli e ottimisti di voi, ma anche un po’ riservati e incazzosi. Quindi quel vostro obsoleto bidone aspiratutto che ci sta spiando ci innervosisce un po’.
ABBIAMO letto che vi stupite delle variazioni luminose della nostra stella. Pensate che il fenomeno sia dovuto a pannelli solari, a utilizzo di gas rari e sconosciuti, a avanzatissime tecniche di trasformazione energetica. La vostra misura dell’Universo è l’Enel. Avevamo pensato di prendervi in giro, dicendovi che la luce viene da concerti rock con palchi di ventisei chilometri, per far schiattare di invidia i vostri rockettari, oppure che Kepler stava osservando una partita notturna di calcio galattico tra noi e il Real Andromeda. Ma detestiamo le bugie.
Non vi descriviamo che tipo di creature siamo, quanti arti, tentacoli, antenne e orecchie abbiamo, perché sappiamo che definite bizzarro chiunque non assomigli a voi. Pensateci pure come dei peluche di tre tonnellate, o dei polipi ballerini, o degli stronzi azzurri che procedono rotolando, o mostri simili a mantidi, oloturie o cuochi di Master chef. Immaginateci come vi piace.
Però possiamo dire che abbiamo una bellissima musica che assomiglia un po’ al vostro blues e un po’ al rumore che fanno le vostre lavatrici. Ma non abbiamo bisogno di grandi palchi né di effetti speciali. Non abbiamo neanche un campionato di calcio, anche se ci piacerebbe. Perché ahimè, sul nostro pianeta siamo in ventuno, e ci manca sempre un giocatore.
Il nostro sport nazionale è il Nonsifrullax. Non è facile da spiegare. Diciamo che assomiglia al vostro biliardino, o calcio balilla. Dieci di noi stanno infilati nei bastoni e quattro girano le manopole. Dato che i bastoni sono infilati in modo e zona non piacevole, le partite durano pochissimo, tutti vogliono manovrare e nessuno vuole fare l’ometto calciatore. Quindi la luce non viene da uno stadio.
La spiegazione è più semplice. Noi Prubelli siamo aperti e tolleranti, abbiamo dodici sessi e quindi non ringhiamo come fate voi su chi è normale, su chi ha diritti, e su cos’è la vera famiglia. Abbiamo una vita abbastanza regolare, che voi potreste definire noiosa, ma per noi è serena, avevamo una grande tecnologia ma ci abbiamo rinunciato mantenendo solo tre invenzioni: il giradischi, il cellulare senza tasti per non disturbare nessuno, e la bicicletta. Ci piace moltissimo fare gite in montagna, salire e discendere. Purtroppo la pendenza più alta del nostro pianeta è sedici centimetri, perciò ci scaliamo tra di noi.
Volete sapere il perché delle variazioni di luce? In ogni gruppo o etnia o civiltà c’è una percentuale di rompicoglioni. È una legge universale. Noi siamo pochi e ne abbiamo uno solo: si chiama Macculimortèx, è un prubello buono e mite, ma lamentoso e sempre scontento. Dice che dovremmo essere più aperti all’universo, più curiosi. Forse ha ragione, ma talvolta esagera. Ad esempio da quando sa che voi ci spiate, vi spia a sua volta, ha tirato fuori un vecchio telescopio e vi osserva tutta la notte. Dice che non capisce niente di quello che fate, ma che avete dei bellissimi quadri e alberi e che non fate altro che mangiare.
Ebbene sì su Seuisprusbellus siamo golosi. Ma non abbiamo materie prime: una sola verdura la peppera piccante, e un solo animale commestibile, il Gigacocco. I nostri piatti tipici sono il tortino di polvere alla peppera e il macigno pepperato, che sarebbe un po’ come la vostra amatriciana, ma meno digeribile.
Perché, direte voi, non mangiate il Gigacocco? Beh il Gigacocco assomiglia a un vostro pollo, ma è alto come un condominio di otto piani, e ha una pessimo carattere. È già tanto se lui non mangia noi.
Questo turba Makkulimortèx. È ossessionato dalle vostre televisioni, segue le migliaia di trasmissioni dedicate alla cucina, e crepa d’invidia. È convinto che voi pensiate solo a mangiare perché non avete altri pensieri. E invece sappiamo che voi mangiate proprio perché siete pieni di pensieri. E molti di voi non hanno da mangiare.
Ogni notte Makku si collega con la Terra e inizia a cantare le vostre sigle e a declamare a alta voce le ricette tipo “dadolata di astice con polenta allo zenzero su letto di rucola e julienne di mango“. Lo affascina la selvaggia violenza dei vostri chef e il pianto dei concorrenti, dice che è la cosa più deliziosamente sadica dell’universo.
In una di queste notti insonni Makku è impazzito, ha spalancato la finestra e si à messo a gridare «anche io voglio la dadolata di astice!». Ci siamo svegliati, abbiamo acceso la luce e ci siamo messi a urlare in coro «basta, rompiballe, sta zitto, facci dormire».
Svelato il mistero: le variazioni di luce sono dovute alle nostre arrabbiature contro il delirio notturno di Makku. Ed è colpa vostra.
Quindi vi diamo un consiglio.
Dimenticate KIC 8462852 come la chiamate voi. La vostra curiosità scientifica è legittima, ma vi facciamo una domanda. Vi farebbe veramente bene scoprire che esiste una civiltà “aliena”?
Certo, la certezza che non siete soli nell’universo potrebbe ridimensionare la vostra onnipotenza, la vostra avidità, la vostra fame di dominio.
Ma se invece vi facesse male? Se subito pensaste a accordi commerciali, a sfruttamento delle risorse, addirittura a una escalation di armamenti contro la nostra minaccia?
Non siete in grado di accettare gli immigrati e sareste capaci di accogliere gente da altri pianeti? Siete spaventati dall’omosessualità e accettereste i nostri dodici sessi? Ve ne fregate di chi sta male ai vostri confini e vi interessate a noi che stiamo a mille anni luce?
Forse è meglio se non ipotizzate troppo, e vi limitate a raccogliere i dati del vostro bidone aspiratutto.
Avete altro a cui pensare: cercate di non distruggere il vostro pianeta e non ammazzatevi troppo in nome di grandi idee che nell’universo diventano meno di un brivido. E non fate falli su Messi (certo, se arrivasse lui come ventiduesimo potremmo giocare grandi partite!). Soprattutto, per dirla nella nostra lingua Fathevansfurkettatteccazzevostrex (Fatevi un po’ gli affari vostri).
Cordiali saluti e auguri, i ventuno abitanti di Seuisprusbellusdetottuscosmox.
GENTILE civiltà aliena del pianeta terra. Siamo gli abitanti della stella KIC 8462852 distante 1481 anni luce, quella che state osservando con quel bidone aspiratutto che chiamate satellite Kepler. Sappiamo che siete turbati perché avete notato delle variazioni di luce anomala sulla nostra superficie, e i vostri giornali e scienziati stanno sparando ipotesi. Ci teniamo quindi a precisare quanto segue.
Anzitutto smettetela di chiamarci alieni. Il termine “alieno” è reciproco, quindi se noi siamo alieni per voi, voi siete alieni per noi. La nostra stella non si chiama KIC 8462852, ma Seuisprusbellusdetottukosmox, quindi facciamo uno sforzo linguistico: noi vi chiameremo terrestri e voi chiamateci Prubelli. Vi chiederete perché parliamo la vostra lingua. Beh, non abbiamo né televisione né web né gossip, ma siamo telepatici a lunga distanza, e ci colleghiamo cerebralmente con voi per ridere quando siamo un po’ tristi. Se proprio volete saperlo, nelle nostre barzellette razziste voi siete i nostri carabinieri, i nostri terroni, eccetera. È vero, come avete ipotizzato, che siamo una civiltà superiore alla vostra, ma non per la tecnologia. Siamo semplicemente più pacifici, amichevoli e ottimisti di voi, ma anche un po’ riservati e incazzosi. Quindi quel vostro obsoleto bidone aspiratutto che ci sta spiando ci innervosisce un po’.
ABBIAMO letto che vi stupite delle variazioni luminose della nostra stella. Pensate che il fenomeno sia dovuto a pannelli solari, a utilizzo di gas rari e sconosciuti, a avanzatissime tecniche di trasformazione energetica. La vostra misura dell’Universo è l’Enel. Avevamo pensato di prendervi in giro, dicendovi che la luce viene da concerti rock con palchi di ventisei chilometri, per far schiattare di invidia i vostri rockettari, oppure che Kepler stava osservando una partita notturna di calcio galattico tra noi e il Real Andromeda. Ma detestiamo le bugie.
Non vi descriviamo che tipo di creature siamo, quanti arti, tentacoli, antenne e orecchie abbiamo, perché sappiamo che definite bizzarro chiunque non assomigli a voi. Pensateci pure come dei peluche di tre tonnellate, o dei polipi ballerini, o degli stronzi azzurri che procedono rotolando, o mostri simili a mantidi, oloturie o cuochi di Master chef. Immaginateci come vi piace.
Però possiamo dire che abbiamo una bellissima musica che assomiglia un po’ al vostro blues e un po’ al rumore che fanno le vostre lavatrici. Ma non abbiamo bisogno di grandi palchi né di effetti speciali. Non abbiamo neanche un campionato di calcio, anche se ci piacerebbe. Perché ahimè, sul nostro pianeta siamo in ventuno, e ci manca sempre un giocatore.
Il nostro sport nazionale è il Nonsifrullax. Non è facile da spiegare. Diciamo che assomiglia al vostro biliardino, o calcio balilla. Dieci di noi stanno infilati nei bastoni e quattro girano le manopole. Dato che i bastoni sono infilati in modo e zona non piacevole, le partite durano pochissimo, tutti vogliono manovrare e nessuno vuole fare l’ometto calciatore. Quindi la luce non viene da uno stadio.
La spiegazione è più semplice. Noi Prubelli siamo aperti e tolleranti, abbiamo dodici sessi e quindi non ringhiamo come fate voi su chi è normale, su chi ha diritti, e su cos’è la vera famiglia. Abbiamo una vita abbastanza regolare, che voi potreste definire noiosa, ma per noi è serena, avevamo una grande tecnologia ma ci abbiamo rinunciato mantenendo solo tre invenzioni: il giradischi, il cellulare senza tasti per non disturbare nessuno, e la bicicletta. Ci piace moltissimo fare gite in montagna, salire e discendere. Purtroppo la pendenza più alta del nostro pianeta è sedici centimetri, perciò ci scaliamo tra di noi.
Volete sapere il perché delle variazioni di luce? In ogni gruppo o etnia o civiltà c’è una percentuale di rompicoglioni. È una legge universale. Noi siamo pochi e ne abbiamo uno solo: si chiama Macculimortèx, è un prubello buono e mite, ma lamentoso e sempre scontento. Dice che dovremmo essere più aperti all’universo, più curiosi. Forse ha ragione, ma talvolta esagera. Ad esempio da quando sa che voi ci spiate, vi spia a sua volta, ha tirato fuori un vecchio telescopio e vi osserva tutta la notte. Dice che non capisce niente di quello che fate, ma che avete dei bellissimi quadri e alberi e che non fate altro che mangiare.
Ebbene sì su Seuisprusbellus siamo golosi. Ma non abbiamo materie prime: una sola verdura la peppera piccante, e un solo animale commestibile, il Gigacocco. I nostri piatti tipici sono il tortino di polvere alla peppera e il macigno pepperato, che sarebbe un po’ come la vostra amatriciana, ma meno digeribile.
Perché, direte voi, non mangiate il Gigacocco? Beh il Gigacocco assomiglia a un vostro pollo, ma è alto come un condominio di otto piani, e ha una pessimo carattere. È già tanto se lui non mangia noi.
Questo turba Makkulimortèx. È ossessionato dalle vostre televisioni, segue le migliaia di trasmissioni dedicate alla cucina, e crepa d’invidia. È convinto che voi pensiate solo a mangiare perché non avete altri pensieri. E invece sappiamo che voi mangiate proprio perché siete pieni di pensieri. E molti di voi non hanno da mangiare.
Ogni notte Makku si collega con la Terra e inizia a cantare le vostre sigle e a declamare a alta voce le ricette tipo “dadolata di astice con polenta allo zenzero su letto di rucola e julienne di mango“. Lo affascina la selvaggia violenza dei vostri chef e il pianto dei concorrenti, dice che è la cosa più deliziosamente sadica dell’universo.
In una di queste notti insonni Makku è impazzito, ha spalancato la finestra e si à messo a gridare «anche io voglio la dadolata di astice!». Ci siamo svegliati, abbiamo acceso la luce e ci siamo messi a urlare in coro «basta, rompiballe, sta zitto, facci dormire».
Svelato il mistero: le variazioni di luce sono dovute alle nostre arrabbiature contro il delirio notturno di Makku. Ed è colpa vostra.
Quindi vi diamo un consiglio.
Dimenticate KIC 8462852 come la chiamate voi. La vostra curiosità scientifica è legittima, ma vi facciamo una domanda. Vi farebbe veramente bene scoprire che esiste una civiltà “aliena”?
Certo, la certezza che non siete soli nell’universo potrebbe ridimensionare la vostra onnipotenza, la vostra avidità, la vostra fame di dominio.
Ma se invece vi facesse male? Se subito pensaste a accordi commerciali, a sfruttamento delle risorse, addirittura a una escalation di armamenti contro la nostra minaccia?
Non siete in grado di accettare gli immigrati e sareste capaci di accogliere gente da altri pianeti? Siete spaventati dall’omosessualità e accettereste i nostri dodici sessi? Ve ne fregate di chi sta male ai vostri confini e vi interessate a noi che stiamo a mille anni luce?
Forse è meglio se non ipotizzate troppo, e vi limitate a raccogliere i dati del vostro bidone aspiratutto.
Avete altro a cui pensare: cercate di non distruggere il vostro pianeta e non ammazzatevi troppo in nome di grandi idee che nell’universo diventano meno di un brivido. E non fate falli su Messi (certo, se arrivasse lui come ventiduesimo potremmo giocare grandi partite!). Soprattutto, per dirla nella nostra lingua Fathevansfurkettatteccazzevostrex (Fatevi un po’ gli affari vostri).
Cordiali saluti e auguri, i ventuno abitanti di Seuisprusbellusdetottuscosmox.
Etichette:
Benni,
La Repubblica,
racconto alieni
Ma la Commissione non concederà più flessibilità all’Italia - Europa. Renzi dovrà tagliare 27 miliardi
Il «Fiscal Compact» è dietro l’angolo, un gigante difficilmente aggirabile
di Andrea Del Monaco [esperto di norme e fondi europei] (Il Manifesto)
Merkel e Juncker imporranno a Matteo Renzi tagli per 27 miliardi. Le misure in Legge di Stabilità non si possono finanziare a debito: nel 2016 il Fiscal Compact impone un rapporto Deficit/ Pil dell’1,4%. Renzi vuole sforare quasi dell’1%: vediamo perché è impossibile.
Il commissario Katainen ha già bocciato lo sforamento dello 0,2% per la gestione degli immigrati.
Mentre anche l’altra richiesta italiana, sforare dello 0,3% (5 miliardi di cofinanziamento italiano ai programmi Ue) per la clausola investimenti è poco credibile: infatti quei 5 miliardi potrebbero essere esclusi dal computo del deficit se nel 2016 spendessimo 10 miliardi di programmi cofinanziati dai fondi UE. Poiché al 31 maggio 2015 abbiamo ancora 15 miliardi da spendere dei vecchi programmi 2007–2013 è risibile che l’Italia faccia tale richiesta.
Infine, Padoan vuole sforare un altro 0,4% di Pil (6,4 miliardi) per le presunte «riforme strutturali»; ma il governo Renzi, avendo già invocato tale clausola riforme per il 2015 non può invocarla una seconda volta. Il taglio strutturale delle tasse, in quanto strutturale, non può essere coperto dalla clausola riforme che è una tantum, infatti il commissario europeo Moscovici (a Lucia Annunziata nella trasmissione in 1/2 Ora su Rai 3) ha ricordato che «se il Governo italiano decide riduzioni fiscali» deve fare tagli corrispondenti nel bilancio dello stato. Altrimenti Renzi metterà nuove tasse per sostituire le imposte che vuole abolire.
Partiamo dalla Tasi: il suo gettito nel 2014 è stato di 4,6 miliardi. Come Berlusconi, Renzi prospetta ai contribuenti un risparmio immediato.
Secondo il Servizio Politiche Territoriali della Uil, in valori assoluti il risparmio maggiore sarebbe a Torino, mediamente 403 euro a famiglia; a Roma 391 euro; a Napoli 318 euro e a Milano 300 euro. Ma se Renzi tagliasse la Tasi, quanto dovrebbe versare nelle casse dei singoli comuni? L’assegno per Roma dovrebbe ammontare a 524 milioni di euro; per Milano 205 milioni; per Torino 114 milioni; per Napoli 63 milioni. Qualora il governo Renzi non versasse questi singoli assegni alle municipalità, i Comuni inventeranno l’ennesima tassa locale.
In conclusione, l’abolizione della Tasi ha senso solo se i comuni non mettono nuove tasse e mantengono invariati i servizi. Possibile? Solo se Renzi taglia altre spese oppure si indebita. Purtroppo però il Fiscal Compact impedisce ulteriore debito.
E non è finita qui.
Il governo scherza con le norme di salvaguardia ma prima o poi lo scherzo finisce
Renzi deve trovare altri 22 miliardi per mantenere le sue promesse: 1,5 miliardi per estendere al 2016 la decontribuzione totale a beneficio delle aziende che assumono a tempo indeterminato; 2,1 miliardi per permettere la reindicizzazione delle pensioni e il rinnovo dei contratti dei lavoratori del pubblico impiego (lo impongono le ultime sentenze della Corte Costituzionale); 18,8 miliardi per sterilizzare le clausole di salvaguardia ed evitare nel 2016 gli aumenti delle accise sui carburanti, l’incremento degli acconti Irpef e Ires, e, l’aumento dell’Iva.
L’Ufficio Studi della Cgia di Mestre ha fatto qualche calcolo.
Una prima clausola di salvaguardia sarebbe scaduta il 30 settembre ed è stata introdotta qualche mese fa poiché l’Ue non ha autorizzato l’estensione del «Reverse charge» alla grande distribuzione.
Una seconda clausola (la cui prima scadenza era il 30 settembre) fu introdotta ad agosto 2013 con il DL 102/2013. L’allora presidente Letta, quando confermò l’abolizione della prima rata dell’Imu del 2013, ricorse al gettito incassato dalla sanatoria accordata ai concessionari dei giochi (definizione agevolata dei giudizi di responsabilità amministrativa per i concessionari dei giochi) e al maggior gettito Iva generato dal pagamento dei debiti pregressi della Pubblica amministrazione. Malgrado fossero attesi da queste misure 1,52 miliardi di euro, alla fine furono incassati solo 880 milioni.
E così per trovare i rimanenti 640 milioni di euro fu introdotta una clausola di salvaguardia basata su due provvedimenti: l’aumento degli acconti Ires e Irap di 1,5 punti percentuali; l’incremento delle accise a partire dal primo gennaio 2015, per un importo complessivo di 671,1 milioni di euro.
Quando divenne premier, Matteo Renzi volle evitare l’aumento delle accise e puntò sulla «Voluntary Disclosure» con il DL 192/2014. Temendo di non avere un gettito sufficiente, il governo italiano ha prorogato i termini della «Voluntary Disclosure» dal 30 settembre al 30 novembre.
Infine, occorre trovare altri 16 miliardi: in caso contrario il primo gennaio 2016 l’Iva ordinaria passerà dal 22 al 24%, l’aliquota Iva ridotta salirà dal 10 al 12% e aumenteranno le accise sui carburanti (valore 12,8 miliardi); inoltre verranno ridotte detrazioni e agevolazioni fiscali, saranno aumentate aliquote di imposte se non verranno fatti tagli per altri 3,2 miliardi.
Tutto ciò solo per il 2016. Fino al 2018 per disinnescare le clausole di salvaguardia ed evitare l’Iva al 25,5% il Governo dovrà tagliare 75 miliardi. Lo farà dove è più semplice: sanità, scuola, welfare e lavoratori dipendenti.
di Andrea Del Monaco [esperto di norme e fondi europei] (Il Manifesto)
Merkel e Juncker imporranno a Matteo Renzi tagli per 27 miliardi. Le misure in Legge di Stabilità non si possono finanziare a debito: nel 2016 il Fiscal Compact impone un rapporto Deficit/ Pil dell’1,4%. Renzi vuole sforare quasi dell’1%: vediamo perché è impossibile.
Il commissario Katainen ha già bocciato lo sforamento dello 0,2% per la gestione degli immigrati.
Mentre anche l’altra richiesta italiana, sforare dello 0,3% (5 miliardi di cofinanziamento italiano ai programmi Ue) per la clausola investimenti è poco credibile: infatti quei 5 miliardi potrebbero essere esclusi dal computo del deficit se nel 2016 spendessimo 10 miliardi di programmi cofinanziati dai fondi UE. Poiché al 31 maggio 2015 abbiamo ancora 15 miliardi da spendere dei vecchi programmi 2007–2013 è risibile che l’Italia faccia tale richiesta.
Infine, Padoan vuole sforare un altro 0,4% di Pil (6,4 miliardi) per le presunte «riforme strutturali»; ma il governo Renzi, avendo già invocato tale clausola riforme per il 2015 non può invocarla una seconda volta. Il taglio strutturale delle tasse, in quanto strutturale, non può essere coperto dalla clausola riforme che è una tantum, infatti il commissario europeo Moscovici (a Lucia Annunziata nella trasmissione in 1/2 Ora su Rai 3) ha ricordato che «se il Governo italiano decide riduzioni fiscali» deve fare tagli corrispondenti nel bilancio dello stato. Altrimenti Renzi metterà nuove tasse per sostituire le imposte che vuole abolire.
Partiamo dalla Tasi: il suo gettito nel 2014 è stato di 4,6 miliardi. Come Berlusconi, Renzi prospetta ai contribuenti un risparmio immediato.
Secondo il Servizio Politiche Territoriali della Uil, in valori assoluti il risparmio maggiore sarebbe a Torino, mediamente 403 euro a famiglia; a Roma 391 euro; a Napoli 318 euro e a Milano 300 euro. Ma se Renzi tagliasse la Tasi, quanto dovrebbe versare nelle casse dei singoli comuni? L’assegno per Roma dovrebbe ammontare a 524 milioni di euro; per Milano 205 milioni; per Torino 114 milioni; per Napoli 63 milioni. Qualora il governo Renzi non versasse questi singoli assegni alle municipalità, i Comuni inventeranno l’ennesima tassa locale.
In conclusione, l’abolizione della Tasi ha senso solo se i comuni non mettono nuove tasse e mantengono invariati i servizi. Possibile? Solo se Renzi taglia altre spese oppure si indebita. Purtroppo però il Fiscal Compact impedisce ulteriore debito.
E non è finita qui.
Il governo scherza con le norme di salvaguardia ma prima o poi lo scherzo finisce
Renzi deve trovare altri 22 miliardi per mantenere le sue promesse: 1,5 miliardi per estendere al 2016 la decontribuzione totale a beneficio delle aziende che assumono a tempo indeterminato; 2,1 miliardi per permettere la reindicizzazione delle pensioni e il rinnovo dei contratti dei lavoratori del pubblico impiego (lo impongono le ultime sentenze della Corte Costituzionale); 18,8 miliardi per sterilizzare le clausole di salvaguardia ed evitare nel 2016 gli aumenti delle accise sui carburanti, l’incremento degli acconti Irpef e Ires, e, l’aumento dell’Iva.
L’Ufficio Studi della Cgia di Mestre ha fatto qualche calcolo.
Una prima clausola di salvaguardia sarebbe scaduta il 30 settembre ed è stata introdotta qualche mese fa poiché l’Ue non ha autorizzato l’estensione del «Reverse charge» alla grande distribuzione.
Una seconda clausola (la cui prima scadenza era il 30 settembre) fu introdotta ad agosto 2013 con il DL 102/2013. L’allora presidente Letta, quando confermò l’abolizione della prima rata dell’Imu del 2013, ricorse al gettito incassato dalla sanatoria accordata ai concessionari dei giochi (definizione agevolata dei giudizi di responsabilità amministrativa per i concessionari dei giochi) e al maggior gettito Iva generato dal pagamento dei debiti pregressi della Pubblica amministrazione. Malgrado fossero attesi da queste misure 1,52 miliardi di euro, alla fine furono incassati solo 880 milioni.
E così per trovare i rimanenti 640 milioni di euro fu introdotta una clausola di salvaguardia basata su due provvedimenti: l’aumento degli acconti Ires e Irap di 1,5 punti percentuali; l’incremento delle accise a partire dal primo gennaio 2015, per un importo complessivo di 671,1 milioni di euro.
Quando divenne premier, Matteo Renzi volle evitare l’aumento delle accise e puntò sulla «Voluntary Disclosure» con il DL 192/2014. Temendo di non avere un gettito sufficiente, il governo italiano ha prorogato i termini della «Voluntary Disclosure» dal 30 settembre al 30 novembre.
Infine, occorre trovare altri 16 miliardi: in caso contrario il primo gennaio 2016 l’Iva ordinaria passerà dal 22 al 24%, l’aliquota Iva ridotta salirà dal 10 al 12% e aumenteranno le accise sui carburanti (valore 12,8 miliardi); inoltre verranno ridotte detrazioni e agevolazioni fiscali, saranno aumentate aliquote di imposte se non verranno fatti tagli per altri 3,2 miliardi.
Tutto ciò solo per il 2016. Fino al 2018 per disinnescare le clausole di salvaguardia ed evitare l’Iva al 25,5% il Governo dovrà tagliare 75 miliardi. Lo farà dove è più semplice: sanità, scuola, welfare e lavoratori dipendenti.
Etichette:
clausola salvaguardia,
Europa,
Fiscal Compact,
Legge stabilità,
Renzi
15.10.15
Cittadini si nasce o si diventa?
Nadia Urbinati (La Repubblica)
Cittadini si nasce o si diventa. Facile a dirsi, difficile a farsi. Non foss’altro perché, quando si tratta di decidere sull’appartenenza al corpo politico, sul potere di cittadinanza, verbi come “nascere” e “diventare” sono oggetto di interpretazioni discordanti e difficilmente riducibili a formule semplici.
La legge appena approvata alla Camera sul riconoscimento di cittadinanza a residenti non italiani, importante sotto molti aspetti e benvenuta, ne è un esempio. Essa stabilisce che acquisisce la cittadinanza italiana chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Perché chi è nato in Italia abbia diritto alla cittadinanza deve dimostrare che almeno un genitore sia nella norma. La nascita non è sufficiente, dunque, e lo ius soli non è automatico. Il destino del bimbo o della bimba sta se così si può dire nella mani dei genitori (e dello Stato ospitante). Questa regola modera lo ius soli, il quale nella sua connotazione normativa dà priorità alla persona, ovvero ai nati e non a chi li ha messi al mondo. Gli Stati Uniti danno un’idea della radicalità di questo principio se interpretato come diritto del singolo. Nella patria dello ius soli meno annacquato o più genuino, è sufficiente per un bimbo essere nato dentro i confini della federazione per essere cittadino americano. E così può succedere, che genitori stranieri decidano di “regalare” al loro figlio la cittadinanza americana facendolo nascere sul suolo americano. Ciò è sufficiente a richiedere ed ottenere il passaporto, anche se i genitori non sono residenti e anche se sono “clandestini”. Neppure la Francia, il paese europeo più aderente allo ius soli, è così inclusivo e – soprattutto— tanto rispettoso dei diritti della singola persona.
L’interpretazione di “nascita” e “acquisizione” della cittadinanza è come si vede tutt’altro che semplice. E del resto, questa complessità interpretativa è testimoniata dall’esistenza in Italia di un altro regime di cittadinanza, quello detto dello ius sanguinis: un regime che vale solo per gli italiani etnici, per cui nascere in Argentina o in Australia da genitori di genitori italiani (avere un bisnonno nato in Italia) dà diritto a richiedere il passaporto italiano dopo aver trascorso un breve periodo di residenza nel paese. Per ovvie ragioni, il contesto famigliare è in questo caso determinante.
Ma perché dovrebbe esserlo anche per lo ius soli? Certo, considerato il fondamento nazionale della cittadinanza nei paesi europei, la legge appena approvata dalla Camera è un passo avanti importante e la reazione della Lega (che ha già annunciato un referendum abrogativo qualora il Senato non cambi il testo) lo dimostra. C’è però da augurarsi che il passo avanti compiuto si faccia più coraggioso, perché la cittadinanza a chi nasce in Italia e non è maggiorenne dipende ancora da una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale.
Al di là della moderazione interpretativa del principio dello ius soli, questa nuova legge in discussione presenta inoltre un aspetto di discriminazione che sarebbe fortemente desiderabile correggere, perché stride non soltanto col proclamato principio dello ius soli, ma prima ancora con quello dell’eguale dignità delle persone. Come si è detto, la nascita sul suolo italiano non è sufficiente, se altre condizioni non sono presenti, due in particolare: la frequenza scolastica e la condizione economica della famiglia.
Nel primo caso, il bambino nato o entrato nel paese prima della maggiore età deve dimostrare di aver frequentato almeno cinque anni di scuola pubblica. Per uno straniero la condizione di alfabetizzazione può aver senso anche perché è nel suo stesso interesse conoscere la lingua del paese. Tuttavia se si tratta di un bambino nato e socializzato in Italia, è davvero giustificabile attendere l’attestato della quinta elementare? La seconda condizione è grave in sé perché introduce un fattore di discriminazione. Torniamo al caso dei nati in Italia, per i quali è necessario che almeno un genitore sia in possesso di “permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo” per richiedere la cittadinanza. Ora, sappiamo che per avere questo permesso, il residente straniero deve dimostrare non solo di aver vissuto in Italia da almeno cinque anni, ma anche di avere un reddito superiore all’assegno sociale (circa mille euro al mese o poco più) e un “alloggio idoneo”. Come possono due bambini nati in Italia essere considerati diversi ai fini della cittadinanza per questioni economiche – di cui non sono tra l’altro responsabili? Come possono due bimbi giustificare a se stessi che solo chi dei due è meno povero merita di essere cittadino? Può essere la povertà una ragione di esclusione? È augurabile che il legislatore veda la contraddizione insita in questa norma rispetto al significato della cittadinanza moderna, per cui è proprio chi ha poco o nessun potere sociale ed economico ad avere più bisogno del potere politico.
Cittadini si nasce o si diventa. Facile a dirsi, difficile a farsi. Non foss’altro perché, quando si tratta di decidere sull’appartenenza al corpo politico, sul potere di cittadinanza, verbi come “nascere” e “diventare” sono oggetto di interpretazioni discordanti e difficilmente riducibili a formule semplici.
La legge appena approvata alla Camera sul riconoscimento di cittadinanza a residenti non italiani, importante sotto molti aspetti e benvenuta, ne è un esempio. Essa stabilisce che acquisisce la cittadinanza italiana chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Perché chi è nato in Italia abbia diritto alla cittadinanza deve dimostrare che almeno un genitore sia nella norma. La nascita non è sufficiente, dunque, e lo ius soli non è automatico. Il destino del bimbo o della bimba sta se così si può dire nella mani dei genitori (e dello Stato ospitante). Questa regola modera lo ius soli, il quale nella sua connotazione normativa dà priorità alla persona, ovvero ai nati e non a chi li ha messi al mondo. Gli Stati Uniti danno un’idea della radicalità di questo principio se interpretato come diritto del singolo. Nella patria dello ius soli meno annacquato o più genuino, è sufficiente per un bimbo essere nato dentro i confini della federazione per essere cittadino americano. E così può succedere, che genitori stranieri decidano di “regalare” al loro figlio la cittadinanza americana facendolo nascere sul suolo americano. Ciò è sufficiente a richiedere ed ottenere il passaporto, anche se i genitori non sono residenti e anche se sono “clandestini”. Neppure la Francia, il paese europeo più aderente allo ius soli, è così inclusivo e – soprattutto— tanto rispettoso dei diritti della singola persona.
L’interpretazione di “nascita” e “acquisizione” della cittadinanza è come si vede tutt’altro che semplice. E del resto, questa complessità interpretativa è testimoniata dall’esistenza in Italia di un altro regime di cittadinanza, quello detto dello ius sanguinis: un regime che vale solo per gli italiani etnici, per cui nascere in Argentina o in Australia da genitori di genitori italiani (avere un bisnonno nato in Italia) dà diritto a richiedere il passaporto italiano dopo aver trascorso un breve periodo di residenza nel paese. Per ovvie ragioni, il contesto famigliare è in questo caso determinante.
Ma perché dovrebbe esserlo anche per lo ius soli? Certo, considerato il fondamento nazionale della cittadinanza nei paesi europei, la legge appena approvata dalla Camera è un passo avanti importante e la reazione della Lega (che ha già annunciato un referendum abrogativo qualora il Senato non cambi il testo) lo dimostra. C’è però da augurarsi che il passo avanti compiuto si faccia più coraggioso, perché la cittadinanza a chi nasce in Italia e non è maggiorenne dipende ancora da una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale.
Al di là della moderazione interpretativa del principio dello ius soli, questa nuova legge in discussione presenta inoltre un aspetto di discriminazione che sarebbe fortemente desiderabile correggere, perché stride non soltanto col proclamato principio dello ius soli, ma prima ancora con quello dell’eguale dignità delle persone. Come si è detto, la nascita sul suolo italiano non è sufficiente, se altre condizioni non sono presenti, due in particolare: la frequenza scolastica e la condizione economica della famiglia.
Nel primo caso, il bambino nato o entrato nel paese prima della maggiore età deve dimostrare di aver frequentato almeno cinque anni di scuola pubblica. Per uno straniero la condizione di alfabetizzazione può aver senso anche perché è nel suo stesso interesse conoscere la lingua del paese. Tuttavia se si tratta di un bambino nato e socializzato in Italia, è davvero giustificabile attendere l’attestato della quinta elementare? La seconda condizione è grave in sé perché introduce un fattore di discriminazione. Torniamo al caso dei nati in Italia, per i quali è necessario che almeno un genitore sia in possesso di “permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo” per richiedere la cittadinanza. Ora, sappiamo che per avere questo permesso, il residente straniero deve dimostrare non solo di aver vissuto in Italia da almeno cinque anni, ma anche di avere un reddito superiore all’assegno sociale (circa mille euro al mese o poco più) e un “alloggio idoneo”. Come possono due bambini nati in Italia essere considerati diversi ai fini della cittadinanza per questioni economiche – di cui non sono tra l’altro responsabili? Come possono due bimbi giustificare a se stessi che solo chi dei due è meno povero merita di essere cittadino? Può essere la povertà una ragione di esclusione? È augurabile che il legislatore veda la contraddizione insita in questa norma rispetto al significato della cittadinanza moderna, per cui è proprio chi ha poco o nessun potere sociale ed economico ad avere più bisogno del potere politico.
Etichette:
diritto di cittadinanza,
La Repubblica,
Urbinati
2.10.15
Così finisce il mito dell’«auto pulita»
Marco Morosini (Avvenire)
Si scopre in questi giorni che il più grande costruttore di automobili del mondo ha truffato clienti e autorità con un software che indicava durante i test di conformità emissioni molto più basse di quelle reali. Tuttavia, come scrive l’Economist in copertina ("I segreti sporchi dell’industria automobilistica" 26.9.2015), sotto accusa è l’intera industria dell’auto e il presunto "segreto" su quanto realmente sporche siano le emissioni delle automobili. A incrinarsi ora sui media mondiali non è solo la reputazione di Volkswagen, ma è il mito dell’"auto pulita".
Un "tigre nel motore" e aria pulita dallo scarico?
Come abbiamo potuto credere di poter avere un tigre nel motore e aria pulita dal tubo di scappamento? Le migliorie tecniche antinquinamento non cambiano le leggi della chimica: da carburanti sporchi non si possono ottenere emissioni "pulite" e la massima forza motrice. A causa dei gas di scarico delle auto "pulite" centinaia di migliaia di persone muoiono ogni anno, decine di milioni si ammalano, i cambiamenti climatici e i loro effetti deleteri sono accelerati. Il motore a combustione interna fu tecnicamente geniale, ma condusse la motorizzazione di massa in un vicolo cieco. Cento anni fa mancavano la cultura e la scienza per pensare alle sue conseguenze sull’ambiente e la salute. Il suo pioniere, Karl Benz, riteneva che in Germania le automobili non sarebbero mai state più di qualche migliaio. Chi immaginava un miliardo di auto in circolazione? I gas di combustione scompaiono nell’aria senza tracce, diceva l’industria automobilistica quando ne circolavano pochi milioni. Quando si capì che non era così, il suo potere economico, politico e culturale era tanto cresciuto da metterla al riparo da tutto. Fino ad oggi.
Un Computer con le ruotenel nostro futuro
Vent’anni fa i più alti fatturati mondiali erano delle aziende del petrolio e delle automobili, oggi sono delle aziende di hardware e software. Alcune di loro stanno progettando le prossime generazioni di automobili. L’auto del futuro sarà un computer con le ruote, non un panzer carico di gadget elettronici, diceva il tecnologo statunitense Armory Lovins. Daniel Goeudevert, il francese ex professore di lettere, alla testa di Volkswagen dal 1991 al 1993, diceva che i quadri dell’industria dell’automobile son prigionieri di schemi mentali praticati per un secolo. Le soluzioni per un’automobile sostenibile - diceva - non verranno dalla stessa industria che per cento anni ne ha sviluppata una insostenibile. Per questo Goeudevert avviò insieme a Swatch il progetto di una "Swatchmobil" rivoluzionaria. Insieme a lui ne era l’artefice Nicolas Hayek, il visionario industriale che aveva fatto rinascere l’orologeria svizzera inventando lo Swatch, un orologio più semplice e più leggero. Il contrario di ciò che fanno gli ingegneri automobilistici, con macchine sempre più pesanti e più complicate.
Il vicolo cieco del motore a combustione interna
I motori a combustione bruciano ogni anno miliardi di tonnellate di derivati del petrolio, costituiti da miscele di migliaia di sostanze. La loro combustione produce altre migliaia di sostanze, in parte ignote, in parte notoriamente nocive per la salute e l’ambiente. Leggi e misurazioni riguardano solo una manciata di queste: CO2, CO, ossidi di azoto, ossidi di zolfo, polveri sottili. Mentre per autorizzare o vietare l’uso di un nuovo farmaco servono anni di ricerca sui suoi effetti e rischi, nessuna ricerca fu fatta quando si cominciò a bruciare i derivati del petrolio nelle automobili. La loro diffusione di massa divenne il tramite involontario per esporre i polmoni di miliardi di persone a una miscela di sostanze indesiderabili. Gli studiosi hanno accertato che miliardi di tonnellate di gas di scarico emessi ogni anno nuocciono a salute, flora, fauna, ecosistemi, clima, edifici e monumenti. Eppure si crede ancora all’auto "pulita". E’ vero: sotto la pressione di scienziati e organizzazioni di cittadini, l’industria riuscì a ridurre le emissioni di alcune delle sostanze nocive. Parte di questa riduzione però è vanificata dall’aumento delle auto in circolazione e dei chilometri percorsi. Per ogni litro di carburante sono emessi alcuni grammi di sostanze nocive localmente, ma due chili e mezzo di CO2, innocua localmente, ma nociva globalmente. L’aumento della sua concentrazione nell’atmosfera, infatti, è la causa principale dei mutamenti climatici provocati dall’uomo. Quando è nuova di fabbrica, la moderna automobile emette meno inquinanti locali di una volta. Tuttavia i suoi catalizzatori non possono diminuire le emissioni di CO2, che sono proporzionali alla quantità di carburante bruciato.
Aria più pulita in città, clima più instabile nel mondo
Automobili "meno sporche" hanno un paradossale effetto rebound (rimbalzo). I clienti le comprano e usano più volentieri. In città ne posso circolare di più senza soffocare la popolazione. Così, erroneamente, non ci si preoccupa se il loro peso, la loro potenza, il loro numero, i chilometri percorsi, e quindi anche il consumo complessivo di carburante dell’intera flotta crescono. In altre parole, paghiamo con più inquinamento globale (la CO2), una certa riduzione dell’inquinamento locale. Il beneficio di un’aria meno inquinata è qui e ora. Mentre si ritiene che l’alterazione climatica dovuta alla CO2 causerà danni globali per più di un secolo, specialmente alle popolazioni del pianeta più povere ed esposte. Grazie alle migliorie tecniche, la singola automobile è diventata "un po’ meno sporca". A trasformarla in "auto pulita" sono stati però i miliardi spesi in marketing, lobby, avvocati, finanziamenti ai partiti e uomini politici e - come emerge ora - in attività criminali di inganno deliberato.
La farsa delle misurazioni dei gas di scarico
"Una farsa" sono definite dall’Economist (26.9.2015) le regole europee per misurare in garage le emissioni delle automobili. Questi test truffaldini sono concepiti dagli stessi costruttori a loro vantaggio e adottati dall’Ue sotto pressione dei governi dei paesi con una più forte industria automobilistica. E’ questo il vero scandalo dell’ "auto pulita", già denunciato negli ultimi vent’anni da enti indipendenti come il Wuppertal Institut e da associazioni per la salute e per l’ambiente. Il software imbroglione di Volkswagen è solo una goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La svolta dell’auto: nuove tecnologie e nuova sobrietà
Una vera svolta verso una mobilità sostenibile avverrà solo quando i motori elettrici sostituiranno il motore a combustione, ma solo se saranno alimentati da elettricità prodotta da fonti rinnovabili. Entrambe queste prospettive sono meno lontane di quanto si pensava. Nondimeno, poiché anche le fonti rinnovabili hanno costi ambientali e sociali, anche il loro uso va moderato. Pur con le future auto elettriche occorreranno quindi cambiamenti di comportamento: quando possibile, non possedere un veicolo, quando mezzi più efficaci sono disponibili percorrere meno chilometri in auto, viaggiare a minore velocità, preferire auto meno potenti, più leggere e più piccole. Questi cambiamenti possono essere fatti da ognuno già domani, senza aspettare le auto elettriche. Avete notato che Francesco, il papa della prima enciclica "ecologica", fa un uso sistematico di vetture utilitarie?
Si scopre in questi giorni che il più grande costruttore di automobili del mondo ha truffato clienti e autorità con un software che indicava durante i test di conformità emissioni molto più basse di quelle reali. Tuttavia, come scrive l’Economist in copertina ("I segreti sporchi dell’industria automobilistica" 26.9.2015), sotto accusa è l’intera industria dell’auto e il presunto "segreto" su quanto realmente sporche siano le emissioni delle automobili. A incrinarsi ora sui media mondiali non è solo la reputazione di Volkswagen, ma è il mito dell’"auto pulita".
Un "tigre nel motore" e aria pulita dallo scarico?
Come abbiamo potuto credere di poter avere un tigre nel motore e aria pulita dal tubo di scappamento? Le migliorie tecniche antinquinamento non cambiano le leggi della chimica: da carburanti sporchi non si possono ottenere emissioni "pulite" e la massima forza motrice. A causa dei gas di scarico delle auto "pulite" centinaia di migliaia di persone muoiono ogni anno, decine di milioni si ammalano, i cambiamenti climatici e i loro effetti deleteri sono accelerati. Il motore a combustione interna fu tecnicamente geniale, ma condusse la motorizzazione di massa in un vicolo cieco. Cento anni fa mancavano la cultura e la scienza per pensare alle sue conseguenze sull’ambiente e la salute. Il suo pioniere, Karl Benz, riteneva che in Germania le automobili non sarebbero mai state più di qualche migliaio. Chi immaginava un miliardo di auto in circolazione? I gas di combustione scompaiono nell’aria senza tracce, diceva l’industria automobilistica quando ne circolavano pochi milioni. Quando si capì che non era così, il suo potere economico, politico e culturale era tanto cresciuto da metterla al riparo da tutto. Fino ad oggi.
Un Computer con le ruotenel nostro futuro
Vent’anni fa i più alti fatturati mondiali erano delle aziende del petrolio e delle automobili, oggi sono delle aziende di hardware e software. Alcune di loro stanno progettando le prossime generazioni di automobili. L’auto del futuro sarà un computer con le ruote, non un panzer carico di gadget elettronici, diceva il tecnologo statunitense Armory Lovins. Daniel Goeudevert, il francese ex professore di lettere, alla testa di Volkswagen dal 1991 al 1993, diceva che i quadri dell’industria dell’automobile son prigionieri di schemi mentali praticati per un secolo. Le soluzioni per un’automobile sostenibile - diceva - non verranno dalla stessa industria che per cento anni ne ha sviluppata una insostenibile. Per questo Goeudevert avviò insieme a Swatch il progetto di una "Swatchmobil" rivoluzionaria. Insieme a lui ne era l’artefice Nicolas Hayek, il visionario industriale che aveva fatto rinascere l’orologeria svizzera inventando lo Swatch, un orologio più semplice e più leggero. Il contrario di ciò che fanno gli ingegneri automobilistici, con macchine sempre più pesanti e più complicate.
Il vicolo cieco del motore a combustione interna
I motori a combustione bruciano ogni anno miliardi di tonnellate di derivati del petrolio, costituiti da miscele di migliaia di sostanze. La loro combustione produce altre migliaia di sostanze, in parte ignote, in parte notoriamente nocive per la salute e l’ambiente. Leggi e misurazioni riguardano solo una manciata di queste: CO2, CO, ossidi di azoto, ossidi di zolfo, polveri sottili. Mentre per autorizzare o vietare l’uso di un nuovo farmaco servono anni di ricerca sui suoi effetti e rischi, nessuna ricerca fu fatta quando si cominciò a bruciare i derivati del petrolio nelle automobili. La loro diffusione di massa divenne il tramite involontario per esporre i polmoni di miliardi di persone a una miscela di sostanze indesiderabili. Gli studiosi hanno accertato che miliardi di tonnellate di gas di scarico emessi ogni anno nuocciono a salute, flora, fauna, ecosistemi, clima, edifici e monumenti. Eppure si crede ancora all’auto "pulita". E’ vero: sotto la pressione di scienziati e organizzazioni di cittadini, l’industria riuscì a ridurre le emissioni di alcune delle sostanze nocive. Parte di questa riduzione però è vanificata dall’aumento delle auto in circolazione e dei chilometri percorsi. Per ogni litro di carburante sono emessi alcuni grammi di sostanze nocive localmente, ma due chili e mezzo di CO2, innocua localmente, ma nociva globalmente. L’aumento della sua concentrazione nell’atmosfera, infatti, è la causa principale dei mutamenti climatici provocati dall’uomo. Quando è nuova di fabbrica, la moderna automobile emette meno inquinanti locali di una volta. Tuttavia i suoi catalizzatori non possono diminuire le emissioni di CO2, che sono proporzionali alla quantità di carburante bruciato.
Aria più pulita in città, clima più instabile nel mondo
Automobili "meno sporche" hanno un paradossale effetto rebound (rimbalzo). I clienti le comprano e usano più volentieri. In città ne posso circolare di più senza soffocare la popolazione. Così, erroneamente, non ci si preoccupa se il loro peso, la loro potenza, il loro numero, i chilometri percorsi, e quindi anche il consumo complessivo di carburante dell’intera flotta crescono. In altre parole, paghiamo con più inquinamento globale (la CO2), una certa riduzione dell’inquinamento locale. Il beneficio di un’aria meno inquinata è qui e ora. Mentre si ritiene che l’alterazione climatica dovuta alla CO2 causerà danni globali per più di un secolo, specialmente alle popolazioni del pianeta più povere ed esposte. Grazie alle migliorie tecniche, la singola automobile è diventata "un po’ meno sporca". A trasformarla in "auto pulita" sono stati però i miliardi spesi in marketing, lobby, avvocati, finanziamenti ai partiti e uomini politici e - come emerge ora - in attività criminali di inganno deliberato.
La farsa delle misurazioni dei gas di scarico
"Una farsa" sono definite dall’Economist (26.9.2015) le regole europee per misurare in garage le emissioni delle automobili. Questi test truffaldini sono concepiti dagli stessi costruttori a loro vantaggio e adottati dall’Ue sotto pressione dei governi dei paesi con una più forte industria automobilistica. E’ questo il vero scandalo dell’ "auto pulita", già denunciato negli ultimi vent’anni da enti indipendenti come il Wuppertal Institut e da associazioni per la salute e per l’ambiente. Il software imbroglione di Volkswagen è solo una goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La svolta dell’auto: nuove tecnologie e nuova sobrietà
Una vera svolta verso una mobilità sostenibile avverrà solo quando i motori elettrici sostituiranno il motore a combustione, ma solo se saranno alimentati da elettricità prodotta da fonti rinnovabili. Entrambe queste prospettive sono meno lontane di quanto si pensava. Nondimeno, poiché anche le fonti rinnovabili hanno costi ambientali e sociali, anche il loro uso va moderato. Pur con le future auto elettriche occorreranno quindi cambiamenti di comportamento: quando possibile, non possedere un veicolo, quando mezzi più efficaci sono disponibili percorrere meno chilometri in auto, viaggiare a minore velocità, preferire auto meno potenti, più leggere e più piccole. Questi cambiamenti possono essere fatti da ognuno già domani, senza aspettare le auto elettriche. Avete notato che Francesco, il papa della prima enciclica "ecologica", fa un uso sistematico di vetture utilitarie?
Etichette:
automobile,
Avvenire,
inquinamento,
Morosini,
Volkswagen
1.10.15
PERCHÉ IL SINDACO MARINO È SOTTO ATTACCO E PERCHÉ BISOGNA ASSOLUTAMENTE DIFENDERLO
Perché sparano tutti contro il sindaco di Roma? Come mai da qualche mese a questa parte lo sport preferito di intere bande di editorialisti e twittaroli è prendere a pallate incatenate Ignazio Marino? Come mai a queste masse agitate ha fornito una sponda, assestando lui stesso fendenti micidiali, persino il “misericordioso” papa Francesco? Se provi a chiedere a qualcuno dei vessatori quotidiani di Marino, siano essi editorialisti o gestori di potenti siti internet, ti rispondono che la colpa è del sindaco, che non sa comunicare. Il che è abbastanza prevedibile: ogni aggressore giustifica le proprie azioni accusando la vittima: è lei che le botte “se le va a cercare”. Oppure indicano un cassonetto pieno o un autobus in ritardo e dicono: “Vedi? Marino se ne deve andare”.
In realtà i motivi dell’aggressione quotidiana contro Marino sono altri. Il motivo principale, quello che muove le grandi masse urlanti, è che picchiare Marino è facile. Marino è un “soft target”, uno che si può massacrare tranquillamente. Marino è la cuccagna dei vigliacchi da scrivania: lo possono sbertucciare sui giornali senza paura, perché nessuno telefonerà il giorno dopo per minacciare il loro editore. Anzi: saranno in molti a brandire i loro editoriali come scimitarre per chiedere la rimozione del sindaco. E i cittadini di Twitter, che dei giornali leggono solo i titoli si uniscono volentieri al pestaggio, così, perché lo fanno tutti.
Il secondo motivo per cui Marino si può picchiare è che si è fatto molti nemici. E ai vigliacchi piace far parte del branco, specie se del branco fanno parte personaggi non particolarmente belli a vedersi. Chi detesta Marino è per esempio l’ex sindaco Gianni Alemanno, quello che gli ha lasciato in eredità una città sull’orlo del collasso, quello che rimpinzò l’Atac, l’azienda comunale dei trasporti, di parenti e amici, portandola quasi alla bancarotta. Fra chi vorrebbe cacciare Marino ci sono poi i Casamonica, quelli del funerale coatto che ha sputtanato la città davanti al mondo, per colpa di gravi omissioni da parte delle forze dell’ordine, che sapevano e non fecero nulla. Le forze dell’ordine, sia detto per inciso, fanno capo al prefetto Franco Gabrielli, è lui il responsabile del disastro dei Casamonica, come ha del resto ammesso lui stesso. Ma Gabrielli non si tocca: lui i protettori ce li ha.
A proposito di “mondo di mezzo”, Marino è certamente visto come il fumo negli occhi dai mafiosi di Mafia Capitale. Da quando c’è lui, per i criminali gli affari vanno a rotoli. Non riescono più a piazzare nessuno dei loro in Campidoglio, non riescono a condizionare gli appalti, hanno grosse difficoltà ad entrare nelle stanze dei dirigenti comunali, come facevano un tempo, e a far capire chi è che comanda. Insomma: non comandano più e quelli sono personaggi con i quali è meglio non scherzare. Infatti a Marino, che aveva cominciato a fare il sindaco girando in bicicletta, da molti mesi è stata assegnata dal Ministero dell’Interno una scorta.
Fra gli altri nemici di Marino ci sono alcune fra le famiglie più potenti di Roma, come la famiglia Tredicine, quella che gestisce gli orribili camion bar che Marino ha fatto sgomberare dal Colosseo e da altre fra le più belle attrazioni turistiche di Roma. Mettrersi contro questi signori, fra l’altro ampiamente rappresentati in Campidoglio, è un gesto di grande coraggio, che nessuno fra i predecessori di Marino aveva mai compiuto, a cominciare dai due recenti sindaci più famosi e acclamati: Veltroni e Rutelli. Adesso il Colosseo lo si può finalmente ammirare in tutto il suo splendore, non più impallato dai camion bar. Una gioia da assaporare magari dopo una passeggiata sull’ultimo tratto di via dei Fori Imperiali, resitituita finalmente sempre di più al traffico pedonale (altra coraggiosa iniziativa che ha mandato su tutte le furie i commercianti e i residenti, molto potenti, della zona).
L’elenco dei nemici di Marino potrebbe continuare a lungo: ci sono le potenti famiglie di Ostia che avevano cementificato abusivamente il lungomare e che si sono trovate una mattina le ruspe mandate da Marino a restituire la spiaggia ai romani. O coloro che lucravano sulla discarica di Malagrotta, un orribile monumento all’inquinamento e al degrado, che Marino, dopo anni di sindaci indecisi, ha chiuso, raddoppiando allo stesso tempo la raccolta differenziata. O le potenti ditte abusive che infestavano la città con enormi cartelloni pubblicitari. Marino ha persino messo mano agli affitti degli alloggi comunali, rimettendo in discussione casi di gente che pagava poche decine di euro al mese per appartamenti in pieno centro e mettendo in vendita ben 600 appartamenti. E ha deciso di far lavorare di più i macchinisti della metro, costringendoli a “strisciare” il badge a inizio e fine turno, come nei paesi civili.
Contro Marino c’è poi ovviamente il PD romano, infiltrato da personaggi inquietanti e contingui alle opache pratiche del malaffare di Mafia Capitale e dunque sciolto da Matteo Renzi e commissariato con Matteo Orfini. Con la vittoria di Marino, i potentati del PD romano si erano già messi il tovagliolo ed erano pronti a sedersi a tavola. Ma il sindaco li ha sbattuti fuori, forte del mandato popolare diretto. Chi sperava di fare l’assessore si è dovuto accontentare di un seggio in consiglio comunale, chi sognava la poltrona di amministratore di una municipalizzata è rimasto a casa. Qualcun altro, nel frattempo, è finito in galera. Tutte persone con amicizie molto in alto, tutte persone che gliel’hanno giurata.
Fra i nemici più illustri di Marino c’è poi lui, il più potente di tutti: Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio non ama Marino, e non capiamo perché. Il sindaco di Roma è in realtà il più renziano dei primi cittadini. Da quando è stato eletto ha preso le sue decisioni senza guardare in faccia nessuno, ha sbaragliato i centri di potere, ha avviato politiche di lungo termine, ha preso decisioni impopolari. Ha “cambiato verso” e ne sta raccogliendo i frutti, se è vero che solo la scorsa settimana Fitch ha detto che finalmente, dopo tre anni, i conti di Roma stanno tornando in ordine. Ma a Renzi Marino non piace, e questo facilita ovviamente il compito dei picchiatori mediatici. Se l’imperatore mostra il pollice verso, i leoni (che in realtà sono conigli) possono partire all’attacco.
E veniamo all’ultimo dei nemici che Marino si è fatto, che poi è il più grosso: il Vaticano. E qui il piccolo sindaco di Roma si è messo contro un gigante contro il quale nessuno aveva mai osato mettersi. Come mai Marino è inviso a Papa Francesco? Qui Filadelfia non c’entra nulla. Marino è malvisto dalla Curia per la sua storia, passata e presente. Da politico, Marino si batté con coraggio a favore del referendum sulla procreazione medicalmente assistita eterologa. Pochi se lo ricordano, ma quella di Marino e altri fu una battaglia di civiltà osteggiata con forza dal Vaticano e purtroppo persa per il non raggiungimento del quorum al referendum del 2005.
Ma non finisce qui. Poco dopo il suo insediamento, Marino istituì il registro comunale per le unioni civili, accogliendo anche coppie dello stesso sesso, proprio mentre si concludeva in Vaticano il sinodo sulla famiglia. Un’iniziativa simbolica, che provocò anche aspri contrasti con l’attuale ministro dell’Interno, Alfano, ma che fu uno dei pochissimi riconoscimenti della dignità delle coppie gay. Non contento, Marino ha poi nel giugno scorso apertamente patrocinato il Gay Pride a Roma. Va ricordato in proposito che, nel 2000, l’allora sindaco Rutelli patrocinò dapprima il Gay Pride, ma fu costretto poco prima della giornata a ritirare il patrocinio. Marino non solo non ha ritirato il patrocinio, ma si è persino messo in testa al corteo, il 13 giugno scorso. E vedere quella fascia tricolore sfilare a pochi metri dal Cupolone insieme alle bandiere arcobaleno deve aver provocato più di un travaso di bile nelle segrete stanze del Vaticano e più di una preoccupazione per la “cattolicità” dell’imminente Giubileo.
Si arriva così alla trasferta di Filadelfia. I fatti sono noti: in giugno il sindaco di Filadelfia, Michael Nutter, e l’arcivescovo, Charles Chaput, volano a Roma per preparare la visita del Papa di settembre. Vogliono capire dagli esperti comunali come organizzarsi. Marino li riceve e Nutter lo invita a Filadelfia per una serie di iniziative in concomitanza con la visita del Papa. Marino annuncia la trasferta, specificando che i costi non saranno a carico dell’Amministrazione capitolina e che l’invito viene dal suo collega sindaco. Pochi giorni fa, come annunciato, Marino vola prima a New York, poi a Filadelfia, dove partecipa a diverse riunioni ed eventi, fra cui la messa del Papa in occasione del World Meeting of Families.
E siamo al redde rationem. Durante il viaggio di ritorno del Papa, a nome dei giornalisti italiani al seguito, il giornalista di SkyNews24, Stefano Maria Paci, gli rivolge una domanda molto scorretta. Eccola:
“Ci tolga una curiosità. Il sindaco Marino, sindaco di Roma, città del Giubileo, ha dichiarato che è venuto all’incontro conviviale delle famiglie, alla messa, perché è stato invitato da lei. Ci dice com’è andata?”.Notate come il giornalista inserisca nella sua domanda al Papa una vera e propria menzogna, quando afferma: “Il sindaco Marino ha dichiarato che è stato invitato da lei”. Mai, in nessuna occasione, Marino ha detto di essere stato invitato dal Papa. Anzi: ha sempre specificato che l’invito a Filadelfia gli era stato rivolto dal sindaco di quella città. E’ abbastanza incredibile che giornalisti professionisti compiano una scorrettezza simile, fra l’altro rivolgendosi ad una delle persone più influenti della Terra. Il Papa non può ovviamente sapere cosa abbia detto o non detto Marino, ma non sembra dispiaciuto dalla domanda. Ecco cosa risponde:
“Io non ho invitato il sindaco Marino, chiaro? Ho chiesto agli organizzatori e neanche loro lo hanno invitato. Chiaro? È venuto… lui si professa cattolico: è venuto spontaneamente”Il colpo è micidiale e l’effetto politico che ne segue devastante. I siti internet (a parte La Stampa) mettono in rete solo la risposta del Papa, non la domanda, facendo credere surrettiziamente che la precisazione sia un’iniziativa di Bergoglio. Il video del Pontefice in aereo col microfono che dileggia Marino, in un colpo solo, fa contenti: i Casamonica, Gianni Alemanno, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, la famiglia Tredicine, la lobby dei commercianti dei Fori Imperiali, il PD romano commissariato e ciò che resta di Mafia Capitale. Si stappa lo champagne. Partono i tweet e partono le paginate sui siti, ma soprattutto si mettono in moto le tastiere dei picchiatori. Il Papa tiene fermo Marino e loro possono pestarlo a sangue: dài ché ci divertiamo. Si impaginano i pezzi dei vari Merlo, Tucci, per non parlare di Giordano e Tramontano. E’ una festa: la character assassination impazza. Tutti a scrivere che il Papa smentisce e sbugiarda Marino, quando è ovvio che il Papa non ha smentito nulla, perché Marino mai aveva detto di aver ricevuto inviti dal Papa. La replica di Marino viene nascosta in poche righe, nessuno la vede. La gogna è scattata, chi vuole può avvicinarsi a scagliare la sua pedata.
Pochissimi scelgono di ragionare con la propria testa. Fra questi, Massimo Gramellini, sulla Stampa, e Francesco Oggiano, su Vanity Fair. Intervengono per ristabilire la verità opinionisti noti come Stefano Menichini e Chiara Geloni. Ma le loro voci, per quanto forti, sono surclassate dalle grida sguaiate dei pecoroni da tastiera.
Il colpo è assestato, Oltretevere qualcuno forse sta brindando. O forse no, sta di fatto che il Papa è ormai ufficialmente collocato fra quanti vogliono togliere di mezzo il sindaco di Roma.
Resisterà Marino, sindaco da poco più di due anni, all’attacco concentrico dei suoi tanti nemici, con l’appoggio di fatto di chi a Roma regna da una ventina di secoli? Non lo so. So che questo sindaco è stato eletto con il 60% dei voti dei romani, che hanno diritto di vedere rispettato il proprio voto. So anche che Marino ha difetti, come tutti, ma nonostante la stampa e la tv facciano finta di non vedere, sta portando avanti riforme coraggiose e provvedimenti importanti e che la città, lasciata dalla destra in condizioni drammatiche, sta migliorando. Marino è un argine fragile all’arroganza e alla protervia di chi, da varie angolazioni, vorrebbe tornare a decidere cosa deve e non deve essere fatto a Roma, infischiandosene dei romani e di quello che essi stessi hanno scelto. Per questo Marino ha il dovere di resistere e andare avanti, se ce la fa. E chi se la sente ha il dovere di difenderlo.
Etichette:
Francesco Luna,
giornali,
giornalisti,
Marino,
Roma,
Vaticano
30.9.15
Scomode verità che non vogliamo vedere
Franco Bifo Berardi (il manifesto)
C'è vita a sinistra. Per il 5 o anche il 10% forse c’è vita. Per una svolta sociale e politica del mondo non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile. Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato
L’organismo della sinistra è assai poco vitale, ma comprensibilmente non vuole dirselo e nemmeno sentirselo dire. E se provassimo ad affrontare la questione da un punto di vista un po’ meno prevedibile? Se cominciassimo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.
Perché questa è la verità: non c’è vita, se mai c’è sopravvivenza eroica ma stentata di un vasto numero di associazioni e organismi di base che cercano di garantire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.
Se cominciassimo col dirci la verità che dal tronco della sinistra del Novecento non sboccerà più alcun fiore, forse allora riusciremmo a vedere la realtà presente in maniera più realistica e forse anche a immaginare una via d’uscita per il prossimo futuro.
Se sinistra vuol dire una formazione capace di raggiungere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a sufficienza. Grazie alla demografia, grazie all’ampiezza dei ranghi degli ultra-sessantenni possiamo ancora sperare di costituire una formazione che mandi in parlamento qualche deputato prima di esaurirsi per estinzione prossima della generazione che si formò negli anni della democrazia.
Ma se sinistra vuol dire una forza capace di immaginare una svolta nella storia sociale economica e politica del mondo, una forza capace di attrarre le energie della generazione precaria e connettiva, se sinistra vuol dire una forza capace di rovesciare il rapporto di forze che il capitalismo globalizzato ha imposto all’umanità — allora è meglio non raccontarci bugie pietose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.
I contributi che ho letto sul manifesto sono più o meno apprezzabili, alcuni mi sono piaciuti molto. Ma non ne ho tratto la percezione che qualcuno voglia vedere quel che sta accadendo e che accadrà, e soprattutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.
La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola democrazia non corrisponde nulla.
Perché dovrei ancora prendere sul serio la democrazia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occorreva l’esperienza greca, per sapere che la democrazia non è più una strada percorribile. Basta ricordarsi del referendum italico contro la privatizzazione dell’acqua, i suoi risultati trionfali, e i suoi effetti praticamente nulli sulla realtà economica e politica.
E allora, se la democrazia non è una strada percorribile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che talvolta nella vita (e nella storia) è opportuno partire da un’ammissione di impotenza. Non posso, non possiamo farci niente.
Cioè, fermi un attimo. Due cose dobbiamo farle, e se volete chiamarle sinistra allora sì, ci vuole la sinistra.
La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni l’Unione europea, ormai entrata in una situazione di scollamento politico, di odii incrociati, di predazione coloniale, finirà nel peggiore dei modi: a destra. Possiamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbattere la dittatura finanziaria europea è la destra?
Dovremmo dirlo, perché questo è quello che sta già accadendo, e le conseguenze saranno violente, sanguinose, catastrofiche dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dobbiamo allora smettere i giochi già giocati cento volte per metterci in ascolto dell’onda che arriva.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni gli effetti del collasso finanziario del 2008 moltiplicati per gli effetti del collasso cinese di questi mesi produrrà una recessione globale. Possiamo prevedere che la crescita non tornerà perché non è più possibile, non è più necessaria, non è più compatibile con la sopravvivenza del pianeta, e ogni tentativo di rilanciare la crescita coincide con devastazione ambientale e sociale.
La decrescita non è una strategia, un progetto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si traduce in un’aggressione sistematica contro il salario, e contro le condizioni di vita delle popolazioni. E si traduce in una guerra civile planetaria che solo Francesco I ha avuto il coraggio di chiamare col suo nome: guerra mondiale.
La seconda cosa da fare è: immaginare.
Immaginare una via d’uscita dall’inferno partendo dal punto centrale su cui l’inferno poggia: la superstizione che si chiama crescita, la superstizione che si chiama lavoro salariato. Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un punto: predicano la crescita in un momento storico in cui non è più né auspicabile né possibile, e soprattutto è inesistente per la semplice ragione che non abbiamo bisogno di produrre una massa più vasta di merci, ma abbiamo bisogno di redistribuire la ricchezza esistente.
Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un secondo punto: lavorare di più, aumentare l’occupazione e contemporaneamente aumentare la produttività. Non c’è nessuna possibilità che queste politiche abbiano successo. Al contrario la disoccupazione è destinata ad aumentare, poiché la tecnologia sta producendo in maniera massiccia la prima generazione di automi intelligenti. Da cinquant’anni la sinistra ha scelto di difendere l’occupazione, il posto di lavoro e la composizione esistente del lavoro. Era la strada sbagliata già negli anni ’70, diventò una strada catastrofica negli anni ’80. Era una strada che ha portato i lavoratori alla sconfitta, alla solitudine, alla guerra di tutti contro tutti.
Perché dovremmo difendere la sinistra visto che è stata proprio la sinistra a portare i lavoratori nel vicolo cieco in cui si trovano oggi?
Di lavoro, semplicemente, ce n’è sempre meno bisogno, e qualcuno deve cominciare a ragionare in termini di riduzione drastica e generalizzata del tempo di lavoro. Qualcuno deve rivendicare la possibilità di liberare una frazione sempre più ampia del tempo sociale per destinarlo alla cura l’educazione e alla gioia.
So bene che non si tratta di un progetto per domani o per dopodomani. Negli ultimi quarant’anni la sinistra ha considerato la tecnologia come un nemico da cui proteggersi, si tratta invece di rivendicare la potenza della tecnologia come fattore di liberazione, e si tratta di trasformare le aspettative sociali, liberando la cultura sociale dalle superstizioni che la sinistra ha contribuito a formare.
Quanto tempo ci occorre? Basteranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guardare, visto che nulla possiamo fare. Guardare cosa? La catastrofe che è ormai in corso e che nessuno può fermare. Stiamo a guardare il processo di finale disgregazione dell’Unione europea, la vittoria delle destre in molti paesi europei, il peggioramento delle condizioni di vita della società. Sono processi scritti nella materiale composizione del presente, e nel rapporto di forza tra le classi.
Ma naturalmente non si può stare a guardare, perché si tratta anche di sopravvivere.
Ecco un progetto straordinariamente importante: sopravvivere collettivamente, sobriamente, ai margini, in attesa. Riflettendo, immaginando, e diffondendo la coscienza di una possibilità che è iscritta nel sapere collettivo, e per il momento non si cancella: la possibilità di fare del sapere la leva per liberarci dallo sfruttamento.
Attendere il mattino come una talpa.
C'è vita a sinistra. Per il 5 o anche il 10% forse c’è vita. Per una svolta sociale e politica del mondo non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile. Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato
L’organismo della sinistra è assai poco vitale, ma comprensibilmente non vuole dirselo e nemmeno sentirselo dire. E se provassimo ad affrontare la questione da un punto di vista un po’ meno prevedibile? Se cominciassimo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.
Perché questa è la verità: non c’è vita, se mai c’è sopravvivenza eroica ma stentata di un vasto numero di associazioni e organismi di base che cercano di garantire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.
Se cominciassimo col dirci la verità che dal tronco della sinistra del Novecento non sboccerà più alcun fiore, forse allora riusciremmo a vedere la realtà presente in maniera più realistica e forse anche a immaginare una via d’uscita per il prossimo futuro.
Se sinistra vuol dire una formazione capace di raggiungere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a sufficienza. Grazie alla demografia, grazie all’ampiezza dei ranghi degli ultra-sessantenni possiamo ancora sperare di costituire una formazione che mandi in parlamento qualche deputato prima di esaurirsi per estinzione prossima della generazione che si formò negli anni della democrazia.
Ma se sinistra vuol dire una forza capace di immaginare una svolta nella storia sociale economica e politica del mondo, una forza capace di attrarre le energie della generazione precaria e connettiva, se sinistra vuol dire una forza capace di rovesciare il rapporto di forze che il capitalismo globalizzato ha imposto all’umanità — allora è meglio non raccontarci bugie pietose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.
I contributi che ho letto sul manifesto sono più o meno apprezzabili, alcuni mi sono piaciuti molto. Ma non ne ho tratto la percezione che qualcuno voglia vedere quel che sta accadendo e che accadrà, e soprattutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.
La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola democrazia non corrisponde nulla.
Perché dovrei ancora prendere sul serio la democrazia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occorreva l’esperienza greca, per sapere che la democrazia non è più una strada percorribile. Basta ricordarsi del referendum italico contro la privatizzazione dell’acqua, i suoi risultati trionfali, e i suoi effetti praticamente nulli sulla realtà economica e politica.
E allora, se la democrazia non è una strada percorribile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che talvolta nella vita (e nella storia) è opportuno partire da un’ammissione di impotenza. Non posso, non possiamo farci niente.
Cioè, fermi un attimo. Due cose dobbiamo farle, e se volete chiamarle sinistra allora sì, ci vuole la sinistra.
La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni l’Unione europea, ormai entrata in una situazione di scollamento politico, di odii incrociati, di predazione coloniale, finirà nel peggiore dei modi: a destra. Possiamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbattere la dittatura finanziaria europea è la destra?
Dovremmo dirlo, perché questo è quello che sta già accadendo, e le conseguenze saranno violente, sanguinose, catastrofiche dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dobbiamo allora smettere i giochi già giocati cento volte per metterci in ascolto dell’onda che arriva.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni gli effetti del collasso finanziario del 2008 moltiplicati per gli effetti del collasso cinese di questi mesi produrrà una recessione globale. Possiamo prevedere che la crescita non tornerà perché non è più possibile, non è più necessaria, non è più compatibile con la sopravvivenza del pianeta, e ogni tentativo di rilanciare la crescita coincide con devastazione ambientale e sociale.
La decrescita non è una strategia, un progetto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si traduce in un’aggressione sistematica contro il salario, e contro le condizioni di vita delle popolazioni. E si traduce in una guerra civile planetaria che solo Francesco I ha avuto il coraggio di chiamare col suo nome: guerra mondiale.
La seconda cosa da fare è: immaginare.
Immaginare una via d’uscita dall’inferno partendo dal punto centrale su cui l’inferno poggia: la superstizione che si chiama crescita, la superstizione che si chiama lavoro salariato. Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un punto: predicano la crescita in un momento storico in cui non è più né auspicabile né possibile, e soprattutto è inesistente per la semplice ragione che non abbiamo bisogno di produrre una massa più vasta di merci, ma abbiamo bisogno di redistribuire la ricchezza esistente.
Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un secondo punto: lavorare di più, aumentare l’occupazione e contemporaneamente aumentare la produttività. Non c’è nessuna possibilità che queste politiche abbiano successo. Al contrario la disoccupazione è destinata ad aumentare, poiché la tecnologia sta producendo in maniera massiccia la prima generazione di automi intelligenti. Da cinquant’anni la sinistra ha scelto di difendere l’occupazione, il posto di lavoro e la composizione esistente del lavoro. Era la strada sbagliata già negli anni ’70, diventò una strada catastrofica negli anni ’80. Era una strada che ha portato i lavoratori alla sconfitta, alla solitudine, alla guerra di tutti contro tutti.
Perché dovremmo difendere la sinistra visto che è stata proprio la sinistra a portare i lavoratori nel vicolo cieco in cui si trovano oggi?
Di lavoro, semplicemente, ce n’è sempre meno bisogno, e qualcuno deve cominciare a ragionare in termini di riduzione drastica e generalizzata del tempo di lavoro. Qualcuno deve rivendicare la possibilità di liberare una frazione sempre più ampia del tempo sociale per destinarlo alla cura l’educazione e alla gioia.
So bene che non si tratta di un progetto per domani o per dopodomani. Negli ultimi quarant’anni la sinistra ha considerato la tecnologia come un nemico da cui proteggersi, si tratta invece di rivendicare la potenza della tecnologia come fattore di liberazione, e si tratta di trasformare le aspettative sociali, liberando la cultura sociale dalle superstizioni che la sinistra ha contribuito a formare.
Quanto tempo ci occorre? Basteranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guardare, visto che nulla possiamo fare. Guardare cosa? La catastrofe che è ormai in corso e che nessuno può fermare. Stiamo a guardare il processo di finale disgregazione dell’Unione europea, la vittoria delle destre in molti paesi europei, il peggioramento delle condizioni di vita della società. Sono processi scritti nella materiale composizione del presente, e nel rapporto di forza tra le classi.
Ma naturalmente non si può stare a guardare, perché si tratta anche di sopravvivere.
Ecco un progetto straordinariamente importante: sopravvivere collettivamente, sobriamente, ai margini, in attesa. Riflettendo, immaginando, e diffondendo la coscienza di una possibilità che è iscritta nel sapere collettivo, e per il momento non si cancella: la possibilità di fare del sapere la leva per liberarci dallo sfruttamento.
Attendere il mattino come una talpa.
Etichette:
Bifo Berardi,
il manifesto,
sinistra
22.9.15
L’Europa aspetta Godot, ma Annibale è alle porte
L’Europa aspetta Godot, ma Annibale è alle porte
[Carta di Laura Canali]
8/04/2015
Ci attendiamo
che gli Usa garantiscano la sicurezza del Vecchio Continente. Washington
però ormai guarda al Pacifico, mentre ai nostri confini ci sono due
crisi che non possiamo più ignorare.
Nella storia dei popoli esistono periodi caratterizzati da mutamenti tanto rapidi, radicali e continuati che il cambiamento cessa di essere l’eccezione e la stabilità la regola.
Diviene vero il contrario: il cambiamento si fa regola e la stabilità è degradata a eccezione, in una cornice in cui la storia appare destinata a travolgere nella sua inarrestabile, tumultuosa avanzata chiunque non riesca a mantenere il suo ritmo rimanendo sempre sulla cresta dell’onda.
È quanto sta avvenendo in questo momento. Dopo un lungo periodo di apparente immobilità, propiziata da un confronto bipolare tra due blocchi apparentemente avversari ma che in realtà si aiutavano l’un l’altro a mantenere salda la condivisione del mondo, il vaso di Pandora si rivela di nuovo palesemente aperto, lasciando via libera ad ambizioni e rivalità che per lungo tempo noi abbiamo sottovalutato e che solo ora appaiono in tutta la loro evidente estrema pericolosità.
In questo contesto l’Unione Europea, fiera sino a ieri delle due generazioni di pace dopo millenni di guerra che essa giustamente considera come la migliore e la più valida delle sue conquiste, si rende improvvisamente conto di come la storia abbia l’abitudine di rimescolare le carte in continuazione e di come nessuna conquista possa essere considerata duratura se non le si dedicano tutta la cura e i sacrifici che essa richiede.
In periodi tesi come quello attuale dobbiamo in primo luogo essere sinceri con noi stessi e pronti a riconoscere e a correggere le nostre colpe se e quando qualcosa va male. In effetti, in questo momento alcuni fra i maggiori difetti della nostra incompleta costruzione comunitaria si stanno impietosamente evidenziando.
In materia di pace abbiamo infatti seguito due politiche tra loro nettamente contrastanti. La prima era una politica declamatoria e irenica che esaltava la pace come lo stato di natura ideale che ci permetteva di esprimere al meglio tutti i valori in cui credevamo. La seconda era invece la politica della realtà, quella fatta dalle grandi e piccole decisioni di tutti i giorni. Una politica che in tutti gli Stati membri della Unione è stata orientata per anni a lesinare proprio su quelle spese per la sicurezza che costituivano il sacrificio indispensabile per il mantenimento e la corretta manutenzione della nuova pax europea.
La speranza rimaneva sempre quella di poter scaricare su altri la parte del fardello comune che ci spettava. Prima sul Grande Fratello d’oltre Atlantico, poi, quando è divenuto chiaro che dal tradizionale legame bilaterale anche egli voleva soltanto prendere e non era più disposto a dare, sugli altri Stati dell’Unione. Fra i fratelli europei si è innescata così una vera e propria corsa al ribasso in cui hanno sempre prevalso gli aspetti del più bieco degli egoismi.
Come risultato ci ritroviamo adesso con il fuoco alle frontiere. Bruciano i campi dei nostri vicini e ciò significa che è molto facile che il fuoco si estenda rapidamente anche alle nostre culture. Ricordate l’espressione romana Hannibal ad ianuas!, “Annibale è alle porte”? Beh, questa volta Annibale è veramente di nuovo alle nostre porte; per di più bussa contemporaneamente a Nordest e a Sud. Alcune crisi ancora non si profilano con chiarezza come minacce ma come tali potrebbero evidenziarsi da un momento all’altro, magari senza preavviso e con estrema virulenza.
In una situazione del genere – alle frontiere orientali una Russia divenuta rapidamente tanto ostile da ritenere necessario ricordarci quasi quotidianamente che lei è una delle due grandi potenze nucleari del mondo; alle frontiere meridionali un islam dilaniato da un contrasto fra sciiti e sunniti sempre più sanguinoso e che non riesce a mantenere sotto controllo schegge impazzite di fanatici capaci di esprimere soltanto paura ed odio – ci si aspetterebbe dall’Unione Europea una reazione concordata rapida ed efficace.
In altri momenti critici della sua storia ciò è avvenuto. Questa capacità dell’Europa di riuscire ad andare avanti soltanto all’ultimo minuto utile ci aveva fatto ironizzare sulla strana peculiarità di una istituzione che si rivelava in grado di dare il meglio soltanto in momenti di consolidata frustrazione e di angosciosa paura. Adesso invece l’Ue non accenna a muoversi e a fare il salto di qualità che sarebbe indispensabile. La sua inerzia esalta addirittura, per contrasto, il dinamismo della Lega Araba che in questi ultimi tempi si è dimostrata capace, se non altro, di non nascondersi i problemi e di assumere decisioni che sino a ieri sarebbero sembrate impossibili.
Sembra quasi che fra Lega Araba e Unione Europea i ruoli siano ora completamente invertiti rispetto a 15/20 anni fa, allorché era il Sud Mediterraneo a crogiolarsi in un immobilismo suicida mentre il Nord ancora appariva pieno di vitalità. Paesi vecchi e di vecchi? Declino biologico, oltre che declino storico? Di sicuro c’è parecchio di questo, anche se l’invecchiamento dei nostri paesi non riesce a giustificare da solo né la loro inerzia né la rapidità del loro discesa.
In tale contesto è deleterio che noi continuiamo – come innamorati traditi che non vogliono accettare la separazione definitiva e confidano nell’impossibile ritorno dell’amata – ad aspettare che gli Usa riprendano il ruolo guida che erano stati capaci di esprimere nell’ambito del legame transatlantico per più di cinquant’anni e ci costringano loro a prendere quelle decisioni che per ora sembriamo non essere capaci di prendere da soli.
Aspettiamo così un Godot che non verrà mai, ora che l’era del Pacifico ha definitivamente preso il posto di quella dell’Atlantico. Più aspettiamo senza agire più ci indeboliamo, innescando un rapporto causa-effetto destinato a rendere ancora più improbabile un eventuale ritorno che comporterebbe anche l’obbligo di supplire alle nostre carenze.
Forse per noi è anche meglio che il nostro Godot non sia orientato a tornare: la politica statunitense degli ultimi anni, esaminata in ottica europea, ha reso pericolosissimo il nostro rapporto con il mondo arabo, difficile quello con l’Iran e angosciante quello con la Russia. Da chiedersi inoltre cosa potrebbe succedere domani ove al posto di un presidente ragionevole per quanto debole come Obama dovesse essere eletto un esaltato repubblicano, magari del Tea Party!
Di pari passo con l’attesa quasi messianica del ritorno Usa in Europa va la fiducia che ancora continuiamo a concedere a scatola quasi chiusa al Patto Atlantico e alla Nato. Rifiutiamo di accorgerci che essi sono scaduti da strumento politico principe dell’Occidente dotato di un adeguato ed efficace braccio armato a semplice serbatoio di forze militari fra loro compatibili, cui si attinge sulla base di logiche spesso leonine e discutibili. Basti pensare ai casi della Georgia e dell’Ucraina, in cui la Nato a cuor leggero ha contribuito a creare gravi crisi che non ha avuto poi la capacità di affrontare efficacemente.
Nonostante ciò, continuiamo a confidare per la nostra difesa collettiva in un’organizzazione datata che avrebbe bisogno di una revisione tanto radicale da essere quasi una ricostruzione su basi differenti e che rischia di essere paralizzata – o male indirizzata nel momento del bisogno – da logiche a noi estranee.
C’è da chiedersi se ciò non avvenga perché questa situazione consente ai complessi militar-industriali europei di continuare a crogiolarsi nella loro inefficienza, perpetuando l’assurdo di Forze armate che mantengono sotto le armi più di un milione e mezzo di persone e dispongono di un bilancio pari al 40% di quello Usa ma rimangono ben lontane dall’esprimere le prestazioni che da tali numeri sarebbe logico pretendere.
La quadratura di questo cerchio consisterebbe, come già detto, nell’edificazione di un vero e proprio strumento europeo di difesa. Ciò dal punto di vista politico ci darebbe il vantaggio di poter essere completamente autonomi nelle decisioni concernenti la nostra sicurezza, mentre da quello economico ci permetterebbe di fruire di indubbie economie di scala. L’operatività delle nostre forze ne sarebbe inoltre considerevolmente esaltata. Cosa aspettiamo allora per fare questo passo decisivo e indispensabile?
Quando si trattò di unificare la moneta sapemmo procedere rapidamente e bene. Perché esitiamo ora che è chiaramente giunto il momento in cui la ritardata unificazione dei nostri strumenti di difesa ci pone di fronte a rischi che non è esagerato considerare inaccettabili?
Annibale, giunto alle porte di Roma, si limitò a un gesto simbolico: lanciò una lancia oltre le mura serviane prima di ritirarsi verso Capua. Fu una fortuna per Roma, rimasta sguarnita e quindi non adeguatamente difesa. Ma non sempre nella storia fortune del genere si ripetono!
Per approfondire: Dopo Parigi, che guerra fa
L’autore di questo articolo è Generale della riserva dell’Esercito. Già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato, Ue e Ueo. Consigliere scientifico di Limes.
Diviene vero il contrario: il cambiamento si fa regola e la stabilità è degradata a eccezione, in una cornice in cui la storia appare destinata a travolgere nella sua inarrestabile, tumultuosa avanzata chiunque non riesca a mantenere il suo ritmo rimanendo sempre sulla cresta dell’onda.
È quanto sta avvenendo in questo momento. Dopo un lungo periodo di apparente immobilità, propiziata da un confronto bipolare tra due blocchi apparentemente avversari ma che in realtà si aiutavano l’un l’altro a mantenere salda la condivisione del mondo, il vaso di Pandora si rivela di nuovo palesemente aperto, lasciando via libera ad ambizioni e rivalità che per lungo tempo noi abbiamo sottovalutato e che solo ora appaiono in tutta la loro evidente estrema pericolosità.
In questo contesto l’Unione Europea, fiera sino a ieri delle due generazioni di pace dopo millenni di guerra che essa giustamente considera come la migliore e la più valida delle sue conquiste, si rende improvvisamente conto di come la storia abbia l’abitudine di rimescolare le carte in continuazione e di come nessuna conquista possa essere considerata duratura se non le si dedicano tutta la cura e i sacrifici che essa richiede.
In periodi tesi come quello attuale dobbiamo in primo luogo essere sinceri con noi stessi e pronti a riconoscere e a correggere le nostre colpe se e quando qualcosa va male. In effetti, in questo momento alcuni fra i maggiori difetti della nostra incompleta costruzione comunitaria si stanno impietosamente evidenziando.
In materia di pace abbiamo infatti seguito due politiche tra loro nettamente contrastanti. La prima era una politica declamatoria e irenica che esaltava la pace come lo stato di natura ideale che ci permetteva di esprimere al meglio tutti i valori in cui credevamo. La seconda era invece la politica della realtà, quella fatta dalle grandi e piccole decisioni di tutti i giorni. Una politica che in tutti gli Stati membri della Unione è stata orientata per anni a lesinare proprio su quelle spese per la sicurezza che costituivano il sacrificio indispensabile per il mantenimento e la corretta manutenzione della nuova pax europea.
La speranza rimaneva sempre quella di poter scaricare su altri la parte del fardello comune che ci spettava. Prima sul Grande Fratello d’oltre Atlantico, poi, quando è divenuto chiaro che dal tradizionale legame bilaterale anche egli voleva soltanto prendere e non era più disposto a dare, sugli altri Stati dell’Unione. Fra i fratelli europei si è innescata così una vera e propria corsa al ribasso in cui hanno sempre prevalso gli aspetti del più bieco degli egoismi.
Come risultato ci ritroviamo adesso con il fuoco alle frontiere. Bruciano i campi dei nostri vicini e ciò significa che è molto facile che il fuoco si estenda rapidamente anche alle nostre culture. Ricordate l’espressione romana Hannibal ad ianuas!, “Annibale è alle porte”? Beh, questa volta Annibale è veramente di nuovo alle nostre porte; per di più bussa contemporaneamente a Nordest e a Sud. Alcune crisi ancora non si profilano con chiarezza come minacce ma come tali potrebbero evidenziarsi da un momento all’altro, magari senza preavviso e con estrema virulenza.
In una situazione del genere – alle frontiere orientali una Russia divenuta rapidamente tanto ostile da ritenere necessario ricordarci quasi quotidianamente che lei è una delle due grandi potenze nucleari del mondo; alle frontiere meridionali un islam dilaniato da un contrasto fra sciiti e sunniti sempre più sanguinoso e che non riesce a mantenere sotto controllo schegge impazzite di fanatici capaci di esprimere soltanto paura ed odio – ci si aspetterebbe dall’Unione Europea una reazione concordata rapida ed efficace.
In altri momenti critici della sua storia ciò è avvenuto. Questa capacità dell’Europa di riuscire ad andare avanti soltanto all’ultimo minuto utile ci aveva fatto ironizzare sulla strana peculiarità di una istituzione che si rivelava in grado di dare il meglio soltanto in momenti di consolidata frustrazione e di angosciosa paura. Adesso invece l’Ue non accenna a muoversi e a fare il salto di qualità che sarebbe indispensabile. La sua inerzia esalta addirittura, per contrasto, il dinamismo della Lega Araba che in questi ultimi tempi si è dimostrata capace, se non altro, di non nascondersi i problemi e di assumere decisioni che sino a ieri sarebbero sembrate impossibili.
Sembra quasi che fra Lega Araba e Unione Europea i ruoli siano ora completamente invertiti rispetto a 15/20 anni fa, allorché era il Sud Mediterraneo a crogiolarsi in un immobilismo suicida mentre il Nord ancora appariva pieno di vitalità. Paesi vecchi e di vecchi? Declino biologico, oltre che declino storico? Di sicuro c’è parecchio di questo, anche se l’invecchiamento dei nostri paesi non riesce a giustificare da solo né la loro inerzia né la rapidità del loro discesa.
In tale contesto è deleterio che noi continuiamo – come innamorati traditi che non vogliono accettare la separazione definitiva e confidano nell’impossibile ritorno dell’amata – ad aspettare che gli Usa riprendano il ruolo guida che erano stati capaci di esprimere nell’ambito del legame transatlantico per più di cinquant’anni e ci costringano loro a prendere quelle decisioni che per ora sembriamo non essere capaci di prendere da soli.
Aspettiamo così un Godot che non verrà mai, ora che l’era del Pacifico ha definitivamente preso il posto di quella dell’Atlantico. Più aspettiamo senza agire più ci indeboliamo, innescando un rapporto causa-effetto destinato a rendere ancora più improbabile un eventuale ritorno che comporterebbe anche l’obbligo di supplire alle nostre carenze.
Forse per noi è anche meglio che il nostro Godot non sia orientato a tornare: la politica statunitense degli ultimi anni, esaminata in ottica europea, ha reso pericolosissimo il nostro rapporto con il mondo arabo, difficile quello con l’Iran e angosciante quello con la Russia. Da chiedersi inoltre cosa potrebbe succedere domani ove al posto di un presidente ragionevole per quanto debole come Obama dovesse essere eletto un esaltato repubblicano, magari del Tea Party!
Di pari passo con l’attesa quasi messianica del ritorno Usa in Europa va la fiducia che ancora continuiamo a concedere a scatola quasi chiusa al Patto Atlantico e alla Nato. Rifiutiamo di accorgerci che essi sono scaduti da strumento politico principe dell’Occidente dotato di un adeguato ed efficace braccio armato a semplice serbatoio di forze militari fra loro compatibili, cui si attinge sulla base di logiche spesso leonine e discutibili. Basti pensare ai casi della Georgia e dell’Ucraina, in cui la Nato a cuor leggero ha contribuito a creare gravi crisi che non ha avuto poi la capacità di affrontare efficacemente.
Nonostante ciò, continuiamo a confidare per la nostra difesa collettiva in un’organizzazione datata che avrebbe bisogno di una revisione tanto radicale da essere quasi una ricostruzione su basi differenti e che rischia di essere paralizzata – o male indirizzata nel momento del bisogno – da logiche a noi estranee.
C’è da chiedersi se ciò non avvenga perché questa situazione consente ai complessi militar-industriali europei di continuare a crogiolarsi nella loro inefficienza, perpetuando l’assurdo di Forze armate che mantengono sotto le armi più di un milione e mezzo di persone e dispongono di un bilancio pari al 40% di quello Usa ma rimangono ben lontane dall’esprimere le prestazioni che da tali numeri sarebbe logico pretendere.
La quadratura di questo cerchio consisterebbe, come già detto, nell’edificazione di un vero e proprio strumento europeo di difesa. Ciò dal punto di vista politico ci darebbe il vantaggio di poter essere completamente autonomi nelle decisioni concernenti la nostra sicurezza, mentre da quello economico ci permetterebbe di fruire di indubbie economie di scala. L’operatività delle nostre forze ne sarebbe inoltre considerevolmente esaltata. Cosa aspettiamo allora per fare questo passo decisivo e indispensabile?
Quando si trattò di unificare la moneta sapemmo procedere rapidamente e bene. Perché esitiamo ora che è chiaramente giunto il momento in cui la ritardata unificazione dei nostri strumenti di difesa ci pone di fronte a rischi che non è esagerato considerare inaccettabili?
Annibale, giunto alle porte di Roma, si limitò a un gesto simbolico: lanciò una lancia oltre le mura serviane prima di ritirarsi verso Capua. Fu una fortuna per Roma, rimasta sguarnita e quindi non adeguatamente difesa. Ma non sempre nella storia fortune del genere si ripetono!
Per approfondire: Dopo Parigi, che guerra fa
L’autore di questo articolo è Generale della riserva dell’Esercito. Già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato, Ue e Ueo. Consigliere scientifico di Limes.
20.9.15
Tutto quello che c’è da sapere sulle elezioni in Grecia
internazionale.it
Dopo mesi di serrati negoziati tra la Grecia e i suoi creditori internazionali, il nuovo primo ministro Alexis Tsipras – già uscente – è stato costretto ad accettare le durissime condizioni di un nuovo piano di salvataggio triennale da 85 miliardi di euro.
Con il paese sull’orlo della bancarotta, il 14 agosto il parlamento di Atene ha approvato il terzo accordo per il salvataggio in cinque anni. Quasi un terzo dei 149 parlamentari di Syriza, il partito di sinistra di Tsipras, si è rifiutato di sostenerlo e il primo ministro, di 41 anni, si è dimesso, aprendo così la strada alle quinte elezioni politiche in sei anni.
Come siamo arrivati a questo punto?
La Grecia è stata obbligata a chiedere aiuti internazionali nel 2010 quando si è trovata sull’orlo del fallimento, appena nove anni dopo essere entrata nell’euro.
La Grecia è stata obbligata a chiedere aiuti internazionali nel 2010 quando si è trovata sull’orlo del fallimento, appena nove anni dopo essere entrata nell’euro.
La Grecia ha ricevuto più di trecento miliardi di euro in aiuti internazionali. Ma questi sono stati concessi a condizioni molto severe, con un programma d’austerità che ha comportato pesanti tagli al bilancio e un’impennata delle tasse.
L’economia della Grecia si è inabissata: il pil è sceso del 25 per cento dal 2010. La disoccupazione riguarda circa il 26 per cento della forza lavoro (che in maggioranza non riceve sussidi), gli stipendi sono calati del 38 per cento e le pensioni del 45 per cento. Circa il 18 per cento della popolazione non ha soldi sufficienti per mangiare e il 32 per cento vive sotto la soglia di povertà.
Visto che la maggior parte dei fondi di salvataggio è stata usata per pagare i debiti del paese, non è stato investito quasi niente per il rilancio economico. E, soprattutto, il debito greco oggi è quasi il doppio della produzione economica annuale del paese, cioè il 180 per cento del pil.
Alle elezioni di gennaio, gli elettori greci, stremati, hanno finito per perdere la pazienza con i partiti tradizionalmente al potere. Promettendo di stracciare gli accordi sugli aiuti responsabili della “crisi umanitaria”, Syriza ha ottenuto una clamorosa vittoria.
Quali sono le questioni principali e qual è lo scenario più probabile?
Due mesi fa Tsipras godeva di grande popolarità, con un tasso di consensi del 70 per cento, dato che era l’unico primo ministro greco ad avere perlomeno provato a opporsi ai piani dei creditori della Grecia. I sondaggi mostrano che oggi, tra le persone di età compresa tra i 18 e i 44 anni che hanno contribuito a portarlo al potere, il sostegno a Syriza è crollato.
Due mesi fa Tsipras godeva di grande popolarità, con un tasso di consensi del 70 per cento, dato che era l’unico primo ministro greco ad avere perlomeno provato a opporsi ai piani dei creditori della Grecia. I sondaggi mostrano che oggi, tra le persone di età compresa tra i 18 e i 44 anni che hanno contribuito a portarlo al potere, il sostegno a Syriza è crollato.
Buona parte del 62 per cento dei greci che nel referendum di luglio hanno votato contro il nuovo salvataggio sono scontenti del partito perché ha finito per accettare un accordo che aveva promesso di rigettare.
Cruciale per l’esito delle elezioni di domenica sarà il comportamento di questi elettori di Syriza delusi. Alcuni sembrano attratti dalla sinistra ancor più radicale, alcuni persino dal partito di estrema destra Alba dorata (il più popolare per le persone tra i 18 e i 24 anni).
Ma in molti sembrano anche disposti a fidarsi dell’offerta di “ritorno alla stabilità” proposta dal leader di Nea dimokratia, Vangelis Meimarakis. I sondaggi suggeriscono che il vantaggio di Syriza su Nea dimokratia si sia, come minimo, sensibilmente ridotto. Secondo alcuni, i due partiti sono praticamente testa a testa.
I principali partiti politici
Dalla caduta del regime dei colonnelli nel 1974, le elezioni in Grecia sono state dominate da due partiti politici: Nea dimokratia, di centrodestra, e il Partito socialista, Pasok. Dal 1981 in poi, alle elezioni politiche i due partiti hanno sempre ottenuto, in totale, l’84 per cento dei voti. Tutto è cambiato con il crollo dell’economia greca e i piani di salvataggio che ne sono seguiti. Nelle tre tornate elettorali che si sono svolte a partire dal maggio 2012, il risultato complessivo dei due partiti è stato rispettivamente del 32, 42 e 32,5 per cento.
Dalla caduta del regime dei colonnelli nel 1974, le elezioni in Grecia sono state dominate da due partiti politici: Nea dimokratia, di centrodestra, e il Partito socialista, Pasok. Dal 1981 in poi, alle elezioni politiche i due partiti hanno sempre ottenuto, in totale, l’84 per cento dei voti. Tutto è cambiato con il crollo dell’economia greca e i piani di salvataggio che ne sono seguiti. Nelle tre tornate elettorali che si sono svolte a partire dal maggio 2012, il risultato complessivo dei due partiti è stato rispettivamente del 32, 42 e 32,5 per cento.
Al contrario, il sostegno nei confronti dei partiti più piccoli è cresciuto. Prima delle elezioni del maggio 2012 il sostegno per Alba dorata era inferiore allo 0,5 per cento, mentre da allora è sempre stato superiore al 5 per cento.
I partiti e le coalizioni che si presentano alle elezioni di domenica 20 settembre sono 19. Ecco i partiti che hanno le maggiori possibilità di entrare nel prossimo parlamento greco.
Come funzioneranno le elezioni?
Sono circa 9,8 milioni i greci che hanno diritto di voto e ai partiti serve almeno il 3 per cento dei voti per entrare in parlamento con un mandato di quattro anni.
Sono circa 9,8 milioni i greci che hanno diritto di voto e ai partiti serve almeno il 3 per cento dei voti per entrare in parlamento con un mandato di quattro anni.
Il parlamento greco ha trecento seggi: 250 deputati sono eletti con un meccanismo proporzionale, mentre gli altri 50 sono automaticamente assegnati al partito che conquista il maggior numero di voti.
I deputati sono eletti a partire dalle liste di candidati di 56 circoscrizioni geografiche. Gli elettori di Atene, dove vive metà della popolazione nazionale, eleggono 58 dei trecento deputati.
La quota di voti necessaria per una maggioranza assoluta di 151 seggi dipenderà da come sarà distribuito il risultato generale tra i partiti: se tutti i partiti ottenessero seggi in parlamento, il 40 per cento dei voti potrebbe significare una vittoria netta. Se invece molti voti si disperdessero tra i partiti più piccoli, che non riescono a superare lo sbarramento del 3 per cento, la quota necessaria per la maggioranza dei seggi si abbasserà.
Anche se in Grecia esiste l’obbligo di votare, non viene fatto rispettare. L’affluenza è scesa notevolmente nell’ultimo decennio. Negli anni ottanta era costantemente sopra l’80 per cento. Nei dieci anni fino al 2005 l’affluenza media è scesa al 75 per cento. Nelle ultime elezioni di gennaio è stata inferiore al 64 per cento.
Nel caso in cui nessun partito ottenga la maggioranza assoluta, il presidente Prokopis Pavlopoulos darebbe al leader del partito principale il mandato di formare una coalizione. Se ciò non fosse possibile, il cosiddetto mandato esplorativo andrebbe al secondo partito e poi al terzo.
Secondo i sondaggi, nessun partito sarebbe in grado di ottenere seggi sufficienti da poter formare da solo un governo di maggioranza. Entrambi i favoriti, Nea dimokratia e Syriza, avrebbero bisogno di formare una coalizione con uno o più partiti per poter governare. Pasok, To potami e l’Unione dei centristi sarebbero i candidati più probabili a entrare in una coalizione del genere.
Un’altra possibilità è una coalizione tra Nea dimokratia e Syriza, anche se Tsipras non è molto favorevole all’ipotesi.
Etichette:
elezioni Grecia,
Internazionale,
Tsipras
16.9.15
È italiana la super stampante 3D: "Sfornerà case a basso costo"
È italiana la super stampante 3D: "Sfornerà case a basso costo"
Viaggio nella
fabbrica di Ravenna dove c'è la macchina più grande del pianeta: dodici
metri per sette. Gli esemplari di questo tipo costano sempre meno, sono
alla portata di tutti e facili da usare. "Ora stiamo provando a
mescolare terra e paglia per vedere se ne esce qualcosa di abitabile"
di RICCARDO LUNA
La stampante, una strana torre metallica che ricorda i ponteggi dei palazzi, si chiama Delta e verrà presentata al mondo alla prossima Maker Faire di Roma a metà ottobre. È stata realizzata da un team di giovani guidati da un meraviglioso artigiano di 55 anni: si chiama Massimo Moretti, ha passato una vita a fare prodotti, dice, "le aziende venivano da me, mi dicevano cosa volevano realizzare e io facevo tutto, dal disegno al prodotto, spesso costruendo pure le macchine".
"Ecco la stampande 3D più grande del mondo: farà case low cost"
Condividi
Il Centro Sviluppo Progetti di Moretti ancora esiste, ma la storia è cambiata quando ha scoperto le stampanti 3D, la manifattura additiva, ovvero la possibilità di realizzare un oggetto non tagliando o segando qualcosa, ma invece aggiungendo materiale. E se ne è innamorato. Le stampanti 3D non sono un fatto recente: è recente il loro boom, dovuto al fatto che costano sempre meno, a volte meno di mille euro, e che sono alla portata di tutti perché sono facili da usare. La prima stampante 3D di Massimo Moretti infatti, attorno al 2000, gli costò più di 40 mila euro: "Erano tutti i miei risparmi, ma ne valeva la pena. Era una Zeta Corp ed era grande come un congelatore orizzontale. La volevo non solo per stamparci oggetti ma per smontarla, capire come era stata costruita e farmene una tutta mia". I risparmi però finirono prima che Moretti potesse sviluppare un software che la facesse funzionare.
Finché, verso il 2005, accade un piccolo miracolo: un professore universitario britannico, Adrian Bowyer, realizza una stampante 3D che tutti possono rifarsi a casa (e in grado di stamparsi i pezzi necessari per montarne una nuova). Si chiama RepRap e tutte le informazioni per farla funzionare sono in rete, disponibili per tutti, gratis. Open Source, che bella parola. Quando la notizia della RepRap arriva in Romagna, Moretti festeggia: "Hanno cambiato il mondo, loro sì, sono stati dei santi". Moretti si convince che presto la stampa 3D sarà lo standard della manifattura, servirà agli artigiani ma anche agli ingegneri. Stampare case, il suo pallino. A km zero.
Moretti non è il primo ad aver immaginato che una casa possa essere stampata in 3D: curiosamente ma non troppo, visto la nostra tradizione artigiana e meccanica, già Enrico Dini, a Pisa, nel 2011 si era costruito una macchina - la D-Shape - che ha fatto il giro del mondo. Dini era partito per stampare case sulla luna, usando la polvere del nostro satellite, e si è poi specializzato nello stampare bellissime barriere coralline artificiali.
Ma torniamo a Moretti che tre anni fa mette su un team di "laureati disoccupati" con il compito di inventare una stampante 3D adatta al sogno di edilizia popolare. "C'era il problema dell'estrusore, cioé di come far funzionare il meccanismo dal quale esce il materiale da stampare". Moretti si accorge che quello che ha in mente lui in natura già c'è: lo fanno le vespe vasaie. Chiama la società Wasp, e con un inglese maccheronico decide che quelle quattro lettere non sono solo la traduzione di "vespa" ma stanno per "World Advanced Saving Project", che è come dire "siamo in missione per salvare il mondo". Non sarà troppo? "In un certo senso sì, e infatti ci prendiamo in giro da soli, ma in realtà ci crediamo davvero".
In cosa credono? Nel fatto che farsi una vera casa debba poter essere un diritto per tutti. E quindi tutta la ricerca del suo team la indirizza verso la possibilità di stampare uno strano miscuglio di argilla e paglia. "È più difficile che con il cemento, ma funziona". Lo vedremo presto, in Sardegna, nel Sulcis, dove è appena arrivata una stampante che presto inizierà a miscelare terra e paglia per vedere se ne esce una casa abitabile.
Per arrivare al risultato di oggi Moretti ha investito un sacco di soldi, tutto quello che ha guadagnato con la vendita di stampanti più piccole. Tecnologicamente sono dei gioiellini, le Wasp. E sono state usate per fare di tutto, non solo i giocattolini di plastica che vedete di solito uscire dalle stampanti 3D. "Qualche mese fa abbiamo consegnato a Pompei delle copie dei loro famosi calchi. Ce le avevano chieste per poterle mandare nel mondo, lasciando gli originali al sicuro". È il nuovo Made in Italy.
Etichette:
casa basso costo,
La Repubblica,
stampanti 3D
Iscriviti a:
Post (Atom)