30.1.09

La tribù dei capi carismatici

Spinelli, Zagrebelsky e Zingales discutono sulla legalità: un dibattito organizzato da Micromega su la Repubblica, 30 gennaio 2009

Con le recenti inchieste che hanno coinvolto esponenti politici di rilievo del centro-sinistra è tornata prepotentemente di attualità nel nostro paese la cosiddetta "questione morale".

GUSTAVO ZAGREBELSKY - Prima di entrare nel vivo della discussione, desidero fare una premessa. In generale, nell’affrontare questi problemi, dobbiamo tenere conto della circostanza che la politica - da sempre, ab immemorabili - è un impasto potremmo dire di idealismi e di bassure, di idealismi e corruzione. Lo è forse intrinsecamente; quindi pensare che si possa avere una politica totalmente libera da corruzione rappresenta un caso di moralismo essenzialmente antipolitico. Da questa constatazione, però, non deriva che la corruzione debba essere accettata passivamente, anche perché, oltre un certo limite, essa è destinata a minare dall’interno il regime entro il quale si diffonde. Nel nostro caso, il regime democratico. Questa premessa mi pare necessaria. La corruzione politica non è uno scandalo "di sistema". Diventa invece uno scandalo "del sistema" se si diffonde fino al punto da diventare una sua regola costitutiva e da essere accettata come tale, senza che si manifestino reazioni o, peggio, che si manifestino reazioni non nei confronti della corruzione e di coloro che ne sono autori, ma nei confronti di coloro che la mettono a nudo, la denunciano, cercano di colpirla. Qui c’è una prima domanda alla quale dobbiamo tutti una risposta, quale che sia la nostra posizione nella società e nelle istituzioni: nel nostro paese, la corruzione la si combatte o la si copre?

Secondo punto. Si ritorna a parlare di "questione morale", ma siamo tutti d’accordo nell’intendere che cosa sia la "morale" nella questione morale? Non ne sono sicuro. Inutile dire che vi sono concezioni della morale quante sono le visioni del mondo e, per restare al nostro tema, quante sono le visioni della politica. La corruzione è una questione di contraddizione tra concezione della politica e azione politica. Se cambia la concezione della politica, azioni che in una concezione sono perfettamente "morali" possono non esserlo più, e viceversa. C’è una morale politica comune, ora, qui, nel nostro paese? Guardiamo i fatti: i medesimi comportamenti, presso gli uni, provocano riprovazione; presso gli altri, nessuna riprovazione, anzi talora consenso. Ad esempio: la confusione del privato nel pubblico e del pubblico nel privato per alcuni è una gravissima prova di disprezzo delle istituzioni; per altri, è una benefica forma di modernizzazione, sburocratizzazione, perfino avvicinamento delle istituzioni e della politica alla gente. Chi è "morale" e chi "immorale"? Dipende dai punti di vista. Se i punti di vista sono lontani, il discorso sulla necessità di una vita pubblica ripulita dalla corruzione - una questione che dovrebbe unire, nel nome di un interesse comune, superiore a quello delle parti - diventa semplicemente un’occasione, un pretesto per scambiarsi accuse. In conclusione: ciò che dovrebbe essere ripristinata è la visione comune, l’idea del vivere insieme. Come si può fare appello alla morale in un paese in cui l’evasione fiscale, uno dei comportamenti eticamente più condannabili secondo un’etica repubblicana, sia accettata addirittura come esercizio di un diritto o manifestazione di furbizia?

BARBARA SPINELLI - Partirei da quanto ha detto il professor Zagrebelsky a proposito della politica, che è sempre un impasto di idealismo e bassezze o di idealismo e forme di corruzione. È vero che il potere è qualche cosa che naturalmente corrompe. Come diceva lord Acton, "il potere corrompe, e il potere assoluto corrompe assolutamente". È un dato di fatto. Nella storia del liberalismo - prima ancora che cominciasse l’esperienza della democrazia - si è guardata in faccia questa realtà e da qui hanno avuto origine tutte le teorie del potere che va limitato o controbilanciato. Montesquieu dice l’essenziale quando afferma: "Perché non ci sia abuso di potere occorre che il potere fermi il potere": che cioè ci siano istituzioni, organismi che facciano da contrappeso. Da qui è nata poi la separazione dei poteri, e da qui è nato anche il quarto potere, quello della stampa, che è un altro potere chiamato ad arginare il potere.

Più avanti avremo modo di parlare di che cosa sia la morale in politica: sono convinta anch’io che essa sia la questione centrale nell’Italia contemporanea. Eugenio Scalfari ha spiegato d’altronde come lo sia quasi da principio, nella sua storia. La cornice fondamentale che impone un comportamento corretto in politica è però costituita sempre dalla possibilità che il potere fermi il potere. Solo la separazione dei poteri può garantire che la corruzione venga fermata, proprio perché il potere tende intrinsecamente a farsi assoluto e dunque a corrompere assolutamente, andando verso la crescente occupazione dello spazio pubblico da parte di singoli soggetti come i partiti, gli interessi particolari, e chiunque non abbia come obiettivo il bene comune o lo Stato, ma la promozione del proprio vantaggio e del proprio bene parziale. Chiunque parli di questione morale - o di giustizia che funzioni - in questo momento storico, nell’Italia di oggi, deve ormai preoccuparsi quasi sempre di spiegare che non è un moralista, che non è un giustizialista; così come deve sistematicamente spiegare, se difende la laicità, che non è un laicista. In questo momento, chi domanda comportamenti eticamente corretti in politica si trova in una posizione difensiva.

LUIGI ZINGALES - Tutto quello che è stato detto finora mi sembra giustissimo. Però prima ancora di una questione morale, io parlerei di una questione legale in Italia, che non interessa solo la politica ma anche il mondo degli affari. In Italia il delitto paga, e paga molto. Tanzi è stato condannato, però non si sa se andrà mai in galera, anzi è probabile che non farà nemmeno un anno di galera nella sua vita. Fiorani è in Sardegna che si diverte, fa la bella vita. In Italia praticamente nessuno va in galera qualsiasi cosa faccia. O meglio, in galera ci vanno solo i poveracci, perché non hanno un buon avvocato e non sanno tirare a lungo le cose.

ZAGREBELSKY - Naturalmente questione morale e questione legale sono strettamente legate. La legge è pur sempre un riflesso di un modo di concepire la vita sociale, secondo un punto di vista che è denso di contenuto etico, che rinvia a un’idea di vita buona, anche se è la legge più permissiva, più liberale del mondo. La libertà comporta un’etica della libertà. Ma in Italia la corruzione politico-amministrativa - e con questa alludo alla corruzione dei meccanismi della pubblica amministrazione come l’alterazione delle gare pubbliche, la compravendita di provvedimenti della pubblica autorità, insomma a tutti quei reati che hanno come vittime non singole persone concrete, ma la società nel suo complesso - viene considerata molto poco grave. Quando il soggetto passivo è "il pubblico", la coscienza etica si affievolisce. Sembra che ci sia un’idea pervasiva, che ha corrotto le nostre coscienze, secondo la quale ciò che è di tutti - ciò che è pubblico - per questo è di nessuno, non merita di essere difeso, può essere oggetto di spoliazione privata. E così da noi chi viene preso con le "mani nel sacco" sa di aver fatto, in fondo, ciò che molti altri, se ne avessero la possibilità, farebbero. Molte denunce, molte iniziative giudiziarie sono in realtà poco più che un omaggio ipocrita alla virtù. Ma basta lasciar passare un poco di tempo e tutto ritornerà come prima, anzi, in certi casi, peggio di prima. Quanti casi sapremmo indicare di persone incappate in "incidenti" giudiziari che ne sono usciti, in un modo o in un altro, rafforzati negli ambienti in cui operavano e continuano poi a operare?

Nel nostro paese i crimini dei "colletti bianchi" - come si diceva una volta - sono sostanzialmente impunibili, perché tra condoni, indulti, norme che accorciano i termini di prescrizione eccetera, è praticamente impossibile arrivare a sentenze di condanna e poi all’esecuzione delle sentenze. E questa, secondo me, non è causa di corruzione, ma conseguenza di un certo modo di vedere le cose, quando di mezzo c’è "solo" l’interesse pubblico. Ritorno al mio chiodo fisso: quando parliamo di morale, forse fra noi tre c’è un certo accordo sul modo di concepirla, ma nel nostro paese?

Barbara Spinelli faceva riferimento alla grande idea di Montesquieu del potere che arresta il potere, radicata nella convinzione che il potere è, in sé, corruttivo. Il potere corrotto, per Montesquieu, è quello troppo forte, smodato. I regimi sani, per lui, sono i regimi moderati. Ma questa è una, una soltanto, concezione della buona politica, una concezione liberale. Oggi hanno preso piede idee e pratiche politiche che Max Weber avrebbe definito carismatiche. Il capo carismatico, quello al quale i suoi adepti affidano fideisticamente le proprie sorti e dal quale si attendono tutto il bene possibile, non sa che farsi dei limiti, dei contropoteri eccetera. Li considera degli impacci, delle forme di corruzione del potere ch’egli vuole forte perché grande è l’attesa che gli adepti ripongono nel loro salvatore. Ecco, ancora una volta, la relatività dei punti di vista. Perfino l’imbroglio, la corruzione, il furto, il delitto, si giustificano quando la causa è grande e i leader carismatici non si accontentano di una piccola politica: vogliono il potere di fare tutto perché i fini che sbandierano sono grandi, storici, epocali, perché i nemici contro cui combattere sono potenti, pericolosi, subdoli. Perfino il "bossismo", la caricatura del regime carismatico (bossismo non nel senso di Bossi, ma del potere del "boss"), ha bisogno di ideali per giustificarsi e per giustificare l’uso spregiudicato di ogni mezzo possibile.
Nel nostro paese le reazioni all’illegalità sono così diverse proprio perché diverse sono le concezioni delle relazioni politiche e sociali alle quali - consciamente o inconsciamente - ci si ispira. Se si vuole, con una semplificazione, per l’una "il fine non giustifica i mezzi", mentre per l’altra, altrettanto classica, "il fine giustifica i mezzi".

La Repubblica (eddyburg)

Nella polvere rimossa della nostalgia - La materia del ricordo

di Alessandro Portelli

Un'esplorazione dello spazio urbano e un censimento affettivo degli oggetti che lo costellano, elementi indispensabili ad assemblare un libro sulla «Geografia della memoria». A Ostia il quinto appuntamento artistico con il ricordo
C'è una canzone di Dolly Parton, diva country esageratamente sexy ma non per questo poco intelligente (un'altra sua canzone dice, «giusto perché sono bionda non pensare che sono scema»), in cui descrive la povera casa di montagna in cui è cresciuta, col vento e la neve che si infilavano nelle fessure fra i tronchi, e la famiglia amorosamente raggomitolata per riscaldarsi. E dice: «tutto l'oro del mondo non basterebbe per portarmi via i ricordi che ho di quel tempo; tutto l'oro del mondo non basterebbe a riportarmi indietro e viverlo ancora». In una frase sola, Dolly Parton concentra alcune delle tensioni esplorate nel mirabile e complesso libro di Antonella Tarpino, Geografia della memoria (Einaudi, pp. 238, euro 17): la casa come luogo e metafora della memoria, anzi delle memorie - una memoria referenziale che evoca una condizione, uno stile di vita (nel libro di Tarpino, soprattutto i Sassi di Matera ma anche il quartiere operaio di Falchera a Torino), e la «memoria affettiva» di una «casa della mente» (in Geografie della memoria, soprattutto le case letterarie di Foster e James). «La memoria - scrive Tarpino - è un elemento perturbante nel flusso della vita, insidia i contorni di ciò che vediamo confondendoli con i ricordi di quel che abbiamo già visto, mescola le emozioni del presente con quelle trascorse. Eppure, in questa contesa estenuante, la memoria cerca di tenere insieme i diversi volti del nostro racconto nel tempo». In questa definizione, mi pare che la parola chiave sia «cerca»: la memoria, cioè, non come deposito di dati ma come soggetto attivo, lavoro costante, ininterrotto, mai finito. E anche se le memorie possono apparire «imprigionate» negli oggetti o «congelate nelle pietre di antichi quartieri», in realtà penso che certe volte succeda il contrario, cioè che siano gli oggetti ad essere avvolti dal lavoro della memoria che continuamente ne cambia il senso e la percezione.
Così, il libro di Antonella Tarpino esplora l'incessante viaggiare fra una dimensione archetipica della memoria e una sua dimensione storica, mutevole. Da un lato, la memoria è costitutiva degli individui e dei gruppi sociali, che senza di essa non esisterebbero come tali («Memoria e spazio, una polarità che, negli studi di Leroi-Gourhan, si riconosce costitutiva, fin dalle origini della vita dei gruppi umani»; una memoria affettiva «che affonda le radici del substrato emotivo della propria storia intima là dove l'esistenza ha avuto inizio» e si concretizza spazialmente nella «casa della mente»). Dall'altro, la memoria è una relazione che individui e gruppi intrattengono dialogicamente con se stessi passati e con gli oggetti e gli spazi che al passato rimandano, e che quindi cambia con il cambiare di chi ricorda e del suo rapporto con il ricordato.
Tarpino esplora soprattutto la prima dimensione nelle pagine sui Sassi di Matera; la seconda - quella che giustamente chiama «storia della memoria» - nel capitolo su La casa Howard di E. M. Foster e Ritratto di signora di Henry James, e le loro versioni cinematografiche di James Ivory e di Jane Campion. Entrambi i testi letterari esplorano, in modo diverso, la relazione fra una struttura sociale incorporata nelle case e negli oggetti, e la sua crisi rappresentata dall'intrusione di nuovi oggetti e nuove soggettività. Così, nel libro di Foster, l'automobile diventa la figura di quella che l'autore chiamava «architettura della fretta», «civiltà del bagaglio», «età della collera e dei telegrammi» - figura e insieme strumento della moderna mobilità ossessiva e della labilità dei rapporti rispetto alla permanenza e stabilità affettiva della casa.
Paradossalmente, è proprio l'accuratezza filologica della ricostruzione filmica di Ivory a trasformare il senso dell'intera vicenda. Nel film, infatti, quegli oggetti che nel romanzo rappresentano l'irruzione lacerante nel nuovo, diventano essi stessi oggetti di antiquariato coperti da una patina di nostalgia: quelle automobili che ancora cercano di somigliare a carrozze, per esempio. Non sono cambiati gli oggetti, siamo cambiati noi (e ancora paradossalmente, direi, questo non avviene nella lettura, dove gli oggetti siamo chiamati a raffigurarceli anziché vederli raffigurati da qualcun altro sullo schermo) e quindi cambia il nostro lavoro della memoria e il significato che costruiamo ricordando.
Il lavoro della memoria, dunque, è capace di modulare anche il senso di spazi destinati a trasmettere nel tempo un significato il più stabile e fisso possibile, come i monumenti. È quello che Tarpino mostra eloquentemente nel capitolo dedicato a Oradour, il villaggio distrutto con tutti i suoi abitanti uccisi nella più tremenda strage nazista in terra di Francia. All'interno di una vera e propria battaglia fra la memoria dolente del luogo e i tentativi di autoassoluzione della memoria nazionale, le rovine del villaggio distrutto sono state preservate «a custodia imperitura» come le avevano lasciate i nazisti, accanto al paese ricostruito poco più in là. A lungo, la vita stessa del villaggio ricostruito è parsa come congelata nel tempo della sua stessa fine, rappresentata da quelle rovine. Ma anche qui, la precisione filologica del restauro e della preservazione ha generato la stessa modulazione di senso: gli oggetti di una vita quotidiana recisa brutalmente in un solo colpo, le insegne dei mestieri di un tempo, gli arredamenti delle case, accuratamente preservati nel loro stato di allora, fanno di Oradour una piccola Pompei della modernità, conservano agli occhi dei sopravvissuti i resti della casa della loro infanzia, e questo monumento alla crudeltà nazista diventa anche un luogo di memoria e persino di nostalgia di un modo di vita scomparso e ricordato.
Insomma, come il tempo trasforma in antico ciò che era nuovo, così il cambiare dei soggetti nel tempo aggiunge sempre nuovi strati di senso alla loro relazione con gli spazi e le cose del passato.
C'è molto di più in un libro come questo, che attraversa psicologia, sociologia, architettura, urbanistica, letteratura, storia e ricompone tutte queste competenze in una sintesi più ricca e complessa. Forse avrei voluto che accanto agli spazi e alle case si fosse dedicato altrettanto approfondimento alle persone che ricordano (come avviene almeno nel capitolo sulla Falchera), e mi sarebbe stato utile un indice analitico. Ma il libro ci può servire da guida nei nostri movimenti e nel nostro abitare di oggi. Leggendo come a Oradour si sono protetti e preservati anche i buchi dei proiettili nelle mura della chiesa dove furono uccisi donne e bambini, mi sono ricordato di quando insistemmo a Roma perché non venissero cancellati i buchi delle pallottole naziste sui muri di via Rasella. E quando cammino nel mio quartiere, la descrizione della compresenza alla Falchera fra l'urbanistica industriale moderna e i resti dei casali e delle cascine rurali mi aiuta a riconoscere, in mezzo e sotto alle palazzine della speculazione edilizia, quello che rimane delle case semirurali di borgata e delle botteghe artigiane di poco più di una generazione fa. Ogni oggetto, ogni spazio, ci insegna Geografia della memoria, è insomma come quei winter counts che i nativi del Nord America dipingevano sulle pelli di bisonte, inverno dopo inverno, come annali pittografici della loro storia: «testi» che non ci raccontano il passato ma che inducono, e ci aiutano, a rievocare la nostra relazione con i tempi molteplici di cui noi, le nostre cosa e le nostre case, siamo fatti.
ilmanifesto.it

"Io, Gelli e la strage di Bologna". Ecco le verità della super-spia

Il personaggio. Dopo 13 anni di carcere parla Francesco Pazienza
L'uomo dei misteri d'Italia rivela: lingotti per aiutare Walesa


di MILENA GABANELLI

"Che fine ha fatto?" mi chiedo guardando la foto su un catalogo che sto per buttare. Il suo nome era comparso sui giornali nel 1982 con la qualifica di "faccendiere". Le ultime tracce le trovo su internet: uscito dal carcere di Livorno, sta scontando gli ultimi mesi di pena presso la Pubblica Assistenza di Lerici. Francesco Pazienza ha scontato 10 anni per depistaggio alle indagini sulla strage di Bologna, altri 3 per il crac Ambrosiano e associazione a delinquere. Amico di Noriega, frequentatore dei servizi segreti francesi, americani e sudamericani, nel 1980 è a capo del Super Sismi.

Braccio destro di Licio Gelli, il suo ambiente è il sottobosco di confine fra l'alta finanza e l'alta criminalità, l'alta politica e il Vaticano. Protagonista delle vicende più tragiche della storia italiana degli anni '80, è depositario di informazioni mai rivelate, altre raccontate a modo suo. Laureato in medicina a Taranto, non ha mai indossato un camice. Negli anni '70 vive a Parigi e fa intermediazioni d'affari per il miliardario greco Ghertsos. Poi l'incontro con il capo del Sismi, Santovito. Grandi alberghi, yacht, belle donne, sigari rigorosamente cubani e tagliasigari d'oro... Un'altra epoca. Adesso ha 62 anni e fuma le Capri, mentre cammina da uomo libero sul lungomare di Lerici.

Cominciamo dall'inizio: come avviene l'incontro con Santovito?
"Me lo presentò l'ingegner Berarducci, oggi segretario generale dell'Eurispes. Santovito era suo zio, e mi chiese di fare il suo consulente internazionale".

E perché Santovito le dà questo incarico senza conoscerlo prima?
"Sa, io parlavo diverse lingue e avevo un sacco di relazioni in giro per il mondo. Normalmente non avviene così, ma all'epoca era quasi tutto improntato all'improvvisazione".

E in cambio cosa riceveva?
"Rimborso spese. Siccome non avevo bisogno di soldi, era quello che volevo: se volevo andare a New York in Concorde, andavo in Concorde. Mi sembrava tutto molto avventuroso".

Si dice che lei sia stato determinante nella sconfitta di Carter contro Reagan.
"La storia comincia con Mike Ledeen a Washington, che mi aveva presentato Santovito; lui dirigeva il Washington Quarterly e faceva capo ad una lobby legata ai repubblicani (e alla Cia-ndr). Così gli dico: "Guarda che quando c'è stata la festa per l'anniversario della rivoluzione libica, il fratello di Carter ha fraternizzato con George Habbash", che era il capo del Flp. E a quel punto disse: "Se tu mi dai le prove , noi possiamo fare l'ira di Dio"".

E le prove come se le era procurate?
"Attraverso un giornalista siciliano, Giuseppe Settineri, che io mandai con un microfono addosso ad intervistare l'avvocato Papa, che faceva il lobbista e aveva partecipato alla festa di Gheddafi. Lui raccontò per filo e per segno tutto quello che era successo. Le foto dei festini me le avevano fornite Michele Papa e Federico Umberto D'Amato, la testa degli affari riservati del Viminale".

Il Viminale ha dunque interferito nelle elezioni di un paese alleato?
"Sissignore, però la débacle ci sarebbe stata ugualmente, ma non in misura così massiccia".

Lei, che non è un militare, diventa capo del Super Sismi. Cos'era?
"Il Super Sismi ero io con un gruppo di persone che gestivo in prima persona".

Marzo 1981, le Br sequestrano l'assessore campano Cirillo. Lei che ruolo ha avuto?
"Un ruolo importante. Fui sollecitato da Piccoli, allora segretario della Dc. Incontrai ad Acerra il numero due della Nuova Camorra Organizzata di Cutolo, Nicola Nuzzo. Mi disse che in dieci giorni Cirillo sarebbe stato liberato, e così è stato".

Chi ha pagato?
"Non i servizi. Il giudice Alemi disse di aver scoperto che furono i costruttori napoletani a tirar fuori un miliardo e mezzo di lire, che finirono alle Br".

Piccoli cosa le ha dato per questa consulenza?
"Niente, assolutamente niente, eravamo amici, non c'era un discorso mercantilistico". (Del miliardo e mezzo, alle Br finiscono 1.450 milioni. Chi ha imbustato i soldi del riscatto sarebbe Pazienza, che, secondo vox populi, avrebbe taglieggiato le Br tenendo per sé 50 milioni).

A gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano viene piazzata una valigia con esplosivo della stessa composizione di quello usato nella stazione di Bologna... Ci sono dei documenti intestati a un francese e un tedesco, indicati dai servizi come autori di stragi avvenute a Monaco e Parigi. Si scoprirà poi che si trattava di depistaggio.
"Il depistaggio è stato fatto dal Sismi per non fare emergere la vera verità della bomba di Bologna. Secondo l'allora procuratore Domenico Sica c'era di mezzo la Libia, e coinvolgerla in quel momento avrebbe voluto dire tragedia per la Fiat e per l'Eni. Vada negli archivi delle sedute parlamentari: il 4 agosto 1980, Spadolini in persona presentò un'interrogazione parlamentare in cui attribuiva la bomba di Bologna a origini straniere mediorientali".

Ma qual era l'interesse mediorientale?
"L'Italia non poteva sottrarsi agli obblighi Nato, e quindi doveva fare un accordo con Malta, per proteggerla in caso di attacchi del colonnello Gheddafi. L'accordo fu firmato, e Gheddafi fece la ritorsione. Ustica porta la stessa firma. Me lo ha raccontato Domenico Sica. Quando tolgono il segreto di Stato la verità salterà fuori".

Lei è stato condannato a 10 anni per depistaggio, qualche prova a suo carico evidentemente c'era, i servizi segreti li comandava lei.
"Le prove a mio carico erano dovute al fatto che sono stato il braccio destro, mandato dagli americani, per sostituire Licio Gelli alla guida della P2. E siccome Gelli era il motore primo del depistaggio, io che ero il suo braccio destro, automaticamente...".

Quando è scoppiata la bomba a Bologna dov'era?
"A New York".

84 morti e 250 feriti, nel suo paese. Lei è consulente del Sismi, non ha pensato: "Adesso bisogna trovare chi è stato"?
"Io no. Perché non è mio compito. I servizi segreti sono come un'azienda. Giusto? Se tu ti occupi di una cosa, non è che dici "adesso parliamo di Bologna, parliamo di Ustica"...".

1982. Calvi viene impiccato sotto un ponte. Si è parlato di un suo coinvolgimento.
"Sì, e qual era il mio interesse? Io non sono stato mai neanche indagato nell'omicidio Calvi. La sua morte è un mistero anche per me, comunque non si uccide Calvi a livello di Banda della Magliana... E non mi venga a dire che l'MI5 non sapesse che Calvi si trovava a Londra da giorni! I giochi di potere erano molto più grossi. Capisce cosa voglio dire?".

No.
"La morte di Calvi e lo scandalo del Banco Ambrosiano avrebbero imbarazzato pesantemente il Vaticano, che insieme all'Arabia Saudita voleva Gerusalemme città aperta a tutte le religioni, e Israele era contrario. Poi c'era lo scontro politico interno italiano, c'erano i comunisti, che hanno preso una valanga di soldi dal Banco Ambrosiano. Non è così semplice dire è A, B o C".

Di chi erano i soldi che andavano verso la Polonia?
"Arrivavano dai conti misti Ior-Banco Ambrosiano. L'organizzatore era Marcinkus d'accordo con papa Wojtila. Sono stato io a mandare 4 milioni di dollari in Polonia".

Ma come ha fatto tecnicamente?
"Vicino a Trieste, abbiamo fatto preparare una Lada col doppio fondo e dentro c'erano 4 milioni di dollari di lingottini d'oro di credito svizzero. Era aprile 1981, un prete polacco venne a ritirare questa Lada e la portò a Danzica. Qual era il discorso? Agli operai in sciopero non potevamo dare gli zloty, né i dollari perché i servizi segreti polacchi se ne sarebbero accorti. Anche perché lei può fare il patriota come vuole, però se a casa ha 4 bambini e non ha come farli mangiare, lo sciopero non lo fa. Giusto?".

Ma lei perché si portava su un aereo dei servizi segreti un ricercato per tentato omicidio, braccio destro di Pippo Calò, capo della banda della Magliana?
"Lei sta parlando di Balducci. Io sapevo che era uno strozzino, ma non è mai salito su un aereo dei servizi. Usava lo pseudonimo di Bergonzoni e una volta lo feci passare a Fiumicino mentre proveniva da Losanna. Era un favore che mi chiese il prefetto Umberto D'Amato, suo amico intimo". (Per questo "favore" Pazienza fu condannato per favoreggiamento e peculato: fu accertato che aveva trasportato, su un aereo dei servizi , il latitante Balducci sotto falso nome).

Nell'84 lei deposita da un notaio un documento intitolato "operazione ossa". "Ossa" starebbe per Onorata Società Sindona Andreotti. Che cos'era?
"All'epoca c'era il pericolo che Sindona potesse inventare dei coinvolgimenti di Andreotti in questioni di crimini organizzati. Bisognava capire cosa volesse fare Sindona per tirarsi fuori dai guai prima di rientrare in Italia quando si trovava nel carcere americano di New York".

Ci siete riusciti?
"Non c'è stato bisogno di fare nessuna misura attiva, ne abbiamo fatta una conoscitiva".

La misura attiva qualcuno l'ha fatta quando è finito nel carcere italiano...
"Qui parliamo del 1986. Nel carcere italiano ha bevuto un caffè di marca Pisciotta...".

Lei in quante carceri ha soggiornato?
"Alessandria, Parma e alla fine a Livorno.
Complessivamente ho fatto 12 anni di carcere gratis".

Non si ritiene colpevole di nulla?
"Zero. Le racconto una cosa, 30 marzo 1994: un maggiore della Dia, nome M. cognome M. mi dice: "Lei è un uomo informatissimo, ci deve raccontare di come portava le lettere di Fabiola Moretti (compagna di De Pedis, componente della banda della Magliana, coinvolto nel rapimento di Emanuela Orlandi-ndr) al senatore Andreotti, nel suo ufficio privato. Sa, fra poco esce la sentenza di Bologna, e noi la mettiamo a posto". Io gli ho detto: "A me di Andreotti non importa niente. Il problema è che quel che lei mi chiede di ricordare non è vero". Avevo il microfono addosso. Sa qual è la cosa comica? Che molti pensano che io sapessi di questo e di quell'altro e che non ho detto niente perché sono un duro. Non ho detto niente perché non sapevo. Capisce la differenza?".

Quando è uscito dal carcere dove è andato?
"A casa dei miei genitori, comunque non è un problema ricominciare da capo".

Cosa fa ora per sbarcare il lunario?
"Il consulente per transazioni internazionali. Sto trattando un cementificio in Africa".

Come pensa di ricostruirsi una credibilità?
"La storia non è finita, sta cominciando il secondo tempo".

Erano 25 anni che volevo incontrare il grande faccendiere. Una curiosità tutta personale, volevo vedere in faccia l'uomo che ha fatto da cerniera in tutti i misteri profondi di questo paese. Ci vuole grandezza anche per essere protagonisti di grandi drammi. Invece si incontrano delle comparse, figure che si dimenticano. Sembrano scelte apposta.

Cosa ricordo io di quel 2 agosto? Ero andata a prenotare delle cuccette. Nell'atrio tanta gente che andava e veniva, in un sabato di ferie, e i ragazzini che fanno sempre un gran casino, fra la biglietteria e il marciapiede del binario 1. L'immagine successiva non ha sonoro: è quella di un luogo irriconoscibile coperto dalla polvere. E poi il bianco di un lenzuolo che attraversa la città, appeso alle porte di un autobus. Per qualche anno, ho avuto paura tutte le volte che andavo in stazione. Da 15 anni prendo un treno tutte le settimane, vado di fretta, e non guardo mai lo squarcio coperto da un vetro, non guardo mai l'orologio fermo alle 10.25. Ogni anno il 2 agosto osservo da lontano la gente che si raduna per commemorare. Qualche volta mi viene da piangere.

larepubblica.it

29.1.09

Se l'architettura fa solo spettacolo

di Vittorio Gregotti

La logica dell’architettura dello spettacolo e non dell’uso, uccide la città e i suoi cittadini.

Sono molti anni che vado scrivendo, e non sono il solo, intorno alla necessità per l’architettura di una sua fondazione a partire da una distanza critica rispetto al reale empirico su cui la società è fondata e come costituzione di possibilità altre, agite per mezzo della forma delle specificità della essenza della nostra disciplina. Una predicazione assai poco ascoltata constatando il successo mediatico (che si è sostituito ampiamente alla riflessione critica) delle architetture-spettacolo autoreferenziali dei nostri anni.
Alla discussione tra uso e spettacolo in architettura è dedicato un recente libro, a cura di Anthony Vidler, costituito da undici testi nati da un seminario intorno all´argomento dal titolo Architecture Between Spectacle and Use (Yale University Press - New Haven and London pagg. 189). La discussione muove a partire dalla nozione di «società dello spettacolo», promossa quarant’anni or sono dal celebre libro di Guy Debord, e analizza le idee di forma, di monumento (che è però cosa ben diversa dallo spettacolo) messe in questione dalla nostra instabilità sociale omogenea, che istituisce nuove connessioni tra architettura, moda, design e arti visuali che proprio a causa del loro stato di incertezza si diffondono con confusione spettacolare su ogni cosa ed ambiente. A sua volta nei testi del libro la forma architettonica è confrontata con la nozione di uso funzionale e sociale e le loro attuali deformazioni e con le loro connessioni con i principi della costruzione, principi che sono altra cosa rispetto a quelli della produzione, dipendendo sempre più questi ultimi direttamente dalle leggi del mercato e dalla necessità di comunicazione pubblicitaria.

Hal Foster, uno degli autori scrive giustamente, rovesciando la frase di Debord che definisce lo spettacolo come il capitale accumulato sino al punto di diventare immagine, di come essere oggi sia «un’immagine accumulata a tal punto da diventare capitale».
Si potrebbe osservare come da questa discussione siano, per forza di cose, escluse alcune tipologie architettoniche che sono state protagoniste della storia dell’architettura come chiese, palazzi, piccoli edifici privati, case popolari ed in generale gli aspetti connessi al disegno urbano. Sarah Goldhagen parla è vero, nel suo scritto, di «disegno urbano spettacolare» domandandosi però alla fine che sarebbe importante sapere di quale spettacolo si tratti, ma il tessuto urbano con i suoi enormi problemi è escluso dal discorso, anche se gli esempi antichi certo non mancano.

Ovviamente ci dovremmo anche chiedere perché la storia dell’architettura era in genere costruita sulla successione di grandi fatti monumentali spettacolari perché, pubblicamente e collettivamente significativi. Almeno per ciò che concerne la provvisorietà che è connessa all’idea di spettacolo, perché l’esibizione del potere ha sempre richiesto la costruzione di qualche ambiente in funzione cerimoniale. Anche a quello probabilmente «il pubblico dei più» era chiamato solo ad assistere mentre nella democrazia formale dei nostri anni esso partecipa attivamente come consumatore senza comunque guidarne le ragioni e sviluppi, coadiuvata dalla riproducibilità tecnica dei prodotti, persino nella loro variazione.
Certo anche, Benjamin aveva scritto del tramonto del valore culturale di classe a favore di quello espositivo, ma la società è ben lungi dall’essere una società liberata: forse neanche più una società riconoscibile come tale.

Anche per questo «lo spettacolo», compreso quelle delle arti visive oltre che dell’architettura, ha accelerato i suoi ritmi nello stesso tempo espandendoli nello spazio del mondo globalizzato, accostandoli all’incessante rinnovamento delle merci ed all’idea del colossale: la grandezza fisica vorrebbe coincidere con la grandezza del senso: «Non avendo abbastanza da fare - scrive nel libro Mark Wigley - gli architetti sovente fanno troppo». Così la diffusione sostituisce la durata (cioè, la metafora dell’eternità inseguita un tempo dalle arti) con la «bigness», l’eccesso, la novità come valore in sè, per mezzo del riutilizzo dei linguaggi delle avanguardie del primo trentennio del XX secolo sostituendo con lo scandalo spettacolare la loro ribellione e con la progressiva radicale riduzione dell´iniziativa della pubblica utilità; sino al tentativo populista di trasformare in spettacolo la constatazione del banale costruendo su di esso un’intera estetica.

Il grande storico Michael Baxandall scriveva «Lo stile è un documento di storia sociale» ed in questo senso lo «spettacolismo» è anch’esso un documento della storia sociale dei nostri anni ma certo il documento non è la stessa cosa delle opere dell’arte: e le due cose, credo, non vadano confuse.
E’ dunque ben riconoscibile in questa vittoria «dello spettacolo sull’uso» una logica precisa del potere della merce, anche se una logica fatale ai destini dell’architettura dei paesaggi e delle città. E, ciò che è assai peggio, dei loro cittadini.

La Repubblica (eddyburg)

I grandi colpevoli tutti a Davos

di Galapagos
I protagonisti del World Economic Forum sono correi dell’attuale crisi mondiale che assume contorni sempre più spaventosi per i più deboli.

Se il prossimo anno, come promesso da Obama, Guantanamo sarà svuotata potrebbe essere utilizzata per trasferirci il meeting di Davos. Buttando via la chiave, perché il mondo vivrebbe meglio. Come da tradizione, nello scenario da cartolina - Davos coperta di neve - per ora i grandi della terra sono da ieri in conclave. Partecipare costa caro - 40 mila euro la quota di iscrizione - ma non per i circa 1.500 rappresentati del mondo finanziario provenienti da tutto il mondo. Quest'anno al centro del World Economic Forum è la ricerca di una strategia di uscita dalla crisi. La cronache ci dicono che sono assenti un po' di banchieri: pochi finiti in carcere, altri «dimissionati» per salvare la faccia. Aver eliminato un po' di mele marce non rende il meeting svizzero una cosa seria e pulita: la maggior parte dei presenti è almeno correa del tracollo dell'economia mondiale.

Dalla relazione introduttiva abbiamo saputo che nel 2009 il Pil mondiale per la prima volta dal 1944 dovrebbe diminuire, nonostante il Fmi internazionale insista su un aumento dello 0,5%. Ma che fiducia possiamo dare al massimo organismo monetario internazionale che da anni non ne azzecca una? Ovviamente nessuna. E ieri abbiamo avuto l'ultima conferma dall'aggiornamento del Global Financial Stability Report che ha rivisto le cifre sul deterioramento potenziale degli asset originati negli Stati uniti a «2.200 miliardi di dollari dai 1.400 previsti appena in ottobre»: in appena tre mesi un errore di oltre il 50%. Roosevelt appena insediato alla presidenza degli Usa fece una dichiarazione di fuoco contro le banche che avevano distrutto l'economia. La sua analisi è attualissima. E la conferma l'abbiamo avuto dal Global Employment Trends pubblicato dall'Ilo, l'ufficio internazionale del lavoro, uno dei bracci dell'Onu. Con maggiore prudenza del Fmi (ma anche dell'Ocse, della Bce o della Banca mondiale) l'Ilo presenta tre scenari delle conseguenze della crisi sul lavoro nel 2009: nell'ipotesi più favorevole saranno distrutti nel mondo 18 milioni di posti di lavoro; in quella peggiore 51 milioni.

I senza lavoro aumenteranno di una cifra pari all'1% della popolazione mondiale, neonati compresi. Ma non è solo la disoccupazione a preoccupare l'Ilo che annuncia anche un incredibile aumento dei lavoratori poveri e del loro potere d'acquisto. La crisi come sempre la pagano i lavoratori, ma a Davos sembrano non accorgersene e si discute soprattutto di come salvare il sistema finanziario sul quale sono già piovuti centinaia di miliardi di aiuti pubblici. Molte banche sono già state nazionalizzate, altri centinaia di miliardi sono pronti a essere girati alle banche per rilevare i bond tossici emessi dalle stesse banche. E quando (ma quando?) il sistema sarà risanato il tutto sarà riprivatizzato. A Davos uno degli ospiti d'onore è il mitico Soros. Per chi ha la memoria corta il finanziere svizzero fu quello che nel 1992 mise in crisi la sterlina e la lira. Il risultato fu l'uscita delle due monete dallo Sme (il sistema monetario europeo) una svalutazione pesantissima e - per l'Italia - una stangata senza precedenti da oltre 90 mila miliardi di lire (governo Amato) che mandò in recessione il paese con quasi un milione di nuovi disoccupati.

Soros passa per essere una persona per bene: un capitalista perfetto che guadagna tantissimo e si libera la coscienza girando miliardi di dollari alla sua Ungheria. Tutto «regolare» insomma. Così regolare che Soros in una intervista pubblicata ieri ha confessato che sta puntando parecchi soldini ancora una volta contro la sterlina giocando al ribasso, puntando sulla svalutazione della valuta e destabilizzando l'economia della Gran Bretagna. Ma si sa la speculazione è il sale del capitalismo.

ilmanifesto.it

Google, “operazione Glasnost” sul traffico di dati online

Molti utenti sono abituati a scaricare canzoni, filmati, testi. Ma può succedere che i trasferimenti di file siano troppo lenti. Da chi dipende? Dalle condizioni di accesso alla rete o dai computer dei navigatori? Google ha lanciato Measurement Labs, un laboratorio aperto per aiutare utenti e ricercatori a capire quali sono gli anelli deboli della catena. E per farlo avranno a disposizione alcuni strumenti. Glasnost, per esempio, è un’applicazione che permette di avere maggiori informazioni su una questione spinosa: se sono le società fornitrici di accesso a internet che limitano il download o l’upload con BitTorrent, il software peer to peer più usato nei paesi anglofoni (che, però, ha un vasto seguito anche in altre nazioni: eMule, invece, è il preferito di italiani, francesi e spagnoli). Semplificando, se paragonassimo i file alle automobili in viaggio sull’autostrada, Glasnost consente di capire se è stato imposto un limite di velocità sulle corsie. Il test completo dura sette minuti e non richiede l’installazione di software.
Ma gli obiettivi di Google sono ben più ambiziosi. Qual è la velocità effettiva della connessione? E che cosa potrebbe rallentarla? Network diagnostic tool analizza le comunicazioni in profondità: valuta la capacità del traffico di dati e, inoltre, è in grado di rilevare almeno due problemi in grado di rallentare i trasferimenti di file. Dice se il network è congestionato. Oppure se, invece, il limite dipende dal computer dell’utente (per esempio, a causa dei parametri di buffer size). Al momento il servizio non è disponibile perché è intasato da un’improvvisa ondata di richieste: meno affollato, invece, un sistema equivalente offerto dai laboratori del cern di Ginevra. Nei prossimi mesi saranno accessibili altri strumenti, più raffinati, come Diffprobe per sapere se alcuni contenuti sono classificati a “bassa priorità”.
Intendiamoci, le tecnologie accessibili adesso dal Measuremnt lab non sono una novità. Ma Google progetta di potenziare i “laboratori” online con 36 server in 12 località negli Stati Uniti e in Europa. È un passo per aiutare la consapevolezza degli utenti. E, allo stesso tempo, un tentativo di comprendere se sono discriminati alcuni servizi online compatibili con il modello di business di Google. Secondo il Wall street journal l’iniziativa nasce dall’esperienza del caso Comcast, un provider americano che rallentava il traffico di BitTorrent sulle sue linee. Sono stati alcuni ricercatori a scoprire il “limite di velocità” imposto all’insaputa dei clienti. L’antitrust americano delle comunicazioni (Fcc) ha protestato. E, dopo mesi di trattative, l’azienda ora filtra soltanto gli utenti che superano le soglie nelle ore di punta sulla rete. Cosa succederebbe, però, se in altre nazioni si scoprissero regolamentazioni non dichiarate?
panorama.it

23.1.09

Lezioni di razza - DISCRIMINATI A TEMPO INDETERMINATO

di Enrica Rigo
Alcune considerazioni sulla proposte di riforma dell'università e della scuola primaria a partire da un saggio dello studioso W.E.B Du Bois recentemente pubblicato

In un saggio del 1903 sul ruolo dell'educazione per il riscatto della «razza Negra» W.E.B. Du Bois scriveva: «Formeremo uomini solo se assumiamo a oggetto del lavoro nelle scuole la condizione stessa degli esseri umani - l'intelligenza, la sostanziale solidarietà, la conoscenza del mondo e le relazioni che gli uomini intrattengono con esso - è questo il curricolo di quell'Alta Formazione su cui si devono costruire le fondamenta di una vita reale» (The Talented Tenth, in The Negro Problem, New York 1903). La presa di posizione dell'intellettuale e leader afroamericano è accompagnata da un'instancabile polemica contro qualunque ruolo salvifico del lavoro, implicito nell'opposta visione impersonificata dall'altro leader nero a lui contemporaneo, Booker T. Washington, secondo la quale agli studenti dovrebbe essere insegnato «come guadagnarsi da vivere» (da Up to Slavery pubblicato originariamente da Washington nel 1901). Per nulla invecchiata, la riflessione di Du Bois è anzi profondamente in sintonia con l'Onda del movimento che dalla scuola all'università ha investito, tra Settembre e Dicembre, l'intero sistema formativo italiano criticando proprio quel nesso tra formazione e mondo del lavoro che più di un decennio di riforme ha tentato di far passare come desiderabile, oltre che come ineluttabile necessità.
Diritti transitori
Prendere come spunto di riflessione la polemica tra Du Bois e Washington consente di tematizzare entro uno schema coerente anche un'altra proposta che ha impegnato le cronache durante le ultime settimane, ovvero quella di istituire classi «ponte» per i bambini immigrati nelle scuole primarie, e di discuterla entro la questione più generale dell'accesso degli stranieri ai diritti di cittadinanza e, in particolare, all'istruzione. Nella mozione approvata in parlamento su proposta della Lega Nord - e ingannevolmente ammantata di ragionevolezza politica da una relazione introduttiva imbottita di dati - salta agli occhi la definizione della misura quale politica di «discriminazione transitoria positiva». Senza approfondire nel merito l'abuso con il quale viene utilizzata l'espressione discriminazione positiva (che pur con delle ambivalenze affonda le sue radici nella storia del movimento per i diritti civili americano e nella tradizione della Critical Race Theory) è proprio l'aggettivo «transitoria» che appare paradigmatico e inquietante. A essere considerata transitoria non è infatti la discriminazione, che se fosse introdotta perdurerebbe ovviamente a lungo, ma una condizione intrinseca alle migrazioni stesse per cui i migranti sono sempre visti come titolari di diritti pro tempore.
Nel caso specifico, l'introduzione di un canale di accesso parallelo e subalterno all'istruzione pubblica sarebbe addirittura giustificata da una duplice condizione transitoria: quella di essere immigrati e per giunta bambini. Questa transitorietà «destinata a protrarsi indefinitamente» - per utilizzare la bella espressione del sociologo algerino Abdelmalek Sayad - è carica di conseguenze sul piano politico, dal momento che ciò di cui si è espropriati quando si viene inchiodati alla contingenza presente è esattamente la possibilità di scegliere il proprio futuro, come non a caso denuncia anche uno degli slogan del movimento dei mesi scorsi.
Stanziali per legge
Questo approccio alle migrazioni acquisisce un significato ulteriore se si considerano alcune linee di tendenza che emergono dalle più recenti politiche europee e che puntano a realizzare un modello che la Commissione definisce come circular migration (una serie di articoli sull'argomento sono reperibili nel sito www.carim.org/circularmigration). Non si tratta più della «transitorietà» con la quale è stata gestita in molti paesi europei la manodopera immigrata nel dopoguerra, per cui i «lavoratori ospiti» erano incentivati a rientrare nei paesi di provenienza una volta soddisfatto il fabbisogno di forza lavoro; tanto meno siamo di fronte a una transitorietà che conduce virtuosamente verso la cittadinanza. Una delle specificità del sistema della Blue card che la Commissione europea vorrebbe introdurre per gestire a livello comunitario la manodopera immigrata «altamente qualificata», e che la differenzia, per esempio, dalla Green card statunitense, è esattamente quella di non dare accesso alla cittadinanza né, almeno in prima battuta, alla residenza permanente.
A ben guardare, è proprio in questo dispositivo, pensato per attrarre tecnici e ingegneri formati in paesi di economie emergenti come quella di Cina o India, che si possono scorgere caratteristiche specifiche e esiti politici di una formazione improntata a «rispondere in modo effettivo e puntuale alla domanda fluttuante di lavoratori immigrati altamente qualificati (ed a compensare le carenze di competenze attuali e future)» (si vedano la relazione alla proposta di direttiva comunitaria e i lavori della High Level Conference on Legal Immigration tenutasi a Lisbona nel settembre 2007). Il «premio» che i lavoratori altamente qualificati ottengono con la Blue card è costituito, infatti, da un alto grado di flessibilità e mobilità fisica nello spazio europeo, coniugata all'immobilità del proprio status giuridico - e quindi sociale - di fronte ai diritti di cittadinanza. In altre parole, l'artificiosa temporalità imposta dall'ordinamento giuridico alle migrazioni acquisisce, in questo contesto, il significato di gestione duratura del transito e della circolazione di manodopera attraverso un dispositivo che differenzia permanentemente l'accesso dei migranti ai diritti. Nessuno stupore, quindi, che tra gli obbrobri giuridici già sperimentati dal sistema possa essere concepita anche una «discriminazione transitoria positiva» di cui i bambini dei migranti porteranno addosso i segni in permanenza.
Prima di tornare alle splendide pagine di Du Bois sull'eccellenza che sola può salvare e far progredire le razze, è opportuno introdurre un ulteriore elemento di riflessione. Per ottenere la Blue card, oltre a una formazione altamente qualificata testimoniata da un diploma riconosciuto, sarà necessario presentare un contratto di lavoro con una retribuzione prevista di almeno tre volte superiore al salario minimo. Ma che cosa accadrebbe se un illuminato liberale, convinto assertore dell'autonomia contrattuale, decidesse di assumere come badante un'astrofisica laureatasi in un'università dell'Unione Sovietica o come giardiniere un raffinato linguista formatosi in qualche paese del Medio Oriente e di pagarli il triplo del salario minimo? Simili casi non sono certo previsti dalla direttiva che, prevedendo accessi separati alla mobilità, si illude di poter ignorare e liquidare come una massa indifferenziata di cittadini «illegali» i migranti vivono e lavorano qui ricevendo anche meno del salario minimo.
Adulatori della mediocrità
La domanda è certo posta in modo provocatorio, ma è contro l'incapacità di vedere l'eccellenza che Du Bois dirige il suo sarcasmo più feroce: ovvero, contro «I ciechi adulatori della Mediocrità che gridano allarmati: queste sono eccezioni, guardate qui morte, disastri e crimine - sono loro la regola compiaciuta!». Ed è sempre l'autore del classico manifesto nero The Souls of Black Folk (New York 1903) a ribattere che è stata proprio la stupidità di una nazione che ha sistematicamente umiliato i talenti ad avere fatto della mediocrità la regola. Una stupidità simile a quella per cui nelle università italiane il numero di stranieri iscritti è pari al 2,2 %, contro una media Ocse superiore al 7,5 % e che in paesi come Inghilterra e Germania raggiunge punte percentuali a due cifre. Un dato, questo, senza dubbio da imputare alle incredibili difficoltà delle procedure per ottenere un visto per studio o per convertire un permesso di soggiorno per studio in lavoro, ma specchio, altresì, dell'inadeguatezza di un'offerta formativa che pur blaterando di flussi di capitale si ostina a chiudere gli occhi di fronte a quelli umani. E ancora, la stessa stupidità che mentre è intenta a proporre accessi subalterni all'istruzione primaria non si accorge che le occupazioni e le mobilitazioni nelle scuole hanno coinvolto istituti dove l'incidenza dei bambini stranieri è altissima, e dove le loro famiglie sono impegnate, accanto alle altre, in difesa della scuola pubblica. Perché, scrive ancora Du Bois: «Non abbiamo diritto a stare in disparte in silenzio mentre si gettano i semi di un raccolto di disastro per i nostri bambini, neri e bianchi».
ilmanifesto.it

20.1.09

Presidente, Roosevelt non basta

PAUL KRUGMAN

Caro Signor Presidente, come FDR (Franklin Delano Roosevelt) tre quarti di secolo fa, Lei sta entrando in carica in un momento in cui tutte le vecchie certezze sono svanite, tutta la saggezza acquisita si è rivelata fallace. Viviamo in un mondo che né Lei né nessun altro si aspettava di vedere. Molti Presidenti devono fare i conti con una crisi, ma pochi sono stati costretti a fare i conti dal primo giorno con una crisi al livello di quella che l’America affronta ora. Perciò, che cosa dovrebbe fare? In questa lettera non cercherò di offrire consiglio su tutto. Per lo più mi atterrò all’economia, o ad argomenti che si basano sull’economia. La misura del successo o del fallimento della sua amministrazione dipenderà in larga misura da che cosa accadrà nel primo anno, e soprattutto, dalla sua capacità o meno di capire come gestire l’attuale crisi economica.

Quanto brutta è la prospettiva economica? Peggiore di quanto la maggior parte di noi possa immaginare. La crescita economica degli anni di Bush, o cosiddetta tale, è stata alimentata dall’esplosione del debito nel settore privato; ora i mercati del credito sono in confusione, le attività commerciali e i consumatori sono in ritirata e l’economia è in caduta libera.

Quello che stiamo affrontando, essenzialmente, è una voragine di disoccupazione. L’economia statunitense ha bisogno di aggiungere più di un milione di posti di lavoro l’anno per tenere il passo con una popolazione in crescita. Anche prima della crisi, sotto Bush la crescita dell’occupazione viaggiava su una media di soli 800 mila posti di lavoro l’anno, e durante lo scorso anno, invece di guadagnare più di un milione di posti, ne abbiamo persi due milioni. Oggi continuiamo a perdere posti di lavoro a un ritmo di mezzo milione al mese.

Non c’è niente, nei dati a disposizione o nella situazione sottostante, che suggerisca che il crollo dell'occupazione rallenterà in tempi brevi. Il che significa che verso la fine dell’anno potremmo ritrovarci con 10 milioni di posti di lavoro in meno rispetto a quanti ne dovremmo avere. Ciò si tradurrebbe in un tasso di disoccupazione superiore al 9%. Se poi a questi si aggiungono gli individui che non vengono presi in considerazione dal tasso standard perché hanno smesso di cercare lavoro, più quelli costretti ad accettare lavori part time anche se vorrebbero avere un lavoro a tempo pieno, probabilmente stiamo parlando di un tasso di disoccupazione reale del 15% circa: più di 20 milioni di americani i cui sforzi per trovare lavoro vengono resi vani.

I costi umani di una caduta così grave sarebbero enormi. Il Center on Budget and Policy Priorities ha di recente previsto i possibili effetti di un picco del tasso di disoccupazione al 9%: uno scenario che sembrava il peggiore possibile e che ora sembra fin troppo probabile. Quindi, che cosa accadrà se la disoccupazione salirà, o supererà il 9%? Almeno 10 milioni di americani appartenenti al ceto medio finiranno in povertà, e altri sei milioni saranno spinti in «profonda povertà», lo stato che definisce le severe privazioni alle quali si va incontro quando il salario è pari a meno della metà della soglia di povertà. Molti degli americani che perderanno il lavoro perderanno anche l’assicurazione per le cure mediche, peggiorando lo stato già deplorevole della salute pubblica statunitense, e i pronto soccorso si affolleranno di persone che non hanno nessun altro posto dove andare. Nello stesso tempo, qualche altro milione di americani perderà la propria casa, e le amministrazioni statali e locali, private di buona parte delle loro entrate, saranno costrette a tagliare perfino i servizi più essenziali.

Se le cose vanno avanti seguendo l’attuale traiettoria, signor Presidente, presto dovremo fronteggiare una grande catastrofe nazionale. Ed è suo compito - un compito che nessun altro Presidente ha dovuto svolgere dai tempi della Seconda Guerra Mondiale - fermare questa catastrofe... L’ultimo Presidente ad affrontare un disastro simile è stato Franklin Delano Roosevelt, e Lei può imparare molto dal suo esempio. Questo non significa, tuttavia, che lei dovrebbe fare tutto quello che ha fatto FDR. Al contrario, dovrà stare attento a emulare i suoi successi, evitando però di ripetere i suoi errori. Per quanto riguarda quei successi, il modo in cui FDR ha gestito il disastro finanziario della sua epoca offre un modello molto buono. Allora, come oggi, il governo ha dovuto impiegare il denaro dei contribuenti per salvare il sistema finanziario. In particolare, la Reconstruction Finance Corporation (Società per la ricostruzione finanziaria) inizialmente ha giocato un ruolo simile a quello del Troubled Assets Relief Program dell’amministrazione Bush (il programma da 700 miliardi di dollari che tutti conoscono). Come il Tarp, la Rfc ha irrobustito la situazione monetaria delle banche nei guai usando fondi pubblici per acquisire quote finanziarie in quelle banche.

C’è però una grande differenza tra l’approccio di FDR al salvataggio finanziario foraggiato dai contribuenti e quello dell’amministrazione Bush: in particolare, FDR non era timido nel pretendere che il denaro pubblico fosse usato per servire il bene pubblico. All’inizio del 1935 il governo statunitense possedeva circa un terzo del sistema bancario, e l’amministrazione Roosevelt usò quella quota di proprietà per insistere sul fatto che le banche aiutassero davvero l’economia, facendo su di loro pressioni perché prestassero il denaro che stavano ricevendo da Washington. Oltre a questo, il New Deal uscì allo scoperto e prestò moltissimo denaro: direttamente alle aziende, agli acquirenti di case e alle persone che possedevano già una casa, aiutandole a ristrutturare il proprio mutuo in modo che potessero rimanere nelle loro abitazioni. Può Lei fare qualcosa del genere oggi? Sì, Lei può. L’amministrazione Bush potrà anche avere rifiutato di allegare delle clausole all’aiuto che ha fornito agli istituti finanziari, ma Lei è in grado di cambiare tutto questo. Se le banche hanno bisogno di fondi federali per sopravvivere, li fornisca, ma pretenda che le banche facciano la loro parte, prestando quei fondi al resto dell’economia. Dia più aiuto ai proprietari immobiliari.

I conservatori la accuseranno di nazionalizzazione del sistema finanziario, e alcuni la chiameranno marxista (a me succede sempre). E la verità è che in qualche modo Lei sarà davvero impegnato in una nazionalizzazione temporanea. Ma va bene: a lungo termine non vogliamo che il governo gestisca le istituzioni finanziarie, ma per ora è quello di cui abbiamo bisogno per fare ripartire il credito. Tutto questo aiuterà, ma non abbastanza. C’è bisogno di dare una sferzata all’economia reale del lavoro e dei salari. In altre parole, si deve affrontare per il verso giusto la creazione di occupazione, cosa che FDR non ha mai fatto. Questa può sembrare una cosa strana da dire. Dopotutto, quello che ci ricordiamo dagli Anni 30 è il programma Works Progress Administration (Wpa), che al suo apice impiegava milioni di Americani per costruire strade, scuole e bacini artificiali. Ma i programmi di creazione di posti di lavoro del New Deal, seppure abbiano certamente aiutato, non erano né abbastanza grandi né abbastanza sostenibili da mettere fine alla Grande Depressione. Quando l’economia è profondamente depressa, bisogna mettere da parte le normali preoccupazioni che riguardano i deficit di bilancio; FDR non ce l’ha mai fatta.

Di quanta spesa stiamo parlando? Forse è meglio che si sieda prima di leggere quello che segue. Bene, ecco qui: «Piena occupazione» significa un tasso di disoccupazione del 5% al massimo e forse anche meno. Nello stesso tempo, al momento siamo su una traiettoria che spingerà il tasso di disoccupazione al 9% o più. Perfino le stime più ottimistiche indicano che ci vogliono almeno 200 miliardi di dollari l’anno in spesa governativa per tagliare il tasso di disoccupazione di un punto percentuale. Faccia i conti: Lei dovrà probabilmente spendere 800 miliardi di dollari l’anno per ottenere un completo risanamento economico. Qualsiasi cifra al di sotto dei 500 miliardi l’anno sarà davvero troppo piccola per produrre una vera inversione economica. Il più possibile, dovrebbe spendere in cose di valore durevole, cose che, come le strade e i ponti, ci renderanno una nazione più ricca.

Migliori l’infrastruttura che sta dietro Internet, migliori la rete elettrica, migliori l’information technology nel settore della salute pubblica, un’area cruciale per qualunque riforma di questo settore. Fornisca aiuti alle amministrazioni statali e locali, per prevenire che taglino le spese in investimenti nel momento più sbagliato. E ricordi, nel momento in cui fa questo, che tutto questo esborso serve a un duplice scopo: serve al futuro, ma aiuta anche nel presente, generando posti di lavoro ed entrate per compensare la crisi.

Tutto questo, tuttavia, non sarà abbastanza per risolvere la profonda crisi nella propensione alla spesa dei singoli. Perciò, sì: ha anche senso tagliare le tasse su base temporanea. Gli sgravi fiscali per le famiglie che lavorano, delineati da lei in campagna elettorale, appaiono un veicolo ragionevole. Ma siamo chiari: i tagli alle tasse non sono lo strumento d'elezione per combattere una crisi economica. Per prima cosa, producono meno ritorni per l'investimento rispetto alle spese per l'infrastruttura.

Ora, il mio onesto parere è che perfino con tutto ciò, lei non sarà in grado d’impedire che il 2009 sia un anno molto brutto. Se riuscirà a far sì che il tasso di disoccupazione non superi l’8%, lo considererò un grande successo. Ma per il 2010 dovrebbe riuscire a ottenere di avere un'economia in via di ripresa. Che cosa dovrebbe fare per prepararsi a quella ripresa?

La gestione della crisi è una cosa, ma l'America ha bisogno di molto più di questo. FDR ricostruì l'America non solo facendoci uscire dalla depressione e dalla guerra, ma anche rendendoci una società più giusta e al sicuro. Da una parte creò programmi di assicurazione sociale, prima su tutti la Social Security, che proteggono i lavoratori americani ancora oggi. Dall'altra si prese a carico la creazione di un'economia molto più equa, dando vita a una società borghese che durò per decenni, fino a quando le politiche economiche dei conservatori condussero alla nuova epoca di ingiustizia che prevale oggi. Lei ha l'opzione di emulare i traguardi raggiunti da FDR, e il giudizio ultimo sul suo governo si baserà su come saprà gestire questa opzione. La più importante eredità che potrà lasciare alla nazione sarà quella di darci finalmente ciò che ogni altro stato avanzato ha: l'assistenza sanitaria garantita a tutti i cittadini. La crisi attuale ci ha dato una lezione obiettiva sulla necessità dell'assistenza sanitaria universale su due versanti: ha evidenziato la vulnerabilità degli Americani la cui assicurazione sulla salute è legata a un posto di lavoro che può così facilmente scomparire; e ha messo in chiaro che il nostro attuale sistema è anche negativo per l'economia - le tre principali case automobilistiche non sarebbero in così grave crisi se non dovessero pagare i conti medici dei vecchi e attuali impiegati. Lei ha un mandato per il cambiamento, e la crisi economica ha appena evidenziato quanto il sistema richieda un cambiamento. Quindi, è giunta l'ora di approvare una legislazione a favore di un sistema che garantisca la sicurezza sanitaria per tutti.

L’assistenza medica universale, quindi, dovrebbe essere la sua massima priorità dopo avere salvato l'economia. Fornire copertura per tutti gli Americani può essere per la sua amministrazione quello che la Social Security è stata per il New Deal. Ma il New Deal ha ottenuto qualcos'altro: ha reso l'America una società borghese. Sotto FDR, l'America ha attraversato quello che gli storici del lavoro chiamano Grande Compressione, un forte aumento degli stipendi per i lavoratori ordinari che ridusse enormemente l'ineguaglianza salariale. Prima della Grande Compressione, l'America era una società di ricchi e poveri; dopo, è stata una società in cui le persone, a ragione, si sono considerate ceto medio. Può essere difficile raggiungere quel risultato oggi, ma lei può, almeno, far muovere il Paese nella giusta direzione. Il futuro è ciò che importa di più. Questo mese festeggiamo il suo arrivo alla Casa Bianca; in un'epoca di grande crisi nazionale, Lei porta la speranza di un futuro migliore. Ora tocca a Lei far materializzare la nostra speranza. Mettendo in atto un piano di rinascita anche più coraggioso ed esaustivo del New Deal, Lei può non solo cambiare il corso dell'economia, può mettere l'America su un sentiero, quello che porta a una più grande uguaglianza per le generazioni a venire.

*dalla lettera che il premio Nobel per l’Economia ha indirizzato al presidente Obama. Il testo integrale sarà pubblicato sul sito di «Rolling Stone Italia»
lastampa.it

18.1.09

La Filosofia al tempo di Internet

Che ruolo può svolgere la Filosofia nell'era di Internet? Punto Informatico ha interpellato Luciano Floridi, Professore di "Information Ethics" e "Philosophy of Information" ad Oxford, su come l'argomento tocchi Wikipedia, Google e gli altri fenomeni di massa dell'IT.

Punto Informatico: In questo momento quali sono le principali questioni aperte nella Filosofia dell'Informazione?
Luciano Floridi: Temo che la lista sarebbe lunga, tecnica e percio' forse un po' tediosa per le lettrici e i lettori di Punto Informatico. Provero' quindi a riassumere solo due punti salienti, semplificando.
Primo punto. Il rinnovamento della filosofia, una delle discipline più antiche e conservatrici del nostro sapere. Farla oggi, con metodologie (come i livelli di astrazione), teorie (come quella sui sistemi multiagente) e soluzioni tecniche (come quelle pertinenti le varie logiche create in ambito AI) fornite dall'informatica, permette di rinnovare lo studio di problemi secolari e aggiornare approcci concettuali ormai calcificatisi.

PI: Ad esempio?
LF: Si pensi alla questione dell'identità personale, e le classiche domande su chi siamo e chi vorremmo essere, o quanto la nostra identità dipenda dai nostri corpi, memorie o interazioni sociali.
Poter costruire e sperimentare molteplici identità online getta nuova luce su vecchie teorie e apre prospettive di indagine molto interessanti. Cambia inoltre il vocabolario concettuale, che si sta svecchiando e raffinando anche grazie all'IT (si pensi ai concetti di agente, rete, interazione, telepresenza e così via).

Secondo punto. La filosofia dell'informazione puo' e deve contribuire, con la sua capacità di analisi, comprensione e argomentazione logica, a chiarire e risolvere i nuovi problemi nati oggi da una società che definiamo appunto dell'informazione, e le nuove sfide dirette (si pensi al vandalismo informatico) o indirette (tipo la bioingegneria) poste dallo sviluppo delle tecnologie digitali. Gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare, ma forse la gestione e protezione della privacy sui dati personali rappresenta quello più ovvio e noto.

PI: Nell'articolo sulla Tragedia dei beni comuni digitali riprende il classico esempio di un bene comune considerato inesauribile (il mare), ma oggi in crisi per inquinamento e sostenibilità alimentare, paragonandolo al Web, a sua volta a rischio per la saturazione di banda da parte degli utenti P2P in caso di superamento del Digital Divide nella Infosfera. Quali soluzioni avete individuato tramite la disciplina della Etica Informatica?
LF: Ampliare l'approccio ambientalista anche alle realtà sintetiche e artificiali. L'ambientalismo è spesso visto in contrasto con lo sviluppo tecnologico, ma in realtà sono due "forze buone". Devono allearsi contro i veri nemici: lo spreco delle risorse, la distruzione di ricchezze naturali, storiche e culturali, l'inquinamento e impoverimento degli ambienti.
Manca ancora la consapevolezza che le giuste sinergie tra tecnologie informatiche e tali valori possono portare a soluzioni molto efficaci nello sviluppo e nel mantenimento ottimali sia degli ecosistemi biologici, sia di sistemi sintetici o artificiali altrettanto complessi come la Rete, sia di tutte le realtà costruite dall'uomo, basti pensare all'ecosistema del mondo aziendale.
La società non solo va sempre più globalizzandosi, sta anche aumentando l'interdipendenza: i beni comuni sono non solo biologici o digitali, ma soprattutto l'esito di interazioni simbiotiche tra il naturale e l'artificiale. Caso ben rappresentato dalla medicina e dalla sua dipendenza dall'IT, la cosiddetta e-Health. Ecco, in questo ampio contesto, la risoluzione della tragedia dei beni comuni digitali passa attraverso la consapevolezza e l'implementazione di valori ambientalistici.
Quello che ho definito come ambientalismo sintetico mostra quanto ecologia e tecnologia possano essere il binomio vincente per il progresso di una società dell'informazione avanzata.

PI: Come si inquadra un fenomeno quale le enciclopedie collaborative di natura wiki nell'epistemologia contemporanea? Vale il "Vox populi, vox dei"?
LF: Le enciclopedie collaborative, Wikipedia ma non solo essa, sono il fenomeno forse più vistoso di una trasformazione radicale più profonda ma anche meno visibile, nello sviluppo della conoscenza e quindi delle sua interpretazione.
Semplificando molto, dal Seicento, con Cartesio, fino alla metà del Novecento, con Wittgenstein, la conoscenza è stata di solito interpretata come un fenomeno stand-alone, si direbbe in informatica, cioè come se il soggetto conoscitore fosse un agente singolo, isolato e scollato dall'ambiente. Oggi, grazie alla rivoluzione digitale, stiamo comprendendo sempre meglio come essa si sviluppi, si organizzi, possa essere gestita e fruita al meglio soltanto in modalità online, ovvero tenendo conto dei sistemi distribuiti e multiagente di cui necessita.
Cartesio che identifica nell' "Io penso" la soluzione del fondamento della conoscenza, solo nella sua stanza davanti al focolare, o Newton che solo, sotto l'albero di mele, scopre la gravitazione universale, sono vignette al massimo di valore pedagogico elementare. Di fatto il sapere è un'impresa collaborativa, ci sono sempre meno geni isolati e sempre più reti di collaborazione, scuole, gruppi di ricerca.
Cio' non significa tornare alla vecchia idea per cui, se tutti la pensano in un certa maniera allora le cose devono stare in quel modo. Se così fosse, l'astrologia, data la sua popolarità, sarebbe una scienza invece che una frottola. La conoscenza è sì distribuita, multiagente e contestualizzata, ma le sue dinamiche sono anche molto strutturate e gerarchizzate, per ragioni di fondi, di capacità tecniche sempre più specialistiche e quindi rare, e quindi per ragioni di credibilità e di riconoscimento.
Tornando alle enciclopedie collaborative, esse sprigionano forze altrimenti non sfruttabili, dalle competenze scientifiche del grande laboratorio, in grado di correggere una voce, alla passione di un neofita in grado pur sempre di apportare qualche miglioria a voci di suo interesse. Non devono tuttavia essere confuse con la ricerca e l'avanzamento del sapere.

PI: In che modo?
LF: Sono dei depositi di ciò che già sappiamo. Ogni miglioramento conta e fa accrescere la qualità e il valore del tutto. E tanto migliore sarà il loro funzionamento tanto più facile sarà progredire nell'esplorazione di quello che è ancora ignoto. Ma Wikipedia è la prima tappa del percorso, non l'arrivo. Se si tiene presente questo punto, non si può negare che la democratizzazione dell'informazione, anche attraverso le enciclopedie collaborative, sia un fenomeno molto positivo e di grande arricchimento e facilitazione della nostre vita intellettuale.

PI: I motori di ricerca sono la Pizia dei giorni nostri?
LF: Questa è un'idea molto suggestiva. Direi che l'analogia è pertinente per quanto riguarda alcuni usi che vengono fatti dei motori di ricerca. Google, per esempio, a volte sembra essere usato come un tempo si ricorreva ai vati, per cercare risposte a qualsiasi domanda prema all'interessato. Ancor peggio, una nuova generazione di utenti impazienti sembra implicitamente adottare un approccio molto pericoloso: se il vate/Google non ne parla significa che l'oggetto in questione non esiste o è comunque trascurabile ed insignificante. Il limite dell'analogia sta nel fatto che i motori di ricerca non si compromettono, non perchè danno risposte misteriose che necessitano di interpretazione, ma piuttosto perchè ci danno moltissime risposte non sempre compatibili tra loro, e tra le quali sta poi a noi scegliere.
Riprendendo la precedente domanda, se due voci enciclopediche (anche solo due voci di Wikipedia, una italiana e l'altra inglese sullo stesso argomento) discordano, come possiamo decidere? Serviva molta scaltrezza per interpretare la Pizia. Direi che la stessa scaltrezza, anche se per motivi diversi, deve ancora essere esercitata per usare i motori di ricerca con intelligenza.

PI: Quali letture consiglierebbe a chi volesse approfondire gli argomenti trattati in questa intervista?
LF: Quasi tutti i miei scritti sono disponibili presso il mio sito. Purtroppo sono quasi tutti in inglese. La buona notizia è che Massimo Durante, ricercatore dell'Università di Torino, sta preparando un'antologia in italiano degli scritti più importanti da me pubblicati nello scorso decennio nell'ambito dell'etica informatica. Uscirà per la Giappichelli di Torino tra alcuni mesi.

a cura di Fabrizio Bartoloni
punto-informatico.it

17.1.09

Iscrizioni a scuola,arrivano le istruzioni

di SALVO INTRAVAIA
Ecco la circolare sulle iscrizioni a scuola. Il ministero dell'Istruzione l'ha pubblicata sul proprio sito, contestualmente al decreto per attribuire le insufficienze in condotta ai ragazzini della scuola media. Dopo le polemiche di questi giorni e le vivaci proteste dei sindacati che hanno denunciato lo "stato confusionale" della scuola, dirigenti scolastici, insegnanti e famiglie hanno a disposizione due provvedimenti che consentono le iscrizioni all'anno scolastico 2009/2010 e la valutazione del primo quadrimestre con il ripristino dei voti in decimi all'elementare e alla media. Scadenza iscrizioni. I genitori che dovranno iscrivere i propri figli nella scuola dell'infanzia, alla prima classe della scuola primaria, secondaria di primo grado e secondaria di secondo grado dovranno presentare il relativo modulo (I MODULI) predisposto dal ministero dell'Istruzione entro e non oltre il 28 febbraio prossimo. L'iscrizione alle classi intermedie viene curata delle segreterie scolastiche. Scuola dell'infanzia. Potranno richiedere l'iscrizione al primo anno della scuola primaria i genitori dei bambini che compiranno sei anni entro il 31 dicembre 2009. Possono altresì essere iscritti i piccoli che compiranno sei anni entro il 30 aprile 2010. Quest'ultima possibilità è subordinata alla disponibilità dei posti, all'esaurimento delle liste d'attesa, alla disponibilità di locali e dotazioni idonei ad accogliere i piccoli anticipatari e alla valutazione pedagogico didattica del collegio dei docenti. Ove ricorrano le condizioni logistiche e funzionali, continua anche l'esperienza delle "sezioni primavera" per i piccoli di età compresa fra i 24 e i 36 mesi. L'orario di funzionamento normale è di 40 ore settimanali: 8 ore al giorno. Le famiglie possono anche richiedere un orario ridotto a 25 ore settimanali o prolungato di 50 ore a settimana.
Scuola primaria. Hanno l'obbligo di iscriversi in prima elementare i bambini che compiono sei anni entro il 31 dicembre 2009. Mamme e papà possono optare per l'anticipo, riservato ai piccoli che festeggiano il sesto compleanno entro il 30 aprile 2010. La domanda può essere presentata in qualsiasi scuola (del territorio di appartenenza o no). Le istanze verranno accolte in basa ai criteri elaborati e resi noti dagli organi collegiali della scuola. Nel modulo di domanda le famiglie dovranno indicare l'ordine di priorità delle 4 opzioni orarie: 24, 27, 30 o 40 ore per il tempo pieno. Ma per l'orario settimanale di 30 ore e il tempo pieno di 40 ore verranno accontentati i genitori soltanto in relazione alle disponibilità di organico della scuola. Scuola media. L'iscrizione al primo anno della scuola secondaria di primo grado avviene tramite la scuola primaria frequentata dall'alunno. L'istanza va indirizzata alla scuola prescelta e deve riportare l'ordine di preferenza delle tre opzioni orarie: 30 ore settimanali (29 ore curricolari più un'ora di approfondimento di Italiano) , tempo prolungato di 36 ore o tempo prolungato di 40 ore a settimana. I posti a disposizione per frequentare il tempo prolungato dipenderanno dalle dotazioni organiche che assegnerà il ministero alle singole scuole. Al momento dell'iscrizione le famiglie possono anche scegliere l'Inglese potenziato: 5 ore settimanali anziché 3 più due di una seconda lingua comunitaria. Per gli alunni che frequentano gli istituti comprensivi l'iscrizione in prima media è effettuata d'ufficio dalla segreteria scolastica. Scuola secondaria di secondo grado. Coloro che terminano il primo ciclo, in base alle norme sull'assolvimento dell'obbligo di istruzione, sono tenuti ad iscriversi al primo anno della scuola superiore o a frequentare un percorso di istruzione e formazione professionale triennale. Valutazione del comportamento. Il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, ha firmato il decreto sulla valutazione del comportamento degli studenti. "La valutazione del comportamento degli studenti - spiega il decreto - nella scuola secondaria di primo grado e nella scuola secondaria di secondo grado è espressa in decimi". La valutazione espressa dal consiglio di classe "si riferisce a tutto il periodo di permanenza nella sede scolastica e comprende anche gli interventi e le attività di carattere educativo posti in essere al di fuori di essa". L'attribuzione di un voto inferiore a sei decimi, "in presenza di comportamenti di particolare e oggettiva gravità", comporta l'automatica bocciatura. Il consiglio di classe può attribuire una valutazione insufficiente in condotta soltanto in presenza di sanzioni disciplinari che comportino l'allontanamento dalla scuola superiore a 15 giorni e per quegli alunni che a seguito di tali sanzioni "non abbiano dimostrato apprezzabili e concreti cambiamenti nel comportamento, tali da evidenziare un sufficiente livello di miglioramento nel suo percorso di crescita e di maturazione". Le scuole "sono tenute a curare con particolare attenzione sia l'elaborazione del Patto educativo di corresponsabilità, sia l'informazione tempestiva e il coinvolgimento attivo delle famiglie in merito alla condotta dei propri figli".
repubblica.it

vedere anche su La Stampa: Maestri a ore

il cannocchiale

14.1.09

A Gaza, tra macerie e rabbia

Lorenzo Cremonesi

Reportage dall’inferno di uno dei pochi inviati presenti nella striscia, perché documentare è importante.

Entriamo verso le 14.00 con il bus egiziano scalcagnato dal posto di frontiera a Rafah. C'è un'atmosfera tesissima, Israele per tutta la mattina ha bombardato i tunnel lungo il confine. I caccia nel cielo, il fischio, lo scoppio, profondo, terrificante. Alcune bombe sono cadute poche decine di metri da qui, infrangendo parte delle vetrate al terminal egiziano. Sul bus siamo in due. L'altro passeggero è un dottore palestinese che rientra a casa. Dall'altra parte, in «Hamasland », non ci sono sentinelle armate, solo un paio di uomini barbuti con vestiti bruni impolverati che parlano al walkie talkie.
Per lasciare il terminal ci si muove in ambulanza: tutti, indistintamente. Le strade sono vuote. Solo tre vecchie Mercedes lungo i quattro chilometri che portano all'ospedale europeo nella zona palestinese di Rafah. Qui è la regione dei tunnel, la più colpita dagli israeliani. Chi può se ne sta ben lontano. Molte case sono abbandonate, alcuni capannoni sono chiusi, serrati. Si notano invece molti carretti tirati da muli, non utilizzano benzina (ora costa un dollaro e mezzo al litro, il triplo di un mese fa). La maggioranza dei negozi è chiusa, ma dicono che qui le scuole sono aperte di mattina e a ogni tregua i contadini tornano a lavorare nei campi, anche quelli più a rischio.
L'entrata all'ospedale è accompagnata dal grido corale « shahìd, shahìd » (martire). Sono due barelle arrossate di sangue e sopra due morti. Uomini, giovani, il cervello che cola dalla testa. Alcune donne vestite di nero, il volto scoperto, invocano Allah, piangono. Quando vedono un giornalista occidentale inveiscono contro Israele e i suoi «crimini nazisti ». Seguono alcuni feriti, almeno sei. Uno è scosso da tremiti continui. Anche lui ferito alla testa. Il volto è irriconoscibile, il naso aperto, gli occhi sbarrati.

Oggi Israele ha colpito duro i villaggi della zona sud orientale, quelli che guardano al deserto del Negev. Risuonano continuamente i nomi di due località: Abasan e Kuza, rispettivamente 25.000 e 16.000 abitanti. «Praticamente tutte le vittime gravi delle ultime ventiquattro ore vengono da quei due villaggi. Il nostro ospedale manda i casi più difficili all'ospedale più importante, il "Nasser" di Khan Yunis », spiega Kamal Mussa, direttore amministrativo dell'istituto.
Qui regna il caos. I guardiani lasciano entrare tutti al pronto soccorso. I medici appaiono professionali, molti di loro hanno studiato all'estero, al Cairo, ma anche in Italia, Francia e negli Stati Uniti. Non mancano medicinali, né macchinari. Pure la folla è troppa, il pronto soccorso ne è sommerso. «Gli israeliani non hanno umanità, sparano nel mucchio, non distinguono tra soldati e civili, mirano ai bambini, sparano sulle case», gridano i membri dei clan tribali più colpiti, i Qodeh e Argelah.
Un dato sembra evidente, almeno per il sud di Gaza: non c'è malnutrizione. Nonostante l'aumento dei prezzi, la mancanza di alcuni generi alimentari, il blocco dei movimenti, a Gaza nessuno muore di fame. «La situazione è molto peggiore nei grandi campi profughi più a nord, come quello di Jabaliah. Ma qui nel sud il cibo non manca», dice Saber Sarafandi, dottore internista di 30 anni. Lui e il suo collega infermiere, Mohammad Lafi, appena tornato da un lungo corso di perfezionamento negli Stati Uniti, a New Orleans, sono evidentemente dei moderati. Hanno ben poco da spartire con la cultura della guerra santa e del fondamentalismo islamico propagandata da Hamas. Anzi, guardano con un certo fastidio ai ragazzi dalla barba lunga e l'uniforme nera che si muovono nell'atrio dell'accettazione. Eppure di un fatto sono convinti: «E' vero che Hamas ha rotto la tregua e ha fatto precipitare l'inizio dei combattimenti il 27 dicembre. Ma Israele ci stava prendendo per il collo, non avevano alternativa. I fatti gravi non sono neppure tanto gli omicidi mirati, perpetrati da Israele anche ai tempi della tregua. Sono piuttosto il sigillare Gaza come una grande prigione. La scelta di Hamas è stata tra l'essere uccisi a fuoco lento, oppure velocemente nella guerra. E hanno giustamente scelto lo scontro subito, un grido al mondo. E così facendo sta catturando le simpatie della popolazione. Hamas è oggi più forte che mai tra la nostra gente». Alle sette di sera cala il buio. Non c'è illuminazione pubblica. Le finestre delle abitazioni sono serrate. E' allora che un'ambulanza nuova fiammante, appena arrivata dall'Egitto, offre un passaggio per l'ospedale centrale di Khan Yunis. Il viaggio nella notte più nera prende meno di venti minuti. Le strade sono semivuote, ma comunque più popolate del pomeriggio. Si vedono soprattutto giovani uomini, apparentemente disarmati. Per un secondo il mezzo si ferma a raccogliere un medico che porta con sé un bambino di quattro giorni. Vicino c'è una botteguccia che vende bombole di gas da cucina. «Sono diventate una rarità — spiega Amal, l'ambulanziere —. Prima costavano 35 shequel israeliani, adesso superano i 400». Così ci si industria a cercare legna da ardere per cucinare sul pavimento.

Il «Nasser» è presidiato da centinaia di ragazzi. Tanti perdono tempo, si sentono importanti a contare i morti. Tanti altri sono però palesemente militanti di Hamas, che guardano con un misto di sospetto e curiosità ogni occidentale che entra. E' il direttore amministrativo del «Nasser», We'am Fares, a fornire nel dettaglio le cifre della guerra. Sul muro dietro la sua scrivania c'è la foto di Yasser Arafat e frasi del Corano incorniciate. Tutti i 350 letti dell'ospedale sono occupati. «Solo oggi abbiamo ricevuto 12 morti e 48 feriti di età comprese tra i 13 e 75 anni. Dal 27 dicembre i morti da noi sono stati 680, i feriti curati 183, tra tutti almeno il 35 per cento sono bambini minori di 14 anni ».
Appare invece difficilissimo trovare risposte certe all'uso delle bombe al fosforo. Gli israeliani le hanno utilizzate o no, è possibile vedere qualche ferito?
«Certo che le hanno usate, contro tutte le convenzioni internazionali. Qui a Khan Yunis abbiamo contato almeno 18 feriti e 7 morti», dicono all'unisono medici e infermieri. C'è un problema però: «Non si possono vedere. Tutti i feriti da armi al fosforo sono già stati trasferiti all'estero, specie in Egitto e Qatar». Resta vago anche Christophe Oberlin, un chirurgo di Parigi arrivato 3 giorni fa per conto del governo francese: «Io personalmente non ne ho visti di feriti da fosforo e non so se potrei davvero distinguerli dagli altri feriti, non sono un medico di guerra». Però di un fatto è sicuro: «Gli israeliani dicono che solo il 30 per cento delle vittime palestinesi sono civili. Questa è una palese menzogna, sono pronto a testimoniarlo davanti a qualsiasi tribunale internazionale. È vero il contrario: almeno l'80 per cento delle vittime sono bambini, anche piccolissimi, donne, anziani. Qui si sta sparando contro la società civile senza porsi troppi problemi. E le ferite che ho visto sono orribili. Moltissimi dei pazienti muoiono sotto i ferri». Verso le dieci di sera arrivano altre ambulanze cariche di feriti. Una scena carica di dolore, alleviata solo dal grande sorriso di Asma, una bambina di 10 anni ferita al torace, ma che parla veloce, quasi allegra e promette che da grande andrà all'università.

Corriere (eddyburg.it)

13.1.09

Memoria, apprendimento e ricordi. Un "centralino" impedisce il caos

Recuperare nozioni note, e contemporaneamente immagazzinarne di nuove, è apparentemente scontato. Ma alla base del meccanismo c'è un sistema complesso. Che evita il conflitto fra le due attività
di ALESSIA MANFREDI

Una lotta costante fra vecchio e nuovo. Succede continuamente nel cervello quando due diversi tipi di memoria - il recupero di ricordi immagazzinati e l'apprendimento di nuove esperienze - cercano di attivarsi nello stesso momento.

La capacità di imparare cose nuove, ricordando contemporaneamente informazioni acquisite, è data per scontata nell'uomo, eppure alla base di un comportamento comune, che entra in gioco in quasi tutte le situazioni sociali - come durante una conversazione, quando si ascoltano nuove informazioni e se ne recuperano di già note per preparare la risposta successiva, oppure quando ci si trova a guidare in una città sconosciuta, interpretando segnali stradali noti - c'è un meccanismo complesso, in cui il recupero di una nozione e l'apprendimento di un dato nuovo si trovano in competizione.

Una ricerca scientifica pubblicata su PLoS Biology ha ora "fotografato" in modo chiaro questa lotta. E suggerisce che a mantenere l'ordine nel cervello intervenga una sorta di "centralino" che risolve il conflitto, attivando rapidamente l'una o l'altra funzione. "E' la prima conferma chiara, sia da un punto di vista comportamentale che neurologico" spiega Sander M Daselar, del centro di neuroscienze dell'Istituto Swammerdam dell'Università di Amsterdam, co-autore dello studio.

Insieme a Willem Huijbers, Cyriel M. Pennartz, sempre dell'ateneo olandese, e al collega Roberto Cabeza della Duke University a Durham, in North Carolina, Daselar ha sottoposto un gruppo di giovani a un esperimento: venivano mostrate una serie di parole su uno schermo e i partecipanti allo studio dovevano rapidamente ricordare se avevano studiato in precedenza tali parole o meno. Simultaneamente, sullo sfondo dello schermo apparivano delle immagini colorate. L'attività del loro cervello è stata monitorata attraverso una risonanza magnetica funzionale. Dopo lo scan, i partecipanti a sorpresa hanno dovuto rispondere ad un altro test di memoria, che questa volta riguardava le immagini.

Risultato? E' più difficile imparare a riconoscere le immagini se allo stesso tempo si è impegnati nel ricordare una parola. Allo stesso modo, se si dimentica la parola diventa più facile apprendere l'immagine. E quando si recuperano ricordi, si "spegne" l'attività del cervello collegata all'apprendimento, spiegano i ricercatori.

"Nonostante il chiaro meccanismo di competizione - spiega sempre Daselar - alcune persone riuscivano comunque ad apprendere e a ricordare allo stesso tempo. Allora abbiamo iniziato a cercare se ci fosse una specifica area cerebrale responsabile". E l'hanno trovata: c'è una regione del cervello che risulta attiva sia durante l'apprendimento che durante il ricordo, ed è situata nella parte frontale sinistra del cervello.

Secondo gli scienziati è proprio quest'area, la corteccia prefrontale ventrolaterale, a regolare le due diverse modalità della memoria, permettendo il passaggio rapido dall'una all'altra. "La cosa interessante è che questa regione è risultata coinvolta in modo specifico in quelle persone che mostravano una soppressione minima della capacità di apprendere. In queste persone, quindi, la competizione fra ricordo e apprendimento è minore rispetto agli altri, perché il "centralino" permette loro di apprendere e ricordare quasi contemporaneamente, passando rapidamente da un processo all'altro", dice ancora lo scienziato.

E' un'area già nota ai ricercatori: i pazienti in cui è danneggiata hanno difficoltà ad adattarsi rapidamente a nuove situazioni, mentre tendono a seguire vecchie regole. Spesso risulta alterata nelle persone anziane, che mostrano minore flessibilità quando è richiesto un rapido passaggio dall'apprendimento alla memoria come, ad esempio, mentre si segue una conversazione, che diventa in questo caso necessariamente più lenta e difficoltosa.

"E' una regione del cervello chiamata direttamente in causa anche in una serie di disturbi dell'impulsività e compulsività e nel disturbo ossessivo", aggiunge il professor Stefano Pallanti, dell'Università di Firenze, direttore dell'Istituto di neuroscienze. "Se funziona in modo anomalo, dà origine ad una serie di disturbi". Capirne meglio il funzionamento, con ulteriori studi, potrebbe portare a comprendere più a fondo le conseguenze pratiche nei pazienti che non riescono a passare dall'una all'altra modalità di memoria in modo corretto e a scoprire se il "centralino" può essere migliorato attraverso l'allenamento.

repubblica.it

11.1.09

Spettri Italiani

Tommaso Pincio

«L'Italia è il paese che amo»: così, con solenne e televisiva semplicità, il nostro attuale premier si dichiarò alla nazione. Era il 26 gennaio 1994, nessuno osava allora immaginare quanti e quali frutti sarebbero nati dall'idillio tra un magnate della comunicazione e un paese di miracoli e miracolati. I malevoli ritengono che sia disceso in campo per salvare se stesso e le sue aziende; il diretto interessato sostiene che in cima ai pensieri avesse lo spettro di una nazione in mano a forze illiberali, i famigerati comunisti. Comunque sia, in quel famoso discorso registrato su videocassetta e trasmesso a reti quasi unificate, disse che l'Italia «giustamente diffida di profeti e salvatori». Eppure è proprio così che si è proposto, ed è proprio così che una cospicua fetta d'italiani lo ha accolto. In questo, che gli piaccia o no, ha qualcosa in comune con Mussolini. La grande campagna antimalarica con la quale si promise la bonifica integrale delle Paludi Pontine fu uno dei capisaldi della propaganda fascista e servì a presentare il duce come il «grande medico» della nazione. Similmente, Berlusconi si è annunciato come il rimedio definitivo all'annosa piaga della politica senza mestiere, tutta malaffare e chiacchiere incomprensibili.

Tesi storiche divergenti
Che un popolo tra i più individualisti e scettici del pianeta prediliga leader taumaturghi è un paradosso di non poco conto, e infatti, molto tempo addietro, qualcuno si pose il problema: «Abbiamo fatto l'Italia. Ora si tratta di fare gli Italiani». Il guaio è che gli italiani furono fatti ben prima di quella mera «espressione geografica» che, secondo Metternich, sarebbe l'Italia. È opinione diffusa tra gli storici che la nostra nascita in quanto popolo risalga al 476 dopo Cristo, quando Odoacre depose Romolo Augusto, ultimo imperatore romano d'Occidente. Un po' come dire che gli italiani sono figli dei «secoli bui», un minestra a base di barbari e romani cotto a fuoco letto nel calderone della chiesa. Da secoli ci si interroga sulle cause che portarono all' apocalittico evento della caduta di Roma. La vecchia tesi che orde di barbari feroci e bellicosi abbiano invaso un impero ormai infiacchito mettendolo a ferro fuoco è stata col tempo screditata, lasciando strada a un'ipotesi per così dire più morbida. Non ci sarebbe stata nessuna caduta, bensì una transizione più o meno pacifica che ha portato i popoli germanici a insediarsi nei terrori romani dando inizio a una nuova fase.
Lo storico Bryan Ward-Perkins contesta simili revisioni, dicendosi persuaso che «l'avvento delle genti germaniche arrecò grandi sofferenze alla popolazione romana». In un suo recente saggio, La caduta di Roma e la fine della civiltà (Laterza, trad. Mario Carpitella, pp. 293, euro 19,50) dimostra che «gli effetti a lungo termine del crollo dell'impero furono drammatici». A suo dire l'enorme quantità di testimonianze archeologiche non si accorda affatto con la nuova ortodossia dell'indolore e lenta trasformazione. Il crollo dell'impero non fu soltanto accompagnato da violenze, determinò anche un decadimento complessivo delle condizioni economiche, sociali e culturali.
La nuova e, a quanto pare, infondata immagine degli invasori quali pacifici immigranti, confezionata perlopiù da studiosi americani e nord-europei, si spiega con un mutamento di prospettiva. Ai tempi della minaccia nazista era naturale che gli invasori del V secolo fossero considerati in una luce negativa. Terminato il secondo conflitto mondiale, l'atteggiamento nei riguardi dei tedeschi si è a poco a poco ammorbidito, e con esso il giudizio sui barbari. Va inoltre considerato che il cammino verso l'unificazione europea necessitava di forti radici comuni, difficili da scovare nel tumultuoso passato del nostro continente. L'impero romano da solo, nonostante il suo splendore, non può essere l'antenato giusto, in quanto emarginerebbe i paesi germanici e scandinavi. Si comprende allora perché un progetto di ricerca della European Science Foundation sul periodo delle invasioni barbariche abbia per titolo «La trasformazione del mondo romano».
Diversamente dall'Europa settentrionale, l'Italia è rimasta orfana dell'antichità. Lo spettro dello straniero invasore l'ha infestata fino a epoche recentissime, facendone la terra dei rinascimenti e dei risorgimenti, il paese dove, malgrado tutto, sempre si reitera il miracolo della resurrezione. Miracoli che talvolta non riuscivano granché bene - come nel caso del fascismo, che proprio sul recupero della grandezza di Roma imbastì la sua retorica - e ai quali bisogna porre rimedio con nuove rinascite fatte di resistenze e ricostruzioni. Salvo poi rimpiangerli, però, i miracoli.
«Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa» constatava Pasolini nei suoi Scritti corsari, «è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l'Italia fascista o distrutta dalla guerra» quando il nostro era un «paese meraviglioso» nel quale «ci si poteva sentire eroi del mutamento e delle novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati». Nondimeno rilevava una continuità tra il ventennio fascista e l'era democristiana fondata «sul caos morale ed economico, sul qualunquismo come immaturità politica e sull'emarginazione dell'Italia dai luoghi per dove passa la storia»; parole che evocavano una decadenza barbarica.
Di geniale semplicità appare dunque il fantastorico contesto descritto da Enrico Brizzi nel suo ultimo romanzo, L'inattesa piega degli eventi (Baldini Castoldi Dalai, pp. 518, euro 19,50). L'Italia ha perso il suo Duce, ma non lo ha appeso a testa in giù a Piazzale Loreto per martoriarne il cadavere: lo piange commossa nel giorno del suo funerale, il 5 maggio 1960. In questa Italia uscita vittoriosa dal secondo conflitto mondiale e ormai completamente «laica e littorica», Lorenzo Pellegrini, giovane cronista sportivo, paga a caro prezzo un'inopportuna relazione. L'amante tradita cospira affinché venga spedito nel continente nero per seguire le ultime giornate della Serie Africa costringendolo a rinunciare alle Olimpiadi di Roma. L'esilio punitivo si rivela però un'esperienza fondamentale per il giornalista. Le squadre del regime, composte soltanto da giocatori bianchi e sfacciatamente favorite dagli arbitri, si scontrano con le formazioni sgangherate e multietniche che antifascisti al confino e popolazioni indigene hanno eletto a simbolo del loro riscatto. In gioco, sui campi alla periferia dell'impero, c'è qualcosa di più che la vittoria di semplici partite. Persino Lorenzo Pellegrini si vede costretto ridestarsi dallo scanzonato disimpegno nel quale si crogiola da anni e a prendere posizione.
Con questo libro Brizzi ci ha finalmente regalato un romanzo degno di tal nome sul nostro sport nazionale. Ma non solo. La sua Italia, quantunque ucronica, è affatto credibile e non molto diversa, in fondo, da quella reale e democristiana che gli anni Sessanta hanno consegnato alla storia. È inoltre assai somigliante alla seconda repubblica di oggi, l'avvilente Italia dei calciatori e delle veline nella quale, ahinoi, ci troviamo a vivere. «Un luogo che ho disimparato ad amare» la definisce Giuseppe Genna in Italia De Profundis (minimumfax, pp. 348, euro 15). La frase suona quasi come un ideale antipode alla dichiarazione del nostro premier e campeggia solitaria con lapidaria amarezza nella quarta di copertina di un libro che, per contro, è una furiosa esondazione di parole. Parole che trasmutano in immagini e racconti, racconti che diventano invettive, invettive che generano dolore e degenerano in deliri da cui scaturisce una fatale mescolanza di fatti e finzioni. Il tutto tra centinaia di altre parole che restano solo parole e che si avvinghiando tra loro in un gorgo di tenebre, sottraendo il libro a qualunque definizione di comodo.

Una malattia orizzontale
L'editore lo presenta come un romanzo, ma è evidente che l'oggetto in questione è di natura più complessa e rischiosa. Volendo parafrasare ancora chi ci governa lo si potrebbe definire una discesa in forma di autofiction. Non in campo, beninteso, ma agli inferi. Tuttavia non basta. Raccontando di sé e delle sue disgrazie, Genna dà vita a una materia oscura, una sorta di grumo osceno in grado di divorare qualunque cosa e diventare quel che divora. È una metastasi della caduta quella che lo scrittore allestisce: non per nulla apre il libro con la lancinante cronaca del ritrovamento del corpo di suo padre, malato di cancro e morto d'infarto nella notte di capodanno. La caduta di cui si parla non è dunque un movimento dall'alto verso il basso. Non è uno scendere e nemmeno un precipitare, ma una condizione orizzontale, una malattia che si espande nutrendosi della propria carne putrescente. Insieme a Genna cade l'Italia intera, insieme all'Italia cade Genna: stabilire se sia stato l'uno o altra a innescare la rovina è impossibile. I due corpi coincidono e si compenetrano, diventano una sola entità. «L'Italia, in questo momento, è la punta di diamante del mondo sviluppato» si legge nel libro; lo è perché qui, nel nostro paese, quel processo che lo scrittore chiama «autoespropriazione dell'umano», ovvero la malattia occidentale, si compie più velocemente che altrove rendendoci il popolo «più alienato del pianeta».
Ecco allora che Genna si autorappresenta in situazioni estreme quali un'eutanasia o un esperimento con l'eroina. Il gioco non consiste nel capire se e quanto queste sue storie rispondano al vero, giacché in esse è chiaramente percepibile una sorta di istinto alla deformazione allegorica. Forse sono vere o forse no, ma non importa. Certo è che sembrano fare il verso a scene note della letteratura, a luoghi già letti, quasi che il Genna scrittore si serva del Genna uomo come una sorta di stuntman per interpretare una serie di violente cadute, schianti apocalittici e tragicomici. Ma il paradosso più sublime di Italia De Profundis è che nel suo corsaro furore, in bilico tra acume e delirio, spietatezza e compassione, il Belpaese diventa un avamposto del tracollo occidentale e dunque un viatico per il futuro, un faro per l'evo oscuro che seguirà all'ennesima caduta dell'impero. Fermo restando, ovviamente, che stavolta i barbari siamo noi.
ilmanifesto.it