27.8.07

Alla ricerca della mossa vincente sulla scacchiera di Walter Tevis

Sostenuto da una incredibile tensione, il romanzo dello scrittore americano titolato «La regina degli scacchi», introdotto da Tommaso Pincio per minimum fax. Protagonista, una bambina prodigio, che sfida il caos con la forza del pensiero
Francesca Borrelli

È mai possibile che un intreccio letterario generi tensione affidandosi a sequenze di ragionamenti nei quali è pressoché inimmaginabile identificarsi? È plausibile che riesca nell'intento di trascinarci fino all'ultima pagina pur descrivendo azioni che non troviamo né attraenti né ripugnanti ma semplicemente indifferenti ai nostri interessi, ambientate in un contesto sufficientemente sterile da non catturare le nostre proiezioni mentali né attentare al nostro equilibrio psichico? E, per di più, tra personaggi che frequentano poco o nulla i sentimenti, che non hanno sogni ai quali aderire o dai quali ritrarsi, perché assorbiti da una unica ossessione di cui tutte le coordinate ci sfuggono e il cui nome a mala pena riusciamo a far combaciare con una immagine dotata di senso? Forse la questione è mal posta, certo è che un romanzo affidato a queste pregiudiziali sembrerebbe avere poche chances; eppure, la tensione che percorre, e quasi fa vibrare le righe della Regina degli scacchi, scritto dall'americano Walter Tevis nel 1983, è pressoché insostenibile. Ne è protagonista una bambina di nome Beth Harmon, la cui vita seguiamo fino alla fine della adolescenza, quando raggiunge il traguardo che si è imposta e finalmente potrebbe avviarsi a sperimentare tutto ciò che fino a allora si è negata.
Strategie esistenziali
Della sua prima infanzia non sappiamo nulla, non soltanto perché è preclusa dalla scena del romanzo, ma perché Beth sembra non avere ricordi ai quali risalire, né emozioni legate alla perdita prematura dei genitori, morti in un incidente stradale. Stordita e silenziosamente rassegnata al suo destino, vive per anni in un orfanotrofio dove somministrano tranquillanti ai bambini per controllarne la docilità, senza altra amica se non una ragazza nera patentemente invidiosa di lei, che le notifica la sua condizione di «povera sfigata, bianca come una mozzarella e pure stronza». Beth, tutto sommato è d'accordo, si trova effettivamente brutta e sgraziata, non è incline a stringere rapporti, sa su cosa può contare e quel qualcosa lo ha in sé anche se non basta a darle sicurezza; infatti ingoia ansiolitici e impara a metterne da parte una scorta per le notti più insonni: è la prima strategia che elabora, arriverà persino a scassinare l'armadio dove è contenuto il barattolo delle pillole agognate. Il senso della misura non le indica qual è la soglia, e lei la oltrepasserà più volte. Ma la fortuna in qualche modo le viene incontro, un giorno scende nello scantinato dell'orfanotrofio e si trova davanti una scena incomprensibile: il custode è chino su una scacchiera, il suo sguardo è inchiodato ai pezzi che ha davanti, ogni tanto ne muove uno, Beth lo osserva e impara. Ha solo otto anni, e quando chiederà di giocare si sentirà dire che quello non è affare per bambine, l'esordio di una lunga serie di manifestazioni di diffidenza, che lei demolirà con la sua bravura. Il primo a cedere è proprio il custode che, arreso all'evidenza, le dice «sei stupefacente»; così, è a lui che Beth chiederà i cinque dollari necessari a iscriversi al suo primo torneo quando, ormai adottata da una coppia che sta insieme solo per il tempo necessario a simulare una famiglia possibile, darà inzio alla sua carriera di scacchista.
D'ora in avanti le pagine si affollano di combinazioni, di strategie di attacco, di bilanciamenti di forze lungamente ponderati, e incredibilmente incollano la nostra attenzione, sebbene ignara di quel che si sta svolgendo. È probabile che chi è in grado di seguire il gioco degli scacchi abbia a disposizione una fonte ulteriore di godimento, ma è altrettanto possibile che la sua competenza lo induca a concentrarsi sulle mosse delle partite, allontanandolo dal congegno del romanzo; è quanto è patentemente successo a Yuri Garrett, scacchista e autore di una postfazione al tempo stesso ammirata e stizzita, ma comunque benvenuta in questa edizione di minimum fax, che ci regala apparati ormai latitanti dalla stragrande maggioranza dei libri.
Un rifugio oltre il mondo reale
Dunque, Beth Harmon ha trovato la sua strada, ha gettato l'unica bambola mai avuta in regalo nella spazzatura e in compenso ha imparato a soppesare i pezzi degli scacchi, rigirandoseli voluttusamente tra le mani e considerandone la qualità. Legge riviste specializzate sulle quali studia le partite dei Grandi Maestri, poi le memorizza e le riproduce introducendo le sue varianti. Conosce ben poco del mondo, negli scacchi ha trovato «un rifugio sicuro - scrive Tommaso Pincio nella sua introduzione, al solito puntuale e felicemente espressiva - se non addirittura l'illusione di poter dominare il caos con la forza del pensiero». Per potersi concentrare, Beth ha bisogno di eliminare dal suo spazio mentale la persona che ha davanti: raramente quell'individuo merita uno sguardo, e più raramente ancora lo sguardo, comunque sfuggito, coglie un dettaglio piacevole sul quale sostare. Quella persona non è che un avversario, Beth non vede in lui altro che una minaccia alla sua sete di vittorie. «È talmente prigioniera della sua capacità di pensare in termini astratti - scrive ancora Pincio - che i desideri non riescono a cristallizzarsi in alcunché di concreto.» Proprio così; infatti è drammaticamente sola, inchiodata con il pensiero alle linee di forza incise sulla sua scacchiera mentale, eppure starle dietro in quelle mosse, benché incompresibili, è enormemente più emozionante che non seguirla nei suoi primi passi di amante, o nel vortice che la inghiotte quando comincia a bere. Evidentemente, l'interesse di Walter Tevis per il gioco, sia quello degli scacchi che quello del biliardo, non a caso sfondo del suo primo successo titolato The Hustler, è contagioso.
Ma Tevis aveva anche familiarità con l'alcol e le tossicodipendenze, inoltre il suo fisico portava il segno dei danni alla cordinazione motoria derivatigli da una malattia infantile; sapeva dunque cosa vuol dire avere un brutto aspetto e una buona disposizione alla dipendenza da farmaci psicotropi, ma nessuna di queste peculiarità riversate nel personaggio di Beth è altrettanto trascinante della sua competenza scacchistica.
Una passione, certo, ma soprattutto la sua carta per avanzare da vincente nella vita, quella vita di cui lei scansa le poche occasioni emotive, neutralizzandole tramite esagerate bevute e altrettanto esorbitanti dosi di tranquillanti. Assaggia il deterioramento della sue facoltà percettive, le cadute di attenzione, l'appannarsi della lucidità, persino lo svanire della sua motivazione al gioco. Ma ha davanti un obiettivo per lei fondamentale, battere i Grandi Maestri russi, i più temibili, i migliori al mondo. Guadagnerà le tappe a cui aspira ritrovandosi ripetutamente sola; il fatto stesso che Beth sbaragli uno dopo l'altro i suoi avversari fa sì che nessuno sosti davanti a lei per un tempo maggiore di quello necessario a essere vinto. Così tutti la ricordano come un prodigio: di bravura non certo di simpatia, e sono rari quelli che si alzano dal tavolo con la generosità necessaria a stringerle compiaciuti la mano.
Sul filo dei nervi
Tutto ciò che accompagna il suo affaccio alla notorietà - le interviste, la deferenza che le viene tributata, i piccoli lussi finalmente possibili - è descritto da Tevis in modo da costruire al tempo stesso una cornice convincente e una serie di allentamenti della tensione, che riprende non appena Beth torna al tavolo da gioco. E proprio allora, quando le parole abbandonano il campo delle descrizioni in cui è possibile orientarsi, proprio quando tornano a nominare oggetti, azioni, ragionamenti estranei alla nostra capacità di comprederli e dunque di visualizzarli, scatta il contagio, e i nostri nervi si tendono insieme a quelli di Beth.

ilmanifesto.it

20.8.07

SOLDI E POLITICA

di SERGIO RIZZO e GIAN ANTONIO STELLA

Le casse già piene dei partiti

Il vecchio Orlando Orfei sfidava la sorte afferrando per la coda feroci iene che mulinava in aria per scaraventarle in gabbia e il mitico Patrick de Gayardon buttandosi dagli aerei senza paracadute. Ma anche Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds, adora il brivido. Nel bel mezzo delle polemiche sui costi pazzi della politica ha infatti proposto di ripristinare il finanziamento pubblico ai partiti. Che già oggi ricevono il doppio che in Germania. Per non parlare di Usa o Inghilterra. Che il deputato ds fosse di parola ruvida si sapeva. Ferroviere, funzionario del partito, da anni in politica, si è fatto, via via che entrava nella parte del ringhioso guardiano della cassaforte diessina, la fama del «signor No».
Brusco sui soldi con Prodi: «Tenga al guinzaglio i suoi cani». Rude con Veltroni: «Ho vissuto sei anni in mezzo ai debiti e ora non ho nessuna intenzione di farne per organizzare le primarie del partito democratico». Spiccio coi giovani che contestavano («troppi soldi») il contributo di 10 euro proposto per chi alle primarie voterà: «Quelli che alla loro età andarono in montagna non si posero il problema della paghetta». Aspro con chi come l'ulivista Salvatore Vassallo teorizza il superamento delle feste dell'Unità e di tanti simboli identitari post-comunisti: «Qualcuno dovrebbe mettergli la museruola». Muscoloso col coro di proteste per la decisione del suo amico sindaco di Tarquinia di prendere dalla cassa l'anticipo per le spese legali di un branco di bulli che aveva violentato una ragazza: «Una indegna gazzarra».
Non bastasse, era stato scottato da roventi polemiche per l'intercettazione di una sua chiacchierata telefonica con Giovanni Consorte. Chiacchierata nella quale l'allora capo dell’Unipol impegnato nella scalata alla Bnl gli diceva: «Non sa niente nessuno, lo sai solo tu come al solito, perché sei l'unico di cui mi fido...». E lui ricambiava mostrando di condividere la prudenza sulla necessità di raccontare come stavano le cose a Piero Fassino «senza dargli dettagli» : «Niente, niente Gianni, niente...» Raccomandazione non proprio coerente, diciamo, con quanto sostiene: "La democrazia è trasparenza, conti chiari, bilanci onesti".
Certo è che, fiero d'avere avviato il risanamento del partito, ha deciso di essere franco fino in fondo, sbuffando ieri mattina con Luca Telese, del Giorna le , contro le «animelle che storcono il naso» sui costi della politica e che secondo lui «o parlano per opportunismo o sono in malafede». Poiché «i costi della politica sono cresciuti all’inverosimile», infatti, «è ora di finirla con le chiacchiere. Basta con la demagogia, facciamo sul serio. E' giunto il momento di impegnarsi in una battaglia democratica per reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti». Alla faccia dei giornali che «decidono tutto». Alla faccia di chi denuncia come insopportabile scoprire che un barbiere del Senato può arrivare a prendere 133 mila euro cioè il quadruplo di un dipendente medio di Buckingham Palace e 36 mila più del Lord Chamberlain della Regina Elisabetta. Ma alla faccia, dice lui, soprattutto di tanti colleghi che lo criticano «e invece dovrebbero farmi un monumento».
Ma il finanziamento pubblico non era stato abolito dal 90,3% dei votanti al referendum del ’93? Certo, risponde Sposetti, ma tutto questo accadde «un secolo fa. Adesso è tutto cambiato». Quanto alle perplessità sulla rapidità e sul modo in cui il bilancio diessino è stato aggiustato, il tesoriere fassiniano le liquida così: «frescacce». Quali saranno la reazione degli elettori di sinistra si vedrà. Certo è che la sfida del tesoriere ds rischia di essere un cerino buttato in un deposito di polvere da sparo.
Stando a uno studio elaborato proprio per la nostra Camera dei deputati, infatti, i soldi che i partiti italiani incassano sono già molti di più di quanti vengono distribuiti negli altri principali paesi occidentali. In Francia, dove chi non raggiunge almeno il 5% dei suffragi al primo turno non ha diritto a vedersi rimborsare neppure la metà di quanto ha speso (tanto che il glorioso ma ammaccatissimo Pcf potrebbe vendere parte delle opere d'arte avute in dono negli anni buoni da artisti amici) e dove i finanziamenti vengono tagliati a chi non rispetta le «quote rose» fissate, ogni cittadino versa negli anni elettorali circa 2,54 euro. In Spagna, dove i parlamentari sono 575 (metà dei nostri), la spesa pro-capite è di 2,13 euro. In Germania, dove esiste un tetto massimo (133 milioni l'anno) agli stanziamenti statali, la quota personale è di 1,61.
Da noi, nel 2006, di 3 euro e 38 centesimi. Il doppio. Per non dire dei confronti imbarazzanti con paesi come il Regno Unito dove, spiega il dossier, «Il finanziamento pubblico - se si escludono alcuni servizi messi a disposizione dallo Stato nel corso delle campagne elettorali - è limitato ai contributi concessi ai partiti di opposizione in Parlamento». O degli Stati Uniti, dove «il finanziamento pubblico della politica è limitato al finanziamento della campagna presidenziale» e nel 2004 è costato 206 milioni di dollari, circa 50 centesimi di euro per abitante.
Eppure, a spulciare nella nostra storia recente, non solo ogni ciclo elettorale di cinque anni (politiche, europee, regionali, amministrative) ci costa un miliardo di euro ma una inchiesta del "Sole 24 ore" ha appena dimostrato che le finanze dei partiti non sembrano proprio aver bisogno di nuovi afflussi. Stando ai bilanci, vanno tutti bene. Sono in largo attivo, non fosse per i buchi del passato, i diessini (11 milioni e mezzo, pari al 27,6% dei proventi totali del partito) e i forzisti (più quasi 47 milioni grazie a introiti pubblici nello scorso anno per la cifra record di 134 milioni) e i nazional-alleati (più 3 milioni 850 mila euro) e i casiniani dell'Udc (25 milioni 182 mila euro!) e perfino chi sta maluccio, come la Lega, non è andata in rosso. E allora?
Non bastasse, vale la pena di sottolineare un punto: non sempre, quando sono in ballo i soldi, i nostri parlamentari decidono «a partire dalla legislatura successiva» come nel caso delle sforbiciate alle pensioni o ai privilegi. Certe volte fanno anche scelte «retroattive». Come quella, passata sotto silenzio, dell'ottobre 2002. Quando, dopo aver portato tutti insieme soltanto due mesi prima (unica eccezione: i radicali) i rimborsi elettorali da 2 a 5 euro per ogni elettore iscritto alle liste, ridistribuirono i soldi per le elezioni del 2001: 125.089.621,44 euro in più rispetto a quelli già stanziati proprio per il 2002. Un bel gruzzolo supplementare che, per fare solo due esempi, fu di oltre 9 milioni per gli azzurri e di 8 per i diessini. E quel giorno, accantonando le reciproche accuse di essere goebbelsiani o stalinisti, sorrisero finalmente tutti.
corriere.it

19.8.07

Aspiranti scrittori aprite le orecchie

È più facile che un grande scrittore si nasconda sotto i panni malconci del ladro di polli che dentro la giacchetta di un dandy ostentato, ex studente di liceo sempre seduto al primo banco
Camilo José Cela

Ignorano, i giovani apprendisti del mestiere sparsi per tutta la terra di Spagna, fino a che punto scrivo fremendo e con l'anima appesa a un filo questa lettera che oggi voglio dedicare loro. Né vecchio, ma nemmeno più giovanissimo, credo che i miei trentasei anni siano giusti per rivolgermi, con ancora fresco il ricordo di quell'età, ai giovani che, come bambini sonnambuli, si sforzano di seguire il duro e accidentato cammino della propria vocazione letteraria, questo sentiero per cui si procede pagando tutte le servitù di passaggio, e per il quale, a volte, non si va avanti se non a prezzo del fallimento; e, quel che è peggio, del dileggio dei più. Il ludibrio di quanti, deliziandosi della propria crudeltà, esclamano: «Lo vedi? Se almeno ti fossi preparato qualche concorso».
Per essere scrittore, è necessario essere capaci di sentirsi eternamente giovani. Samuel Ullman diceva che la gioventù non è una età della vita, ma una condizione dello spirito, e in questo senso parlo ora di quel mito dorato, di quel premio della lotteria a cui diamo il nome di «giovinezza». L'apprendista del mestiere, lo scrittore esordiente, di solito è giovane. Darsi, una volta trascorsa la giovinezza, alla letteratura, alla tauromachia, o all'amore, è un bisogno, né piacevole, né fecondo. Bisogna provare sia la letteratura che la tauromachia, per non essere privati di vigore e di virtù, parandosi con la «muleta» dell'audacia - arma difficile che pochissimi sanno maneggiare - e facendosi scudo di un'eroica rinuncia a tutto. Ammesso che si guadagni il successo, questo ci sarà dato come un di più, e né gli intrighi, né i temporeggiamenti potranno servirci se non da zavorra.
Il giovane che si senta conservatore farebbe meglio a sbarazzarsi di gran carriera del suo progetto di farsi strada con la penna in mano. Il saggio Castiglione diceva che troppo buon senso nei giovani è un cattivo segno. È più facile che un grande scrittore si nasconda sotto i panni malconci del ladro di polli, che dentro la giacchetta di un dandy ostentato, solito a sedersi, quando era studente di liceo, sempre al primo banco. È solo questione di sapere ciò che si vuole e di riuscire a capirlo in tempo.
L'apprendista scrittore non deve mai cercare di procacciarsi onori, meriti, gloria o denaro in cambio dell'avere dedicato tutta la sua vita alla letteratura. Non è infrequente imbattersi in chi vende il proprio onore in cambio di onorificenze, come diceva il tedesco Jacob, ed è bene tenere sempre a mente che, secondo il poeta Giusti, la gloria, il merito e l'onore sono elastici come la gomma.
L'apprendista scrittore farà bene a ricordare sempre che la letteratura nasce e muore in se stessa, che non ha nessuna influenza sulla vita dei popoli - di solito governati da commercianti, pirati, e gente che non ha trovato modo migliore di sfangare la vita - e né la cuccagna né la prosperità materiale le portano fortuna, inoltre non dà maggiore soddisfazione se non quel bene tanto aleatorio, obliato, umiliato che si chiama coscienza tranquilla, a cui solo alcuni folli come noi continuano ad attribuire una qualche utilità.
Coltivando l'idea che si scrive solo per scrivere e mai per più di una mezza dozzina di persona, l'apprendista del mestiere, a patto di non dimenticarlo mai, può diventare scrittore. Con gioia e mirando a traguardi molto lontani. Non serve a nulla essere il romanziere più quotato di una casa editrice, o il poeta più apprezzato di una certa provincia, obiettivo raggiungibile da qualsiasi idiota dotato anche solo di un po' di applicazione. Il nostro fine - il fine a cui bisogna tendere - è dire ciò che abbiamo dentro nella maniera migliore e più chiara possibile: lo stesso fine che si sono proposti, più o meno, Cervantes, Dostoevskij o Balzac.
Lungi da me l'intenzione di indottrinare chicchessia - e che Dio mi liberi dal volerlo fare in un paese in cui si trovano tanti volontari! Al mio proposito, calza a pennello ricordare le sagge e assai sagaci parole di Goethe, l'uomo che ha ribadito il principio per cui la gioventù preferisce essere stimolata piuttosto che istruita. Poiché penso che la dedizione alla letteratura sia una passione fatale, e, se profondamente sentita, nessuno la possa frenare, preferisco, piuttosto che offrire all'apprendista il triste calice della dolorosa e quasi quotidiana realtà, fargli un brindisi di incoraggiamento.
Ciò che vi è di più interessante, dice Ortega, non è la battaglia dell'uomo con il mondo, con il suo destino esteriore, ma piuttosto la battaglia dell'uomo con la sua stessa vocazione. In questa battaglia battaglia dell'uomo con se stesso, il giovane scrittore deve trovare il combustibile per alimentare perennemente il motore del suo spirito. L'apprendista deve essere giovane per principio: essere giovane all'anagrafe e nel cuore vuol dire sentirsi capaci delle più nobili e scapigliate imprese. Per Benjamin Disraeli, non c'è nulla di grande che non sia stato portato a compimento dalla giovinezza. L'apprendista scrittore, come il porcospino, deve rinunciare a ogni vana battaglia, a ogni battaglia perduta in partenza, per rifugiarsi, incorruttibilmente e ostinatamente, nel suo ispido mondo personale, dove a nulla gli gioverebbe ingannare se stesso, perché il suo inganno, come una maledizione fatale, travestito da fantasma terrificante, gli si ripresenterebbe davanti non appena l'aspirante scrittore bugiardo si ritrovasse veramente da solo con se stesso.
L'aspirante scrittore che si ritiene dotato di forza sufficiente per mantenersi a galla accada quel che accada, non ha nulla a che vedere con l'ipocrita, con l'uomo che si rifugia dietro una maschera di cautele. Questo di solito accade in seguito, anche se non è una regola ineluttabile. E se cerca, sin da piccino, di imbonire tutti con fole e fantasie, che tenerezza ispira col suo candore tinto di saggezza infantile! Il popolo, che spesso dice bene, sostiene che se il pane è buono lo si vede anche prima di metterlo in forno.
(Traduzione di Laura Pugno)

ilmanifesto.it

«Ammazza il bastardo!»

Omicidi anonimi in nome dell'eguaglianza
«Ammazza il bastardo!», noir francese che strizza l'occhio al surrealismo firmato da Colonel Durruti, pseudonimo in onore dell'anarchico spagnolo. Pubblicato da Spartaco, giovane casa editrice libertaria di Santa Maria Capua a Vetere che unisce saggistica e narrativa
Mauro Trotta

Secondo André Breton, l'atto surrealista puro sarebbe «scendere in strada con il revolver in pugno e sparare a caso nella folla». Probabilmente questa è stata la fonte di ispirazione per Ammazza un bastardo! di Colonel Durruti, noir anomalo, incalzante e avvincente, di recente pubblicato dalle Edizioni Spartaco (pp. 153, euro 14). Tutto ha inizio, infatti, il 18 marzo 1986, quando nelle strade di Parigi appare un manifesto viola che incita i cittadini, appunto, ad ammazzare un bastardo. Trovata pubblicitaria? Scherzo di cattivo gusto? Provocazione? Nessuno sa darsi una risposta e l'avvenimento viene sottovalutato. Fino a che, in perfetto accordo con quanto annunciato nel poster, un bastardo di livello nazionale viene ammazzato dai misteriosi autori della strana campagna comunicazionale. È il caos: ovunque una serie di bastardi vengono ammazzati in seguito ad azioni spontanee, compiute da persone insospettabili e «normali». Si arriva addirittura al suicidio di un bastardo, che si dà fuoco dopo aver esposto un cartello in cui confessa pubblicamente la propria bastardaggine.
Intanto, come in una vera e propria campagna di marketing, compaiono adesivi, altri manifesti, comunicati. E si scopre che tutto è stato organizzato dal Soviet, organizzazione sovversiva misteriosa ed efficientissima, strutturata in piccole cellule autonome. Così la descrive uno dei suoi membri: «Ci siamo messi insieme per combattere il potere, qualunque sia. Istituzionale o ufficioso. Non abbiamo struttura gerarchica, cioè piramidale. Funzioniamo per cellule, come alcuni clandestini, come la Resistenza francese durante l'ultima guerra. Potete sperare di disattivare alcune cellule, di contrastare certe azioni specifiche, ma non di smantellare il Soviet. Per la semplice ragione che non c'è niente da smantellare. Non si spezza una struttura così semplice».
Mentre la polizia fatica a raggiungere un qualunque risultato, soltanto un ispettore, Maistre, riesce ad entrare in contatto con il gruppo rivoluzionario. Questo, però, sarà per lui fonte di dubbi e di crisi interiore. Cercando di capire, sarà costretto a mettere in discussione tutte le proprie certezze, anche in seguito all'incontro con una dark lady davvero sui generis: Virginia Slapski, artista d'avanguardia e militante rivoluzionaria, cinica, fredda e decisa.
Primo romanzo del ciclo dedicato al Soviet, Ammazza un bastardo! coniuga una scrittura secca e precisa, che scandisce gli avvenimenti giorno per giorno, ora per ora, con un ritmo incalzante ed avvincente che toglie il respiro ed impedisce di staccarsi dalla lettura. Formidabile, poi, l'idea alla base della trama che fa venire in mente un altro libro di culto, Spinoza incula Hegel di Jean-Bernard Pouy, in cui veniva rivisitato il Sessantotto in chiave fantascientifica.
Vero e proprio romanzo sovversivo, il testo di Colonel Durruti (pseudonimo scelto evidentemente in omaggio al famoso anarchico spagnolo, dietro il quale si nascondono Emmanuel Jouanne, scrittore di fantascienza e traduttore di Philip K. Dick, e Yves Frémion, scrittore e critico di fumetti, ex-deputato europeo per i Verdi) da un lato richiama la rivolta del '68: del resto l'86, anno in cui si svolgono gli avvenimenti narrati, non è il numero speculare di 68?
La sua carica sovversiva si rivela anche e soprattutto nel radicale sconvolgimento attuato nei confronti dei canoni classici del noir, attraversati, utilizzati e completamente rivoltati dalla scrittura degli autori. Una scrittura in grado di raggiungere in alcuni momenti livelli di comicità grottesca e surreale davvero esilaranti, come nel caso di questa uccisione di un bastardo: «"Vieillespèce, vecchia puttana!", mormora il tipo che lo spinge, prima che il suddetto precipiti. "Platch" risponde l'interpellato, non senza aver educatamente aspettato d'essere arrivato giù».
Libro inusuale ed affascinante, fuori dai soliti schemi cristallizzati, Ammazza un bastardo! rientra appieno nella linea editoriale della Spartaco, casa editrice di Santa Maria Capua Vetere, e risulta essere un perfetto esponente della collana di narrativa, non a caso intitolata «Dissensi». Laddove il dissentire richiama un gusto particolare, una voglia di sperimentazione, di fuoriuscita dai canoni consolidati, anche e soprattutto nell'utilizzo del linguaggio. E che non a caso ospita testi di autori come Albert Cossery, Maggie Gee, Antonio Rabinad, Lihn Dihn.
Una scelta che informa anche la collana di saggistica che, a partire dall'ispirazione libertaria della casa editrice, tenta di coniugarla in modo inusuale ed inaspettato, mettendo insieme opere di Malatesta o Lafargue con scritti di Mark Twain, Dos Passos, Silone o Carlo Levi e con testi storico-politici di giovani autori come Matteo Melchiorre e Luca Rossomando. E che presenta al proprio interno una sorta di piccola biblioteca di genere con autrici come Maria Lacerda, Mary Wollstoncraft, Flora Tristan, Jane Addams, Vera Brittain.
Nata nel 1995, con una dimensione legata al territorio, presente ancora oggi negli studi storici e di impronta meridionalistica della collana «La campana», Spartaco è una giovane casa editrice nata localmente, ma che aspira a diventare di livello nazionale: solo dal 2003, infatti, i suoi libri vengono distribuiti in tutta Italia. Il suo legame con il teritorio, comunque, non si è mai interrotto, anzi risulta ulteriormente rafforzato con l'apertura di una libreria a Santa Maria Capua Vetere nello scorso dicembre.
ilmanifesto.it

13.8.07

Significanti intrecci per trovare le vie d'accesso alle narrazioni del sé

A partire dell'opera filosofica di Georges Politzer, un saggio dello studioso italiano Aldo Pardi ripropone la «psicologia concreta» come progetto di ricerca per una teoria del soggetto. «Il sintomo e la rivoluzione» per manifestolibri
Fabio Raimondi

Nell'introduzione al libro di Aldo Pardi Il sintomo e la rivoluzione. Georges Politzer crocevia tra due epoche (manifestolibri, pp. 206, euro 22), Etienne Balibar afferma che questo «volume colma un vuoto sorprendente» anche all'interno della cultura francese, data la rilevanza del fautore della «psicologia concreta» (il cui manifesto è la Critique des fondaments de la psychologie del 1928) sia in ambito marxista (si pensi all'aspro scontro, alla fine degli anni Sessanta, tra Lucien Sève e Althusser attorno alla teoria della personalità o ai debiti di Sartre nei suoi confronti) che in quello psicoanalitico (Lacan) e fenomenologico, dove il confronto con Husserl e col concetto di intenzionalità diventa l'occasione e il luogo «per una lettura della psicoanalisi freudiana spostata sul versante delle categorie di senso e di vissuto, anziché sugli aspetti genetici e metapsicologici», a privilegiare «la vita e il lavoro, piuttosto che il linguaggio».
È proprio a ridosso del confronto tra psicologia e fenomenologia che il libro di Pardi affonda con efficacia la sua analisi, evidenziando l'importanza della nozione di «dramma», che per Politzer è «l'unico oggetto della psicologia» e pone «la persona nella sua vivente totalità» al «centro della ricerca». Si tratta di indagare la «storicità del soggetto», che si dà nelle «regolarità empiriche», alla base dell'interazione tra individuo e ambiente e che definiscono le traiettorie possibili di entrambi.
Patologia come racconto
Il metodo usato da Politzer, la «comprensione», non ha nulla ha che fare con «l'analisi introspettiva», perché consiste in un «percorso di riflessione del soggetto stesso sul suo vissuto, incarnato in un racconto, in una narrazione di sé, e dal riscontro dell'osservazione del comportamento esteriore, il gesto, che fa riferimento alla materialità del soggetto», al fine di «catturare le sequenze regolari che fanno di una vita questa vita e non un'altra». Si tratta di estendere la ricerca alla totalità del soggetto umano, che è «un continuo mediare le tensioni che su di esso vertono, amalgamarle e farne un insieme ordinato, che tenga fronte al mondo». La patologia, da questo punto di vista «via di accesso» privilegiata della psicoanalisi al suo «oggetto», cioè l'essere umano singolo definito dalla sua esperienza, «non è una costruzione immaginifica, ma la mediazione che il soggetto ha attuato per affrontare un delicato compito che gli era stato proposto e non necessariamente dall'esterno».
Contro la «psicologia classica» e la «metapsicologia», che hanno a modello le scienze naturali e il loro approccio quantitativo attraverso la misurazione di entità stabili nel tempo, Politzer cerca un modo per conoscere «l'essere proprio dello psichico». La psicoanalisi diventa così «scienza della vita», perché ha un proprio «contesto oggettivo, con proprie caratteristiche e proprie leggi: la soggettività attiva», irriducibile alla «componente fisiologica», per la presenza del «vissuto». Questa soggettività ha delle costanti (come mostra la pratica analitica), la più importante delle quali è la storicità, ragione per cui lo psicoanalista è lo «storiografo dei soggetti analizzati» e ogni analisi è «un fatto originale e irriducibile», anche se ciò non toglie che, essendo i «protagonisti dell'analisi individui, che vivono in una stessa organizzazione sociale, costituita da eventi che ciascuno può sperimentare, le analisi presentino analogie che permettono di produrre tesi generali e anche previsioni». La psicoanalisi diventa così «romanzo portato a livello della scienza».
Linee di condotta
La «psicologia concreta» si fonda dunque su due categorie principali: «dramma e significato», nel senso che «l'azione significante individuale è il dominio proprio della psicologia, perché ciò che fa di un atto un atto umano è l'intenzione significativa che lo muove». L'azione significante non è dunque esterna alla psicologia (realismo) né interna (apriorismo), ma sempre «già-fuori», perché immersa nello «spazio e nel tempo vissuti». Non si tratta, come nelle scienze della natura, di tentare una «ricostruzione concettuale arbitraria dello schema fenomenico di un oggetto», ma di provare a comprendere, attraverso il racconto e il gesto, «la condotta drammatica del soggetto in prima persona».
Il «racconto è la percezione che il soggetto ha di se stesso e delle sue azioni, è il render-conto di sé che il soggetto dà» e, dato che «la successione dei significati del racconto è omogenea a quella dei significati vissuti, il linguaggio non è che l'atto del farsi trasparente del soggetto a se stesso»; il «gesto», invece, è «l'esteriorità dell'atto vissuto» che rispecchia, in tutto o in parte, l'intenzionalità del soggetto agente. È solo l'intreccio tra interno (racconto) e esterno (gesto) che può indicare la via per la comprensione della totalità vivente e vissuta del soggetto.
Infatti, è l'interrelazione tra «narrazione e verifica empirica» che può rendere ragione del significato umano che un soggetto attribuisce alle proprie azioni e a quelle altrui, mentre il gesto «diventa fatto psicologico solo dopo esser stato chiarito dal racconto».
In questo modo la rigida dicotomia tra soggetto e oggetto viene fluidificata in un feedback continuo, a cui Politzer dà nome di dramma, dove «l'oggetto è colui che compie l'atto di oggettivazione su se stesso per effettuare l'atto conoscitivo e fornirlo allo psicologo», diventando così soggetto.
Il dramma rivelato
L'elemento propriamente drammatico, «il significato», non è allora «né interiore né esteriore, ma al di là o piuttosto al di fuori di queste possibilità» senza per questo essere irreale.
I problemi non mancano, e Pardi ne sottolinea molti. Ma se è vero che «la psicologia concreta è più che altro un abbozzo di teoria di un giovane studioso ricco di temperamento, che ha colto delle verità, ma che non le ha seguite fino in fondo», è altresì vero che a volte valgono di più incursioni coraggiose e lungimiranti, che inutili risciacquature accademiche.

il manifesto
del 07 Agosto 2007

Il gusto perduto della critica

Una idea imperfetta ha sempre un avvenire Elias Canetti
Quarta puntata dell'agosto letterario. Solo vent'anni fa - scrive Emile Zola in questo articolo inedito, datato 1865 e di amarissima attualità - i giornali davano alla politica e alla letteratura tutto lo spazio necessario. Il pensiero critico, in quel momento felice, era a proprio agio. Ora, invece, l'assioma di ogni direttore è che articoli troppo lunghi non si leggono L'entusiasmo, la fede letteraria, tutto ciò che smuove, ostacola la digestione. La gente vuole no
Emile Zola

In questo momento, in Francia, non abbiamo più critica. Questa è l'espressione che sento ripetere attorno a me, da quando è morto Sainte-Beuve. Formalmente, nulla da eccepire, il ruolo della critica, in letteratura, tuttavia, ha ancora una grande importanza. Certamente, non credo alla sua influenza, diretta o meno, sul piano letterario. Non siamo più ai tempi in cui si potevano richiamare gli scrittori al rispetto dei generi e delle regole, in cui la critica distribuiva colpi di bacchetta comportandosi come un maestro di provincia. Essa non si assegna più la missione pedagogica di correggere, di segnalare gli errori come nel compito di uno studente, di imbrattare i capolavori con annotazioni da retori e grammatici. La critica si è allargata, è diventata uno studio anatomico degli scrittori e delle loro opere. Prende un uomo, prende un libro, lo seziona, si sforza di mostrare attraverso quale meccanismo quell'uomo ha prodotto il tal libro, si accontenta di spiegare, di preparare un verbale. Il temperamento dell'autore viene approfondito, stabiliti i mezzi e le circostante in cui ha lavorato, l'opera vi appare come l'inevitabile prodotto, buono o cattivo, del quale si tratta unicamente di mostrare la ragion d'essere.
Il gusto di una generazione
In questo modo, ogni operazione critica si limita a constatare un fatto, passando dalle cause che l'hanno prodotto alle conseguenze che ne deriveranno. Un lavoro del genere contiene indubbiamente una lezione e osservandosi in uno specchio tanto fedele lo scrittore può riflettere, conoscere le proprie infermità, sforzandosi di mascherarle il più possibile. Un solo fatto, però: la lezione arriva dall'alto, fuoriesce dalla verità stessa del ritratto e non è più il compassato insegnamento di un professore. La critica espone, non insegna. Essa ha compreso da sé che la propria influenza sul piano letterario era pressappoco nulla, poiché gli umori rimangono poco addomesticabili. Allora, ha preferito interpretare il bel ruolo di scrivere la storia della critica contemporanea, esplicata e commentata. La sua attuale importanza è dunque quella di segnalare i movimenti letterari in corso. Deve esserci, essere sempre presente, come un innesto, a registrare i fatti nuovi, a constatare in quale direzione marcia una generazione di scrittori. Il pubblico, che l'originalità evidentemente getta nello sconcerto, ha bisogno di essere rassicurato e condotto per mano. Un critico che possieda autorità sui propri lettori può rendere i più grandi servigi. Si accetta tutto da lui, si attende che parli per credergli sulla parola. Perciò, se è di vedute abbastanza larghe, se accoglie anche i temperamenti più originali, lui solo ha il potere di imporli al pubblico esitante. Studierà questi temperamenti, mostrerà le rare qualità di cui sono portatori, educherà in questo modo il pubblico che finirà per addomesticarsi. Non c'è ruolo migliore da interpretare che quello di abituare la grande massa agli inquietanti splendori del genio. Andrò ancora avanti, dicendo che ogni generazione, ogni gruppo di scrittori ha bisogno di avere il proprio critico che li comprenda e li volgarizzi. Si capisce che il critico, così inteso, debba nascere con la generazione di scrittori che andrà a rivelare e a imporre. Gli serve il «gusto» di questa generazione, gli stessi amori e gli stessi disamori. (...)
Ho detto che Sainte-Beuve è stato, da noi, l'ultimo critico. Restringo qui il senso del termine «critico» a quello di critica letteraria, che giudica opere nuove, man mano che vengono pubblicate. Sainte-Beuve, dall'istinto classico, è però cresciuto in pieno movimento romantico. Viene da lì il suo intestardirsi nel non comprendere né Stendhal, né Balzac. Stendhal, in particolare, gli era completamente precluso. Quanto a Balzac, sappiamo che si è trattato di una delle sue bestie nere. Ma ciò che fa di Sainte-Beuve una delle più alte personalità di questo tempo sono le sua ammirevoli capacità di comprensione e di analisi. Sembrava fatto per comprendere ogni cosa. In questo modo, è lui che ha dato vita alla critica così come io la definivo poco fa. Si è sganciato dalla scuola di La Harpe, studiando l'uomo prima di studiare l'opera, preoccupandosi del contesto, delle circostanze, del taglio del carattere. E, cosa che sopra ogni altra bisogna notare, non ha mai avuto una dottrina, non si è mai rinserrato in un metodo o in una formula. Soltanto la natura del suo talento gli ha fatto scoprire lo strumento di cui si è servito. Nessuno ha ancora dispiegato una simile duttilità. In lui si riscontrava un tratto femminile, una maniera gentile e ammaliante di procedere, movimenti graziosi e raffinati che terminavano spesso con dolorose ferite.
Tutte le aspettative in Taine
Anche i suoi difetti derivavano da questa duttilità e da questa andatura obliqua. Si perdeva nell'incomprensibile per essere agile, finiva per incastrarsi in frasi troppo cariche di incisi, quando non voleva far passare che un abbozzo del suo vero pensiero. Altri hanno avuto la sua erudizione, la sua conoscenza sterminata della nostra letteratura, altri hanno potuto penetrare più a fondo nei libri, ma nessuno, per certo, si è addentrato così profondamente nel cuore e nell'animo di taluni scrittori.
I giovani romanzieri avevano riposto le loro speranze in Taine. Appariva loro come lo scrittore che stava per prendere la parola, in nome della verità e della libertà delle lettere. In quel momento, Taine sembrava dover ribaltare la filosofia. Portava un metodo, condensava in formule tante idee portate alla critica da Sainte-Beuve. La sua freddezza, la sua analisi ridotta a una sorta di operazione meccanica, seducevano i giovani estendendo alle cose dello spirito procedimenti usati fino a quel momento solo nell'ambito delle scienze naturali. Si trattava di una critica naturalista che marciava di pari passo con il romanzo naturalista. Si poteva anche credere che fosse finalmente arrivato il portabandiera di una nuova generazione letteraria, dal momento che Taine aveva scritto uno stupendo studio su Balzac, da lui equiparato a Shakespeare.
Oggi, quei romanzieri devono ammettere che si sono sbagliati. Taine non sarà mai il giudice che aspettano, per molte ragioni. Taine era prima di tutto un letterato: il suo occhio si chiude, soltanto la sua intelligenza funziona. Il suo ambiente ideale è una biblioteca. Fa meraviglie, scalando montagne di libri, prendendo note in quantità smisurata, traendo tutte le sue opere dalle opere altrui. È un compilatore che possiede il genio della classificazione. Ma, per la strada, non so proprio se riesca a scorgere le vetture che passano. La vita gli sfugge, la realtà non lo tocca nemmeno. Da questo fatto, forse inconsciamente, gli viene il disgusto per tutto quanto è vivo. Si è ritratto dalla bagarre contemporanea per rinserrarsi in considerevoli studi di storia e filosofia. Rimuove con amore la polvere dai vecchi documenti. Per intravedere uno scrittore, che vive e scrive accanto a lui, gli servirebbe uno sforzo considerevole. In poche parole, non respira più la stessa aria che respiriamo noi. Ripeto la frase con cui ho iniziato: nessun critico, in Francia, nell'ora presente.
Solo venti anni fa il giornale era uno strumento serio che dava alla politica e alla letteratura tutto lo spazio di cui avevano bisogno. I fatti di cronaca si trovano relegati in quarta pagina. Ci si abbonava per simpatia con questa o quella redazione, si attendevano gli articoli di questo o di quel giornalista, e li si leggeva con attenzione, fossero pure su cinque colonne. La critica, in quel momento felice, si trovava a proprio agio. Non faceva alcuna fretta, aspettava anche due mesi prima di parlare dell'ultimo libro apparso, fornendo dei giudizi seriamente motivati. Anche i lettori, da parte loro, non provavano impazienza. Domandavano, su tutto, coscienza, talento e giustizia. Ebbene, abbiamo cambiato tutto. Il nuovo giornale tende a mettere alla porta la letteratura. I fattacci di cronaca, in seguito a molteplici appelli, hanno invaso tutto. È nata la stampa per l'informazione, non si tratta più di analizzare un libro e, d'altronde, i lettori neppure lo chiedono. Occorre raccontare che cosa è successo il giorno prima in questo o quel salotto, raccontare il delitto in trecento battute, con un bel ritratto dell'assassino, cosa mangiava, cosa beveva. Bisogna ridurre tutto a piccoli fatti circostanziati e precisi, fatti bruti senza alcun ornamento. Se continuerà questo andazzo, fra cinquant'anni i giornali si saranno ridotti a semplici fogli di annunci.
Cinquanta righe, anzi due
Si può capire facilmente il colpo mortale assestato dall'informazione alla critica. Gli studi preparati con coscienza e scrupolo non sono più alla moda. Occupavano spazio. L'assioma di ogni direttore è quello che non si leggono articoli troppo lunghi. La prima parola di un caporedattore è diventata: «trattami questo argomenti in cinquanta righe, non di più!» Non è più questione di coscienza. Si pretende che l'articolo su un libro appaia il giorno seguente la pubblicazione del libro stesso o, meglio ancora, alla vigilia. Non è necessario alcuno studio, non si legge neppure. Il critico sfoglia e taglia le pagine, prendendo a casaccio una parola e, quando il libro è tagliato, ci si mette al lavoro per le proprie cinquanta righe. Spesso non parla neppure del libro, parla di qualsiasi cosa, a proposito di quel libro. Basta siano citati il titolo e il nome dell'autore. L'importante, infatti, è la notizia della messa in commercio che bisogna dare prima che la diano altri giornali. Quanto al resto, ai reali meriti dell'opera, alla sua originalità, alla sua influenza futura, poco importa. In queste condizioni, i critici improvvisati dovrebbero accontentarsi di annunciare l'uscita di un romanzo in due righe. La sfortuna è che non si è ancora giunti a questa concisione. I critici aggiungono allora a casaccio le proprie riflessioni. Lodano o biasimano per ragioni loro, nessuno ha un metodo. Ammucchiano errori, refusi, menzogne, enormità di ogni tipo. Niente di più penoso di un simile spettacolo, nei quotidiani, quando appare un libro. Non sono risparmiate banalità.
L'imperativo della fretta
La paura di annoiare ha ucciso gli studi seri. Si è data al pubblico l'abitudine di leggere in tutta fretta. Vogliamo che un uomo che vive la nostra vita frenetica trovi un quarto d'ora per leggere un articolo impegnato? Gli servirebbe riflettere, fare uno sforzo intellettuale, sarebbe disastroso. Gli bastano i luoghi comuni, le idee che tranquillamente si accomodano nel cervello. L'entusiasmo, la fede letteraria, tutto ciò che smuove, ostacola la digestione. Bisogna comodamente andare all'avventura, dicendo nero un giorno, e bianco il giorno dopo. I soli articoli lunghi tollerati dai giornali sono quelli fatti con estratti di opere in corso di pubblicazione. I redattori si procurano i libri, prima che vengano posti in vendita, prendono dei passaggi interessanti, vi aggiungono qualche riga, e adescano il pubblico sostenendo di essere i primi a offrire questa anticipazione. È la redazione a buon mercato. Rientra nel sistema dell'indiscrezione, che gode di grandi favori oggi giorno. Si evita ogni sforzo al pubblico, il giornalismo contemporaneo è basato sulla pigrizia dei lettori. La gente vuole notizie? Ingozziamola di notizie. I giornali di informazione sono agenti di perversione letteraria. Il male è tale che ha preso tutti. Nessuno sfugge al contagio. (Traduzione di Marco Dotti)

il manifesto del 04 Agosto 2007

10.8.07

Mutui Usa - Per saperne di più

Ipoteche pericolose
Subprime. I mutui Usa per 'poveri' scuotono la finanza mondiale

I subprime. Migranti. O cittadini non in condizione di garantire la solvibilità di un debito. Il subprime nasce come strumento ipotecario a metà degli anni '90, con la benedizione dell'allora governatore centrale della FED, Alan Greenspan che l'8 luglio 2005 sosteneva: “Dove un tempo ai clienti più marginali sarebbe stato semplicemente negato il credito, ora i prestatori sono in grado di giudicare con efficienza il rischio di quei clienti e di prezzarlo appropriatamente”. Un fenomeno quasi prettamente americano, che ha vissuto una stagione di boom, ma che si è dimostrato una vera e propria bomba a orologeria per gli indici finanziari statunitensi, e del mondo intero. Chi sottoscrive un subprime è legato a un tasso variabile e stringe un contratto con delle società di intermediazione finanziaria. Quelle società, poi, girano il contratto agli istituti bancari, che emettono delle obbligazioni, che dovrebbero 'rendere' nelle tasche di chi le compra, attraverso il pagamento delle rate ipotecarie.

Meccanismo inceppato. Il meccanismo, però, si era già inceppato alcuni mesi fa e ora è tornato a farlo per l'insolvenza di gran parte dei clienti e la conseguente chiusura e fallimento di numerose finanziarie negli Stati Uniti. Il percorso è semplice: i tassi di sconto della FED sono aumentati rapidamente, mentre parallelamente aumentavano i prezzi delle case. L'indebitamento di chi aveva sottoscritto, o stava per sottoscrivere, il subprime è aumentato a dismisura, provocando i mancati pagamenti. Che si sono riverberati sul mercato obbligazionario legato alla nuova formula ipotecaria.

Casa in affittoContraccolpi europei. Le obbligazioni, gli hedge found o fondi speculativi, legate al mercato ipotecario statunitense hanno radici anche nelle principali banche europee. Le difficoltà finanziarie legate a questo settore, nelle ultime settimane, hanno buttato giù i listini azionari. Fino a ieri, quando la Banca centrale europea ha deciso di immettere la un'enorme quantità di denaro per sostenere il mercato bancario della zona euro. La BCE, solo ieri, ha erogato prestiti per 94,841 miliardi di euro a 49 istituti di credito di Eurolandia. La più grande iniezione di denaro fatta finora dalla banca centrale di Francoforte in una singola manovra. L'unico paragone possibile ci riporta al post 11 settembre, quando in due azioni coordinate la banca europea sborsò 109 miliardi di euro.

Subprime ed economia Usa. Secondo la Mortgage Bankers Association i subprime rappresentano il 13,6 percento del mercato ipotecario americano. E i titoli di credito che hanno come base questi contratti sono il 14percento del totale dei titoli garantiti da mutui statunitensi. In Europa, i listini di Borsa sono andati sotto pressione dopo che Bnp Paribas ha annunciato la sospensione dei riscatti di tre hedge funds (fondi speculativi): al 27 luglio i tre fondi possedevano asset per 2 miliardi di euro di cui un terzo costituito da esposizioni subprime. Le turbolenze dei mutui al altro rischio Usa, dopo aver piegato la tedesca Ikb, hanno causato una perdita da inizio anno di 189 milioni di dollari per la banca olandese Nibc, che è stata aiutata dall'intervento della banca centrale olandese. L'effetto domino, le sofferenze di borsa, non si placheranno facilmente nel breve periodo.

Angelo Miotto
peacereporter.net

26.7.07

Ci sono i rom. E il comune abbatte la fabbrica storica

Pavia, avviata la demolizione dei capannoni Snia, gioiello architettonico. Stop della magistratura
di GIAN ANTONIO STELLA
E se i rom avessero occupato la Chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro, il Broletto o il Ponte Coperto? Ecco cosa ti domandi, nel vedere a Pavia le macerie di quello che era fino a ieri uno dei monumenti di archeologia industriale più affascinanti d’Italia: l’antico stabilimento della Snia Viscosa. Demolito dalle ruspe perché il sindaco diessino non sapeva più cosa fare per cacciare gli «zingari» che avevano occupato l’area. C’è chi dirà: non era mica il Colosseo! Non era mica una cappella gotica! Non era mica un castello medievale! Verissimo. È la tesi dello scrittore Mino Milani, autore del romanzo «Fantasma d’amore» dal quale Dino Risi trasse il film omonimo con Marcello Mastroianni: «La necessità di abbattere la Snia trascende dalla storicità degli edifici. Non si tratta di chiese o monumenti, ma di ruderi abbandonati da decenni». Opinione condivisa giorni fa sul Corriere da Pietro Trivi, consigliere comunale di Forza Italia: «Che valore storico possono avere dei vecchi capannoni trasformati dai rom in una bidonville? Per la città quella ex fabbrica è solo un buco nero che crea problemi ai residenti».
Verissimo anche questo. Come è sempre successo nella storia (si pensi alle rovine della reggia di caccia dei Savoia a Venaria Reale che sta per essere restituita al suo splendore ma che fu a lungo occupata negli anni del boom economico da immigrati veneti e siciliani, pugliesi e romagnoli) gli antichi capannoni, scrostati e crepati e aggrediti dalla vegetazione, erano stati invasi negli ultimi tempi da un numero crescente di rom. I quali si erano adattati a vivere in condizioni spaventose. Niente servizi igienici. Bambini abbandonati tra le macerie. Avvisaglie di una ripresa di quella tubercolosi che pareva sconfitta da decenni. Accumulo di quintali e tonnellate di immondizia.
Un degrado progressivo e apparentemente inarrestabile. Tale da scoraggiare il Comune, che dopo alcuni tentativi si era di fatto rassegnato all’impotenza. Da spingere gli operatori sociali a rinunciare a mettere piede nel ghetto, dove tra i 260 «zingari» accampati alla meno peggio c’erano almeno 74 ragazzini mai coinvolti in un progetto scolastico. Da esasperare gli spazzini al punto che, mandati a portar via almeno un po’ di tonnellate di spazzatura, si erano ribellati all’idea di entrare nel complesso industriale abbandonato: «C’è il pericolo i muri crollino».
Insomma: che tirasse un’aria sempre più pesante, con rischi sanitari per tutta la popolazione dei dintorni, è innegabile. E neppure gli oppositori più critici della giunta unionista, come l’ex sindaco Elio Veltri che pure accusa l’amministrazione comunale di non aver fatto abbastanza, si sognano di negare l’evidenza: il problema andava risolto. Ma mai come in questo caso c’era il rischio di buttare via, con l’acqua sporca, il bambino. Perché il «monumento industriale» della Snia è (era?) davvero bello.
Lo aveva detto il grande architetto Vittorio Gregotti, che una manciata di anni fa aveva progettato per il Comune il piano regolatore spiegando che quegli edifici, soprattutto i più belli allineati lungo viale Monte Grappa, nel quartiere di San Pietro in Verzolo, andavano sottratti al degrado, recuperati, restituiti alla città che avrebbe potuto portarci una parte dell’Università. Lo aveva ribadito Italia Nostra, che aveva mandato un drammatico appello alla Sovrintendenza ai beni ambientali e architettonici chiedendo che almeno sui pezzi più pregiati del grande stabilimento fondato nel 1905 per produrre seta artificiale su una grande area (appetita dai padroni dell’edilizia) di 240 mila metri quadri tra la Ferrovia e il Ticino, fosse posto finalmente il vincolo ufficiale già prefigurato da Gregotti. Lo aveva implorato Legambiente. E lo stesso Veltri in una lettera angosciata al vice-premier e ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli, in cui ricordava come l’amministrazione pavese avesse già consentito negli ultimi anni due profonde ferite (una strada e una tangenziale) al parco della Vernavola dove nel 1525 si scontrarono gli eserciti di Francesco I e di Carlo V e minacciasse ora di costruire un grande parcheggio sotto la splendida chiesa romanica di San Primo. E ancora decine e decine di volontari trascinati da Giovanni Giovannetti, che col consigliere comunale Irene Campari (indipendente di sinistra in dissenso con la giunta di sinistra) e con Paolo Ferloni di Italia Nostra si erano spinti a presentare un esposto alla magistratura denunciando «il "partito del mattone"» deciso a «buttare giù tutto, anche le cornici dentellate, anche gli ornamenti e le archeggiature in cotto dipinto» di una testimonianza essenziale del ruolo di Pavia, che «nel secolo scorso, con Milano, è stata a lungo la città più industrializzata della Lombardia».
Niente da fare. Il sindaco Piera Capitelli l’aveva detto: «Per gli occupanti dell’area a Pavia non c’è più posto». Pugno di ferro: «Non abbiamo mai potuto affrontare il problema delle demolizioni ma ora che c’è il sospetto che alcuni edifici siano pericolanti lo dovremo affrontare». I rom, i rischi igienici, l’odore dell’immondizia accumulata? «Il problema si risolverà con l’abbattimento dei capannoni», aveva rincarato l’assessore ai Servizi Sociali Francesco Brendolise. E i vincoli? «Non sono della Sovrintendenza ma del piano regolatore. E se vi fossero problemi di stabilità potrebbe essere superato». Quanto alle preoccupazioni di chi denuncia «colate di cemento» in «una città che continua a perdere abitanti», il sindaco era stato chiaro: «Per il boom edilizio non posso che essere felice. Porta lavoro, attua una parte del programma e risponde all’esigenza abitativa: la città è stata ferma per troppo tempo».
E così ieri mattina, benedette dai proprietari dell’area (tra i quali spicca la «Tradital» di Luigi Zunino, indicato nella lunga estate calda delle scalate bancarie come uno che trattava affari con Stefano Ricucci e Danilo Coppola) le ruspe si sono presentate a sorpresa sul posto e hanno cominciato ad abbattere il primo dei quattro capannoni. Il più bello, forse. Finché non sono arrivati, per conto della magistratura, gli agenti: fermi tutti, sospendete. Un intervento che al sindaco non è piaciuto per niente: «L’ordinanza di demolizione l’ho firmata perché esistono concreti pericoli di crollo negli edifici in cui è nata la bidonville. Come Sindaco devo badare all’incolumità dei residenti e l’ex Snia non è sicura. Tra l’altro non vi sono vincoli architettonici imposti dalla sovrintendenza e ogni tentativo di dimostrare il contrario è solo strumentale...». Credeva di avercela fatta, ormai. E se un domani l’avessero rimproverata d’aver buttato giù quella «cattedrale industriale»? Uffa...

corriere.it

26.6.07

Appunti sul secolo scorso da un illuminista del nostro tempo

Nella critica dialogica, che non parla delle opere, ma alle opere, il filo conduttore fra la prima stagione di storico della letteratura e il successivo approdo alla storia del pensiero e delle culture. Un incontro con lo studioso bulgaro che ieri a Torino ha ricevuto il premio Grinzane Cavour
Francesca Borrelli

Quando Tzvetan Todorov cominciò a interessarsi di letteratura viveva ancora in Bulgaria e a scuola lo avevano educato a una critica che, prima ancora di analizzare un testo, sapeva già qual era il senso che bisognava rintracciarvi, e ne misurava il valore sulla base dell'aderenza alla squallida armonia prestabilità dagli imperativi ideologici. La teoria della letteratura, che allora, era parte irrinunciabile del programma di uno studente di filologia, si riduceva a inseguire nelle opere due indizi di qualità: «lo spirito del popolo» e «lo spirito del partito», prerogativa - quest'ultima - che si mostrava in tutto il suo fulgore solo tra le pagine di quegli autori che, perciò, godevano dei più sentiti apprezzamenti.
La provvidenziale reazione di Todorov, prima ancora di approdare in Francia, dove arrivò nel 1963, in piena ebbrezza strutturalista, fu quella di trovare un rifugio mentale nelle teorie dei Formalisti russi, che in appena quindici anni di attività rivoluzionarono il panorama della critica affermando il valore autonomo della parola: né semplice sostituto dell'oggetto nominato, né serbatoio di emozioni, né rimando a altra realtà che non sia quella del proprio peso e del proprio valore. Fu allora che, per la prima volta, Todorov cominciò a riflettere sul fatto che né la pretesa di possedere la verità, alla quale lo avevano educato in gioventù, né la rinuncia a cercarla alla quale era approdato con la critica immanente dei Formalisti soddisfacevano le sue esigenze di interrogare i testi; e con la scoperta di Michail Bachtin, al quale dedicò nell'81 una monografia, abbracciò quella «critica dialogica» che implica nella scrittura un atto di comunicazione, estendendo questo metodo alla storia delle idee e delle culture, cui consacrò la sua seconda stagione. Oggetto privilegiato della indagine divenne quella che, in suo libro, sintetizzò come La vita comune (Pratiche, 1998), ossia la socialità come definizione stessa della condizione umana, dalla quale passò a una ricapitolazione delle ideologie dominanti (in Noi e gli altri, Einaudi, 1991) e, ancora, a una articolata radiografia del secolo tragico, interrogandosi sulle possibili rifondazioni dell'etica dopo l'esperienza dei gulag e dei campi nazisti (in Di fronte all'estremo, Garzanti, 1992) e sulle implicazioni storiche e ideologiche dello scontro tra totalitarismo e democrazia nel XX secolo (in Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, 2001). Del tutto coerente con la ricerca dei fondamenti intellettuali e morali che stanno alla base della nostra vita comune, l'ultimo libro di Todorov (uscito da poco per Garzanti) si rivolge allo Spirito dell'illuminismo e alle proiezioni sulla contemporaneità dei dibattiti che lo hanno animato. Su alcuni passaggi di questa lunga parabola torneremo, approfittando della presenza di Tzvetan Todorov a Torino, dove ieri ha ricevuto il premio Grinzane Cavour.
Lei ha individuato in due incontri, uno con Arthur Koestler, l'altro con Isaiah Berlin due momenti epifanici di una svolta nella sua vita. L'autore di «Buio a mezzogiorno» la risvegliò dal fatalismo politico cui l'aveva consegnata la sua infanzia nella Bulgaria stalinista; mentre Berlin l'ha aiutata a abbandonare una idea di letteratura come puro insieme di strutture. Sono rimasti questi gli autori cui deve di più anche il suo lavoro degli ultimi anni?
Per quel che riguarda la mia giovinezza, aggiungerei tra gli incontri che più hanno influenzato il corso delle mie idee quello con Roman Jakobson. Lo vidi una prima volta in Bulgaria quando ancora ci abitavo, e da allora nessuno ha destato in me una impressione altrettanto forte. Quel che più mi attraeva era il fatto che, nella sua persona, il rigore scientifico si combinava strettissimamente con la passione per la poesia e per l'arte, due elementi quasi sempre dissociati l'uno dall'altro. Conobbi Arthur Koestler e Isaiah Berlin molti anni più tardi, quando avevo già letto i loro libri; con entrambi l'incontro fu breve e tuttavia furono capaci di scombussolarmi le idee, di cambiare le mie convinzioni, di determinare il mio incontro con la politica, che non ha mai preso la forma della militanza in un partito bensì quella della partecipazione al dibattito pubblico. Da un certo punto in avanti, però, a guidare il mio lavoro è stato soprattutto l'esempio di Germaine Tillion, la ricerca di una approssimazione alla verità e alla giustizia incarnata in questa figura esemplare di quanto è stato fatto di meglio nel corso del XX secolo, almeno in Francia. Contrariamente a ciò che si legge sulla copertina del suo libro pubblicato in Italia dalle edizioni Medusa, Alla ricerca del vero e del giusto, Germaine Tillion non è morta; ha compiuto cent'anni nel maggio scorso, trainando in questo secolo una lezione di vita alla quale mi sento particolarmente grato. La sua era una forma di impegno che non poteva restare estranea all'azione. Scese in campo la prima volta all'indomani della occupazione nazista della Francia, militando in una rete della Resistenza, e per questo venne messa in prigione; fu poi internata in un campo nazista, dal quale uscì nel '45. Dopo una lunga assenza dalla scena pubblica vi ricomparve nel '54, all'inizio della guerra di Algeria, dove già l'avevano portata i suoi studi di etnologa. Fino al '62 si spese in ogni modo per aiutare le vittime di entrambe le parti, per sottrarle alla tortura, per salvarle dalle esecuzioni, per metterle in guardia dai continui attentati. Se è vero che fu Koestler a risvegliare il mio interesse per la politica, devo a Germaine Tillion il fatto di avermi aiutato a indirizzare meglio, con il suo esempio, la mia sensibilità per la vita pubblica.
Se si cercasse un filo che leghi la sua prima stagione di teorico della letteratura, sotto il segno del formalismo, al suo approdo alla storia del pensiero e delle culture, lo si potrebbe probabilmente cogliere nella sua predilezione per la «critica dialogica»: quella fatta propria da Michail Bachtin, quella che «non parla delle opere ma alle opere». È d'accordo?
Direi di sì, è anche la mia ipotesi; fermo restando il fatto che proprio dal pensiero di Bachtin ho imparato come gli autori non siano i migliori interpreti delle loro opere e come ogni cultura, ogni idea si riveli al meglio nel confronto con altre culture e altre idee. Quanto al mio ruolo, invece, quello in cui più mi riconosco l'ho sintetizzato in una sorta di autobiografia che ho intitolato Devoirs et délices, da una frase di Rousseau secondo cui si può avere accesso alle cose sia tramite il dovere che tramite il piacere. Il mio ruolo - dicevo - è quello del passeur, di colui che traghetta le persone da una riva all'altra: ossia di chi cerca di mettere in relazione, dunque di fare dialogare - come voleva Bachtin - le lingue, le idee, le discipline, le diverse culture. E, in effetti, quando guardo al mio percorso sono colpito da un elemento anacronistico: mi sembra di essere un uomo di un'epoca anteriore, proprio perché mi sono interessato di pressoché tutte le scienze umane. Naturalmente, questo orientamento enciclopedico sconta il prezzo che consiste nel non approfondire mai nulla; ma ha anche il vantaggio di allargare la mente, di farti vedere cosa succede al di là dei tuoi confini. Dal punto di vista politico, quel che più mi interessa, al momento, è la costruzione dell'Europa, la questione delle identità nazionali; ma della mia prima stagione non ho rinnegato nulla. Quando arrivai in Francia, e per il periodo immediatamente successivo, pensavo che si sarebbe dovuto trovare un mezzo per leggere i testi in modo più sistematico, più rigoroso, e questo metodo me lo forniva lo strutturalismo. Poi arrivò un giorno in cui lo scopo del mio lavoro non si limitò più all'apprendimento dei mezzi con cui leggere un'opera letteraria, e cominciai così a servirmi del sapere metodico che avevo acquisito per provare a indagare il mondo intorno a me. Ciò che prima era un fine l'ho fatto diventare un mezzo, ho fatto di quel che era un approdo uno strumento. Ma la letteratura è tutt'altro che scomparsa dal mio orizzonte, tanto è vero che i miei ultimi due libri, entrambi non ancora tradotti in italiano, si intitolano Les aventuriers de l'absolu e La littérature en péril: il primo l'ho scritto per cercare di capire e di valutare il progetto di tre grandi scrittori - Rainer Maria Rilke, Oscar Wilde e Marina Cvetaeva - che hanno organizzato la loro vita come un'opera d'arte; il secondo saggio riguarda, invece, i pericoli che corre una certa concezione della letteratura, a mio avviso estrememente angusta: quella derivata da una perversa interpretazione dell'eredità strutturalista, che concentrandosi solo sulla costruzione dei testi, dimentica come la letteratura riguardi le verità essenziali della vita e di noi stessi.
Nella sua lunga analisi dei principali avvenimenti del XX secolo, che ha svolto soprattutto nel suo saggio «Memoria del bene tentazione del male», lei assegna una importanza centrale alla comparsa di quel regime politico fino a allora inedito che è il totalitarismo: di questo bisogna scongiurare il ritorno. Non altrettanto esplicita, nel suo libro, è la risposta alla domanda che lei si fa nella prima pagina: «che cosa bisogna conservare di questo secolo?».
Bisognerebbe salvaguardare, intanto, l'esempio di alcuni destini individuali, che pur essendo stati drammaticamente segnati dalle tragedie dei totalitarismi, non hanno convertito lo spavento in paralisi e, perciò, hanno saputo nutrire le nostre vite. Penso a Primo Levi, a Vasilij Grossman, alla stessa Germaine Tillion di cui prima le parlavo, a Margarete Buber-Neumann, a David Rousset e a altri ancora il cui esempio dovrebbe accompagnare i secoli a venire. Naturalmente, del '900 vale la pena di conservare alcune scoperte scientifiche e tecnologiche, ma forse soprattutto il cambiamento di status delle donne, perché ha determinato il passaggio alla scena pubblica di una serie di valori prima relegati alla vita privata: valori dissimulati e marginalizzati durante tutto il corso della storia europea, dalla educazione dei ragazzi alla coltivazione dei legami tra gli individui, oggi in primo piano grazie alla magnifica eredità che ci hanno lasciato le donne del XX secolo.
A proposito di eredità del XX secolo, lei si riferisce più volte, nei suoi libri, al pensiero psicoanalitico, ma in realtà di Freud sembra salvare solo il linguista, l'autore del «Motto di spirito». In altre parole, la interessa il senso costante e universale della tecnica di interpetazione simbolica, mentre la coinvolge di meno ciò che si può trarre dalla tecnica fondata sulle libere associazioni di pensiero. È così?
Sì è così, ma questo dipende dall'orientamento generale dei miei interessi, che sono di certo più attratti dalla filosofia morale e politica che non dalla analisi delle pulsioni inconsce. Naturalmente, spero di avere tesaurizzato le mie letture di Freud e mi auguro che ne siano rimaste tracce nel mio lavoro - anche recentemente ho ripreso in mano L'avvenire di una illusione e Il disagio della civiltà; ma resta il fatto che Freud non è stato, per me, un autore decisivo come lo è stato, per esempio, Bachtin.
Come giustifica, nella sua parabola di studioso, un ritorno di interesse verso l'Illuminismo tale da dedicargli il suo ultimo libro?
Il pretesto che ha funzionato come punto di avvio me lo ha fornito la Biblioteca nazionale francese, organizzando una grande esposizione sull'Illuminismo e sul significato della sua lezione per il mondo attuale, della quale mi ha affidato la supervisione. Il lavoro è durato due anni e si è poi trasformato in un libro. Ma la ragione che sta alle spalle del mio interesse riguarda il fatto che, dopo la fine del conflitto tra i totalitarismi e la democrazia, sebbene questa ne sia uscita vittoriosa siamo entrati in un'epoca per nulla tranquilla e pacificata, in cui molte tra le idee dell'Illuminismo tornano a esserci utili e a acquisire attualità e nella analisi dei conflitti che oppongono, per esempio, le diverse religioni o quel che accade in una guerra come quella dell'Iraq.
ilmanifesto.it

6.4.07

Le campagne anti-gay dell'Avvenire

Provocano danni molto gravi
come il razzismo americano dell'800


Piero Sansonetti

Un ragazzo di sedici anni si è suicidato perché i compagni di scuola lo prendevano in giro e gli dicevano che era gay. E' successo a Torino. La scuola frequentata da questo ragazzo è l'istituto tecnico "Sommelier", che è considerata una delle più prestigiose scuole di Torino. Non è frequentata dai bulli di borgata, ma dai figli della borghesia. Il ragazzo che si è suicidato invece non era borghese, i suoi genitori erano separati, lui viveva con la madre, che è filippina, immigrata, e fa la cameriera. Non conosciamo il suo nome, poniamo che si chiamasse Marco. Era bravo a scuola, e forse anche questo lo rendeva diverso agli occhi dei suoi compagni.
Adesso fermiamoci un attimo a riflettere, il più serenamente possibile, su questa morte. Senza voler dare la colpa a nessuno, anche perché tutti sappiamo benissimo che il suicidio di un adolescente non è un fatto rarissimo, che è molto difficile definirne le origini e le ragioni, che quasi sempre è legato a episodi di depressione, magari poco evidenti, o forse solo ad una valutazione pessimista e negativa sul valore della vita, cioè - diciamo così - a fattori "filosofici" molto alti e indecifrabili.
Però ci sono due elementi che hanno avuto un peso, evidentemente, in questa vicenda, dai quali è possibile trarre alcuni suggerimenti. Uno di questi elementi è il "fattore-scuola", l'altro elemento è il "fattore omosessualità".
Fattore scuola: la mamma di Marco più di un anno fa era andata a parlare coi responsabili della scuola e aveva segnalato la situazione difficile nella quale si trovava il suo ragazzo, per via del comportamento aggressivo, persecutorio dei suoi compagni. Se la scuola non riesce a impedire una situazione così, non è capace di intervenire, di spiegare, di educare, di prevenire, non è una buona scuola. E forse non lo è anche perché ormai da molti decenni è stata lasciata all'abbandono, ha perso le sue finalità, la spinta propulsiva di qualche decennio fa, e forse è tornata la scuola di quella "professoressa" della quale parlava Don Milani, che serve a selezionare, a discriminare, non a unire le generazioni e a distribuire equamente il sapere e le conoscenze.
Fattore omosessualità: Marco era gay? E' una domanda che non sta in piedi, Marco aveva 16 anni, viveva quella fase del sesso assai aperta, di transizione, di curiosità, che è l'adolescenza. E' il momento nel quale si definisce la propria sessualità, si stabilizzano i gusti. Il problema non è se marco fosse o no gay, è piuttosto come Marco vivesse questa eventualità. Che evidentemente considerava una sciagura, forse una condanna, una tragedia. Perché? Per due ragioni. La prima è che in Italia è difficile vivere bene la propria vita se si è gay, perché c'è un insieme di leggi, norme, abitudini e pregiudizi che non ti rendono facili le cose. La seconda ragione è che è in atto una campagna, guidata dal Vaticano, di demonizzazione e di persecuzione verso i gay e le lesbiche, che ha condizionato fortemente l'opinione pubblica, l'ha spinta indietro di decenni. Giusto l'altro ieri su un giornale serio come Avvenire , uno studioso prestigiosissimo come Carlo Cardia, (criticando i DiCo) scriveva (per dimostrare l'assurdità delle unioni civili) testualmente queste frasi: « Ai giovani la legge direbbe di essere indifferente alla forma che assumono le relazioni umane fondamentali...ai giovani la legge direbbe che eterosessualità e omosessualità sono la stessa cosa... che la famiglia non interessa più la collettività, che lo Stato le pone sullo stesso piano, che ciascuno può comportarsi come crede... ». Ai giovani del Sommelier di Torino, purtroppo, nessuno ha detto queste cose (che Cardia giudica orride e incivili), perciò quei ragazzi non hanno capito che siamo tutti uguali, che abbiamo gli stessi diritti, la stessa dignità. Non lo capivano neanche i razzisti bianchi americani, nell'ottocento (e dopo). Qualcuno di loro, in polemica con Lincoln e gli abolizionisti, avrebbe potuto scrivere: « Ai giovani la legge direbbe di essere indifferente alla forma che assumono le relazioni tra padrone e schiavo...ai giovani la legge direbbe che bianchi e negri sono la stessa cosa, che i diritti dei bianchi non interessano più la collettività, che lo stato pone sullo stesso piano la razze, che ciascuno, anche i negri, possono comportarsi come credono... ». L'omofobia che oggi pervade parti del clero e della borghesia assomiglia come una goccia d'acqua al razzismo dei padri del Ku Klux Klan.
(liberazione.it)

5.4.07

Wikipedia, epigoni ed errori

Dove va il colosso web con i suoi 6,8 milioni di voci (di cui 1,7 milioni nella versione inglese), 250 lingue diverse di pubblicazione, tra i primi dieci siti più visitati del mondo
Carola Frediani

Dalle Hawaii a Oxford. L'ultimo successo di Wikipedia - l'ormai popolare enciclopedia online - è stato l'inclusione del termine «wiki» nel dizionario di Oxford. Nel viaggio dalle isole americane al vocabolario britannico, la parola ha mutato significato: se in origine significava «veloce» oggi indica un sito web aperto al contributo degli utenti, ovvero facilmente modificabile dai navigatori, che possono aggiornare, correggere o cancellare i suoi contenuti. A trasformare l'esotico vocabolo nella nuova parola d'ordine del web, a farne cioè una hit planetaria è stata ovviamente Wikipedia, la prima enciclopedia scritta e continuamente riscritta dai suoi lettori. Ma più che l'inclusione nel dizionario, a consacrare la modalità wikipediana di creare informazione sono state le parole di Grame Diamond, redattore dell'Oxford English Dictionary: «Si può dire che l'atteggiamento di apertura del nostro dizionario verso il contributo del pubblico e il desiderio di incorporare le segnalazioni dei lettori nel testo suggeriscano un ethos non dissimile da quello del wiki». Ecco chi ha dettato la linea negli ultimi sei anni.
L'ethos di Wikipedia è stato un fiume che ha travolto il mondo online, fertilizzando la cultura della partecipazione, e obbligando strutture accademiche tradizionali - come l'Enciclopedia Britannica - a scomodi confronti. Del resto basta guardare i numeri di questa colosso web: 6,8 milioni di voci (di cui 1,7 milioni nella versione inglese), 250 lingue diverse di pubblicazione, tra i primi dieci siti più visitati. E il tutto a disposizione gratuitamente, senza nemmeno la pubblicità: come si sia riusciti ad arrivare a tanto forse nemmeno il suo creatore Jimmy Wales, l'ex-trader convertitosi alla collaborazione online, sa davvero spiegarlo. Bisogna però dargli atto di aver mantenuto il progetto coerente: «Due anni dopo aver fondato Wikipedia, l'ho donata alla fondazione Wikimedia (l'organizzazione no-profit che gestisce l'enciclopedia, ndr) - ha dichiarato Wales al New Scientist - Penso sia stata la cosa più stupida e insieme più intelligente che abbia mai fatto. Stupida perché ritengo che valga circa 3 miliardi di dollari, e io tutti quei soldi non ce li ho! Ma anche intelligente perché non avrebbe riscosso lo stesso successo se non fosse stata costruita in questo modo».
E tuttavia, malgrado questo percorso in discesa, oggi non è un momento buono per la creatura di Wales, esposta sempre più spesso a critiche, attacchi ed errori che potrebbero obbligarla ad alcuni ripensamenti. E' vero che alcune di queste bordate sono dei tentativi parassitari di ottenere visibilità, come nel caso di Conservapedia, un progetto wiki per costruire un'enciclopedia politicamente conservatrice, alternativo alla troppo liberal Wikipedia. Ma alcune sono invece il risultato di nodi non risolti: ne sa qualcosa Larry Sanger, co-fondatore di questa enciclopedia online insieme a Wales, ma successivamente allontanatosi perché in disaccordo con l'eccessiva apertura di Wikipedia, con il suo giacobinismo partecipativo. Sanger ha deciso di buttare l'acqua sporca e di tenere il bambino: ovvero di creare un «compendio dei cittadini», riducendo però il rischio di errori e vandalismi nelle voci. Ecco quindi, il 25 marzo, debuttare Citizendium, che chiede agli utenti di rinunciare all'anonimato (contrariamente a quanto possibile su Wikipedia) e che si appoggia a un gruppo di accademici perché supervisionino gli articoli. L'obbligo di identificarsi dovrebbe accrescere - questo è il ragionamento - l'accuratezza del sito, oltre che incentivare la partecipazione di utenti colti e di specialisti.
Citizendium cerca indubbiamente di migliorare il prodotto della collaborazione online, anche se va a ritoccare il dogma egualitario su cui, in ultima analisi, si è fondato l'exploit di Wikipedia.
D'altra parte Wales&company sono ormai consapevoli della necessità di trovare delle soluzioni agli errori e ai vandalismi - per altro sempre ben evidenziati dalla stampa mainstream, sadicamente compiaciuta di poter cogliere in fallo i wikipediani. Il punto di crisi sembra essere stato l'episodio di Ryan Jordan, un giovane amministratore di Wikipedia che si spacciava per professore di teologia e che è stato smascherato dalla rivista New Yorker. Wales ha dovuto allontanarlo mentre una bufera di interrogativi si scatenava sulla comunità wikipediana, e sulle credenziali di chi occupa al suo interno ruoli di responsabilità. Anche se bisogna riconoscere che tanta severità è un po' sospetta. In fondo anche il New York Times ha avuto un redattore disonesto, che addirittura s'inventava gli articoli: vi ricordate di Jayson Blair? Il quale naturalmente, proprio come il redattore di Wikipedia, è stato licenziato. Ma nessuno si è sognato di mettere in dubbio la professionalità del quotidiano americano.
Il punto è però ancora un altro, e a metterlo in luce è Seth Finkelstein, programmatore, attivista web e inflessibile critico di Wikipedia: «La retorica sulla peer-production (produzione-collaborazione tra pari) spesso evoca un qualche tipo di processo alchemico - scrive sul Guardian - in cui l'azione collettiva misticamente trasforma la spazzatura in oro. (...) La realtà è molto più terra terra. Spesso, quel che viene ingenuamente scambiato per generazione spontanea è infatti il prodotto di un piccolo numero di persone che sono state indotte a fornire un'enorme mole di lavoro non pagato».
Il giudizio di Finkelstein, fin troppo duro, ha il merito di riportare la discussione sul valore (in tutti i sensi) della peer production e sulla sua collocazione in un sistema dominato dal mercato. Tanto più che il fenomeno wiki ha ormai sfondato nell'economia reale, vezzeggiato da aziende ed economisti che decantano le virtù della partecipazione delle masse internet in tutte le loro diverse declinazioni, dal crowdsourcing alla wikinomics. Mentre c'è tutto un mondo corporate che ha adottato gli strumenti wiki per migliorare la produttività: da Intelpedia di Intel a WikiCentral di Ibm, da Nokia a Sony, progetti e documenti aziendali sono sempre più spesso sviluppati in modalità collaborative. Di sicuro c'è che l'avanzata del wiki prosegue rapida come il suo nome.
freddy@totem.to
(ilmanifesto.it)

Rapporti Nielsen e Technorati: web 2.0 e blog all'italiana

Il web 2.0, web sociale, o ancora My.internet, come lo chiamano i ricercatori di Nielsen//NetRatings, va a gonfie vele anche da noi. I dati sono incoraggianti, perché a gennaio di quest'anno più della metà dei navigatori italiani (il 56 per cento) sono entrati in siti 2.0. Sono soprattutto uomini e soprattutto giovani (dai 18 ai 34 anni). E' il primo profilo tracciato dal nuovo Osservatorio web 2.0 creato dalla società di ricerca, che d'ora in avanti darà dati e trend anche del web di seconda generazione all'italiana.

Che qualcosa si muova, con estrema velocità, nel web nostrano è sempre più lampante. Proprio oggi Technorati ha rilasciato il suo consueto rapporto trimestrale sullo stato della blogosfera mondiale, che riguarda, in questa uscita, l'ultimo trimestre del 2006. E, sorpresa, tra le nazionalità l'Italia risale la china, si accosta agli spagnoli, supera i francesi (che in passato sono stati più prolifici di noi) e si colloca al quarto posto tra le lingue parlate nei blog mondiali. La cui classifica recita così: lingua più parlata è il giapponese (37%); secondo posto per l'inglese (in discesa rispetto ai precedenti report, con il 36%); terzo posto per il cinese (8%); quarto, pari merito, per spagnolo e italiano (3%); quinto per francese, russo e portoghese (2%); sesto per tedesco e farsi, che entra per la prima volta nella top ten delle lingue più diffuse nei blog. Il fenomeno dilagante è dunque quello della diffusione della socialità e dei contenuti generati dagli utenti nel Medio Oriente.

In generale, mentre nel mondo si creano 1,4 blog al secondo ogni giorno, ovvero 120mila nuove entrate in rete ogni 24 ore, l'Italia tutto sommato reagisce con estremo interesse alla possibilità di inserire user generated contents. Nielsen//NetRatings distingue diverse tipologie di siti nella famiglia 2.0: dalle "community" formate da 8 milioni di utenti (la categoria più gettonata), al gruppo dei "giganti" formato dalla triade dei più noti, YouTube, MySpace e Wikipedia (con un totale di 7 milioni di navigatori), alla categoria dei "blog" e a scendere, ancora, i siti di video, quelli di sharing e hosting fotografico, quelli di social searching, quelli di virtual life.

(visionblog)

4.4.07

SECOND LIFE

SECOND LIFE/1 - Vita da newbie

Come promesso, ecco il primo di una serie di racconti con cui il mio avatar cercherà di descrivere le tappe principali della sua vita virtuale. Il secondo appuntamento è per mercoledì prossimo.

Divertente nascere in Second Life! Perché? Perché non è la natura a decidere che sesso avrai: sta a te scegliere se essere maschio o femmina, e comunque sia potrai decidere di cambiare sesso in qualsiasi momento della tua seconda esistenza. Io però non ho avuto dubbi: il mio fiocco doveva essere rosa, qualcosa (qualcuno?) mi diceva che in questo modo avrei avuto la vita un po' più facile.

Così, dopo aver registrato il mio nome all'anagrafe dei Linden e aver deciso di appartenere al genere della "ragazza della porta accanto", ero pronta per nascere. E così è stato.
Lentamente, ho cominciato a prendere forma e tutto quello che mi circondava è diventato via via più nitido e definito: un prato, degli alberi, cielo azzurro, un cartello di legno sul quale sono riuscita a leggere (so già leggere!) "Welcome to Orientation Island", un sentiero e poi... Altri avatar! Tutti appena nati, ma già adulti, come me, e molti perfettamente identici tra loro.

Ed è così che mi sono accorta di essere anche io una specie di clone, perché appena sono riuscita a vedermi ho realizzato che attorno a me c'erano almeno 5 mie sosia, e la cosa non mi ha fatto granché piacere, lo ammetto.
Tuttavia, una volta superato il piccolo trauma dell'arrivo, ho provato a muovere i primi passi, riuscendoci subito senza grande difficoltà. E camminando ho potuto avvicinarmi agli altri, guardarli in viso e notare che sul volto di ognuno era dipinta la stessa espressione, a metà tra l'indifferenza e la perplessità. Preoccupante, ho pensato.

Ma subito la mente è corsa a tutt'altro, perché qualcuno ha pronunciato il mio nome, attirando la mia attenzione. E allora mi sono resa conto che anche io avevo il dono della parola e potevo comunicare con chiunque, facilmente.La prima cosa che ho detto è stato "hi!", ciao, e da quel momento in poi non ho più smesso di parlare, e sono sicura che qualcuno dei miei SL friends, se potesse intervenire, direbbe che il governatore Linden (il padrone di questo mondo) dovrebbe inventare un limitatore di chiacchiere appositamente per me :- ).
"E ora che si fa?" ho chiesto a chi mi era accanto, e Bebe (appartenente al genere delle "ragazze da nightclub") ha proposto di fare un giro nei dintorni, per dare un'occhiata.
Così, assieme a un gruppetto di coetanei mi sono avventurata lungo il sentiero di Orientation Island, scoprendo una serie di cartelli che recitavano "click me": ho così appreso che posso toccare e spostare gli oggetti (posso farlo anche da lontano! La cosa richiede un po' di pratica, ma io imparo velocemente), modificare il mio aspetto fisico e gli abiti che indosso… Ho il potere di cambiare tutto, ogni minimo dettaglio, lasciandomi semplicemente guidare dalla fantasia (splendida scoperta della non omologazione!). Quindi, emozionata, ho domandato "Scusate, qualcuno sa indicarmi dove posso trovare qualche abito di ricambio? Magari un vestitino…", e la risposta è arrivata da un avatar completamente diverso da noi, sia nell'aspetto fisico che nell'abbigliamento.

"Ciao, io sono un mentore, sono qui per aiutare voi newbies. In SL troverai tutti gli abiti che desideri e molto di più, cerca i freebies. Ma devi essere paziente, hai tante cose da imparare prima di lasciare questa regione lol. Se hai bisogno chiamami pure. Feel free to explore!".
Mentre parlava l'ho passato ai raggi x, pensando "Wow!" (sì, perché intanto ho anche imparato a zoomare sugli oggetti e sulle persone, per guardare da vicino, se ne vale la pena), ma poi ho raccolto le idee e mi sono chiesta "Lol? Newbies? Freebies? Imparare? Uff! Lasciare questa regione per andare dove? Esplorare cosa?…".

E la scoperta più interessante è arrivata proprio a questo punto, stampata a chiare lettere sull'ultimo cartello alla fine del sentiero: flying.
…Volare? Posso volare?! :-D


Seconda puntata: Via dal nido
Terza puntata: A.A.A. Lavoro cercasi
Quarta puntata: Mettere radici
Quinta puntata: Home, sweet home
Sesta puntata: Tempo di business
Settima puntata: A spasso nel metamondo
Ottava puntata: Spazio ai sentimenti, quelli buoni
Nona puntata: La voce dei "vecchi" saggi. Sandy
Ultima puntata: La voce dei "vecchi" saggi. Winkler


(visionblog)

29.3.07

Libri eterni, ma on demand

«Dobbiamo uccidere il libro per salvare i libri». Finirà così nell'era digitale?
Gutenberg è vivo e lotta insieme a noi. Ma sparsi per il mondo ci sono migliaia di lavoratori a ore impegnati a scannerizzare, pagina dopo pagina, intere biblioteche per Google. E tra 5 anni potrebbero aver finito
Nicola Bruno

Doveva essere la prima vittima illustre della rivoluzione digitale, ma il libro è ancora qui con noi, vivo e vegeto. Rispetto ad altri supporti (l'album per la musica, la pellicola per il cinema), l'avanzata dei bit non è riuscita del tutto a stravolgerne la natura di «insieme di fogli stampati o manoscritti, (...) numerati e cuciti insieme in modo da formare un volume, fornito di copertina» (De Mauro).
Nell'ultimo decennio in molti (soprattutto tra gli editori) hanno ingenuamente pensato che fosse solo una questione di hardware. Che bastasse, cioè, spingere sul mercato un gadget vagamente interattivo e portatile, su cui trasferire lo stesso prodotto affidato da secoli alla carta, per seppellire definitivamente Gutenberg. Niente di più sbagliato. Come per l'audio e i video online, anche qui il cambiamento dovrà passare per una risocializzazione delle pratiche di produzione e consumo. La direzione verso cui guardare è semmai quella del software, dove il David sociale sta definitivamente uccidendo il Golia della cultura istituzionalizzata.
Sparsi per il mondo ci sono migliaia di lavoratori a ore impegnati a scannerizzare, pagina dopo pagina, intere biblioteche per Google. L'Economist parla di 3000 volumi al giorno solo a Berkeley, contratti simili con altre 11 istituzioni. A voler fare un calcolo prudente, si tratta di oltre 10 milioni di libri all'anno. Di questo passo l'intera produzione mondiale, stimata intorno ai 65 milioni di opere, nel giro di un quinquennio sarà interamente digitalizzata. Non avrà le stanze esagonali della Biblioteca di Babele borgesiana, né si estenderà lungo la Via Lattea come l'Enciclopedia Galattica di Asimov, ma sarà a portata di clic di chiunque e da qualunque parte del mondo, in qualsiasi momento. Gli editori potranno aggirare gli impietosi colli di bottiglia della distribuzione tradizionale: niente ristampe e volumi al macero, il mercato sarà completamente on-demand. Seppur in scala molto ridotta, tutto ciò è già realtà: da qualche anno su Google Books è possibile effettuare ricerche all'interno dei libri, visualizzare anteprime, ordinare una copia o stamparla direttamente da casa. Mentre i colossi editoriali italiani nicchiano, piccole case come Meltemi e Apogeo hanno colto la palla al balzo, iniziando a offrire gran parte del loro catalogo online.
E questa è solo una faccia della medaglia. L'altra è rappresentata dal self-publishing, destinato a produrre effetti ancora più dirompenti. La tendenza è stata inaugurata da Lulu.com, ma sono già tanti i cloni (come Blurb o l'italiano Boopen) che permettono di pubblicare e vendere qualsiasi contenuto digitale in totale fai-da-te. Basta iscriversi, caricare la propria opera, scegliere il formato e la copertina, stabilire il prezzo di vendita, et voilà, il libro è in commercio. Con buona pace delle diseconomie di scala delle case editrici, il cui modello, come dice il fondatore di Lulu, Bob Young, funziona solo per l'Harry Potter di turno. Almeno fino a quando la Rowling non deciderà di ricorrere a servizi simili: il che non rappresenta una possibilità tanto remota. Un precedente già esiste e arriva dall'Italia con Giuseppe Genna (si veda qua sotto).
Tutto qui? Il libro online sarà quindi solo un upgrade in salsa digitale di quanto abbiamo avuto fino ad ora? Non proprio. In molti sono convinti che la vera rivoluzione deve ancora arrivare. «Dobbiamo uccidere il libro per salvare i libri», afferma lo studioso Jeff Jarvis, convinto oppositore delle definizioni dei media troppo legate al supporto: il giornalismo non è fatto di carta, ma di idee e informazioni veicolabili con qualsiasi mezzo. Lo stesso per i libri. C'è poi chi, come gli analisti del Future of the Book Institute, di New York, da tempo teorizza l'avvento del «networked book», ovvero «il libro come software sociale, un'esperienza intellettuale strutturata, un attrattore di idee reinventato in un'ecologia peer-to-peer».
Più che a Google Book o Amazon, si pensa a un modello potenziato di Wikipedia, in grado di far crepare la struttura bidimensionale della pagina e andare oltre l'interazione muta tra scrittori e lettori. E' il percorso indicato da un autore come Neal Stephenson o l'approccio dei blook, opere nate su un blog, terreno di contaminazione creativa dei più diversi generi e formati.
Niente foglie morte o prodotti surgelati all'origine, ma punti di presenza di un network organico in cui la conoscenza, anche quella narrativa, diventa produzione collettiva. Ma questa è già un'altra storia, in cui Gutenberg non potrà avere molta voce in capitolo.
(ilmanifesto.it)

29.1.07

Ribelli dediti all'ozio nelle città del XXI secolo

Il nuovo profilo del flâneur, dalla descrizione che ce ne ha lasciato Baudelaire alle mutazioni indotte dalle società immateriali. In un libro titolato «Lo sguardo vagabondo» per il Mulino, Giampaolo Nuvolati ridisegna i caratteri di queste figure emblematiche aggiornando il loro significato
Enrico Livraghi
È possibile che la figura del «flâneur» oggi si ripresenti alla ribalta? È possibile una qualche nuova forma di «flânerie» nelle metropoli infestate dalle automobili, assediate dall'inquinamento, scorticate da un'edilizia predatoria, appiattite su un modello speculativo dominante e conformate a una sorta di «pensiero urbanistico unico»? La risposta sembrerebbe affermativa, almeno secondo la tesi che il sociologo dell'ambiente Giampaolo Nuvolati propone nel suo suggestivo Lo sguardo vagabondo. Il flâneur e la città da Baudelaire ai posmoderni (Il Mulino, pp. 184, euro 12). Scrive, Nuvolati: «In questo libro dedicheremo la nostra attenzione a una categoria specifica di individui: i flâneur. Il termine, ampiamente utilizzato a partire dall'Ottocento a proposito di poeti e intellettuali che, passeggiando tra la folla dei cittadini consumatori, ne osservano criticamente i comportamenti, è oggi tornato in voga anche per descrivere alcune pratiche di viaggio ed esplorazione dei luoghi, di relazione consapevole con le persone e i contesti».
Sarebbe proprio l'uniformità urbana dilagante a rimettere in campo la figura del flâneur, nelle vesti - però - di una specie postmoderna di ribelle, quasi un personaggio antagonista rispetto al processo di omologazione della città. È peraltro noto - dice ancora Novolati - che «il flâneur, anche nei suoi comportamenti più originali e bizzarri, segnati dalla solitudine e dall'ozio, costituisce da sempre una figura provocatoria». Dunque, in questa tarda modernità, l'attitudine essenzialmente metropolitana nominata «flânerie» dai tempi della «Parigi capitale del XIX secolo», per quanto mutata all'altezza del presente, sarebbe tutt'altro che scomparsa, e il flâneur, per quanto irriconoscibile, si aggirerebbe ancora vivo e vegeto con il suo occhio graffiante nello spazio urbano (e, a quanto pare, anche in quello extraurbano). Certo, non si tratta più di quella figura messa in gioco da Baudelaire e scolpita in forma indimenticabile nelle pagine «baudelairiane» di Walter Benjamin: quel personaggio che attraversava con aria febbrile e con foga sacrale le strade, i quartieri, i «passages» e i nuovi boulevard parigini. Né il contesto è più il centro della città, il suo «cuore pulsante», luogo del «pellegrinaggio al feticcio della merce», come diceva Benjamin: il moderno flâneur (ma si potrebbe ormai nominarlo in un qualsiasi altro modo) non subisce più lo spaesamento della folla, ma semmai si immerge nel sociale e ha piuttosto di mira le strade di periferia, gli spazi più decentrati e marginali (e borderline), spesso punteggiati dai monumenti riciclati dell'archeologia industriale, dove oggi si produce e insieme si distorce la socialità della metropoli, si costruisce e al tempo stesso si disgrega e si consuma il nesso sociale.
Secondo Nuvolati, «lo sguardo del flâneur...ci aiuta a vedere la storia e i problemi sociali del nostro paese». Infatti, sotto questa curvatura, il moderno flâneur si presenta come una figura sociologicamente rilevante, tanto più che l'orizzonte del suo errare si allarga verso le prospettive della cosiddetta «società immateriale» (il viaggiare, il navigare in rete, il comunicare in permanenza), intese come apertura verso un continente dell'immaginazione sconfinato e impensabile fino a poco tempo fa. Un'immaginazione (appunto sociologica) che parrebbe dunque costituire attualmente un passaggio cruciale, tale da offrire a questo emblematico personaggio una possibile via d'uscita da quello slittamento verso l'omologazione già individuato da Benjamin. Insomma, il moderno flâneur - al contrario del suo celebre antenato ottocentesco - sembrerebbe capace di sottrarre il suo prezioso sguardo al pericolo di una caduta «al servizio della vendita», evitando che la sua intelligenza sia anch'essa un qualcosa che «si è recata al mercato» (ancora Benjamin) divenendo preda della fantasmagoria della merce. A parere di Nuvolati, «se, in passato, le passeggiate del flâneur avevano come meta principale i luoghi del consumo nel cuore della città, sucessivamente questo campo d'azione è andato decentrandosi alla ricerca di eventi e significati anche in anfratti urbani marginali. La città di oggi è senza mappa, è un'entità per certi versi paradossale: esiste pur senza essere rappresentabile, o viceversa è virtuale, dunque rappresentata pur senza esistere».
Tuttavia, forse, proprio l'esercizio dello sguardo rappresenta la più grande insidia per il moderno flâneur (come, infine, per chiunque persegua la destabilizzazione del conformismo visivo imperante in questa città «senza mappa»). Perchè lo sguardo, che tenta di frantumare percettivamente l'omologazione, è invece bersagliato dalla fantasmagoria del mercato finto-immateriale che adesso incombe in ogni dove; ed è al tempo stesso sottoposto alla minaccia rappresentata da quella sorta di gigantesco laboratorio di costruzione dell'immagine-merce che infiltra l'intero spazio metropolitano - meglio se «virtuale» - dove regna l'imperativo di irretire lo sguardo stesso nel perenne processo di auto-valorizzazione del valore.
In un simile spettacolo fantasmagorico, esaltato all'ennesima potenza proprio dalla dimensione virtuale, lo sguardo - reso ipertrofico dalla simbologia e dai segni allusivi, disseminati in ogni angolo e in ogni interstizio della città - è ridotto esso stesso al livello di una pura merce, vale a dire al rango di pura audience, questa merce impalpabile, invisibile (come lo è lo sguardo), inattingibile nel suo sfuggente travestitismo, e che paradossalmente si autoproduce in quanto tale. Tanto che si può forse dire che in questa fase della tarda modernità detta anche globalizzazione (cioè sussunzione capitalistica del globo terracqueo), anche il flâneur è servito.

il manifesto

26.1.07

Il 'surfing' governato da leggi matematiche

Due ricercatori italiani scoprono un modello matematico nuovo

Due sono i parametri che regolano la navigazione: l'effetto memoria, cioe' il fatto che l'utente tende a guardare solo cose recenti, e l'attitudine degli internauti a usare per i tag parole gia' viste da altri utenti

Due studiosi italiani, dell'universita' La Sapienza di Roma Vittorio Loreto e Ciro Cattuto, si sono concentrati sul fenomeno del ''tagging'', cioe' sulla messa in comune da parte di grandi quantita' di internauti di informazioni su uno stesso tema, e hanno scoperto che si puo' descrivere il modo con cui le comunita' agiscono sulla base di due leggi molto semplici.

Ne e' venuto fuori un modello matematico che descrive il fenomeno che non sarebbe dettato dal caso. L'interazione tra milioni di persone che non si conoscono consente dinamiche complesse simili a quelli descritti dalle leggi della termodinamica, in cui non serve sapere la posizione di ogni singola particella ma bastano alcuni paramentri per descrivere il sistema.

Il programma scelto dai ricercatori e' quello fornito dal programma del.icio.us, ideato da un diciannovenne americano, che permette il cosiddetto ''tagging collaborativo''. Chiunque puo' collegarsi e associare ai contenuti del sito (foto, bookmark o musica), un ''tag'', cioe' un'informazione necessaria alla catalogazione. Del.icio.us è un software per social bookmark. Ti permette di aggiungere facilmente i siti che ti piaccioni nella tua collezione personale di link. Puoi organizzare i link utilizzando delle parole chiave (dette tag), e condividere la tua collezione non solo tra te ed il tuo browser ma anche con altri utenti.

Internet di per se' e' una struttura di pagine disorganizzate, caotiche dove diventa sempre piu' difficile navigare. A questo punto o si ripensa Internet oppure si organizzano dei percorsi preferenziali attrezzando sistemi di ricerca in grado di 'customizzare' al rete su misura di utente.

Alla fine navigare in rete non e' alro che esplorare una lista di link prestabiliti. Tutti i link organizzati secondo criteri di contenuto rappresentano un cospicuo capitale, una risorsa cui far riferimento. In effetti iscriversi alle banche dati di link gia' raggruppati e' un modo rapido di navigare conoscendo gia' la rotta tracciata da altri internauti.

Le leggi trovate dai ricercatori romani, che lavorano con il finanziamento di un progetto europeo in collaborazione con la Sony e alcune universita' europee: i parametri sono due, ma danno gia' risultati soddisfacenti: c'e' il cosiddetto effetto memoria, cioe' il fatto che l'utente tende a guardare solo cose recenti, e l'attitudine degli internauti a usare per i tag parole gia' viste da altri utenti.

Combinando queste due leggi e' venuto fuori un modello matematico che descrive con una buona approssimazione i comportamenti. Le applicazioni di questo lavoro sono sia pratiche che 'accademiche'. Ovviamente quando si individua bene come gli utenti usano un sito puoi modificarlo per andare incontro alle loro esigenze o prevenirle, e questo puo' valere per tutti i siti di tagging. Inoltre questo studio ha delle applicazioni nel campo delle scienze sociali perche' permette di sapere quali parole vengono associate a determinati contenuti.

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