27.1.12

Sophie Nezri-Dufour: Il giardino dei Finzi-Contini: una fiaba nascosta

di Claudio CazzolaSophie-Nezri-Dufour-giardino.jpg
Sophie Nezri-Dufour, Il giardino dei Finzi-Contini: una fiaba nascosta, Fernandel, Ravenna, 2011, pp. 156 €12.00
A mo’ di anticipazione possiamo dire che le funzioni sono straordinariamente poche e i personaggi straordinariamente numerosi.
Se si dovesse scegliere una sentenza proppiana atta a suggerire la chiave di accesso al lavoro indicato sopra, nessuna meglio della presente potrebbe prestarsi allo scopo, magari glossata dalla seguente a stretto giro di pagina [1]:
Gli elementi costanti, stabili della favola sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente dall’identità dell’esecutore e dal modo di esecuzione. Esse formano le parti componenti fondamentali della favola.
Muniti di tanto viatico, siamo ora attrezzati per delibare la ricerca della studiosa francese, la quale sottopone il bassaniano Libro terzo del Romanzo di Ferrara ad una disamina robustamente strutturata secondo le linee metodologiche appena riportate.
Il capitolo primo (pp. 13-47) è dedicato alla presentazione generale del tema, a partire dall’esordio fiabesco – il prologo etrusco a confronto con la magna domus – e, attraverso una prima identificazione dell’eroe io narrante e del suo antagonista Malnate, si giunge alla locandina ove sono inscritti gli aiutanti preziosi: Micòl ed il professor Ermanno padre suo in primis; a seguire, il rito di iniziazione che comporta la conoscenza del luogo sacro segreto, attraverso il viaggio come tentativo, da parte dell’eroe, di una conquista identitaria, che sarà, alla fine, la certezza che per lui si delinea un avvenire di scrittore (p. 47). Presentate in tal modo i confini esterni della narrazione, apprendiamo nel capitolo successivo (pp. 49-86) quali siano i luoghi simbolici e iniziatici (“regressus ad uterum” viene definita la discesa nella profondità della terra p. 51), ove non può mancare l’ostacolo obbligatorio della foresta incantata, attraverso l’attraversamento della quale si può giungere al castello, luogo sempre separato dal resto del mondo (p. 59). portadegliangeli.jpgEbbene, proprio all’interno del castro fortificato, là dove l’accesso è negato a chiunque non sia iniziato, è collocata la torre, vale a dire il recesso segreto adibito a stanza esclusiva della principessa Micòl, alla quale sono dedicate, et pour cause, pagine illuminanti (pp. 69-81), laddove si enuclea in modo egregio l’essenza profondamente ambigua di codesto personaggio, fata-ondina-strega nello stesso tempo – e la memoria di tutti vola alle epifanie femminili dell’Odissea, non ultima quella di Nausicaa, la fanciulla-nave (da giusta etimologia del nome proprio) che salva il naufrago da morte certa: e se vi è la figlia, ecco allora, accanto a lei il padre Alcinoo-Ermanno, non a caso chiamato, a p. 81, il vecchio re. Il quadrante cartesiano spazio-temporale si accampa, nel capitolo terzo (pp. 87-126), subito sotto il segno della atemporalità che regna nel luogo magico dei Finzi-Contini, mentre fuori gli eventi infuriano (p. 87). Se dunque la nozione del tempo è duplice e connotata da polarità opposte a seconda che ci si trovi all’interno ovvero all’esterno della magna domus, pure lo spazio allora subirà la medesima scissione inconciliabile, tanto più che il giardino di Micòl rappresenta l’Eden, il paradiso, da cui l’eroe sarà poi escluso, e alle cui delizie sognerà allora disperatamente di ritornare (pp. 95-96): in un simile hortus conclusus vivono figure altre rispetto al contesto civico della città di pianura. Fra esse spicca il mitico Perotti, guardiano-autista-tuttofare, riedizione del Caronte classico, accompagnato regolarmente dal cane Jor, Cerbero redivivo riadattato alla circostanza; la famiglia del Perotti, poi, che vive in un improbabile mondo bucolico popolato di eredi della Magna Mater mediterranea come la uxor Vittorina, capace di ammannire alla signorina (anzi, sgnurina, in lingua ferrarese) una minestra di fagioli davvero paradisiaca e la nuora, colta nell’atto sacrale dell’allattamento; senza trascurare altri esseri secondari, come se la foresta dei Finzi-Contini fosse popolata da una moltitudine di «folletti» misteriosi (p. 107). Giunta in tal modo al termine della tela con attenta acribia intrecciata, a guisa di Elena iliadica Sophie Nezri-Dufour mette il suggello della propria lettura originale attraverso il quarto ed ultimo capitolo, che già dal titolo (una fiaba particolare) rivela l’intento metodologico perseguito: l’adesione ai dettami proppiani altro non è che un mezzo, uno strumento, un tramite provvisorio per andare anche oltre la conquista consolidata dalla letteratura critica. Questo sconfinamento fertile per il lettore poggia sulle sobrie pagine finali, in particolare quelle dedicate alla assenza di lieto fine (pp. 128-131), ove è avvertibile a livello palmare quanta importanza rivesta, per Bassani, il magistero manzoniano dei Promessi Sposi, il cui capitolo trentottesimo rappresenta il trionfo della non fiaba, con la lucida negazione, appunto, di un finale positivo, quale segno indelebile di sfiducia nei confronti dell’agire umano. Se per don Lisander poi il varco verso la Salute può essere donato dalla grazia della Provvidenza, è certo che nel cosmo bassaniano una eventuale scialuppa di sopravvivenza, e personale e collettiva, alberga solamente nella scrittura [2].
Come il critico russo per la studiosa francese, così pure – si licet parvis componere magna – il ruolo di Sophie Nezri-Dufour per l’estensore di queste note, il quale, ispirato dal cassetto degli attrezzi generosamente offerto, ha seguito l’itinerario dell’io narrante a partire dalla lettura dei risultati scolastici di fine anno. Come è universalmente noto, nel passaggio dalla quarta alla quinta classe ginnasiale Giorgio Bassani subisce uno stop, provvisorio, in matematica, da riparare – come si diceva fino a qualche tempo fa – a settembre; simile sorte accade all’eroe del testo, il quale, alla vista di un numero vergato in rosso sui tabelloni degli scrutini accanto al suo nome, entra in crisi di identità, inforca la bicicletta e, invece di prendere la strada verso casa, si dirige dalla parte opposta senza apparente meta, con l’intenzione sola di fuggire il consorzio umano – premessa indispensabile per l’imminente viaggio nell’Aldilà. Vaga dunque il nostro lungo le Mura degli Angeli, intorno alle quali deserto assoluto [3]:
muradegliangeli.jpgIn giro deserto assoluto. Il viottolo di terra battuta che, come un sonnambulo, avevo percorso fin lì da Porta San Giovanni, proseguiva serpeggiando fra i tronchi secolari verso Porta San Benedetto e la stazione ferroviaria. Mi sdraiai bocconi nell’erba accanto alla bicicletta, col viso che mi scottava nascosto fra le braccia. Aria calda e ventilata attorno al corpo disteso, desiderio esclusivo di rimanere il più a lungo possibile così, ad occhi chiusi. Nel coro narcotizzante delle cicale qualche suono non lontano spiccava isolato: un grido di gallo, uno sbattere di panni prodotto verosimilmente da una lavandaia attardatasi a fare bucato nell’acqua verdastra del canale Panfilio, e infine, vicinissimo, a pochi centimetri dall’orecchio, il ticchettio via via più lento della ruota posteriore della bicicletta ancora in cerca del punto di immobilità.
La scrittura non può essere, in codesto frangente, più bassaniana di così, dal punto di vista del labor limae, vale a dire quel controllo meticoloso e mai del tutto soddisfatto sia del repertorio lessicale sia della struttura sintattica. Intanto, preliminarmente, eliminazione totale di presenze antropiche, azione atta a favorire l’isolamento dell’eroe; in secondo luogo, la normale strada, via di comunicazione e di scambio urbano, è sostituita da un viottolo di terra battuta, con una significativa regressione ad uno stato pre-civile, laddove il varco non risponde ad una logica razionalizzante, visto che prosegue serpeggiando, e dunque si rivela prodotto più da intervento di animali alla ricerca di cibo che di un piano regolatore; infine, l’assunzione della posizione distesa a terra col volto rivolto verso il basso, il che vale essere disponibili ad una umiltà totale, precondizione necessaria per ricevere l’accoglienza di una esperienza misterica, chiusi gli occhi fisici al mondo. A questo punto, negata la vista materiale, viene esaltato l’aspetto auricolare, con l’innalzamento il più possibile delle antenne uditive, alle quali giungono tre (non sfugga il numero sacro per antonomasia) messaggi decisivi. Il primo proviene dal coro narcotizzante delle cicale, il cui stridio incessante e sempre uguale rimanda alle esibizioni dei coribanti ovvero delle baccanti, il corteo rumoreggiante e rimbombante che accompagna l’epifania del dio Dioniso-Bacco, la divinità dell’estasi, dell’uscita di testa, dell’abbandono della lucidità razionale; in secondo luogo, un grido di gallo, il quale, come suono emesso nel pomeriggio [4] annuncia mala ventura e catastrofe, secondo le credenze popolari ancora vive nel territorio ferrarese specie del contado; in terzo luogo, il tonfo cadenzato (una reminiscenza pascoliana?) dello sbattere di panni presso la riva del canale Panfilio, corso d’acqua che davvero esiste nella città di pianura, ma è sotterraneo, chiuso cioè in tombini sotto l’attuale viale Cavour che mena dal Castello Estense a fuori Porta San Benedetto verso la stazione ferroviaria, e dunque rivo infernale; infine, a conclusione dell’itinerario di avvicinamento all’organo corporeo qui esaltato, il ticchettio via via più lento della ruota posteriore della bicicletta ancora in cerca del punto di immobilità. Raggiungiamo qui il punto più controllato del contesto, vera e propria klimax della rappresentazione teatrale di una morte favolisticamente apparente ma non per questo meno veritiera: l’affievolirsi, lento ma inesorabile, del rumore prodotto dai cuscinetti a sfera della corona su cui insiste la catena in corrispondenza della ruota posteriore del mezzo di trasporto rinvia allo spegnersi di ogni contatto con il mondo materiale, privilegio appunto dell’eroe, che solo può accedere così all’Altro da Sé. Come Odisseo muore dopo il naufragio e solo un grido femmineo riesce a risvegliarlo per incontrare Nausicaa, così l’io narrante, ripulite le orecchie dalle scorie della vita quotidiana, stenta ad avvertire il suono, quasi impercettibile, della propria Kore, la fanciulla dell’Ade [5]:
«Pss.»
Mi svegliai di soprassalto.
«Pss!»
Alzai lentamente il capo, girandolo a sinistra, dalla parte del sole. Sbattei le palpebre. Chi mi chiamava?

Ecco, sempre attraverso l’esperienza auricolare, il contatto con il mondo dell’oltretomba, la cui guida sarà identificabile ancora più tardi, dopo aver ascoltato l’enunciato seguente [6]:
«Ehi, ma sei proprio anche cieco!», fece una voce allegra di ragazza.
La constatazione della cecità non appaia peregrina – non lasciamoci fuorviare dal tono apparentemente canzonatorio adottato dall’emittente –, trattandosi viceversa di una condizione degna del tropo alto-mimetico, vale a dire tipica di colui che viene privato della vista materiale per poter assumere altra vista, quella della visione. Non per niente altro Omero, il poeta sovrano per antonomasia, viene da sempre ritratto, e ritenuto, cieco, metamorfosi indispensabile per accogliere l’ispirazione sacra della Musa, e poter quindi compiere il Viaggio della conoscenza dentro di sé [7].
Note
[1] Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba, con un intervento di Claude Lévi-Strauss e una replica dell’autore, a cura di Gian Luigi Bravo, Einaudi, Torino, 1988, pp. 26-27.
[2] Ed in modo analogo si conclude la ricerca di Sophie Nezri-Dufour: «Legato all’inquietudine dell’esistenza e alla ricerca di senso, Il giardino, vero testo di saggezza, si assimilerebbe per questo quasi al “conte philosophique” settecentesco, pur ricollegandosi sempre alle radici primigenie della fiaba, dalla dimensione metaforica e magica. Ed è questo incontro originale che spiega anche il fascino delle pagine bassaniane, posto com’è all’origine di un discorso carico di immagini e di elementi meravigliosi, creatore di un microcosmo altamente poetico e fatato, e insieme ragione di una riflessione profonda sul senso della vita e sull’assurdità dell’esistenza, salvata forse solo dall’intervento della scrittura» (pp. 150-151).
[3] Da qui in poi si cita da Giorgio Bassani, Opere, a cura e con un saggio di Roberto Cotroneo, Mondadori, Milano, 2001 [1998¹]. Siamo per l’esattezza a p. 352.
[4] Basti dire che verso le due del pomeriggio vagavo tuttora in bicicletta lungo le Mura degli Angeli ecc. (medesima pagina).
[5] Ivi, p. 353.
[6] Ivi, p. 354.
[7] Per il contesto e la continuazione di questa lettura mi permetto di rinviare al mio contributo Kore l’oscura: (in)seguendo Micòl, in Poscritto a Giorgio Bassani. Raccolta di saggi critici nel decimo anniversario della morte, a cura di R. Antognini e R. Blumenfeld, LED Edizioni Universitarie, Milano [di imminente pubblicazione].

26.1.12

Galapagos (Il Manifesto)

È una piramide con una base sempre più larga e un vertice più sottile quella che emerge dai dati di Bankitalia sulla distribuzione dei redditi e della ricchezza. Solo un paio di dati: nel 2010 il 14,4% della popolazione era ufficialmente in una situazione di povertà a causa di un reddito insufficiente. Il tutto mentre il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46% della ricchezza totale stimata in circa 9 mila miliardi di euro. Semplificando, circa 6 milioni di italiani possiedono - in media - una ricchezza di quasi 4200 miliardi, circa 700 mila euro a testa, contro 54 milioni di persone che - sempre in media - hanno un patrimonio di circa 90 mila euro. Come dire: il 10-20 per cento delle persone più povere non ha nulla di ricchezza e il 70-80 per cento ha un patrimonio che corrisponde al valore di una abitazioni modesta. Che ovviamente non tutti hanno, visto che il 21% delle famiglie vive in affitto.

C'è un altro aspetto che colpisce: negli ultimi 20 anni il reddito dell'Italia è cresciuto poco, ma il reddito reale dei lavoratori autonomi è aumentato del 15,7%, quasi 5 volte di più del 3,3% dei lavoratori dipendenti. Siamo di fronte a una gigantesca redistribuzione dei redditi a sfavore del lavoratori dipendenti. La specificità della crisi italiana è in questi dati che confermano come la progressiva pauperizzazione del lavoro dipendente a fronte di uno stato sociale sempre meno generoso è alla base della caduta della domanda. Cioè dei consumi, anche quelli alimentari, come confermano i dati Istat sulla vendite al dettaglio.

Ma c'è ancora un altro dato - non di Bankitalia - che completa il quadro: ieri mattina Attilio Befera, il massimo dirigente dell'agenzia delle entrate, ha denunciato che in Italia l'evasione fiscale tocca i 120 miliardi l'anno. E non sono certo i lavoratori dipendenti (anche se a volte lo fanno) e i pensionati a evadere. Insomma, chi più guadagna più evade. E questo spiega perché molti ristoranti sono pieni e ci siano in circolazione centinaia di migliaia di auto di lusso.

Da questi numeri è possibile trarre alcune conclusioni che dovrebbero fare da guida alla politica economica della sinistra. La prima è che la lotta all'evasione deve essere l'obiettivo prioritario: se non aumenta il gettito fiscale non sarà possibile diminuire il cuneo fiscale che penalizza i lavoratori dipendenti e far pagare meno tasse a loro e ai pensionati. E senza recuperare i soldi degli evasori non sarà possibile aumentare la spesa sociale e i consumi privati di milioni di persone. Di più: la distribuzione della ricchezza indica con chiarezza che è necessario procedere a una riforma fiscale che alleggerisca la pressione sui redditi e aumenti quella sul patrimonio.

Quanto ai salari, non aumentano solo con la diminuzione della pressione fiscale, ma anche con l'aumento della produttività. Attenzione, però: la produttività non deve aumentare «strizzando» ancora di più i lavoratori con innovazioni di processo, magari con l'aggiunta del ricatto della flessibilità in uscita, ma deve essere ottenuta attraverso innovazioni di prodotto. Perché - ce lo spiegano i dati annuali di Mediobanca - nelle imprese che innovano che i profitti, ma anche i salari, sono più alti. Ma la sinistra è convinta che il programma di Monti si muova in questa direzione?

16.1.12

Collisione in vista per la Banca europea qualche consiglio per evitare lo schianto

 Bruno Amoroso * (Il Manifesto)
 
Avviso ai naviganti: la nave Euro si sta schiantando contro un iceberg. Bisogna sganciare alcuni missili. Fuori di metafora, nazionalizzare le banche e riprendere il controllo della sovranità monetaria.

Il Titanic Euro è ormai a vista d'occhio dalla collisione con l'iceberg della speculazione finanziaria internazionale. A bordo il capitano, Mario Draghi, con l'ausilio del personale precario e dei mozzi - Merkel, Sarkozy e Monti - mantiene la calma e si accinge a pulire i vetri della nave con i pannicelli caldi chiamati «liberalizzazioni» e «disciplina di bilancio», e del «mercato del lavoro». 
Qualche telefonata arriva dalla terra ferma dagli attoniti osservatori (Wolf, Galbraith, Krugman ecc.), che raccomandano di mettere in mare le scialuppe di salvataggio per salvare quanti più paesi è possibile e tentare di fermare l'iceberg prima dello scontro. Mario Draghi e i suoi mozzi hanno già pronti gli elicotteri per il loro salvataggio. 

Le misure estreme da prendere - estreme perché ormai è già tardi - sono quelle di inviare dei missili ben mirati che frantumino l'iceberg della finanza e del gruppo di potere che ha pilotato l'Europa dalla zona dell'Ue alla zona della Grande Germania. Il primo missile, che potrebbe partire dall'Italia, è quello di nazionalizzare le grandi banche nazionali togliendogli ogni ruolo nel campo del credito e del controllo finanziario, mettendole in liquidazione mediante il trasferimento delle loro funzioni al sistema del credito cooperativo e popolare nelle sue varie forme assunte dal credito locale. 
Questa è la vera liberalizzazione da fare smettendola con il fumo dei fuochi d'artificio dei taxisti e delle farmacie. Il secondo missile va diretto alla Banca d'Italia e Banca centrale europea, uffici regionali della Goldman Sachs, restituendo il controllo e la sovranità monetaria ai governi dei paesi e ai rispettivi «Ministeri del tesoro pubblico».
 Il terzo missile - lasciamolo ai francesi che di omicidi mirati se ne intendono come hanno dimostrato da ultimo in Libia - deve colpire le società di rating, accecando così il sistema di rilevazione e di pilotaggio della speculazione, e i paradisi fiscali che sono i centri di benessere della speculazione. Queste società vanno bandite dall'Europa (la guardia di finanza e l'antimafia potrebbero prendersi carico del compito unificando così la lotta all'evasione con quella alla mafia), e le Borse che ne seguono gli indirizzi vanno immediatamente «sospese» come si fa normalmente quando interviene una disturbativa d'asta a scopo speculativo.
 Il quarto missile non deve contenere una bomba, ma un annuncio ai cittadini europei che il debito sovrano va riportato dentro i confini dei vari paesi con l'annullamento di tutti gli impegni su titoli ceduti a tassi che superano il corretto interesse bancario (2,5-3 % max), e collocandoli tra i propri cittadini con un prestito nazionale solidale così come fu fatto in Italia con il «prestito per la ricostruzione» del dopoguerra. Cessioni di titoli al prestito internazionale devono essere contrattati a livello dei governi dei vari paesi, dentro norme e costi concordati in modo trasparente e con la garanzia solidale dell'Ue. 

Le ricchezze così recuperate devono costituire la base di un nuovo patto sociale tra i paesi europei che preveda, insieme alla ricostituzione di un «serpente monetario flessibile», quella di una «divisione europea del lavoro» che metta al bando le mire di competizione e rivalità neocoloniali della vecchia Europa, sia dentro che fuori dei suoi confini, e ne fissi invece le  scelte produttive dentro un programma di cooperazione internazionale che parta dal riconoscimento delle priorità di crescita e organizzazione sociale, concordate in modo sinergico con le grandi aree mondiali (Asia, America latina, Africa, ecc.). Questa può essere la base per una riorganizzazione delle istituzioni europee che avvii un reale processo d'istituzione dell'Europa federale. Un programma minimo, senza il quale i cittadini europei, colori che si salveranno dall'inabissamento della nave Euro saranno ridotti al ruolo di lavavetri di una nave sul fondo del Mediterraneo. 

* Centro studi Federico Caffè

14.1.12

La beffa della caserma «svenduta» e il triplo affare dei francesi

Gian Antonio Stella (Corriere)


Dopo 7 anni lo Stato la rivuole (sborsando il doppio) L'Università 

«SPQR: Sono Pazzi Questi Risanatori», ridono i francesi di Bnp Paribas, facendo il verso ad Asterix, se pensano a certe cartolarizzazioni all'italiana: traffico di coca e d'armi a parte, dove lo trovi un investimento che renda in 7 anni oltre il doppio del capitale come la caserma «Miale» di Foggia? Una pazzia da manuale. O da inchiesta penale.
«Tesoro: immobili; no "svendopoli", cambio d'uso per valorizzare», titolava l'Ansa il 23 agosto 2001 spiegando che Giulio Tremonti voleva risanare i conti a partire dalla vendita di migliaia e migliaia di edifici di proprietà pubblica come certi edifici militari nel quartiere Prati di Roma e tanti altri sparsi per la penisola. Un anno dopo, un'altra Ansa spiegava che era in arrivo «la più grande cartolarizzazione mai fatta in Europa».
Si è trattato, in realtà, di due percorsi paralleli. Uno seguito con l'obiettivo di vendere, nelle più rosee speranze, 90 mila immobili di vari enti pubblici e portato avanti attraverso la costituzione di un paio di società in Lussemburgo («Con un capitale di 10 mila euro, due fondazioni olandesi come azioniste e un cittadino scozzese di nome Gordon Burrows alla presidenza», rivelò l'Espresso ) dal nome sventurato (Scip: Società cartolarizzazione immobili pubblici) ideale per i titoli giornalistici sugli edifici «scippati». L'altro con la parallela dismissione di strutture militari.
Quale sia stato l'esito della prima operazione lo hanno spiegato varie inchieste giornalistiche («un saldo negativo di 1,7 miliardi») e il procuratore generale della Corte dei Conti Furio Pasqualucci. Il quale un paio d'anni fa, bollando il risultato come «poco lusinghiero» (disastroso, con parole non «magistratesi») invitò chi volesse insistere a pensarci settanta volte sette giacché una nuova «alienazione deve essere attentamente dosata nel tempo e studiata in modo da conseguire risultati migliori di quelli derivanti dalle recenti cartolarizzazioni che a fronte di un portafoglio di 129 miliardi, ha fruttato ricavi per 57,8 miliardi, con un rapporto ricavi/cessioni pari al 44,7%». Molto meno della metà.
Quanto alle caserme, il tragicomico esempio foggiano è illuminante. Dovete dunque sapere che a Foggia, a due passi dalla facoltà di Giurisprudenza e a poche centinaia di metri dal cuore storico che ruota intorno alla cattedrale barocca della Beata Maria Vergine Assunta in cielo, c'è un grande edificio ottocentesco ancora in ottime condizioni, la «Caserma Miale da Troia».
Nelle foto dall'alto e su Google Maps è inconfondibile: è il palazzo più grande del centro cittadino. Elegante, tre piani, si sviluppa su circa 16 mila metri quadri coperti e ha un cortile interno di altri 6.500, pari (si calcola com'è noto il 25%) a un totale di 17.625 metri quadri. Valore? Altissimo, dice l'attuale proprietario trattando la vendita all'Università di Foggia: dove lo trovi uno spazio altrettanto grande e appetibile nel cuore del capoluogo?
Eppure grazie alla «cartolizzazione» tremontiana, quel proprietario, il Fondo «Patrimonio Uno» gestito dai parigini di «Bnp Paribas Rei Sgr», comprò poco più di sei anni fa quel ben di Dio (all'interno di un pacchetto con altri edifici) per una cifra intorno agli 11 milioni di euro. Pari, per capirsi, a circa 624 euro al metro quadro. Un affarone.
Affarone raddoppiato dalla decisione parallela del ministero degli Interni di prendere contestualmente in affitto la caserma venduta dal Demanio per poterci lasciare dentro la Scuola di polizia fino al 2023. Canone concordato: un milione e 160 mila euro l'anno. Facciamo i conti in tasca ai francesi? Comprata per 11 milioni, la caserma avrebbe loro fruttato in soli 18 anni (un battito di ciglia, per una banca) la bellezza di quasi 21 milioni di affitti (per l'esattezza 20.880.000) dopo di che sarebbe rimasta comunque loro la proprietà rivalutata.
Rovesciamo le parti? Lo Stato italiano fece la parte del giocatore impazzito che, rovinato dal demone febbrile della roulette o del poker, svende a un usuraio la casa in cui vive per prenderla poi in affitto a un canone stratosferico. Un delirio. Ma l'ingloriosa avventura finanziaria della Miale non era ancora finita. Due anni dopo (solo due anni!) aver firmato il contratto di vendita e di affitto, infatti, il Viminale ha deciso che la Scuola di polizia, lì dove stava, a quei prezzi, non gli serviva più. E l'ha chiusa. Risultato: l'edificio è oggi utilizzato solo in minima parte (diciamo un dieci o al massimo un quindici per cento) per la mensa della Questura, per una foresteria di poche stanze e per le esercitazioni del poligono di tiro. E intanto i cittadini italiani continuano a portare sul gobbo il canone stratosferico di 96.666 euro al mese: 3.178 al giorno.
A metterci una pezza, come dicevamo, è arrivata l'Università di Foggia. La quale, come spiega il rettore Giuliano Volpe, il primo a essere scandalizzato per la vicenda, potrebbe trarre «enormi vantaggi dall'acquisizione di questa struttura (nelle immediate vicinanze delle Facoltà di Giurisprudenza e di Economia), per la sistemazione del Rettorato, dell'amministrazione centrale e poi di aule, laboratori, servizi agli studenti, residenze e così via». L'altro ieri se ne è discusso al Cipe e grazie ai «fondi Fas» nell'ambito del «Piano per il Sud» pare che la cosa, per la quale anche Nichi Vendola si è speso molto, possa andare in porto.
Prezzo concordato per il «riacquisto» da parte dello Stato: 16 milioni e mezzo di euro. Cinque e mezzo in più di quelli ricavati dalla vendita del 2005. Ma poi, ammiccano i francesi fregandosi le mani, c'è da contare gli affitti incassati in questi sei anni e passa. Facciamo cifra tonda? Sette milioni di euro di canoni. Per un totale (16,5+7) di 23,5 milioni. Il doppio abbondante di quanto era stato investito. Visto dalla parte nostra: abbiamo fatto la parte dei baccalà. Ammesso, si capisce, che si sia trattato di baccalà sventurati ma in buonafede e non baccalà furbetti ingolositi da qualche «esca» inconfessabile...
E dopo aver visto svendere ai soliti «amici» attici a San Pietro da 113 mila euro e case al Colosseo da 177 mila e poi caserme come la Miale con le modalità descritte vogliamo venderci ancora i gioielli di famiglia? O cambia tutto o mai più, così. Mai più.

7.1.12

Le spese improduttive delle Forze armate

Le Spese Improduttive Delle Forze Armate

6.1.12

La destra di classe difende gli evasori

Gad Lerner (La Repubblica)

Bentornata la politica, grazie agli ispettori dell´Agenzia delle Entrate. Un inequivocabile segno di classe contraddistingue le proteste della destra italiana contro il blitz antievasori di Cortina d´Ampezzo. Confermandoci quel che Karl Marx scriveva già nel 1859 nella sua celeberrima prefazione a «Per la critica dell´economia politica»: la coscienza dell´uomo è determinata dal suo essere sociale. Non c´è populismo che tenga, al dunque la nostra sensibilità è condizionata dal censo. E stavolta una malintesa vocazione a rappresentare gli interessi del proprio elettorato (ma ne siete sicuri, o ve lo figurate peggiore di quello che è?) precipita i malcapitati dirigenti del Pdl sulla soglia dell´autolesionismo. Da Paniz alla Santanchè, dal leghista Fugatti a Galan, è tutto un inorridire per l´«attentato alla libertà» perpetrato da «uno Stato di polizia fiscale», con tanto di solidarietà per i poveri commercianti ingiustamente accusati di disonestà e molestati a Capodanno nell´esercizio del loro lavoro. Fino al capogruppo Cicchitto che si scaglia direttamente contro il direttore dell´Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, accusato di «confezione ideologica del controllo fiscale» o, peggio, di «operazione politica e mediatica di carattere propagandistico». Davvero? Propaganda contro chi? In favore di chi? Tocca infine alla Gelmini, fino a ieri responsabile dell´educazione dei nostri figli, manifestare sul piano culturale il proprio sdegno: «L´idea che la ricchezza sia male, un fondamento ideologico della sinistra radicale, non credo possa essere condivisa da un esecutivo che fonda la sua maggioranza sul Pdl». Che gli ottanta ispettori entrati in azione a Cortina siano in realtà dei militanti vendoliani travestiti? Perché mai la loro azione risulterebbe incompatibile col programma di un governo che pure ha assunto la lotta all´evasione fiscale fra le sue priorità? Siamo al dunque, perché l´incattivirsi di una crisi che impoverisce i ceti popolari e brucia posti di lavoro, ripropone con brutalità le differenze di classe. La prolungata, falsa rappresentazione di uno stile di vita omologato nel consumo di massa – l´illusione della fine delle classi sociali – non regge più quando lo Stato, per non fallire, è costretto a mettersi in caccia della ricchezza nascosta. Certo, chi ha protetto finora la ricchezza nascosta, addirittura esaltandola come risorsa, fatica a riconoscerla per quello che è: una vera e propria piaga nazionale. Per questo la destra italiana – antiborghese piuttosto che liberale – agita le acque. Incapace com´è di distinguere la ricchezza generata col talento imprenditoriale dalla ricchezza accumulata con l´illegalità e le rendite di posizione, addebita ai funzionari dello Stato un profilo ideologico esistente solo nella sua propaganda: la demonizzazione del benessere, l´incitazione all´odio di classe. Ma dove vivono? Temo per loro che ormai non attacchi più. Il vittimismo dei furbi abbindolava i poveracci quando s´illudevano di poterli emulare, e quindi li ammiravano. Ma ora che le ricette anticrisi incidono profondamente sul reddito e sul risparmio dei cittadini, torna a contare in politica quella nozione di giustizia sociale fino a ieri oltraggiata – talvolta perfino a sinistra – con l´ambigua raccomandazione a non lasciarsi tentare dalla cosiddetta “invidia sociale”. Alla fine pure la destra dovrà prenderne atto: i commercianti che moltiplicano gli incassi solo in presenza dell´ispettore e i proprietari di auto di lusso col reddito minimo, nell´Italia del 2012 hanno perduto l´egemonia culturale insieme alla reputazione. Una destra liberale dovrebbe difendere gli interessi della borghesia orgogliosa del reddito e del patrimonio conseguito grazie alla sua capacità di fare impresa, e quindi dichiarato. Crede forse, Cicchitto, che i molti benestanti proprietari di auto di lusso ispezionati a Cortina, e risultati in regola col fisco, facciano il tifo per i disonesti contro gli ispettori? Purtroppo una destra che ha lucrato sull´indulgenza per gli evasori, registra con ritardo questo diffuso bisogno di giustizia sociale che pure le spetterebbe declinare a tutela delle esigenze imprenditoriali, come avviene negli altri paesi occidentali. Rischia di pesare su taluni suoi esponenti perfino un´asincronia culturale che rende faticoso adeguare lo stile di vita nel tempo della crisi: il lusso ostentato fino a ieri come dimostrazione del proprio potere, diviene un handicap. Stupisce che non l´abbiano percepito tre politici navigati come Schifani, Casini e Rutelli volati a svernare in un costoso resort delle Maldive dopo aver votato i sacrifici, come se niente fosse, senza intuirne la sconvenienza. Un altro punto a favore dei tecnici che reggono il governo, benestanti anch´essi, ma addestrati per cultura alla sobrietà. L´Italia dei tartassati si dividerà inevitabilmente nel conflitto sociale che accompagna le riforme del fisco, della previdenza e del mercato del lavoro. La sinistra certo faticherà a recuperare un rapporto con le classi subalterne nella bufera della crisi. Ma la destra che agita lo spauracchio di un´Equitalia bolscevica quando finalmente si perseguono i disonesti, è messa peggio. Bentornata la politica, e niente paura: contro gli evasori potrà essere interclassista.

19.12.11

Le parole dei senegalesi antidoto contro il disprezzo

 Concita De Gregorio (La Repubblica)

In questi anni si è diffuso il disprezzo. Provo a mettere a fuoco questa frase semplice e mite, persino riduttiva, in un certo senso pudica: la frase di un senegalese fiorentino colta dalle telecamere e dai taccuini dei giornalisti al corteo di Firenze in morte di due ragazzi uccisi martedì scorso a colpi di pistola da un “cacciatore di negri”. Un tizio sui cinquanta, l´assassino. Troppo giovane per essere stato fascista davvero – quando il partito fascista, o almeno il Msi esisteva ancora – e però fascista di ritorno. Fascista di Casa Pound e figlio degli anni dell´odio e del disprezzo, appunto, dei diversi e dei più deboli. Del “padroni a casa nostra” – canone leghista ma non solo – gli anni scellerati in cui mascherato dal sorriso da squali dei corruttori si è fatto strada il cinismo egoista e squallido, opportunista, di chi mostrava al pubblico che solo a spese degli altri si costruisce la propria fortuna, ciascuno la sua e fatevi sotto coi mezzi che avete, le parole o le spranghe, l´ignoranza a far da padrona, pazienza per chi non può difendersi. “In questi anni si è diffuso il disprezzo” è una sintesi gentile, prova vergogna per chi si dovrebbe vergognare, non dice della paura seminata come fertilizzante elettorale, della stupidità e della sistematica distruzione del sapere che l´ha scientificamente, consapevolmente coltivata. Da quanti anni? Venti, trenta o persino di più? A chi addosseranno i libri di storia la responsabilità politica dello sfacelo nelle cui macerie ci aggiriamo increduli, spaventati dall´odore di polveri che non sappiamo se e quando si riveleranno esplosive ben oltre quei due colpi di pistola? Solo a Berlusconi? Solo ai signori del denaro o anche, ben prima, già sul finire degli anni Settanta e poi negli Ottanta, a una classe politica esangue e pronta a lasciarsi comprare o spazzare via, brodo di coltura dell´Uomo della provvidenza prossimo venturo? Da quanti anni in questo Paese mancano lo sguardo, il sorriso, l´intelligenza la generosità e il coraggio di qualcuno capace di pensare il bene di tutti a scapito del suo? Qualcuno capace di vedere quel che gli altri ancora non vedono e provare a realizzarlo: senza un tornaconto privato, perché è l´unica strada possibile ed è giusta, persino. Pazienza se costa.
Mi scuso per la lunga premessa ma è che avevo negli occhi e nelle orecchie le immagini del corteo dei senegalesi di Firenze nelle ore in cui chiudevo il secondo dei due libri appena usciti per una piccolissima casa editrice, Alphabeta, che raccontano come fosse un romanzo d´avventura una straordinaria storia davvero accaduta in Italia negli anni Settanta. Una storia di cui i nostri ventenni sanno poco o niente e quanto sarebbe importante che la conoscessero, invece, per dare una direzione e un senso costruttivo alla loro sacrosanta indignazione. C´era una volta la città dei matti e Marco Cavallo – poderosi tomi, non libriccini – narrano l´incredibile magnifica rivoluzione condotta controcorrente da un pugno di donne e di uomini guidati da Franco Basaglia. Raccontano come sia stato possibile far approvare, in Italia, nei giorni dei sequestro Moro, una legge che riguardava apparentemente una irrilevante minoranza di persone, i matti dei manicomi. E siccome allora, davvero, molti dei “matti” erano semplicemente vittime delle violenze di quel tempo, non è poi così difficile per quanto sia – lo riconosco – sommamente impreciso pensare che il posto che occupavano i matti negli anni di Basaglia l´abbiano adesso i neri d´Africa e gli afgani e i migranti dei barconi che muoiono speronati al largo delle nostre coste. Numeri, volti senza identità, estranei, stranieri, diversi da noi che si insinuano nelle strade e nelle piazze proprio come, usciti dai manicomi, Boris e Mara, Margherita e suo figlio cercavano senza trovarlo un posto in un appartamento a Gorizia, a Trieste. La cronaca dell´assemblea in cui i cittadini “normali” denunciano come l´apertura dei centri di igiene mentale nel loro quartiere faccia perdere valore alle loro case, la paura delle “donne per bene” di fronte a “quelli là”, l´ostilità, la chiusura. L´atteggiamento dei politici, così prudente, così diffidente, anche a sinistra: perché non bisogna perdere di vista il fatto che sarà pure giusto che i matti escano dai manicomi ma la gente non li vuole e il nostro elettorato sono la gente, non i matti. Ecco, c´è più di una suggestione, come vedete.
Poi penso anche, forse con una punta di ottimismo, che questo sia il tempo giusto per ricominciare a raccontare – a ricordare – storie come quella. Il film di Marco Turco, C´era una volta la città dei matti, è andato in onda nel 2010 in Rai ed ha avuto un successo straordinario. Sette, otto milioni di spettatori. Fabrizio Gifuni, il sorriso di Basaglia redivivo. Un sorriso che guarisce e che illumina. Il libro che esce oggi contiene i due dvd del film tv e il corposissimo trattamento scritto da Elena Bucaccio, Katja Kolia, Alessandro Sermoneta e Marco Turco. Il trattamento è tutto il materiale raccolto per la preparazione del film. Un romanzo storico, un documento meticoloso e avvincente che racconta centinaia di storie, di vicende minori che si intrecciano alla cronaca grande, Tina Anselmi e la Dc di allora, i volontari da tutto il mondo, Zavoli e la Rai com´era, l´Italia di chi sognava il futuro e quella di chi conservava il passato nel presente, impaurita.
Marco Cavallo è il diario di Giuliano Scabia che racconta la storia del cavallo azzurro di cartapesta che – cavallo di Troia alla rovescia – ha portato fuori dai manicomi i biglietti dei reclusi chiusi nella pancia ed è diventato il simbolo del dialogo, è ristampato qui, rispetto all´edizione Einaudi del ‘76, coi contributi di Basaglia stesso e di Peppe dell´Acqua, allora giovane medico oggi direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste. Dell´Acqua racconta come questa storia ci porti fino ad oggi: all´interesse attivo di Giorgio Napolitano per la chiusure dei manicomi giudiziari, per esempio, sconcio e ferita ancora aperta. Quest´estate Marco Cavallo, il cavallo blu di cartapesta emblema della via crucis dei senza volto, senza diritti, sans papiers di ogni tempo ha fatto il suo ingresso al Teatro Valle Occupato, avamposto della tutela dei Beni comuni e supplente di una sinistra smarrita e divisa. È arrivato coi suoi quarant´anni che parevano quattro. I ragazzi, giovanissimi, lo hanno applaudito e festeggiato senza conoscerne, spesso, la storia. È stata una festa di teatro e di strada, un momento magnifico. I giornali non ne hanno quasi parlato, le televisioni per nulla. Il fatto è che in questi anni si è diffuso il disprezzo. L´antidoto è a rilascio lento, come certe medicine omeopatiche, e comincia dalle parole senza rabbia dei senegalesi di Firenze e da due libri così.

2.12.11

Saremo mai un paese normale?

Antonio Armano (Saturno - Il Fatto Quotidiano)

Festeggiamo i 150 anni dell’Unità passando, come dice David Gilmour (vedi intervista di Alessio Altichieri su The Pursuit of Italy), dall’anomalia Berlusconi all’eccezione Mario Monti: saremo mai un paese normale? Cambierà qualcosa o tutto cambia solo in apparenza come nella migliore tradizione trasformista e gattopardista? Guardando a ritroso: Tangentopoli e gli attentati a Falcone e Borsellino, quasi mezzo secolo di Dc senza alternanza, il terrorismo, il Fascismo… Dimentichiamo qualcosa: P2? Gladio? Bisogna tornare al Risorgimento per ritrovare l’orgoglio? In altre parole: di che ci stupiamo? Bè non è che – da destra a sinistra, da Francesco Perfetti ad Angelo d’Orsi passando per Emilio Gentile e Mario Isnenghi – una visione così apocalittica sia accettata: «C’è da temere che un libro come quello di Gilmour abbia successo – dice Gentile, docente alla Sapienza – sono luoghi comuni, cose dette e ridette. Non mi stupisco che nessuno voglia pubblicarlo qui».

«Non soffro di un senso di anormalità. Anormalità rispetto a quale modello?», dice Isnenghi, professore all’università di Venezia e autore di Dieci lezioni sull’Italia contemporanea, in uscita per Donzelli.

Gentile contesta l’accusa di gattopardismo rivolta all’Italia a partire dall’espressione stessa: «Sarebbe più corretto parlare di tancredismo, attribuire il trasformismo, la volontà di cambiare tutto affinché nulla cambi, a Tancredi, nipote del Gattopardo. Il Gattopardo, il Principe di Salina, è tutto tranne che trasformista, è un disgraziato che si trova a vivere a cavallo di due epoche. Il romanzo, la filosofia dell’autore, piuttosto è nichilista. Si apre col ritrovamento del cadavere del soldato in giardino e si chiude con la carcassa del cane Benedicò scagliata dalla finestra che si trasforma in polvere. Purtroppo l’espressione gattopardismo si è radicata anche se sbagliata ma non si può riferire al Principe di Salina né al romanzo».

Perfetti, docente di storia alla Luiss e firma del “Giornale”, non ama fare analisi di lungo periodo, accostamenti tra epoche e figure distanti, preferisce concentrarsi su singoli momenti e vede aspetti positivi nel berlusconismo (pur prendendo atto del fallimento): «Berlusconi ha saputo convogliare l’antipolitica in politica nel momento difficile di Tangentopoli. Ha ristabilito l’alternanza al governo. Prima avevamo un situazione bloccata. Ha rimesso in circolo i voti della destra missina che si trovavano in frigo. L’aspetto negativo è stato entrare in politica anche per interesse personale. Dobbiamo però distinguere. Tra il primo governo Berlusconi e l’ultimo c’è una bella differenza. La componente liberale che aveva dato la spinta e anche l’immagine, è stata accantonata».

Per Angelo d’Orsi, docente di storia all’università di Torino, il trasformismo in Italia è un fenomeno che riguarda gli intellettuali: «Giuliano Ferrara lo manderei in Siberia visto che conosce la realtà russa, gli farebbe bene anche alla linea. Lui è stato un campione nel giustificare qualsiasi cosa facesse Berlusconi. E gran parte degli editorialisti del “Corriere” hanno aspettato troppo per sganciarsi da Berlusconi. Hanno fatto anche loro gli equilibristi: sì è vero in questo sbaglia però… Ernesto Loggia Delle Galline, ehm Galli Della Loggia, Piero Ostellino, Pigi Battista». L’idealtipo del rinnegato, dell’intellettuale passato da sinistra a destra (la direzione del trasformismo), per d’Orsi è Mussolini già direttore dell’“Avanti!”. Quotidiano finito nelle mani di Lavitola e che ora si pretende, in modo ridicolo, «di far rinascere affidandolo a Rino Formica!».

Su un punto tutti concordano: se esiste un’anomalia italiana, innegabile, congenita, strutturale, è il Vaticano. Per Gentile, la presenza nel territorio italiano di una piccola città dotata di una grande potere spirituale crea problemi per la laicità dello stato. Ma invita a non fare troppa dietrologia: «Se pensassi che dietro a ogni azione del governo sia possibile rintracciare un disegno del Vaticano smetterei di fare questo mestiere. A che servirebbe? Il Vaticano appoggia tutti i governi in carica. È ministeriale per vocazione. Per un’ambiguità di fondo. Il Papa è anche capo di Stato».

Perfetti riconosce l’anomalia vaticana, rispetto alle democrazie di stampo anglosassone ma anche a Francia e Spagna; e dice: «Il mondo cattolico ha sempre appoggiato Berlusconi, a parte una frangia legata al vecchio dossettismo. Poi, per reazione a certi comportamenti privati, l’ha mollato. E pure per il liberismo selvaggio. Ora credo che dopo la caduta del governo esista un disegno per ricreare la democrazia cristiana, un blocco dei cattolici in politica che possa esercitare almeno il ruolo di ago della bilancia».

Rincara la dose d’Orsi: «In questo governo si vede una forte impronta vaticana, un progetto di egemonia cattolica, il tentativo di dettare l’agenda politica. Non più soltanto un potere d’indirizzo. Da tempo le dichiarazioni della Cei e del Papa sono quotidiane. Il Vaticano concede appoggi in cambio di esenzioni e privilegi. Il finanziamento alla scuola cattolica è uno scandalo. La vera anomalia italiana è questa. Ci indigniamo tanto per quel che accade nei paesi islamici e non per quel che succede in Italia. La religione deve tornare a essere un fatto privato. Le gerarchie cattoliche hanno esitato a lungo prima di prendere le distanze da Berlusconi, hanno aspettato che si muovessero prima altri poteri forti. La Marcegaglia è stata più coraggiosa e dura del Papa».

Per quanto tutti attacchino Gilmour, la visione che emerge è piuttosto desolante. Almeno nell’età moderna, Risorgimento a parte: «Nella mia Storia d’Italia – dice Isnenghi – insegno a essere fieri del Risorgimento. La Germania, che si viene formando in parallelo, non ha un Mazzini o un Garibaldi. Dobbiamo vergognarci meno di noi stessi. Me la prendo con alcuni stereotipi. Come quello del paese da operetta. Siamo un paese tragico. Abbiamo avuto un regicidio, l’assassinio Matteotti,  piazzale Loreto… Ecco, se una cosa si può dire di Berlusconi, è che ha fatto molto per identificarci con lo stereotipo del paese da operetta. Con il comportamento che ha tenuto all’estero soprattutto. Siamo diventati “il paese del cucù”… In Italia si mescola l’elemento tragico e quello operettistico, pizza, mandolino e stragi di mafia… Abbiamo intere regioni in mano alla criminalità organizzata ma giudici che chiedono di essere mandati là per combatterla. Io ragionerei in termini di dualismo, di conflitto, non di normalità e anormalità. Normalità e anormalità rispetto a quale modello?»

Per quanto esalti il Risorgimento, Isnenghi vede una costante storica nella figura del dittatore pro tempore, Garibaldi, Cadorna, il Duce, Berlusconi. Un bisogno di affiliazione, di una figura forte e affascinante da adorare. Tutto discende dal Papa. Poi diventa una versione attualizzata del (Santo) padre: «Un padre giovane, con cui andare al bar, all’osteria o al casino». Al casino in particolare. Gentile invita infine a tenersi lontano dalle eccessive generalizzazioni e lamentazioni: le anomalie toccano ogni paese e gli italiani sono molto cambiati in 150 anni di storia. A non cambiare mai è la classe politica: «Quando Obama incontra Napolitano penso che il nostro presidente era già in parlamento quando quello americano non era ancora nato».

24.11.11

La crisi non aspetta

Massimo Giannini  (La Repubblica)

Dall´«uomo dei sogni» all´«uomo dei miracoli»? Nessuno si era illuso: il passaggio dal Venditore di Arcore al Professore della Bocconi non poteva bastare a risolvere i guai dell´Italia. Ma ora che la «dittatura dello spread» pesa sulla democrazia dei popoli, Monti non può esitare: serve una svolta immediata, per uscire da questa crisi. La tempesta finanziaria è globale. Squassa l´Europa. Non più solo i paesi lassisti del Club Med: ormai persino la virtuosa Germania paga dazio, come dimostra l´inaudito insuccesso dell´asta dei Bund disertata dagli investitori internazionali (e soprattutto asiatici) in fuga dai titoli dell´intera Eurozona.Ma l´Italia torna a pagare il prezzo più alto. Il differenziale sul Btp a due anni è salito a 700 punti, il più alto da quando esiste l´euro. È un segnale chiarissimo: i mercati cominciano a dubitare non più solo della sostenibilità del debito a lungo periodo, ma anche di quello a breve. È anche un costo elevatissimo: stavolta il Tesoro dovrà pagare agli investitori un premio di rischio del 7,2% a scadenza biennale, e non decennale.
C´è una destra, provinciale e irresponsabile, che ora si frega le mani. Il manipolo degli «irriducibili» della ex maggioranza, Mibtel e spread alla mano, sostiene che il problema «non era Berlusconi». È l´ennesimo tentativo di mistificare la verità. L´«effetto Monti», sui mercati, c´è stato eccome. Per una settimana, dal giorno dell´incarico al nuovo premier domenica 13 novembre fino a domenica scorsa, i tassi di interesse sui nostri titoli di Stato sono scesi stabilmente da circa 570 a poco meno di 480 punti base rispetto ai titoli tedeschi. Il solo cambio di governo, dunque, è stato salutato positivamente dalla business community. È la prova che il «teorema Roubini» non era affatto sbagliato: la semplice uscita di scena del Cavaliere comporta per l´Italia un risparmio secco di 100 punti base. La «Papi tax» è esistita, insomma. E noi l´abbiamo pagata.
Ma ora c´è un problema. Negli ultimi tre giorni si è insinuato il dubbio che il nuovo governo abbia scontato una partenza troppo lenta. Non solo rispetto alle attese dei mercati e dell´opinione pubblica, che erano e restano altissime. Ma anche rispetto alle urgenze dell´economia e della finanza, che erano e diventano sempre più drammatiche. Il presidente del Consiglio, nel suo discorso alle Camere sulla fiducia, è stato impeccabile nella sua sobria fermezza, che è bastata a trasformare il pollaio di Montecitorio nell´emiciclo di Westminster: «L´Europa vive i giorni più difficili dal secondo dopoguerra… L´Italia vive una situazione di seria emergenza… dobbiamo evitare che qualcuno ci consideri l´anello debole dell´Europa… Il mio è un tentativo difficilissimo: ma se sapremo superare i problemi, avremo l´occasione per riscattare il Paese».
Da allora sono passati dieci giorni. Monti ha fatto al meglio tutto quello che doveva. Prima di tutto la formazione del governo, con una squadra di ministri scelti in un´élite tecnocratica di alta qualità. E poi la «missione fiducia» nel consesso internazionale: l´altro ieri l´Eurogruppo e l´incontro con Barroso e Van Rompuy, oggi il vertice trilaterale con Merkel e Sarkozy. Una scelta felice, che in tre giorni ha miracolosamente riportato l´Italia nell´unico luogo fisico e politico nel quale deve stare e dal quale Berlusconi l´aveva inopinatamente sradicata: l´Europa dei costituenti, dei paesi fondatori e della moneta unica. I partner europei hanno apprezzato. Monti è stato accolto a Palazzo Justus Lipsius non come un «battutista» che racconta barzellette, ma come uno statista che torna a casa sua.
Ma i problemi italiani restano tutti, uguali se non più gravi di prima. Questo lo sa il governo di Bruxelles. Barroso premette: «Non ci aspettiamo miracoli», «il risanamento non è una corsa sprint, è una maratona». Ma poi avverte: «La situazione italiana rimane difficilissima», «il governo Monti ha di fronte a sé una responsabilità storica e una sfida immensa». Questo lo sa anche il governo di Roma. Giustamente il premier, anche se ripropone il tema della rivalutazione del disavanzo in funzione del ciclo e degli investimenti, conferma l´obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 Ma i giorni passano. E il dubbio è che ci sia uno scarto tra la comunicazione, giustamente allarmata, e l´azione, sorprendentemente misurata. Il primo Consiglio dei ministri «operativo», lunedì scorso, ha prodotto solo il via libera al decreto legislativo su Roma Capitale. Per quanto simbolico, un atto che non marchierà a fuoco questo pericoloso tornante della storia repubblicana. L´Agenda Monti, così come il premier l´ha illustrata nel suo discorso programmatico, è già chiara nelle sue grandi linee. Dalla reintroduzione di un´Ici progressiva in base al reddito alla correzione delle pensioni d´anzianità. Dalla lotta all´evasione fiscale alla riduzione del prelievo su famiglie e imprese. Dalla razionalizzazione del mercato del lavoro alla riforma degli ammortizzatori sociali. Le misure da varare sono sufficientemente note. Investono materie socialmente sensibili. Il premier, oltre all´imperativo della crescita, ha promesso rigore ed equità: stavolta «chi ha di più, dovrà dare di più». Sarà misurato anche sul rispetto di questa irrinunciabile promessa. È comprensibile che voglia calibrare gli interventi e comporli in un disegno organico, nel quale la somministrazione dei sacrifici sia accompagnata, per quanto possibile, dalla redistribuzione dei benefici.
La coesione politica impone prudenza. Il consenso sociale richiede pazienza. Ma anche per Monti il «fattore tempo» sta diventando cruciale. È il momento di accelerare, e di sfruttare la «luna di miele» che il nuovo governo sta ancora vivendo con il Paese. Il presidente del Consiglio ne è consapevole, come lo è il presidente della Repubblica. Anche questa volta, i tempi della transizione italiana rischiano di non coincidere con quelli della crisi internazionale. Sta a Monti colmare, con la politica, anche questo deficit. Il Professore ha in tasca un doppio, prezioso «dividendo»: la discontinuità e la credibilità. Non può sprecarlo. Prima ancora dei mercati, non glielo perdonerebbero gli italiani.

17.11.11

Manifesto for European Common Goods

da  http://www.europeancommongoods.org/

La crisi che colpisce l'economia mondiale e di conseguenza l'euro in questi mesi richiede una risposta radicalmente diversa da quelle attualmente programmate e realizzate. Il modo in cui l'Europa, i suoi governi e gli elettori si occuperanno della crisi greca creerà un precedente importante per la prossima crisi ed i connessi rischi di default nazionali.
Le decisioni probabili del governo greco, praticamente lasciato solo, come altri governi in simili crisi di debito, si basano sulla massiccia vendita di beni pubblici a compratori non meglio identificati in modo da raccogliere il denaro necessario per garantire prestiti ulteriori.
Questa decisione è sbagliata non solo sul piano politico, ma anche in termini pratici. Politicamente abbiamo avuto ampie dimostrazioni nel quarto di secolo passato che la deregulation e le privatizzazioni non sono sinonimo di efficienza, investimenti, modernizzazione e competitività.


Al contrario, c'è un lungo elenco in Europa e nel mondo, di clamorosi fallimenti e di distruzione di valore da parte di quelle stesse forze di mercato che erano invece state celebrate come portatrici di soluzioni durature a tutti i problemi dell'economia nazionale e internazionale.
L'ultima crisi economica e finanziaria del mercato globale ha dimostrato oltre ogni dubbio che i mercati da soli non sono in grado di governarsi, che non esiste la mano invisibile che bilancia i diversi interessi e che il denaro pubblico ha salvato gli stessi oligopoli che in teoria non avrebbero dovuto esistere in un ambiente competitivo sano, favorito da un mercato liberalizzato. Ma come non ci sono pranzi gratis, così non esiste un mercato deregolato che pensi al bene comune.
Noi crediamo fortemente, ispirati da una visione politica ed etica nonché dall’esperienza pratica, che le politiche pubbliche non possono solo limitarsi a regolamentare il neolaissez-faire, a sostenere interessi privati in nome di una presunta competitività nazionale o limitarsi a ridistribuire un reddito in diminuzione.
Le politiche pubbliche devono tutelare gli interessi pubblici, sotto controllo democratico, il che significa che hanno il compito di promuovere beni pubblici e investimenti a lungo termine, sostenuti da una gestione efficiente e da una tassazione sensata che tenda al bene della società.


Invece di lasciare che le proprietà pubbliche della Grecia siano svendute a prezzi ridicoli a grandi potenze, che hanno un forte interesse a controllare i mercati per rinforzare la loro competitività (fatalmente a discapito dei nostri interessi), o ad investitori privati che sono totalmente irresponsabili verso la società, gli elettori e gl’interessi nazionali, proponiamo di utilizzare in modo più efficace il denaro pubblico che abbiamo già impegnato nei prestiti della UE e del Fondo Monetario Internazionale, oltre che nelle misure di sostegno della BCE.
I beni pubblici greci, come quelli di altri paesi a rischio, dovrebbero essere venduti ad un raggruppamento economico europeo, pubblico o partecipato da quota di maggioranza pubblica, in modo da ottenere il denaro necessario direttamente da governi e istituzioni internazionali.
Questo permette di proteggere due interessi vitali a livello europeo e nazionale:
* I beni saranno rimborsabili da parte del paese interessato nei tempi necessari ed a condizioni ragionevoli o produrranno profitti proporzionali ai governi, ma la loro gestione avverrà tenendo conto delle esigenze economiche e sociali. Se esistono i fondi sovrani, non si vede perché imprese pubbliche, adeguatamente gestite e vigilate, siano inconcepibili.
* I beni rimarrebbero patrimonio economico e industriale europeo, invece di essere dispersi nel mondo, soggetti ad futuro molto incerto. L'Europa ha creato una formidabile entità integrata, soprattutto a livello economico: sarebbe un suicidio se, nei momenti di massima emergenza, l'Europa si rifiutasse di attuare una politica industriale di semplice buon senso.

16.11.11

Bombardamento a tappeto sull'euro

di Marcello Bussi (Milano Finanza)
Crescono i sospetti su Goldman Sachs regista dell'attacco. Le similitudini con la crisi subprime. La rigidità tedesca non consente alla Ue e alla Bce di schierare difese efficaci

Anche l'Austria è a rischio. Eppure sono disciplinati e parlano tedesco. Ma ieri lo spread del Paese alpino è salito al livello record di 181, appena più in basso di quello della Francia (186), che ormai sembra condannata a perdere la tripla A. Per non parlare della Spagna che vola a 451 punti base, con il rendimento del bond decennale al 6,308%, mentre quello del Belgio sfiora ormai il 5% (4,896%) con lo spread a 309.

Davanti a questa ecatombe non stupisce che l'effetto Monti sia già finito e lo spread dell'Italia continui a viaggiare sopra 500, mentre il rendimento del Btp abbia sfondato di nuovo il tetto del 7%. Se poi qualcuno avesse nostalgia delle volgarità di Umberto Bossi, si consoli con il premier olandese Mark Rutte: i Paesi che violano le regole economiche «devono essere cacciati via a pedate» dall'euro, ha minacciato ieri. I dirigenti della compagnia aerea low cost easyJet hanno così annunciato di avere preparato dei piani di contingenza nel caso in cui l'euro dovesse disintegrarsi.

Si tratta di un rischio serio e imminente? Se si guarda all'Austria si direbbe di no: il rapporto debito pubblico/pil è al 75%, i conti sono solidi. Eppure anche Vienna è sotto attacco. Ma questa evidente assurdità rende plausibili le voci, circolate un anno e mezzo fa e riportate dal Wall Street Journal, su un incontro avvenuto ai primi di febbraio del 2010 a New York tra un pugno di hedge fund, tra cui i colossi Sac Capital Advisors e Soros Fund Management, che avrebbero deciso, ispirati da Goldman Sachs, di puntare sulla parità euro-dollaro.

Guarda caso, pochi giorni dopo George Soros dichiarò pubblicamente che se i Paesi dell'Ue non avessero messo a posto i loro conti pubblici, «l'euro sarebbe andato a pezzi». Si dice da tempo che la speculazione punti proprio a questo risultato. E i parallelismi con la crisi subprime, che ha portato al fallimento di Lehman Brothers nel settembre 2008, cominciano a essere inquietanti. Da quel disastro solo Goldman Sachs, guidata da Lloyd Blankfein, è uscita più forte di prima. Quella stessa Goldman Sachs il cui ex ceo Henry Paulson è stato l'artefice, in qualità di segretario al Tesoro Usa, del salvataggio da 700 miliardi di dollari delle banche americane.

La stessa Goldman Sachs che, secondo l'inchiesta di una commissione del Senato Usa, avrebbe prima gonfiato la bolla dei subprime e poi scommesso contro di essa per lucrare sul crollo del mercato immobiliare americano. Il tutto mentre continuava a confezionare titoli tossici rimpinzati di subprime da sbolognare ad altri più sfortunati clienti. Insomma, Goldman gonfia la bolla e guadagna, scommette sul suo scoppio e guadagna, dopodiché si ritrova con un suo uomo, in questo caso Paulson, a rimettere insieme i cocci.

L'eurocaos, si sa, ha avuto origine dal fatto che la Grecia ha truccato i conti per entrare nell'euro e poi ha continuato a farlo per renderli meno disastrosi, fino a quando il gioco è diventato così spudorato da essere scoperto. Goldman Sachs ha offerto la sua consulenza tecnica per il maquillage dei conti, dopodiché è diventato premier, fortemente voluto dai mercati, Lucas Papademos, consulente di Goldman Sachs e governatore della Banca centrale greca ai tempi dei primi trucchi.

Altro uomo chiave della crisi è il presidente del consiglio incaricato Mario Monti, anch'egli consulente di Goldman dal 2005. Per non parlare del presidente della Bce, Mario Draghi, che dal 2002 al 2005 è stato vicepresidente di Goldman Sachs per l'Europa. Se venisse seguito il copione dei subprime, sarebbe tutto perfetto: Goldman gonfia la bolla dell'euro, aiutando un Paese sull'orlo del fallimento come la Grecia a entrarvi, poi scommette sulla sua fine e si trova come per caso uomini a lei vicini nei punti di snodo della crisi: la Bce, l'Italia e la Grecia. Coincidenze che fanno pensare. Detto questo, Goldman non ha l'obiettivo politico di distruggere l'euro.

L'unico suo obiettivo è quello di fare profitti. E poco importa in che modo essi vengono realizzati, se a danno di uno Stato o di una grande azienda. Goldman attacca l'euro perché non ha difesa. La riforma del Fondo salva-Stati (Efsf) rischia di slittare ancora, mentre la Bce non è prestatore di ultima istanza a causa dell'opposizione della Germania, la cui rigidità fa paradossalmente il gioco degli speculatori. Secondo Romano Prodi, Goldman e le sue sorelle dispongono di una potenza di fuoco di almeno 12 mila miliardi di dollari, mentre Eurolandia risponde con piani di austerità che la mandano in recessione. La partita è troppo facile, è naturale che Goldman la giochi fino in fondo.

15.11.11

Parlamentari e manager, lo specchio dei privilegi. Ricche baby pensioni, maturate per un giorno di lavoro e senza cumulo

 da Siciliainformazioni


Baby pensionati
( nome cognome, classe,  ramo, pensione lorda annuale -  mensile - al giorno, ente)

Mauro SANTINELLI 1947 telefonia 1.173.205,15 - 90.246,55 -  3.258,90  INPS
Mauro GAMBARO 1944 finanza 665.083,64 - 51.160,28 - 1.847,45  INPS
Alberto DE PETRIS 1943 telefonia 653.567,20 - 50.274,40 - 1.815,46  INPDAI
Germano FANELLI 1948 elettronica 600.747,68 - 46.211,36 - 1.668,74  INPS
Vito GAMBERALE 1944 telefonia 574.102,23 - 44.161,71 - 1.594,72  INPS
Alberto GIORDANO 1941 finanza 549.193,74 - 42.245,67 - 1.525,53 INPS
Federico IMBERT 1951 finanza 539.775,62 - 41.521,20 - 1.499,37  INPS
Giovanni CONSORTE 1948 finanza 372.000,00 - 28.593,00 - 1.033,33  INPS
Ivano SACCHETTI 1944 finanza 371.000,00 - 28.560,00 - 1.030,55  INPS
Ernesto PAOLILLO 1946 finanza 342.000,00 - 26.327,00 -  950,00 INPS


PENSIONE PER 1 GIORNO DI LAVORO

nome cognome attività svolta per pensione/mese lorda ente

Luca BONESCHI parlamentare 1 giorno 3.108,00 Camera
Piero CRAVERI parlamentare 8 giorni 3.108,00 Senato
Angelo PEZZANA parlamentare 8 giorni 3.108,00 Camera
Toni NEGRI parlamentare 64 giorni 3.108,00 Camera
Paolo PRODI parlamentare 126 giorni 3.108,00 Camera
Clemente MASTELLA giornalista 397 giorni (?) INPGI
Oscar Luigi SCALFARO magistrato 3 anni 7.796,85 INPDAP


(nome cognome attività svolta in pensione a pensione/mese lorda ente)


Manuela MARRONE in BOSSI insegnante 39 anni 766,37 INPDAP
Giuseppe GAMBALE parlamentare 42 anni 8.455,00 Camera
Antonio DI PIETRO magistrato 44 anni 2.644,57 Inpdap
Rainer Stefano MASERA banchiere 44 anni 18.413,00 INPS
Pier Domenico GALLO banchiere 45 anni 18.000,00 INPS
Rino PISCITELLI parlamentare 47 anni 7.959,00 Camera
Pier Carmelo RUSSO assessore Sicilia 47 anni 10.980,00 Regione Sicilia
Mario SARCINELLI banchiere 48 anni 15.000,00 INPS
Alfonso PECORARO SCANIO parlamentare 49 anni 8.836,00 Camera
Vittorio SGARBI parlamentare 54 anni 8.455,00 Camera

3 PENSIONI SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome pensioni/mese lorde ente
Romano PRODI
4.246,00 INPDAP
4.725,00 Parlamento
5.283,00 Unione Europea

2 PENSIONI SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome pensioni/mese lorde ente
Luciano VIOLANTE
7.317,00 INPDAP
9.363,00 Camera
Publio FIORI
16.000,00 INPDAP
10.631,00 Camera

2 PENSIONI E UNO STIPENDIO SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome
pensioni/mese lorde +
stipendio lordo
ente
Giuliano AMATO
22.048,00 INPDAP
9.363,00 Parlamento
(?) stipendio di Deutsche Bank
Lamberto DINI
18.000,00 Bankitalia
7.000,00 INPS
19.053,75 stipendio da parlamentare
Carlo Azelio CIAMPI
30.000,00 Bankitalia
4.000,00 INPS
19.053,75 stipendio da parlamentare
Giulio ANDREOTTI
5.823,00 INPDAP
5.086,00 INPGI
19.053,75 stipendio da parlamentare

1 PENSIONE E UNO STIPENDIO SENZA LIMITI DI CUMULO
nome cognome
pensione/mese lorda +
stipendio lordo
ente
Renato BRUNETTA
4.352,00 INPDAP
19.053,75 stipendio da parlamentare
Giuseppe FIORONI
2.008,00 INPDAP
19.053,75 stipendio da parlamentare
Rocco BUTTIGLIONE
5.498,00 INPDAP
19.053,00 stipendio da parlamentare
Achille SERRA
22.451,00 INPDAP
19.053,75 stipendio da parlamentare
Mario DRAGHI
14.843,00 INPDAP
37.500,00 stipendio Bankitalia
Cesare GERONZI
22.037,00 INPS
417.500,00 stipendio Ass. Generali

12.11.11

Buonanotte

Massimo Gramellini

Oggi è il giorno che chiude un ventennio, uno dei tanti della nostra storia. E il pensiero va al momento in cui tutto cominciò. Era il 26 gennaio 1994, un mercoledì. Quando, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il Tg4 di Emilio Fede trasmise in anteprima la videocassetta della Discesa In Campo. La mossa geniale fu di presentarsi alla Nazione non come un candidato agli esordi, ma come un presidente già in carica. La libreria finta, i fogli bianchi fra le mani (in realtà leggeva da un rullo), il collant sopra la cinepresa per scaldare l’immagine, la scrivania con gli argenti lucidati e le foto dei familiari girate a favore di telecamera, nemmeno un centimetro lasciato al caso o al buongusto.

E poi il discorso, limato fino alla nausea per ottenere un senso rassicurante di vuoto: «Crediamo in un’Italia più prospera e serena, più moderna ed efficiente... Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano». Era la televendita di un sogno a cui molti italiani hanno creduto in buona fede per mancanza di filtri critici o semplicemente di alternative. Allora nessuno poteva sapere che il set era stato allestito in un angolo del parco di Macherio, durante i lavori di ristrutturazione della villa. C’erano ruspe, sacchi di cemento e tanta polvere, intorno a quel sipario di cartone. Se la telecamera avesse allargato il campo, avrebbe inquadrato delle macerie.
Oggi è il giorno in cui il set viene smontato. Restano le macerie. La pausa pubblicitaria è finita. È tempo di costruire davvero.

4.11.11

Perché non sciogliere il popolo?

Rossana Rossanda (il manifesto)

Credevo che ci fosse un limite a tutto. Quando Papandreou ha proposto di sottoporre a referendum del popolo greco il «piano» di austerità che l'Europa gli impone (tagli a stipendi e salari e servizi pubblici nonché privatizzazione a tutto spiano) si poteva prevedere qualche impazienza da parte di Sarkozy e Merkel, che avevano trattato in camera caritatis il dimezzamento del debito greco con le banche. Essi sapevano bene che le dette banche ci avevano speculato allegramente sopra, gonfiandolo, come sapevano che Papandreou aveva chiesto al Parlamento la facoltà di negoziare, e che una volta dato il suo personale assenso, doveva passare per il suo governo e il parlamento (dove aveva tre voti di maggioranza). Ed era un diritto, moralmente anzi un dovere, chiedere al suo popolo un assenso per il conto immenso che veniva chiamato a pagare. Era un passaggio democratico elementare. No?
No. Francia e Germania sono andate su tutte le furie. Come si permetteva Papandreou di sottoporre il nostro piano ai cittadini che lo hanno eletto? È un tradimento. E non ci aveva detto niente! Papandreou per un po' si è difeso, sì che glielo ho detto, o forse lo considerava ovvio, forse pensava che fare esprimere il paese su un suo proprio pesantissimo impegno fosse perfino rassicurante. Sì o no, i greci avrebbero deciso tra due mesi, nei quali sarebbero stati informati dei costi e delle conseguenze. Ma evidentemente la cancelliera tedesca e il presidente francese, cui l'Europa s'è consegnata, avrebbero preferito che prendesse tutto il potere dichiarando lo stato d'emergenza, invece che far parlare il paese: i popoli sono bestie; non sanno qual è il loro vero bene, se la Grecia va male è colpa sua, soltanto un suo abitante su sette pagava le tasse (e non era un armatore), non c'è parere da chiedergli, non rompano le palle, paghino. Quanto ai manifestanti, si mandi la polizia.
E per completare il fuoco di sbarramento hanno aggiunto: intanto noi non sganciamo un euro. Erano già caduti dalle nuvole scoprendo nel cuor dell'estate che la Grecia si era indebitata oltre il 120 del Pil. E non solo, aveva da ben cinque anni una «crescita negativa» (squisito eufemismo). Né i governi, né la commissione, né l'immensa burocrazia di Bruxelles se n'erano accorti, o se sì avevano taciuto; idem le banche, troppo intente a specularci sopra. Perché no? I singoli stati europei hanno dato loro ogni libertà di movimento, le hanno incoraggiate a diventare spregiudicatissime banche d'affari, e quando ne fanno proprio una grossa, invece di mandar loro i carabinieri, corrono a salvarle «per non pregiudicare ulteriormente l'economia».
In breve, la pressione è stata tale che Papandreou ha ritirato il referendum. La democrazia - in nome della quale bombardiamo dovunque ce lo chiedano - non conta là dove si tratta di soldi. Sui soldi si decide da soli, fra i più forti, e in separata sede. Davanti ai soldi la democrazia è un optional.
Nessun paese d'Europa ha gridato allo scandalo. Né la stampa, gioiello della democrazia. Non ho visto nessuna indignazione. Prendiamone atto.

23.10.11

Post-coloniali?

Rossana Rossanda (il manifesto)

Qualche osservazione.

Prima. Dunque l'assassinio del nemico non è un opzione perseguita dalla sola Israele ma dalle Nazioni Unite e da queste trasmessa alla Nato nell'accordo di tutti i governi. Giovedì sera, nel caos di informazioni e disinformazioni sulla fine di Gheddafi, una cosa era certa, che Gheddafi è stato catturato, ferito, trascinato per strada, linciato e, già coperto di sangue, ucciso. Dai ribelli, con la benedizione del loro comando e il "via" della Nato e dell'Onu.

Qualche mese fa gli Stati Uniti avevano spedito un commando di addestrati alla demenza, a penetrare urlando nella casa dove l'alleato Pakistan ospitava Bin Laden, e ad ammazzarlo, infermo e inerme, in camera da letto, senza che potesse far un gesto. Tutto lo stato maggiore di Obama assisteva all'operazione, il commando essendo dotato di cineprese. Obama s'è rallegrato sia dell'uccisione sia dei rottweiler del comando speciale, e nessuno si è vergognato. Che terroristi e dittatori vadano ammazzati da prigionieri e senza processo deve essere un nuovo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Le virtuose democrazie danno licenza di uccidere piuttosto che consegnare i loro nemici al Tribunale penale internazionale, dove potrebbero rivelare i molti intrallazzi fatti assieme. Resta da qualche parte un lembo di diritto internazionale? Non lo vedo.

Seconda. Non credo da un pezzo, e l'ho scritto, alle dittature progressiste.
Come il "socialismo di mercato", sono un ossimoro che anche il manifesto ha fatto proprio. Si dà il caso che io sia fra i fondatori di questo giornale, ed è fra noi una divergenza non da poco. Viene da lontano, dagli anni '60 e '70 quando abbiamo creduto che alcuni paesi, specie "arretrati", potessero svolgere un ruolo mondiale positivo con un regime interno indecente. Famoso l'assioma dei "due tempi": prima demoliamo i monopoli stranieri e poi vedremo con la democrazia. Fino a sembrare una variante del pensiero socialista, l'antimperialismo. Concetto sempre più confuso dopo lo sfascio dell'Urss, la Russia restando "altro" dal comando Usa, la Cina diventando un gigante del capitalismo mondiale con relativo supersfruttamento della manodopera, Cuba restando soltanto antiamericana perché, ha detto sobriamente Fidel Castro, il modello cubano non ha funzionato.
Anche i regimi latino-americani sono in genere antimperialisti sì, socialisti no. Chissà che cosa vuol dire, in un mondo dove delle due superpotenze ne è rimasta una sola ma i candidati all'egemonia mondiale nei commerci, sulla schiena dei popoli propri e altrui, si moltiplicano. Non siamo ancora alle guerre commerciali ma alla corsa a chi arriva primo nella spartizione del bottino dei paesi terzi, diretti da qualche satrapo che ha preso l'eredità del colonialismo. Storie bizzarre di degenerazione, specie in Africa, dove diversi leader anticolonialisti, tolto di mezzo lo straniero, piuttosto che far crescere il loro paese si sono occupati di liquidare senza esitazione gli avversari interni.

Terza. Che una parte consistente dei relativi popoli sia venuta a sentirsi oppressa è non solo comprensibile ma giusto. Che nelle rivolte di una popolazione giovane, nella quale un pensiero politico non ha potuto circolare, si inseriscano le potenze predatrici esterne era da attendersi. Non è stata la sinistra ad abbattere i dittatori. Essa non abbatte più nessuno. La mancanza di un pensiero e una struttura capace di assicurarsi libertà politica e protezione sociale, si rivela drammatica una volta abbattuto o fuggito il "tiranno", perché c'è sempre un esercito, o una nuova borghesia, un vecchio fondamentalismo pronti a prenderne il posto. I popoli in rivolta sono presto spossessati, vedi Tunisia e Egitto.
L'Europa lo sa, ma di quel che succede sull'altra sponda del Mediterraneo si occupano gli affaristi, non i residui delle sinistre storiche né i germogli della sinistra nuova che cercano di emergere fuori dai muri delle istituzioni. Un vecchio amico ha protestato quando chiedevo che si riformasse qualcosa come le Brigate internazionali - ma che dici, la rivoluzione spagnola era una cosa seria, queste rivolte sono derisorie. Non ne sappiamo molto e ce ne importa ancora meno.

Anche noi abbiamo dovuto contare su alleati più potenti per abbattere il fascismo. Ma qualche struttura politica, qualche partito ha innervato la resistenza che ha potuto anche presentarsi alle forze alleate come possibile nucleo di una dirigenza democratica. Queste strutture politiche dovevamo aiutarle a formarsi, accompagnarle. Invece ieri sulla Tunisia, oggi sulla Libia, domani magari sulla Siria diamo i voti a chi sia il peggio: Gheddafi o la Nato? Il meglio ai non europei non appartiene.

21.10.11

Se anche la Bce fa il tifo per il reddito di cittadinanza

di Giovanni Perazzoli

C’è un punto nella famosa lettera della Bce che non ha suscitato il dovuto interesse. Leggo che insieme all’“accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti” bisognerà stabilire “un sistema di assicurazione dalla disoccupazione”.

Non voglio parlare adesso delle molte possibili critiche alla lettera (una tra tutte, il fatto che non faccia una parola sull’evasione fiscale italiana, ribadendo così l'orientamento generale che a pagare la crisi non debbano essere coloro che l'hanno provocata). Noto però con stupore che nessuno ha dato il giusto rilievo al passaggio citato sopra.

A proposito del quale, bisogna subito rilevare che esso induce a prendere atto di due fatti. Il primo è che, se si propone di istituire un’assicurazione sulla disoccupazione, evidentemente una simile assicurazione in Italia non c’è. Mentre c'è in Europa.
Il secondo fatto è che, per realizzare questa assicurazione sulla disoccupazione, non mancano i soldi.

Non mi pare poco. Nel momento estremo della crisi, quella stessa lettera della Banca Centrale Europea che consiglia il risparmio all’osso per tenere sotto controllo il debito pubblico, consiglia anche di introdurre in Italia un sussidio di disoccupazione. Il quale, evidentemente, dovrà immaginarsi analogo a quello degli altri paesi europei (dove anche chi non lavora ha un reddito garantito), ovvero corrispondente alle direttive europee sottoscritte e mai applicate dall’Italia (e dalla Grecia). Non credo che la Bce possa infatti proporre qualcosa di contrario o di diverso rispetto alle direttive europee.

Ma perché nessuno ne ha parlato? Certo, non sfugge il contesto drammatico nel quale cade la proposta dell’istituzione di questa “assicurazione sulla disoccupazione”. Tanto meno però deve sfuggire il fatto che, su questo specifico punto, niente il governo abbia “recepito”, e che nulla la sinistra abbia detto, spiegato, chiarito.

Invece, sarebbe essenziale dire, spiegare e chiarire. Anche perché in Italia sorprendentemente pochi sanno di che cosa si tratta, e gli equivoci sono continui. Ad esempio Franco Berardi, su questo sito si chiede con ironia se “la BCE erogherà finalmente un reddito di cittadinanza per tutti i disoccupati europei”; Beppe Grillo in un post dichiara che il suo movimento, come altri movimenti europei, da sempre sostiene il reddito di cittadinanza per i disoccupati. Sono solo due esempi.

Per evitare equivoci controproducenti per l’Italia, meglio allora essere chiari. I disoccupati europei non devono aspettare i banchieri centrali o il movimento indicato da Grillo per avere un “reddito di cittadinanza”, perché hanno già un “reddito di cittadinanza”. In Gran Bretagna la prima formula è del 1911 (National Insurance Act), in Belgio del 1915. La Francia – che è stata tra le ultime nazione ad adottare una forma di reddito di cittadinanza – lo ha istituito ormai più di vent’anni fa (RMI, Revenu minimum d'insertion, ora è stato riformato e migliorato e si chiama RSA). Tutti i paesi europei, ad eccezione di Italia, Grecia e Ungheria, hanno forme di “reddito di cittadinanza”. In generale, queste forme di sussidi sono illimitate nel tempo, con l’unica condizione della ricerca attiva di un lavoro da parte di chi ne usufruisce; ad esse si devono aggiungere altri aiuti per l’alloggio, integrazioni per i redditi sotto una certa soglia etc. (In calce i riferimenti a Wikipedia ). Il sostegno del reddito è, del resto, uno dei pilastri del welfare state, come la scuola, la sanità, la pensione.

Perché allora ci sono dei movimenti europei che chiedono il “reddito di cittadinanza”? Perché questi movimenti vogliono andare oltre quello che già hanno. Infatti, una cosa è il sussidio di disoccupazione, un’altra il reddito universale. Spesso si prende il “reddito di cittadinanza” come un sussidio rivolto al disoccupato; l’idea di questi movimenti è invece intendere il “reddito di cittadinanza” nel senso di un reddito rivolto a tutti, che lavorino o meno. Ma la differenza non deve occultare che le forme di sussidio di disoccupazione o di reddito minimo garantito europee costituiscono di fatto una forma di reddito universale o di cittadinanza perché comunque, per così dire, nessuno resta senza un euro in tasca. Tanto più che a questi sussidi si accede con la maggiore età anche se non si è mai avuta un’occupazione in precedenza.

Tuttavia, il fatto non è il diritto; e l’idea che il sussidio riguardi il disoccupato in cerca di lavoro non è un aspetto neutrale di questo istituto. Ed è per questo che in Europa esistono dei movimenti che vogliono andare oltre il tipo di reddito di cittadinanza come indennità di disoccupazione o integrazione del reddito. Le teorie proposte sono molto interessanti, ma in Italia hanno involontariamente confuso le acque, che erano già torbide per conto loro. Poiché in Italia non è noto che in Europa i disoccupati usufruiscono di una serie di sussidi e di facilitazioni, si può cadere nell’errore di credere che i movimenti per il reddito universale vogliano un sussidio per i disoccupati. Il che non è vero. Anzi, nella formulazione più importante, quella del Basic Income, è vero il contrario. L’idea nuova è che il “reddito di cittadinanza” debba essere pensato non solo per i disoccupati (lo hanno già), ma anche per chi lavora. In generale, l’idea di questi movimenti è che il reddito di cittadinanza debba essere indipendente dal lavoro.

La forma più elaborata e influente di questa teoria politico-economica è quella formulata dal filosofo ed economista belga Philippe van Parijs, dell’università americana di Harvard e della Katholieke Universiteit Leuven (Belgio). Intorno a lui si è creata anche una rete internazionale molto attiva, formata da economisti, uomini politici, filosofi, studiosi attivisti (Bien http://www.basicincome.org/bien/. In Italia, invece esiste il Bin http://www.bin-italia.org/).

Qui non posso illustrare la teoria di van Parijs. Ma è importante notare, per avere un’idea del dibattito sul welfare state in Europa, che uno degli argomenti da lui utilizzati a favore del Basic Income – ovvero del reddito universale distribuito a tutti, lavoratori o disoccupati – è che esso potrebbe risolvere una delle distorsioni che si imputano alle forme europee di reddito minimo garantito: la “trappola assistenziale”.

Di che cosa si tratta? La disoccupazione sarebbe prodotta in Europa, oltre che dalla crisi e dalla globalizzazione, proprio dai sussidi di disoccupazione. Il disoccupato europeo (non italiano, ovviamente, che ha solo la famiglia, perché un vero welfare in Italia non c'è) può essere incentivato a non lavorare dal sussidio. In effetti, in molti casi, può non essere conveniente da parte del disoccupato cercare un lavoro, visti gli aiuti a cui si ha diritto – sussidio disoccupazione, sostegno economico per i figli, alloggio gratuito, esenzione per le spese sanitarie, contributi per i trasporti, il riscaldamento, il telefono ecc. In particolare, il sussidio si trasformerebbe in un incentivo a non lavorare per le donne, già gravate dalla cura della famiglia. Di fatto, specialmente per i lavori meno qualificati, le somme percepite finiscono per essere equivalenti a quelle del sussidio: è stato calcolato che in Germania la differenza tra un basso salario e il sussidio sarebbe di circa 100 euro.

Ora, secondo van Parijs, un’allocazione universale uguale per tutti (seguita da una tassazione per fascia reddito che tolga quanto anche ai ricchi viene dato con il Basic Income) disinnescherebbe la trappola assistenziale perché invertirebbe la direzione dell’incentivo: lavorare non comporterebbe la perdita dei vantaggi che si hanno non lavorando. Facciamo l’ipostesi di un reddito minimo corrisposto a tutti di 1000 euro. Ricchi e poveri percepirebbero tutti mille euro, salvo il fatto che i più ricchi verrebbero tassati di mille euro (quello che prendono lo restituiscono con le tasse). La differenza rispetto alle forme di reddito garantito europee è che non ci sarebbe più il disoccupato “assistito”; lavorare e quanto lavorare sarebbe una scelta, prevedendosi anche il caso di chi, rinunciando a un certo livello di consumi, preferisca non lavorare (per avere, ad esempio, tempo libero o per dedicarsi ai figli) o preferisce lavori meno remunerati (ad esempio, vicini al volontariato ecc.). Nel caso di una donna, tornare al lavoro dopo avere avuto un figlio non sarebbe disincentivato dal venire meno del sussidio, ma verrebbe al contrario incentivato grazie alla più alta retribuzione.

I costi? Secondo van Parijs dovrebbero essere inferiori a quelli che servono attualmente per finanziare in media il welfare europeo, soprattutto perché il suo Basic Income prevede l’azzerarsi di tutti gli altri sussidi e aiuti. Uno dei libri più importanti di van Parjis – Real Freedom for All: What (if anything) can justify capitalism?, Clarendon Press, 1995 – ha in copertina un tizio che se la spassa sul windsurf. L’autore racconta che la scelta della copertina riprende il caso su cui aveva discusso con il filosofo americano John Rawls: una società giusta può prevedere la libertà di scegliere di non lavorare, per passare il tempo a fare windsurf su una spiaggia assolata?

Il Basic income, secondo van Parijs, dovrebbe contribuire a modificare profondamente l’incidenza dell'esclusione dal lavoro, della povertà e rendere la società più giusta non solo dal punto di vista della distribuzione delle risorse, ma anche, ed è questo l’aspetto più importante, dal punto di vista della libertà delle scelte. La Bocconi ha pubblicato in traduzione italiana nel 2006 un bel libro di van Parijs, Il reddito minimo universale, dove si possono trovare tutte le informazioni sul tema.

Ogni lettore italiano percepisce immediatamente la distanza siderale tra questi problemi e quelli italiani. Quanti di noi avrebbero mai sospettato che il disoccupato potesse stare meglio dell’occupato? E invece, anche se può stupire, in Germania, Francia, Olanda ecc., il difetto (vero o presunto) di incentivare la disoccupazione attribuito al reddito di cittadinanza (o come lo si voglia chiamare) è uno dei temi chiave del dibattito politico sul welfare state. E comunque, la destra non propone di cancellarlo, ma di ridurne l'impatto sulla disoccupazione, inducendo il disoccupato ad accettare il lavoro offerto dall’ufficio di collocamento, anche se questo corrisponde solo in parte alla propria qualifica professionale. Secondo la riforma del governo conservatore britannico di Cameron, il disoccupato che rifiutasse per tre volte un lavoro ragionevolmente vicino alla sua formazione professionale resterebbe tre anni senza sussidio. È facile capire che proprio questa politica restrittiva ha innescato la crescita di movimenti più radicali che intendono svincolare del tutto il reddito minimo garantito dal lavoro. E la posizione di van Parijs è estremamente interessante, soprattutto nella crisi attuale.

Complessivamente, restando al presente, il reddito di cittadinanza esistente in Europa ha, comunque, più vantaggi che svantaggi; non è infatti solo un rimedio “alla povertà” (il fatto che in Italia di questi temi si discuta sotto il profilo del “rimedio alla povertà” è un indicatore quasi infallibile della confusione regnate), ma è un istituto che accresce la disposizione al rischio di impresa (perché crea una rete di protezione), che rinsalda il legame sociale e nazionale (come notava Eric Hobsbawm ne Il secolo breve), che abbatte il clientelismo e la classe politica che da esso si alimenta.

Non da ultimo, la flessibilità sul lavoro è ben altra cosa se esiste una rete seria di protezione (ma deve essere seria e non un surrogato di Europa, come lo sono alcune attuali leggi regionali). Si potrebbe allora anche immaginare una società diversa da quella che viene difesa solo perché non si ha davanti un'alternativa. La diffusione in Europa del movimento per il “reddito universale” avviene sulla base di anni di sussidi che non sono rivolti a chi ha perso il lavoro, ma a chi non lavora o, pur lavorando, non guadagna abbastanza.

Perché guardare indietro e non avanti? In fondo, una società ingessata nella quale l’operaio farà per tutta la vita l’operaio, e deve anche ringraziare il parroco o l’assessore che lo ha raccomandato perché venisse assunto, non è proprio un modello di società giusta e libera. Il posto fisso in un mondo a sua volta fisso è una condanna mascherata, che penalizza i più deboli: trovato il posto, guai a te se non ti comporti bene e non ti metti in riga (devi pure pagare le rate del mutuo). I conflitti sul lavoro? Le donne che devono sopportare il superiore che ci prova? Sono situazioni che non hanno via di scampo, tranne ricorre all’avvocato e al tribunale in caso di licenziamento. Ma questa rappresentazione della società, che è in fondo frutto dell’immaginario sovietico della vecchia sinistra (uno mondo, del resto, speculare a quello del film Pleasantville, stile anni ’50, in cui ogni individuo “è” per il ruolo che ha, secondo un legge inesorabile, sempre presupposta come giusta, che distingue chi è in alto e chi è in basso nella gerarchia sociale), ha impedito fin qui in Italia l’adozione di una forma di assicurazione sulla disoccupazione sul modello delle socialdemocrazie europee (che erano “piccolo borghesi”). Una rete solida darebbe a tutti invece una di quelle opportunità che sono il metro di una società giusta e libera: la possibilità di cambiare vita (che molto spesso significa la possibilità di migliorare le proprie condizioni di partenze).

È curioso che da noi si continui ad ignorare una realtà europea esistente, tutt’altro che utopistica (perché rodata in mille modi e difesa nella sua sostanza sia da destra che da sinistra), e così normale e consueta che ce la viene a proporre addirittura il banchiere centrale europeo.

Spero di aver dato un’idea di quello che in margine alla lettera della Bce non è stato detto.

Francia: Rmi (Revenu minimum d'insertion); Rsa (Revenu de solidarité active)Gran Bretagna: Jobseeker's AllowanceGermania: Arbeitslosengeld II

Presidente, more solito!

Commento di Silvio Berlusconi alla morte di Gheddafi: "Sic transit gloria mundi!". E la frase fa il giro del mondo.

Da uno che ha baciato l’anello al dittatore di Tripoli in vita non potevamo aspettarci che un glorificazione in morte: “Sic transit gloria mundi”.

Silvio Berlusconi non ci ha nemmeno pensato un attimo e la sua frase ha fatto immediatamente il giro del mondo. Ma lui è abituato così. Parla “apertis verbis”, insomma chiaro e franco, come nella recente occasione del nome del suo nuovo partito. E lo fa “coram populo”, senza chiedersi “cui prodest?”, senza assolutamente riflettere, almeno una volta, “cum grano salis”.

Certo “de gustibus non disputandum est”. Eppure sarebbe meglio farlo: “Sapiens ut loquatur multo prius consideret” (un sapiente prima di parlare deve molto pensare). Ma non sembra la regola del nostro Presidente. Forse, dopo quel baciamano, era naturale associare gloria a Gheddafi: “Promissio boni viri est obligatio”. (Le promesse delle persone per bene sono un impegno che va mantenuto). Anche con una fulminea dichiarazione “post mortem”.

Il Cavaliere parla “pro domo sua”, “sic et sempliceter”, anzi “ ridendo dicere verum”, “sine ira et studio”, neppure “una tantum”. E non lo fa “ob torto collo”, ma, “mirabile visu” (cosa incredibile a dirsi), insomma “more solito”, “ex abrupto” (all’improvviso) “ex abundantia cordis” (dal profondo del cuore).

Cosa c’è stato tra lui e Gheddafi? Forse un “do ut des”? Se fosse vero sarebbe stato meglio una “damnatio memoriae” piuttosto che esercitarsi nel “carpem diem”, nel cogliere l’attimo di una dichiarazione “ad hoc” sicuramente ed esageratamente “ad abundantiam”. Tutto questo “absit iniuria verbo”, sia detto senza offesa.