Chiara Saraceno (La repubblica)
Come previsto, Berlusconi salda puntualmente il debito contratto con la gerarchia cattolica in cambio della benevola tolleranza di questa, attenuata solo da qualche critica molto sfumata e generica, nei confronti suoi e del suo governo per le costanti violazioni della morale pubblica e privata. Chi, nell´opposizione e nell´opinione pubblica, riteneva che il disagio manifestato da parte della stampa cattolica, da qualche esponente della gerarchia, oltre che da moltissimi uomini e donne cattoliche, per i comportamenti pubblici e privati di Berlusconi avrebbe provocato un indebolimento del sostegno offertogli dalla gerarchia, deve ancora una volta ricredersi. I due attori in gioco – Berlusconi e gerarchia cattolica– sono da questo punto di vista del tutto simili per grado di cinismo politico.
Perciò la gerarchia può ascoltare senza battere ciglio, e anzi compiacersi, che Berlusconi oggi vada in giro predicando, anche a platee di cattolici, a difesa della famiglia – si intende quella eterosessuale, fondata sul matrimonio, ove la sessualità è orientata esclusivamente alla procreazione, e la fedeltà coniugale la norma. Il “moralismo”, che è una brutta cosa quando viene applicato nei giudizi nei confronti di Berlusconi (Ferrara docet) diviene un obbligo stringente quando si tratta dei cittadini comuni. In questo spericolato esercizio di doppia morale Berlusconi è appunto confortato dalla gerarchia cattolica che, oggi come sempre, in Italia come in situazioni molto più fosche dal punto di vista della libertà e della democrazia, guarda agli atti politici che le giovano, non a chi li compie e al contesto in cui ciò avviene. Come il denaro (si vedano le non sempre trasparenti vicende finanziarie del Vaticano), anche le leggi “non olent” quando portano risorse finanziarie o di controllo alla istituzione chiesa. E Berlusconi ne promette a tutto campo, dopo aver già concesso lo sconto sull´Ici in sprezzo della normativa europea e della correttezza delle regole di mercato: sulla famiglia, ma anche sulla scuola, a costo di delegittimare la scuola pubblica come istituzione educativa, rappresentandola come una sorta di scuola di partito sovietico. E, naturalmente, sul testamento biologico e le disposizioni di fine vita.
Più ancora che sotto i governi democristiani, i cittadini italiani sono un puro ostaggio nel grande scambio di risorse in cambio di legittimazione messo in atto da questo governo, e in particolare da Berlusconi, con la gerarchia cattolica.
Incontro molti cattolici che individualmente e anche in gruppi e associazioni si dissociano, costituendo delle forme silenziose di “chiese” alternative dentro o accanto alla chiesa ufficiale. E´ un fenomeno ricorrente dentro alla storia della chiesa cattolica, di cui si trova traccia nella origine, ad esempio, di molti ordini monacali, a testimonianza del fatto che la tensione tra la realpolitik e l´espressione della fede è per certi versi strutturale entro la chiesa. Ma certo oggi è uno dei tempi in cui essa si manifesta più acutamente, almeno in Italia: dove alla presenza ingombrante del Vaticano si aggiunge un episcopato molto coinvolto nella politica, almeno nei suoi vertici. Le motivazioni del dissenso sono tra loro diverse e a volte contrastanti. C´è chi vorrebbe più coerenza e universalismo nella applicazione di norme condivise, chi invece dissente sulla formulazione delle norme e l´interpretazione delle questioni di fede. E´ una situazione da osservare con grande rispetto. Ma senza sovraccaricare il dissenso interno alla chiesa di aspettative politiche. Piuttosto, a livello di giudizio politico, è ora che si dica chiaramente che il degrado etico (che nulla ha a che fare con il moralismo) e civile in cui ci troviamo non è solo responsabilità di Berlusconi, della sua maggioranza, delle sue televisioni. E´ responsabilità anche della doppia morale cinicamente esercitata dalla gerarchia cattolica ogni volta che sono in gioco i suoi interessi come istituzione di potere. Più grave ancora del fatto che di volta in volta pretenda che si legiferi in accordo ai suoi principi fatti valere come validi per tutti, è il fatto che taccia, e spesso si compiaccia persino, quando la religione cattolica e i suoi simboli sono usati politicamente come armi improprie per posizionarsi, affermare identità, escludere qualcuno. Questo doppio cinismo (di chi ci governa e della gerarchia che lo legittima) e la doppia morale che ne deriva non hanno solo effetti nefasti sulla nostra libertà di cittadini. Stanno anche corrodendo la coscienza civile.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
27.2.11
Quando il premier parla della famiglia
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24.2.11
Illusioni progressiste
di Rossana Rossanda (il Manifesto)
Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto di sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel Medio Oriente ci interpellano su questo. E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi e il governo derivante dal Fln algerino.
Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non lo era.
Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico. E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici, che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo rivoluzionario".
Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista? La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque, il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto, ma a Michel Foucault. Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.
In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava, si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti, ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente o,peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di affari o da appelli basati sull'emotività.
E sulle quali la mondializzazione ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche, utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà, e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Trahir era in possesso di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto, come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è - non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.
In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori fra potere e popolazione. Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse, e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente, chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata, e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi che non siano una loro diretta emanazione.
Il problema delle rivolte arabe - che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia, non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra desolante quotidianità.
Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto di sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel Medio Oriente ci interpellano su questo. E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi e il governo derivante dal Fln algerino.
Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non lo era.
Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico. E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici, che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo rivoluzionario".
Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista? La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque, il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto, ma a Michel Foucault. Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.
In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava, si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti, ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente o,peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di affari o da appelli basati sull'emotività.
E sulle quali la mondializzazione ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche, utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà, e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Trahir era in possesso di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto, come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è - non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.
In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori fra potere e popolazione. Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse, e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente, chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata, e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi che non siano una loro diretta emanazione.
Il problema delle rivolte arabe - che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia, non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra desolante quotidianità.
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18.2.11
La rivoluzione di Twitter non riempie la pancia
David Rieff (Internazionale)
Nell’euforia e nella preoccupazione per le rivolte nel Medio Oriente arabo – che hanno già fatto cadere due tiranni e minacciano il potere di vari altri – si è molto parlato di libertà e democrazia.
Abbiamo anche sentito una valanga di tecnochiacchiere ciberutopiche sul potenziale di emancipazione di Bluetooth e di Twitter, secondo cui i tiranni sarebbero impotenti di fronte alle nuove tecnologie. In effetti la Cnn ha dedicato molti dei suoi servizi dall’Egitto a ciò che si leggeva sui blog e che passava su Twitter, e alla decisione del regime di Mubarak di chiudere ogni accesso a internet e ai cellulari, di fronte all’intensificarsi delle manifestazioni. Come se il mezzo – come aveva previsto Marshall McLuhan – fosse davvero il messaggio, e come se l’accesso alla rivoluzione senza internet fosse bloccato.
La delusione della rete, la forza dell’esempio
Se le tecnologie dell’informazione non fossero l’idolo dei nostri tempi, nessuna persona sensata potrebbe mai credere che la rivoluzione nordafricana sia avvenuta grazie ai social network. Come osserva Evgeny Morozov nel suo bellissimo libro The net delusion, siamo di fronte alla stessa idea utopistica che fece prevedere a Marx la liberazione degli indiani dal sistema delle caste grazie alla rivoluzione delle comunicazioni prodotta dalle ferrovie dell’impero britannico. Non voglio certo dire che i social network non contano, anzi: contano molto.
Però non sono l’incarnazione della libertà né affrettano l’arrivo di chissà quale stadio paradisiaco della storia umana. Se l’insurrezione tunisina ha avuto una causa scatenante, bisognerebbe cercarla in un gesto politico tutt’altro che virtuale. Parlo della decisione di Mohamed Bouazizi – un ambulante di Sidi Bouzid, una cittadina della Tunisia centrale – di darsi fuoco per protestare contro la polizia che gli aveva sequestrato il carrettino e i prodotti che tentava di vendere, e più in generale contro la brutalità della polizia, la disoccupazione, la miseria e la mancanza di opportunità. È stato il suo gesto a scatenare le prime manifestazioni antigovernative in Tunisia, imitato da varie altre persone che si sono immolate un po’ dappertutto dall’Egitto alla Mauritania.
Ma nella narrazione dei ciberutopisti, i gesti di auto-immolazione non trovano posto: sono troppo lontani dalla mentalità di noi occidentali. Invece Twitter e Facebook sono considerati indispensabili per il nostro stile di vita. In realtà quando facciamo il tifo per i tweet di piazza Tahrir, tifiamo per noi stessi. A questo punto potreste rispondere: che c’è di male, se poi ciò per cui facciamo il tifo a Tunisi o al Cairo sono gli ideali ai quali tendiamo come persone e come società, cioè la libertà personale e la democrazia rappresentativa? E io risponderei: niente, basta non confondere la nostra condizione con la loro. E invece lo stiamo facendo.
Giustizia e speranza
La democrazia, la libertà di espressione, i diritti sono cose molto belle. Ma senza giustizia economica – cioè senza la speranza di una vita decente, di avere un’assistenza sanitaria adeguata e di non vivere nello squallore – quei sogni democratici rischia di goderseli solo una minoranza della popolazione. Non occorre essere marxisti per capire la forza dell’amara osservazione di Brecht nell’Opera da tre soldi: “Prima viene lo stomaco, poi viene la morale”. Certo, sarà una gran bella cosa se l’esercito manterrà la promessa, fatta sia in Egitto sia in Algeria, di mettere fine allo stato d’emergenza in vigore da decenni. Ma questi cambiamenti dall’alto, che porteranno vantaggi quasi immediati al ceto medio-alto serviranno a dare un destino migliore a tutti i Mohamed Bouazizi del mondo? È ancora tutto da vedere.
I tunisini poveri non sembrano molto ottimisti. Nelle settimane successive alla caduta della dittatura di Ben Ali, migliaia e migliaia di loro sono salpati a bordo di gommoni per cercare di raggiungere l’Europa e una vita migliore, e sono sbarcati nell’isola italiana di Lampedusa. Questa gente non sembra nutrire una grande fiducia di ottenere migliori prospettive economiche in una Tunisia democratica.
Ma i ragazzi che salgono a bordo di quelle carrette del mare non si mettono certo a fare la cronaca della traversata con la videocamera del telefonino, non scrivono su Twitter o su Facebook per far sapere agli amici che hanno deciso di tentare la sorte in Europa. E oggi, nel Medio Oriente arabo, questi ragazzi sono ben più numerosi dei giovani attivisti per la democrazia che noi occidentali abbiamo giustamente elogiato in queste settimane.
Quelli di cui parlo sono i fantasmi al banchetto della democrazia. E se i governi occidentali, che oggi promettono aiuti e appoggio politico, e le grandi organizzazioni filantropiche come la Open Society Foundation di George Soros, non terranno presente che lo stomaco conta quanto la morale – cosa che invece i Fratelli musulmani in Egitto ed Hezbollah in Libano hanno capito da un pezzo – quest’anno le rivoluzioni del mondo arabo faranno molto per alcuni, ma lasceranno emarginata e sofferente la maggioranza dei cittadini. Con tutte le conseguenze, sia morali sia politiche, che ne deriveranno.
Traduzione di Marina Astrologo.
Internazionale, numero 885, 18 febbraio 2011
Nell’euforia e nella preoccupazione per le rivolte nel Medio Oriente arabo – che hanno già fatto cadere due tiranni e minacciano il potere di vari altri – si è molto parlato di libertà e democrazia.
Abbiamo anche sentito una valanga di tecnochiacchiere ciberutopiche sul potenziale di emancipazione di Bluetooth e di Twitter, secondo cui i tiranni sarebbero impotenti di fronte alle nuove tecnologie. In effetti la Cnn ha dedicato molti dei suoi servizi dall’Egitto a ciò che si leggeva sui blog e che passava su Twitter, e alla decisione del regime di Mubarak di chiudere ogni accesso a internet e ai cellulari, di fronte all’intensificarsi delle manifestazioni. Come se il mezzo – come aveva previsto Marshall McLuhan – fosse davvero il messaggio, e come se l’accesso alla rivoluzione senza internet fosse bloccato.
La delusione della rete, la forza dell’esempio
Se le tecnologie dell’informazione non fossero l’idolo dei nostri tempi, nessuna persona sensata potrebbe mai credere che la rivoluzione nordafricana sia avvenuta grazie ai social network. Come osserva Evgeny Morozov nel suo bellissimo libro The net delusion, siamo di fronte alla stessa idea utopistica che fece prevedere a Marx la liberazione degli indiani dal sistema delle caste grazie alla rivoluzione delle comunicazioni prodotta dalle ferrovie dell’impero britannico. Non voglio certo dire che i social network non contano, anzi: contano molto.
Però non sono l’incarnazione della libertà né affrettano l’arrivo di chissà quale stadio paradisiaco della storia umana. Se l’insurrezione tunisina ha avuto una causa scatenante, bisognerebbe cercarla in un gesto politico tutt’altro che virtuale. Parlo della decisione di Mohamed Bouazizi – un ambulante di Sidi Bouzid, una cittadina della Tunisia centrale – di darsi fuoco per protestare contro la polizia che gli aveva sequestrato il carrettino e i prodotti che tentava di vendere, e più in generale contro la brutalità della polizia, la disoccupazione, la miseria e la mancanza di opportunità. È stato il suo gesto a scatenare le prime manifestazioni antigovernative in Tunisia, imitato da varie altre persone che si sono immolate un po’ dappertutto dall’Egitto alla Mauritania.
Ma nella narrazione dei ciberutopisti, i gesti di auto-immolazione non trovano posto: sono troppo lontani dalla mentalità di noi occidentali. Invece Twitter e Facebook sono considerati indispensabili per il nostro stile di vita. In realtà quando facciamo il tifo per i tweet di piazza Tahrir, tifiamo per noi stessi. A questo punto potreste rispondere: che c’è di male, se poi ciò per cui facciamo il tifo a Tunisi o al Cairo sono gli ideali ai quali tendiamo come persone e come società, cioè la libertà personale e la democrazia rappresentativa? E io risponderei: niente, basta non confondere la nostra condizione con la loro. E invece lo stiamo facendo.
Giustizia e speranza
La democrazia, la libertà di espressione, i diritti sono cose molto belle. Ma senza giustizia economica – cioè senza la speranza di una vita decente, di avere un’assistenza sanitaria adeguata e di non vivere nello squallore – quei sogni democratici rischia di goderseli solo una minoranza della popolazione. Non occorre essere marxisti per capire la forza dell’amara osservazione di Brecht nell’Opera da tre soldi: “Prima viene lo stomaco, poi viene la morale”. Certo, sarà una gran bella cosa se l’esercito manterrà la promessa, fatta sia in Egitto sia in Algeria, di mettere fine allo stato d’emergenza in vigore da decenni. Ma questi cambiamenti dall’alto, che porteranno vantaggi quasi immediati al ceto medio-alto serviranno a dare un destino migliore a tutti i Mohamed Bouazizi del mondo? È ancora tutto da vedere.
I tunisini poveri non sembrano molto ottimisti. Nelle settimane successive alla caduta della dittatura di Ben Ali, migliaia e migliaia di loro sono salpati a bordo di gommoni per cercare di raggiungere l’Europa e una vita migliore, e sono sbarcati nell’isola italiana di Lampedusa. Questa gente non sembra nutrire una grande fiducia di ottenere migliori prospettive economiche in una Tunisia democratica.
Ma i ragazzi che salgono a bordo di quelle carrette del mare non si mettono certo a fare la cronaca della traversata con la videocamera del telefonino, non scrivono su Twitter o su Facebook per far sapere agli amici che hanno deciso di tentare la sorte in Europa. E oggi, nel Medio Oriente arabo, questi ragazzi sono ben più numerosi dei giovani attivisti per la democrazia che noi occidentali abbiamo giustamente elogiato in queste settimane.
Quelli di cui parlo sono i fantasmi al banchetto della democrazia. E se i governi occidentali, che oggi promettono aiuti e appoggio politico, e le grandi organizzazioni filantropiche come la Open Society Foundation di George Soros, non terranno presente che lo stomaco conta quanto la morale – cosa che invece i Fratelli musulmani in Egitto ed Hezbollah in Libano hanno capito da un pezzo – quest’anno le rivoluzioni del mondo arabo faranno molto per alcuni, ma lasceranno emarginata e sofferente la maggioranza dei cittadini. Con tutte le conseguenze, sia morali sia politiche, che ne deriveranno.
Traduzione di Marina Astrologo.
Internazionale, numero 885, 18 febbraio 2011
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13.2.11
Omar Suleiman: non è questo il cambiamento
Original Version: Suleiman: Change you can’t believe in
by Raouf Ebeid (egiziano-americano direttore del sito “Political Islam Online)
Il vicepresidente egiziano Omar Suleiman ha finalmente annunciato le dimissioni di Hosni Mubarak; ma chi gestirà la transizione verso la democrazia? Solo pochi giorni fa, l’analista egiziano-americano Raouf Ebeid aveva ammonito contro le intenzioni golpiste di Suleiman, affermando che un Egitto guidato da lui rischierebbe di non essere più democratico di quello di Mubarak
Pochi giorni dopo l’inizio della rivolta in Egitto, il capo dei servizi di intelligence Omar Suleiman comprese che gli si presentava un’occasione d’oro. Egli poteva marginalizzare il presidente egiziano Mubarak, distruggere le aspirazioni della moglie, Suzanne Mubarak, di vedere suo figlio Gamal succedere al padre, e sbarazzarsi di tutta la nuova guardia del governo egiziano, rappresentata dalla cricca affaristica, opportunista e corrotta di Gamal Mubarak. La lotta intestina tra la vecchia guardia rappresentata da Mubarak padre e dai suoi anziani generali, e la nuova guardia rappresentata da Mubarak figlio e dai suoi giovani uomini d’affari, non era più un segreto per nessuno in Egitto. Suleiman si rese anche conto che poteva infliggere un colpo mortale a uno dei suoi più formidabili nemici. Il potere in continua espansione del ministro degli interni Habib El Adly, sostenuto dal suo impopolare apparato della sicurezza interna e della polizia, forte di più di un milione di uomini, rappresentava un ostacolo sulla strada di Suleiman. Quest’ultimo considerò correttamente che una popolazione che ne aveva abbastanza della tirannia della sicurezza interna avrebbe accolto l’esercito come un liberatore piuttosto che come un oppressore.
La machiavellica orchestrazione degli eventi da parte di Suleiman fu brillante. Egli doveva spingere il presidente Mubarak a nominarlo vicepresidente ed a promettere che non avrebbe cercato la rielezione, ma anche che avrebbe allontanato Gamal e la sua cricca dal governo. Le pressioni esercitate sul padre affinché si rivoltasse contro il figlio devono essere state enormi. Suleiman sapeva che avrebbe potuto realizzare tutto ciò solo grazie al peso dell’esercito, e all’incitamento e alla benedizione degli Stati Uniti. Anche il presidente Mubarak avrebbe dovuto andarsene, ma a tempo debito. Allontanare subito il presidente avrebbe reso Suleiman il bersaglio primario delle ire del popolo in piazza, una cosa che egli voleva evitare. A Suleiman, Mubarak serviva come una polizza sulla vita che garantisse che sarebbe stato quest’ultimo ad essere condannato per qualunque cosa di male il governo avesse ancora inflitto alla popolazione.
Per raggiungere questo obiettivo, Suleiman ritenne che fosse consigliabile cercare l’aiuto del tenente generale Sami Enan, che era in visita negli Stati Uniti lo scorso gennaio, e che ebbe incontri di alto livello con i funzionari del Pentagono nei primi giorni della rivolta. Il generale è il comandante in seconda del feldmaresciallo Tantawi, ministro della difesa considerato onesto e competente. Enan, nato nel 1948, è più giovane di Suleiman, ed è anche sufficientemente rispettato da essere stato citato per ironia della sorte dai Fratelli Musulmani, questa settimana, come un presidente accettabile per l’Egitto – un’affermazione che è stata uno schiaffo in faccia a Suleiman. Spiegando la situazione a Enan, probabilmente Suleiman lo spinse fare pressioni sui suoi omologhi a Washington affinché accettassero di sbarazzarsi di Mubarak e del suo governo, e acconsentissero alla nomina di Suleiman come vicepresidente ad interim. Anche l’apparato di intelligence di cui egli è a capo entrò in azione, fornendo informazioni alla CIA sulle precarie condizioni di salute di Mubarak. Per lungo tempo la CIA è stata dipendente dai servizi di intelligence di Suleiman in Egitto per combattere il terrorismo, e la sua capacità di effettuare valutazioni indipendenti è stata probabilmente carente. La Casa Bianca ed Enan procedettero secondo i piani e senza intoppi, e Mubarak, preso alla sprovvista dalla rapidità degli eventi e posto di fronte al fatto compiuto, si sentì costretto a conformarsi ai desideri di Suleiman annunciando alla TV di Stato che non si sarebbe presentato per una rielezione, e che non si sarebbe candidato nemmeno suo figlio.
Essendosi sbarazzato di tutti i suoi avversari nel governo nel giro di 72 ore, Suleiman doveva ancora affrontare i disordini nelle strade e le reazioni occidentali a questi eventi. A tal fine, egli adottò quella che aveva considerato la tattica più efficace fino a quel momento: agitare lo spauracchio degli islamisti e di forze esterne, additandoli come i principali istigatori, sebbene fosse ovvio che la rivolta era in gran parte laica, e guidata solo dagli egiziani. I Fratelli Musulmani furono gli ultimi arrivati alle manifestazioni, e per Suleiman – paradossalmente – sarebbero stati un nemico più facile da combattere rispetto agli sconosciuti elementi laici e nazionalisti che si opponevano al regime. Con quel fermo tono paternalistico ma sbrigativo che gli egiziani sono ormai abituati ad ascoltare da parte dei loro governanti, egli continuò anche a denigrare le azioni delle forze di sicurezza cercando nel frattempo di fare appello al sentimentalismo degli egiziani. Infine, egli sapeva di poter fare affidamento su Israele e sulla lobby ebraica per far spostare a suo favore il discorso politico negli Stati Uniti.
Dopo il discorso in cui Mubarak aveva concesso tutto ciò che Suleiman aveva chiesto, l’anziano presidente probabilmente è divenuto prigioniero nel suo stesso palazzo. Sembra che il cancelliere tedesco, consapevole della situazione, avesse proposto di far volare Mubarak in Germania per ragioni di salute. Ma Suleiman non ne ha voluto sapere. Egli ha detto enfaticamente ai giornalisti che Mubarak sarebbe rimasto in Egitto, essenzialmente sotto il suo controllo. Mubarak poteva essere ancora utile per rilasciare dichiarazioni e apparire in qualche evento ufficiale privo di sostanza, pur non avendo più alcun potere. Suleiman aveva intenzione di usare le dimissioni di Mubarak come ultima carta per pacificare la popolazione, qualora le manifestazioni fossero continuate.
Suleiman, tuttavia, è stato colto di sorpresa quando alcuni giorni fa il presidente americano, ansioso di un cambiamento democratico di fronte agli eventi di Piazza Tahrir, ha dichiarato che il cambiamento deve cominciare “adesso”. Per Suleiman, tutti i cambiamenti a cui egli aspirava avevano già avuto luogo. Egli sapeva, tuttavia, che Israele e la lobby ebraica avrebbero ben presto cominciato a mobilitarsi contro un cambiamento democratico in Egitto. I rischi sono troppo grandi – avrebbero spiegato a Obama – e l’Egitto non è Gaza: non si può correre il rischio di un esito imprevisto. Ben presto abbiamo visto i talk show e i mezzi di informazione USA scivolare dal tema della democrazia e della simpatia per il popolo egiziano in piazza, al tema della sicurezza di Israele e della minaccia rappresentata dai Fratelli Musulmani.
Gli israeliani hanno anche detto chiaramente che ElBaradei non è un sostituto accettabile. Essi non hanno mai perdonato il premio Nobel egiziano. Egli, con i suoi rapporti accurati ed equilibrati mentre era a capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, probabilmente impedì all’amministrazione Bush tre anni fa di lanciare gli Stati Uniti in un’altra guerra – questa volta contro l’Iran – su richiesta di Israele. ElBaradei sapeva che l’Iran era una minaccia, ma non così imminente come veniva istericamente dipinta allora, e il tempo gli ha dato ragione. Suleiman sapeva anche che ElBaradei non aveva l’appoggio dei militari: semplicemente non era uno di loro. Sebbene fosse popolare tra le masse laiche in Egitto, l’amministrazione USA lo ha ignorato.
Essendosi convinto che fosse negli interessi degli USA, Obama era ormai pronto ad abbracciare Suleiman come nuovo leader dell’Egitto. Rimpiazzando la parola “democrazia”, parole come “stabilità”, “cautela”, e “transizione ordinata” stavano diventando l’ordine del giorno dell’amministrazione USA. I dittatori, tuttavia, non sono abituati a dover rendere conto delle loro parole, e Suleiman ha ben presto dimostrato a sufficienza di non essere un’eccezione. Quando gli è stato chiesto: “Lei crede nella democrazia?”, ha risposto: “Certamente; ma la farete…quando il popolo qui avrà la cultura della democrazia”. Mentre l’eco delle sue parole rimbalzava in Egitto e nel mondo, l’opinione pubblica americana si rendeva lentamente conto che Suleiman non ha interesse ad avere al timone un governo democraticamente eletto. Essa ha compreso che se Suleiman governerà l’Egitto come hanno fatto tutti gli altri prima di lui, egli sarà il nuovo Faraone, con tutte le diseguaglianze e il dispotismo del vecchio regime, e che il governo USA, a dispetto di tutta la sua retorica sulla democrazia, appoggerà un altro dittatore a spese delle aspirazioni del popolo egiziano. Quando Suleiman insieme al ministro degli esteri Abul Gheit ha minacciato i dimostranti, ammonendoli che se l’opposizione non parteciperà al dialogo con lui alle condizioni da lui stabilite, e non porrà fine alle manifestazioni, ci sarà un colpo di stato nel paese, ironicamente egli stava facendo riferimento al golpe che aveva già architettato. L’esercito e l’apparato dei servizi segreti, con lui alla guida, avevano già assunto il controllo. Le sue osservazioni erano semplicemente una velata minaccia sulla legge marziale e sulla possibilità di legittimare il golpe.
Ciò che l’Occidente non comprende è che la “democrazia” per i vertici egiziani è una democrazia “à la de Tocqueville”. Secondo de Tocqueville, democrazia significa “uguaglianza di condizioni” piuttosto che elezioni politiche sulla base del principio “una persona, un voto”. Significa bilanciare le ingiustizie accumulatesi negli ultimi trent’anni, sbarazzarsi della corruzione e del dispotismo nella sfera pubblica e privata, e creare opportunità più eque nella ricerca di un impiego e nelle opportunità di investimento.
Personalmente continuo a ritenere che i Fratelli Musulmani possano rappresentare un pericolo per l’Egitto, e che la loro influenza su una popolazione in cui il tasso di analfabetismo supera il 30% non deve essere sottovalutata, soprattutto alle elezioni locali. Il loro peso potrebbe tuttavia essere ridimensionato se il governo ed altre istituzioni laiche fossero anch’essi in grado di fornire un sistema di protezione sociale analogo a quello che i Fratelli Musulmani offrono alla popolazione nel settore della salute e dell’assistenza sociale. L’istruzione è anch’essa una chiave per contrastare l’arretratezza – che sia religiosa o meno. Se ai giovani membri dei Fratelli Musulmani venissero offerte opportunità economiche, credo che sarebbero aperti ad un funzionamento pacifico della società e a dei compromessi democratici senza per questo abbandonare necessariamente le loro convinzioni religiose. Bisognerebbe inoltre notare che anche migliaia di cristiani stanno partecipando alla rivolta, sebbene essi nutrano dei sospetti nei confronti dei Fratelli Musulmani. Essi vogliono cogliere l’opportunità di un Egitto più equo e progressista.
Gli aiuti militari americani degli ultimi trent’anni all’Egitto non sono stati nient’altro che uno scandalo morale e una cantonata geostrategica di enormi proporzioni. Alcuni dei fondi che gli USA forniscono all’Egitto dovrebbero essere impiegati per assicurare personale agli ospedali, costruire scuole e sviluppare un sistema di protezione sociale laico.
I giovani egiziani hanno il diritto e l’opportunità di dimostrare che Suleiman si sbaglia quando afferma che l’Egitto non è pronto per la democrazia. Se realmente crediamo nella democrazia e nei diritti umani, abbiamo il dovere di aiutare gli egiziani a disegnare il proprio destino, e di appoggiare la loro aspirazione ad una vita migliore. Se non appoggiamo le forze laiche che sono all’opera ed emarginiamo gente come ElBaradei e molte altre rispettate personalità che chiedono il cambiamento, potremo biasimare solo noi stessi se i Fratelli Musulmani rimarranno la principale forza di opposizione in Egitto.
Invece di affidarci a Suleiman e volgere le spalle al popolo, dovremmo spingere qualche rispettato generale come Enan a giocare un ruolo importante nel convincere l’esercito a sovrintendere ad una transizione pacifica che porti ad una soluzione che sia accettabile per le forze laiche guidate da ElBaradei, per i Fratelli Musulmani, e molto probabilmente anche per i giovani di Piazza Tahrir. Sarebbe invece un tradimento permettere al golpe di Suleiman di avere successo.
Raouf Ebeid, egiziano-americano, è direttore del sito “Political Islam Online”; questo articolo è apparso originariamente il 09/02/2011
by Raouf Ebeid (egiziano-americano direttore del sito “Political Islam Online)
Il vicepresidente egiziano Omar Suleiman ha finalmente annunciato le dimissioni di Hosni Mubarak; ma chi gestirà la transizione verso la democrazia? Solo pochi giorni fa, l’analista egiziano-americano Raouf Ebeid aveva ammonito contro le intenzioni golpiste di Suleiman, affermando che un Egitto guidato da lui rischierebbe di non essere più democratico di quello di Mubarak
Pochi giorni dopo l’inizio della rivolta in Egitto, il capo dei servizi di intelligence Omar Suleiman comprese che gli si presentava un’occasione d’oro. Egli poteva marginalizzare il presidente egiziano Mubarak, distruggere le aspirazioni della moglie, Suzanne Mubarak, di vedere suo figlio Gamal succedere al padre, e sbarazzarsi di tutta la nuova guardia del governo egiziano, rappresentata dalla cricca affaristica, opportunista e corrotta di Gamal Mubarak. La lotta intestina tra la vecchia guardia rappresentata da Mubarak padre e dai suoi anziani generali, e la nuova guardia rappresentata da Mubarak figlio e dai suoi giovani uomini d’affari, non era più un segreto per nessuno in Egitto. Suleiman si rese anche conto che poteva infliggere un colpo mortale a uno dei suoi più formidabili nemici. Il potere in continua espansione del ministro degli interni Habib El Adly, sostenuto dal suo impopolare apparato della sicurezza interna e della polizia, forte di più di un milione di uomini, rappresentava un ostacolo sulla strada di Suleiman. Quest’ultimo considerò correttamente che una popolazione che ne aveva abbastanza della tirannia della sicurezza interna avrebbe accolto l’esercito come un liberatore piuttosto che come un oppressore.
La machiavellica orchestrazione degli eventi da parte di Suleiman fu brillante. Egli doveva spingere il presidente Mubarak a nominarlo vicepresidente ed a promettere che non avrebbe cercato la rielezione, ma anche che avrebbe allontanato Gamal e la sua cricca dal governo. Le pressioni esercitate sul padre affinché si rivoltasse contro il figlio devono essere state enormi. Suleiman sapeva che avrebbe potuto realizzare tutto ciò solo grazie al peso dell’esercito, e all’incitamento e alla benedizione degli Stati Uniti. Anche il presidente Mubarak avrebbe dovuto andarsene, ma a tempo debito. Allontanare subito il presidente avrebbe reso Suleiman il bersaglio primario delle ire del popolo in piazza, una cosa che egli voleva evitare. A Suleiman, Mubarak serviva come una polizza sulla vita che garantisse che sarebbe stato quest’ultimo ad essere condannato per qualunque cosa di male il governo avesse ancora inflitto alla popolazione.
Per raggiungere questo obiettivo, Suleiman ritenne che fosse consigliabile cercare l’aiuto del tenente generale Sami Enan, che era in visita negli Stati Uniti lo scorso gennaio, e che ebbe incontri di alto livello con i funzionari del Pentagono nei primi giorni della rivolta. Il generale è il comandante in seconda del feldmaresciallo Tantawi, ministro della difesa considerato onesto e competente. Enan, nato nel 1948, è più giovane di Suleiman, ed è anche sufficientemente rispettato da essere stato citato per ironia della sorte dai Fratelli Musulmani, questa settimana, come un presidente accettabile per l’Egitto – un’affermazione che è stata uno schiaffo in faccia a Suleiman. Spiegando la situazione a Enan, probabilmente Suleiman lo spinse fare pressioni sui suoi omologhi a Washington affinché accettassero di sbarazzarsi di Mubarak e del suo governo, e acconsentissero alla nomina di Suleiman come vicepresidente ad interim. Anche l’apparato di intelligence di cui egli è a capo entrò in azione, fornendo informazioni alla CIA sulle precarie condizioni di salute di Mubarak. Per lungo tempo la CIA è stata dipendente dai servizi di intelligence di Suleiman in Egitto per combattere il terrorismo, e la sua capacità di effettuare valutazioni indipendenti è stata probabilmente carente. La Casa Bianca ed Enan procedettero secondo i piani e senza intoppi, e Mubarak, preso alla sprovvista dalla rapidità degli eventi e posto di fronte al fatto compiuto, si sentì costretto a conformarsi ai desideri di Suleiman annunciando alla TV di Stato che non si sarebbe presentato per una rielezione, e che non si sarebbe candidato nemmeno suo figlio.
Essendosi sbarazzato di tutti i suoi avversari nel governo nel giro di 72 ore, Suleiman doveva ancora affrontare i disordini nelle strade e le reazioni occidentali a questi eventi. A tal fine, egli adottò quella che aveva considerato la tattica più efficace fino a quel momento: agitare lo spauracchio degli islamisti e di forze esterne, additandoli come i principali istigatori, sebbene fosse ovvio che la rivolta era in gran parte laica, e guidata solo dagli egiziani. I Fratelli Musulmani furono gli ultimi arrivati alle manifestazioni, e per Suleiman – paradossalmente – sarebbero stati un nemico più facile da combattere rispetto agli sconosciuti elementi laici e nazionalisti che si opponevano al regime. Con quel fermo tono paternalistico ma sbrigativo che gli egiziani sono ormai abituati ad ascoltare da parte dei loro governanti, egli continuò anche a denigrare le azioni delle forze di sicurezza cercando nel frattempo di fare appello al sentimentalismo degli egiziani. Infine, egli sapeva di poter fare affidamento su Israele e sulla lobby ebraica per far spostare a suo favore il discorso politico negli Stati Uniti.
Dopo il discorso in cui Mubarak aveva concesso tutto ciò che Suleiman aveva chiesto, l’anziano presidente probabilmente è divenuto prigioniero nel suo stesso palazzo. Sembra che il cancelliere tedesco, consapevole della situazione, avesse proposto di far volare Mubarak in Germania per ragioni di salute. Ma Suleiman non ne ha voluto sapere. Egli ha detto enfaticamente ai giornalisti che Mubarak sarebbe rimasto in Egitto, essenzialmente sotto il suo controllo. Mubarak poteva essere ancora utile per rilasciare dichiarazioni e apparire in qualche evento ufficiale privo di sostanza, pur non avendo più alcun potere. Suleiman aveva intenzione di usare le dimissioni di Mubarak come ultima carta per pacificare la popolazione, qualora le manifestazioni fossero continuate.
Suleiman, tuttavia, è stato colto di sorpresa quando alcuni giorni fa il presidente americano, ansioso di un cambiamento democratico di fronte agli eventi di Piazza Tahrir, ha dichiarato che il cambiamento deve cominciare “adesso”. Per Suleiman, tutti i cambiamenti a cui egli aspirava avevano già avuto luogo. Egli sapeva, tuttavia, che Israele e la lobby ebraica avrebbero ben presto cominciato a mobilitarsi contro un cambiamento democratico in Egitto. I rischi sono troppo grandi – avrebbero spiegato a Obama – e l’Egitto non è Gaza: non si può correre il rischio di un esito imprevisto. Ben presto abbiamo visto i talk show e i mezzi di informazione USA scivolare dal tema della democrazia e della simpatia per il popolo egiziano in piazza, al tema della sicurezza di Israele e della minaccia rappresentata dai Fratelli Musulmani.
Gli israeliani hanno anche detto chiaramente che ElBaradei non è un sostituto accettabile. Essi non hanno mai perdonato il premio Nobel egiziano. Egli, con i suoi rapporti accurati ed equilibrati mentre era a capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, probabilmente impedì all’amministrazione Bush tre anni fa di lanciare gli Stati Uniti in un’altra guerra – questa volta contro l’Iran – su richiesta di Israele. ElBaradei sapeva che l’Iran era una minaccia, ma non così imminente come veniva istericamente dipinta allora, e il tempo gli ha dato ragione. Suleiman sapeva anche che ElBaradei non aveva l’appoggio dei militari: semplicemente non era uno di loro. Sebbene fosse popolare tra le masse laiche in Egitto, l’amministrazione USA lo ha ignorato.
Essendosi convinto che fosse negli interessi degli USA, Obama era ormai pronto ad abbracciare Suleiman come nuovo leader dell’Egitto. Rimpiazzando la parola “democrazia”, parole come “stabilità”, “cautela”, e “transizione ordinata” stavano diventando l’ordine del giorno dell’amministrazione USA. I dittatori, tuttavia, non sono abituati a dover rendere conto delle loro parole, e Suleiman ha ben presto dimostrato a sufficienza di non essere un’eccezione. Quando gli è stato chiesto: “Lei crede nella democrazia?”, ha risposto: “Certamente; ma la farete…quando il popolo qui avrà la cultura della democrazia”. Mentre l’eco delle sue parole rimbalzava in Egitto e nel mondo, l’opinione pubblica americana si rendeva lentamente conto che Suleiman non ha interesse ad avere al timone un governo democraticamente eletto. Essa ha compreso che se Suleiman governerà l’Egitto come hanno fatto tutti gli altri prima di lui, egli sarà il nuovo Faraone, con tutte le diseguaglianze e il dispotismo del vecchio regime, e che il governo USA, a dispetto di tutta la sua retorica sulla democrazia, appoggerà un altro dittatore a spese delle aspirazioni del popolo egiziano. Quando Suleiman insieme al ministro degli esteri Abul Gheit ha minacciato i dimostranti, ammonendoli che se l’opposizione non parteciperà al dialogo con lui alle condizioni da lui stabilite, e non porrà fine alle manifestazioni, ci sarà un colpo di stato nel paese, ironicamente egli stava facendo riferimento al golpe che aveva già architettato. L’esercito e l’apparato dei servizi segreti, con lui alla guida, avevano già assunto il controllo. Le sue osservazioni erano semplicemente una velata minaccia sulla legge marziale e sulla possibilità di legittimare il golpe.
Ciò che l’Occidente non comprende è che la “democrazia” per i vertici egiziani è una democrazia “à la de Tocqueville”. Secondo de Tocqueville, democrazia significa “uguaglianza di condizioni” piuttosto che elezioni politiche sulla base del principio “una persona, un voto”. Significa bilanciare le ingiustizie accumulatesi negli ultimi trent’anni, sbarazzarsi della corruzione e del dispotismo nella sfera pubblica e privata, e creare opportunità più eque nella ricerca di un impiego e nelle opportunità di investimento.
Personalmente continuo a ritenere che i Fratelli Musulmani possano rappresentare un pericolo per l’Egitto, e che la loro influenza su una popolazione in cui il tasso di analfabetismo supera il 30% non deve essere sottovalutata, soprattutto alle elezioni locali. Il loro peso potrebbe tuttavia essere ridimensionato se il governo ed altre istituzioni laiche fossero anch’essi in grado di fornire un sistema di protezione sociale analogo a quello che i Fratelli Musulmani offrono alla popolazione nel settore della salute e dell’assistenza sociale. L’istruzione è anch’essa una chiave per contrastare l’arretratezza – che sia religiosa o meno. Se ai giovani membri dei Fratelli Musulmani venissero offerte opportunità economiche, credo che sarebbero aperti ad un funzionamento pacifico della società e a dei compromessi democratici senza per questo abbandonare necessariamente le loro convinzioni religiose. Bisognerebbe inoltre notare che anche migliaia di cristiani stanno partecipando alla rivolta, sebbene essi nutrano dei sospetti nei confronti dei Fratelli Musulmani. Essi vogliono cogliere l’opportunità di un Egitto più equo e progressista.
Gli aiuti militari americani degli ultimi trent’anni all’Egitto non sono stati nient’altro che uno scandalo morale e una cantonata geostrategica di enormi proporzioni. Alcuni dei fondi che gli USA forniscono all’Egitto dovrebbero essere impiegati per assicurare personale agli ospedali, costruire scuole e sviluppare un sistema di protezione sociale laico.
I giovani egiziani hanno il diritto e l’opportunità di dimostrare che Suleiman si sbaglia quando afferma che l’Egitto non è pronto per la democrazia. Se realmente crediamo nella democrazia e nei diritti umani, abbiamo il dovere di aiutare gli egiziani a disegnare il proprio destino, e di appoggiare la loro aspirazione ad una vita migliore. Se non appoggiamo le forze laiche che sono all’opera ed emarginiamo gente come ElBaradei e molte altre rispettate personalità che chiedono il cambiamento, potremo biasimare solo noi stessi se i Fratelli Musulmani rimarranno la principale forza di opposizione in Egitto.
Invece di affidarci a Suleiman e volgere le spalle al popolo, dovremmo spingere qualche rispettato generale come Enan a giocare un ruolo importante nel convincere l’esercito a sovrintendere ad una transizione pacifica che porti ad una soluzione che sia accettabile per le forze laiche guidate da ElBaradei, per i Fratelli Musulmani, e molto probabilmente anche per i giovani di Piazza Tahrir. Sarebbe invece un tradimento permettere al golpe di Suleiman di avere successo.
Raouf Ebeid, egiziano-americano, è direttore del sito “Political Islam Online”; questo articolo è apparso originariamente il 09/02/2011
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8.2.11
È qui la festa
Massimo Gramellini
Il Centocinquantesimo dell’Italia Unita ricorda quelle feste di compleanno dell’adolescenza dove gli invitati all’ultimo danno buca o si trascinano per inerzia e col segreto desiderio di provocare qualche pasticcio. Ieri ci siamo persi il presidente della provincia di Bolzano: si sente un austriaco all’estero, ha fatto sapere che l’Alto Adige il 17 marzo non festeggerà. La presidente degli industriali, magnanima, quel giorno è pronta a stappare una bottiglia di spumante, ma sui luoghi di lavoro: niente vacanza, perché nell’economia globale occorre aumentare il pil anche sullo stomaco.
A quaranta giorni dal lieto evento gli italiani ignorano di che cosa si tratti (un lettore: «Non andavo alle feste dell’Unità quando c’era il partito comunista, si figuri adesso»), oppure se ne infischiano, oppure prendono a pretesto la ricorrenza dell’unità per tornare a dividersi daccapo. I borbonici vorrebbero trascinare i piemontesi davanti alla Corte di Giustizia dell’Aja. I padani si dividono fra chi considera Cavour vittima di Garibaldi e chi un connivente: imputato di concorso esterno nel reato di associazione italiana. Ma sotto sotto tutti gli italiani sono convinti di stare insieme per sbaglio, per un incidente della storia al quale rassegnarsi, ma di cui non menare vanto. La festa interessa solo a Napolitano e a un centinaio di torinesi eredi delle truppe di occupazione. Potremmo cavarcela col minimo del disturbo, invitando a cena il Presidente in una piola di Torino. Menù di bagna cauda, così all’uscita dispenseremo aliti di patriottismo alle popolazioni oppresse.
Il Centocinquantesimo dell’Italia Unita ricorda quelle feste di compleanno dell’adolescenza dove gli invitati all’ultimo danno buca o si trascinano per inerzia e col segreto desiderio di provocare qualche pasticcio. Ieri ci siamo persi il presidente della provincia di Bolzano: si sente un austriaco all’estero, ha fatto sapere che l’Alto Adige il 17 marzo non festeggerà. La presidente degli industriali, magnanima, quel giorno è pronta a stappare una bottiglia di spumante, ma sui luoghi di lavoro: niente vacanza, perché nell’economia globale occorre aumentare il pil anche sullo stomaco.
A quaranta giorni dal lieto evento gli italiani ignorano di che cosa si tratti (un lettore: «Non andavo alle feste dell’Unità quando c’era il partito comunista, si figuri adesso»), oppure se ne infischiano, oppure prendono a pretesto la ricorrenza dell’unità per tornare a dividersi daccapo. I borbonici vorrebbero trascinare i piemontesi davanti alla Corte di Giustizia dell’Aja. I padani si dividono fra chi considera Cavour vittima di Garibaldi e chi un connivente: imputato di concorso esterno nel reato di associazione italiana. Ma sotto sotto tutti gli italiani sono convinti di stare insieme per sbaglio, per un incidente della storia al quale rassegnarsi, ma di cui non menare vanto. La festa interessa solo a Napolitano e a un centinaio di torinesi eredi delle truppe di occupazione. Potremmo cavarcela col minimo del disturbo, invitando a cena il Presidente in una piola di Torino. Menù di bagna cauda, così all’uscita dispenseremo aliti di patriottismo alle popolazioni oppresse.
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5.2.11
Una partita cruciale per tutti noi
MARTA DASSU'
A giudicare dal Consiglio europeo, l’Ue sembra rimuovere la realtà: ciò che è in gioco, nella sollevazione delle piazze arabe, non è solo il futuro dell’Egitto e dei suoi cittadini. E’ anche il nostro futuro. Non perché Silvio Berlusconi sia l’ultimo Faraone Mediterraneo, come si ostina a sostenere qualcuno.
Né perché la protesta dei giovani arabi, come sostengono altri, «faccia parte» di un ciclo di tensioni connesse alla disoccupazione e alle frustrazioni delle nuove generazioni che si estenderà progressivamente in Europa. La ragione mi sembra un’altra, più netta: è un interesse vitale delle democrazie europee - in cui includo Israele - che la crisi delle vecchie satrapie arabe non prepari future dittature islamiche. Come ha scritto giustamente Tim Garton Ash, «se questo non è un interesse vitale europeo, non è chiaro cosa lo sia».
L’illusione, anche italiana, è che questo scenario possa essere evitato affidandosi a un passato che sta crollando: perché non tenersi Hosni Mubarak? Perché, risponde anche per noi l’amministrazione americana, il prezzo da pagare sarebbe di avallare una repressione sanguinosa e violenta nel nostro cortile di casa. Un’Europa che pretenda di fondarsi su principi e valori democratici non è più in grado di farlo, neanche se lo volesse.
Quali altri scenari restano, allora? Il primo è che l’esercito egiziano - l’unica vera forza organizzata del Paese - sia in grado di gestire il dopo Mubarak mettendo al potere un volto nuovo ma in sostanza controllato dalle Forze Armate. La rivolta d’Egitto, innescando una successione forzata, sfocerebbe così in una modernizzazione autoritaria, più accettabile di quella precedente. Se l’economia riprendesse e se ci fossero passi verso una redistribuzione sociale, la cosa potrebbe riuscire. Anche perché ciò che ha veramente motivato la protesta egiziana è l’emarginazione di larga parte della popolazione dai benefici della crescita: l’apartheid economico dell’Egitto, per riprendere il termine utilizzato da Hernando De Soto.
Il secondo scenario è che la protesta egiziana produca una democrazia di facciata, illiberale. Questa è la ragione per cui Israele avverte Barack Obama che l’analogia vera non è con le rivoluzioni democratiche europee ma con il 1979 iraniano: in Egitto, come in Iran, una protesta popolare con molte anime potrebbe essere alla fine scippata dalla sola struttura politica consistente nell’opposizione, i Fratelli Musulmani. Qui il dilemma, naturalmente, è di decidere cosa vogliano realmente i Fratelli Musulmani. Ha ragione chi sottolinea la loro netta distanza dagli ayatollah persiani o chi insiste sul rischio di una deriva iraniana? Io propenderei per la prima di queste due ipotesi; e ci sono molte ragioni per cui è difficile pensare che l’Egitto, Paese che si considera il «primo Stato arabo moderno», possa mai diventare uno Stato islamico. Ma è un’ipotesi da dimostrare. E va evitato un ragionamento troppo semplice: il fatto che il regime di Mubarak abbia usato strumentalmente la lotta al fondamentalismo islamico, non significa che un rischio del genere non esista.
Il terzo scenario è che il 2011 possa davvero segnare un primo passo verso le aspirazioni democratiche del principale Paese arabo. E’ una grande occasione per il Medio Oriente, che George W. Bush avrebbe voluto imporre dall’esterno partendo dall’Iraq; e che si verificherebbe, invece, come effetto della scossa interna egiziana. Ma come tutte le occasioni della storia, contiene dei rischi evidenti. Anche per Barack Obama. Il quale viene accusato, alternativamente, di essere un G. W. Bush riciclato (di puntare anche lui sull’esportazione della democrazia, rinunciando al realismo) o un Jimmy Carter di ritorno, con le stesse debolezze e con lo stesso problema di fondo: il rischio di perdere l’Egitto - alleato essenziale degli Stati Uniti e unico Paese in pace con Israele - come Carter perse l’Iran nel 1979.
Esiste un modo per sostenere le aspirazioni degli egiziani senza perdere l’Egitto? Questa è la partita essenziale: per i giovani egiziani, per l’America, per la sicurezza di Israele e per noi europei. L’Europa, se non riuscirà a parlare in nome del proprio interesse vitale, dovrebbe almeno aiutare Barack Obama a sottrarsi al dilemma di Carter: non per tornare a una «real-politica» fuori tempo massimo o per riciclarsi come nuovo Bush. Ma per riuscire, con un mix di realismo e idealismo, a vincere una partita cruciale e che riguarda anche noi.
A giudicare dal Consiglio europeo, l’Ue sembra rimuovere la realtà: ciò che è in gioco, nella sollevazione delle piazze arabe, non è solo il futuro dell’Egitto e dei suoi cittadini. E’ anche il nostro futuro. Non perché Silvio Berlusconi sia l’ultimo Faraone Mediterraneo, come si ostina a sostenere qualcuno.
Né perché la protesta dei giovani arabi, come sostengono altri, «faccia parte» di un ciclo di tensioni connesse alla disoccupazione e alle frustrazioni delle nuove generazioni che si estenderà progressivamente in Europa. La ragione mi sembra un’altra, più netta: è un interesse vitale delle democrazie europee - in cui includo Israele - che la crisi delle vecchie satrapie arabe non prepari future dittature islamiche. Come ha scritto giustamente Tim Garton Ash, «se questo non è un interesse vitale europeo, non è chiaro cosa lo sia».
L’illusione, anche italiana, è che questo scenario possa essere evitato affidandosi a un passato che sta crollando: perché non tenersi Hosni Mubarak? Perché, risponde anche per noi l’amministrazione americana, il prezzo da pagare sarebbe di avallare una repressione sanguinosa e violenta nel nostro cortile di casa. Un’Europa che pretenda di fondarsi su principi e valori democratici non è più in grado di farlo, neanche se lo volesse.
Quali altri scenari restano, allora? Il primo è che l’esercito egiziano - l’unica vera forza organizzata del Paese - sia in grado di gestire il dopo Mubarak mettendo al potere un volto nuovo ma in sostanza controllato dalle Forze Armate. La rivolta d’Egitto, innescando una successione forzata, sfocerebbe così in una modernizzazione autoritaria, più accettabile di quella precedente. Se l’economia riprendesse e se ci fossero passi verso una redistribuzione sociale, la cosa potrebbe riuscire. Anche perché ciò che ha veramente motivato la protesta egiziana è l’emarginazione di larga parte della popolazione dai benefici della crescita: l’apartheid economico dell’Egitto, per riprendere il termine utilizzato da Hernando De Soto.
Il secondo scenario è che la protesta egiziana produca una democrazia di facciata, illiberale. Questa è la ragione per cui Israele avverte Barack Obama che l’analogia vera non è con le rivoluzioni democratiche europee ma con il 1979 iraniano: in Egitto, come in Iran, una protesta popolare con molte anime potrebbe essere alla fine scippata dalla sola struttura politica consistente nell’opposizione, i Fratelli Musulmani. Qui il dilemma, naturalmente, è di decidere cosa vogliano realmente i Fratelli Musulmani. Ha ragione chi sottolinea la loro netta distanza dagli ayatollah persiani o chi insiste sul rischio di una deriva iraniana? Io propenderei per la prima di queste due ipotesi; e ci sono molte ragioni per cui è difficile pensare che l’Egitto, Paese che si considera il «primo Stato arabo moderno», possa mai diventare uno Stato islamico. Ma è un’ipotesi da dimostrare. E va evitato un ragionamento troppo semplice: il fatto che il regime di Mubarak abbia usato strumentalmente la lotta al fondamentalismo islamico, non significa che un rischio del genere non esista.
Il terzo scenario è che il 2011 possa davvero segnare un primo passo verso le aspirazioni democratiche del principale Paese arabo. E’ una grande occasione per il Medio Oriente, che George W. Bush avrebbe voluto imporre dall’esterno partendo dall’Iraq; e che si verificherebbe, invece, come effetto della scossa interna egiziana. Ma come tutte le occasioni della storia, contiene dei rischi evidenti. Anche per Barack Obama. Il quale viene accusato, alternativamente, di essere un G. W. Bush riciclato (di puntare anche lui sull’esportazione della democrazia, rinunciando al realismo) o un Jimmy Carter di ritorno, con le stesse debolezze e con lo stesso problema di fondo: il rischio di perdere l’Egitto - alleato essenziale degli Stati Uniti e unico Paese in pace con Israele - come Carter perse l’Iran nel 1979.
Esiste un modo per sostenere le aspirazioni degli egiziani senza perdere l’Egitto? Questa è la partita essenziale: per i giovani egiziani, per l’America, per la sicurezza di Israele e per noi europei. L’Europa, se non riuscirà a parlare in nome del proprio interesse vitale, dovrebbe almeno aiutare Barack Obama a sottrarsi al dilemma di Carter: non per tornare a una «real-politica» fuori tempo massimo o per riciclarsi come nuovo Bush. Ma per riuscire, con un mix di realismo e idealismo, a vincere una partita cruciale e che riguarda anche noi.
4.2.11
Egitto, l’ora della rivoluzione
di Jonathan Schell, traduzione di Laura Franza (da MicroMega)
Se il mondo ha un cuore, adesso sta battendo per l’Egitto. Certamente non per quello del presidente Mubarak, delle elezioni truccate, della stampa censurata, del blocco agli accessi internet, dei poliziotti vestiti di nero, dei carri armati e delle stanze di tortura, ma per l’Egitto dei comuni cittadini coraggiosi, quasi totalmente disarmati, che con poco più della loro pura presenza fisica in piazza e delle loro preghiere, stanno sfidando l’intero apparato intimidatorio e violento in nome della giustizia e della libertà. Il loro coraggio e sacrificio fa rinascere quello spirito non violento e democratico di resistenza alla dittatura che già trovò la sua espressione simbolica nella caduta del Muro di Berlino nel 1989. Quell’evento di fatto divenne il simbolo di una lunga stagione di rivoluzioni che, spandendosi a macchia d’olio, spazzò via dozzine di dittatori, dalle Filippine alla Polonia, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Recentemente quel contagio globale sembrava stesse venendo meno. Oggi in tutto il mondo i dittatori al potere sono di nuovo sulla difensiva. In Arabia Saudita la monarchia comincia a guardarsi le spalle. Lo Yemen ha ricevuto il preavviso. In Cina la parola ‘Egitto’ è stata cancellata da internet: "gli autocrati egiziani hanno tolto internet all’Egitto; gli autocrati cinesi hanno tolto l’Egitto da internet" (the Guardian, liveblog, 31 gennaio).
L' Egitto manifesta a pieno il mistero profondo e forse insondabile della rivoluzione. Per decenni le strutture di uno Stato oppressivo sovrastano la società, assassine, imperturbabili, implacabili. Le stanze della tortura lavorano 24 ore al giorno. La ricchezza del paese fluisce in conti segreti all’estero. Chi è ricco e privilegiato vive contento nelle riservate cerchie dei suoi simili. “Il lamento del soldato sventurato scorre via nel sangue giù per le mura del palazzo” (London, di William Blake). Spesso il sovrano accetta servilmente d’entrare nel libro paga di uno straniero. La nebbia della propaganda riempie l’aria come un gas venefico. Ritratti del Capo ricoprono i palazzi degli uffici pubblici. Una burocrazia irresponsabile intrappola il paese con migliaia di assurdi regolamenti. Al Kremlino mentre Leonid Brehnev dorme russando, con la sua ‘mano morta’ sfiora il bottone atomico. Imelda Marcos vive in comunione con le tremila paia di scarpe della sua gigantesca scarpiera. Ben Alì sorseggia cocktails nella sua tenuta ad Hammamet. Sembra che nulla debba mai cambiare, possa mai cambiare. Per usare le parole di Nadezhda Mandelstam a proposito del sistema staliniano “C’era una strana forma di letargia patologica, una malattia infettiva, una trance ipnotica o comunque la si voglia chiamare, che investiva chiunque commettesse azioni terribili. Assassini, provocatori, e informatori avevano tutti una caratteristica comune: non accadeva mai che un giorno le loro vittime potessero levarsi ancora e parlare”. Soltanto poche voci ‘dissidenti’ disturbano quella quiete, e la maggior parte di loro è in prigione o in esilio.
Ma poi improvvisamente una scossa percorre l’intero edificio. Poche migliaia di persone scendono in piazza, poi sono decine di migliaia, poi, come per magia, centinaia di migliaia in tutto il paese. In qualche modo questa ribellione – esplosa in soli pochi giorni – diventa sufficiente. Il suo spirito sembra toccare il nervo di un’intera nazione, che si risveglia, e con una facilità sorprendente si sbarazza di un regime a lungo odiato ma tollerato. (Nella vicina Tunisia, la miccia che ha innescato la bomba egiziana, ci sono voluti soli 23 giorni dall’inizio al momento in cui Ben Alì è salito sul suo aereo diretto in Arabia Saudita). Improvvisamente, tutte le regole cambiano, tutti i vecchi rapporti di autorità e dipendenza vengono rovesciati, e le strutture di potere cominciano a dissolversi. In seguito, gli studiosi scopriranno ‘segni’ di quanto stava per accadere e persino ‘cause’ dell’evento, ma di fatto le rivoluzioni sono tra tutti gli eventi quelli meno previsti in anticipo, e ogni volta prendono il mondo alla sprovvista.
Comunque sappiamo ancora poco di quanto sta accadendo in questi momenti. Un popolo a lungo intimorito da una violenza di Stato si libera delle paure e, in un baleno, comincia a comportarsi in modo coraggioso. Il coraggio diventa contagioso quanto lo era una volta la paura e improvvisamente milioni di persone mettono in atto comportamenti di sfida e disobbedienza. A quel punto le ordinanze del dittatore non contano più e allora lui chiama l’aereo e fugge in Arabia Saudita. Per dirla con Hanna Arendt “La situazione cambia bruscamente. Non solo la ribellione non è domata, ma le armi stesse cambiano di mano, a volte, come nella rivoluzione ungherese, nel giro di poche ore ... Il drammatico crollo improvviso del potere che dà inizio alla rivoluzione rivela di colpo come l’obbedienza civile – alle leggi, ai legislatori, alle istituzioni – non è altro che un aspetto esteriore di consenso e appoggio” (Hannah Arendt, On Violence).
L’Egitto è chiaramente giunto a questa fase. E’ opinione comune ormai dire che tutto dipende dalla decisione dell’esercito di intervenire o meno. Cosa certamente vera in parte. Molto spesso l’ora della fine di un dittatore coincide con quella in cui i militari, coinvolti nello stato d’animo che permea il resto del paese, rifiutano di obbedire agli ordini oppure passano dall’altra parte [della barricata]. Ecco perché è tanto più significativo che già in molte occasioni in Egitto la folla, che intona “in pace, in pace” abbia abbracciato i soldati, quegli stessi che hanno poi permesso apertamente alla gente di salire sui carri armati nelle piazze, facendo il segno “V” per ‘vittoria’. “Il popolo, l’esercito: tutti dalla stessa parte”, intonano i manifestanti, pieni di speranza. Però in verità l’esercito nello scenario attuale è un secondo attore, il protagonista è sempre il popolo.
Questo spiega come mai alcuni titoli di stampa che recitano: l’Egitto è nel ‘caos’, si stanno sbagliando. Mai prima d’ora l’Egitto è stato teatro di tanta determinazione, mai è stato più risoluto.
E il governo degli Stati Uniti? Disperso in campo. Scagliandosi contro “la violenza da ogni parte” esso ha mancato in un primo momento di fare una scelta tra il popolo e il suo oppressore. L’amministrazione Obama ha dato prova di un totale errore di posizione quasi in forma caricaturale: embedded, meglio sarebbe dire direttamente in bed with (a letto con), con il potere costituito. In buona fede, all’inizio considera i poteri - quelli forti della società - per scontati e inamovibili. Poi comincia a trattare. (In tema di salute tratta con Big Pharma, in tema di finanza con Wall Street, in tema di guerra con i generali in capo, primo fra tutti David Petraeus). Poi quando il governo ha debitamente incassato la sua metà o magari una sola fetta della torta - una riforma sanitaria svuotata, i regolamenti finanziari stravolti, una data per il ritiro dall’Afghanistan vaga comprata con un aumento d’organico delle truppe – si rimette al buon cuore di questi poteri.
Nel caso in questione, il potere con cui il governo Usa si è invischiato è quello del dittatore egiziano Hosni Mubarak, alleato degli Stati Uniti da un trentennio, periodo nel quale ha ricevuto aiuti per oltre 60 miliardi di dollari. Persino mentre la folla stava affrontando la polizia in tutto l’Egitto, il segretario di Stato Clinton ha annunciato che il governo Mubarak era ‘stabile’– mostrando così ancora una volta la notevole capacità della mente umana di non vedere la realtà evidente davanti ai propri occhi e di sostituirla con le tranquillizzanti falsità che si vuole vedere. Il vicepresidente Joe Biden ha continuato nella stessa scìa dichiarando lui 'non avrebbe definito Mubarak un dittatore'. In seguito Obama ha invocato una "transizione ordinata" e che questa "inizi ora".
Instaurare un nuovo ordine delle cose è per certo un affare notoriamente difficile. Chiunque sa che il percorso di una rivoluzione è a zigzag, e che il risultato finale potrebbe non essere gradito. Il potere si sta disintegrando. E' nelle piazze. Qualcuno lo coglierà. Si creerà una nuova struttura, nel bene o nel male, e la lista di stati illegittimi usciti da una rivoluzione è lunga. Ma nulla finora nel comportamento degli egiziani nelle piazze ci spinge a prevedere che gli eventi prendano una tale piega. Per ora dobbiamo esprimere loro solidarietà.
Il tempo delle decisioni si avvicina. Nel momento in cui scrivo due grandi eserciti, il popolo egiziano e l'esercito egiziano, coesistono con difficoltà per le strade e le piazze del paese. I sicari fedeli a Mubarak sono stati sguinzagliati per attaccare i dimostranti. "1989" significa anche il massacro degli attivisti per i diritti civili a piazza Tienanmen in Cina. Oppure, come dobbiamo credere e sperare, lo spirito che anima il popolo può alla fine penetrare le più riposte cittadelle del potere, che si piegherà, dando vita a un ordine nuovo e migliore.
Se il mondo ha un cuore, adesso sta battendo per l’Egitto. Certamente non per quello del presidente Mubarak, delle elezioni truccate, della stampa censurata, del blocco agli accessi internet, dei poliziotti vestiti di nero, dei carri armati e delle stanze di tortura, ma per l’Egitto dei comuni cittadini coraggiosi, quasi totalmente disarmati, che con poco più della loro pura presenza fisica in piazza e delle loro preghiere, stanno sfidando l’intero apparato intimidatorio e violento in nome della giustizia e della libertà. Il loro coraggio e sacrificio fa rinascere quello spirito non violento e democratico di resistenza alla dittatura che già trovò la sua espressione simbolica nella caduta del Muro di Berlino nel 1989. Quell’evento di fatto divenne il simbolo di una lunga stagione di rivoluzioni che, spandendosi a macchia d’olio, spazzò via dozzine di dittatori, dalle Filippine alla Polonia, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Recentemente quel contagio globale sembrava stesse venendo meno. Oggi in tutto il mondo i dittatori al potere sono di nuovo sulla difensiva. In Arabia Saudita la monarchia comincia a guardarsi le spalle. Lo Yemen ha ricevuto il preavviso. In Cina la parola ‘Egitto’ è stata cancellata da internet: "gli autocrati egiziani hanno tolto internet all’Egitto; gli autocrati cinesi hanno tolto l’Egitto da internet" (the Guardian, liveblog, 31 gennaio).
L' Egitto manifesta a pieno il mistero profondo e forse insondabile della rivoluzione. Per decenni le strutture di uno Stato oppressivo sovrastano la società, assassine, imperturbabili, implacabili. Le stanze della tortura lavorano 24 ore al giorno. La ricchezza del paese fluisce in conti segreti all’estero. Chi è ricco e privilegiato vive contento nelle riservate cerchie dei suoi simili. “Il lamento del soldato sventurato scorre via nel sangue giù per le mura del palazzo” (London, di William Blake). Spesso il sovrano accetta servilmente d’entrare nel libro paga di uno straniero. La nebbia della propaganda riempie l’aria come un gas venefico. Ritratti del Capo ricoprono i palazzi degli uffici pubblici. Una burocrazia irresponsabile intrappola il paese con migliaia di assurdi regolamenti. Al Kremlino mentre Leonid Brehnev dorme russando, con la sua ‘mano morta’ sfiora il bottone atomico. Imelda Marcos vive in comunione con le tremila paia di scarpe della sua gigantesca scarpiera. Ben Alì sorseggia cocktails nella sua tenuta ad Hammamet. Sembra che nulla debba mai cambiare, possa mai cambiare. Per usare le parole di Nadezhda Mandelstam a proposito del sistema staliniano “C’era una strana forma di letargia patologica, una malattia infettiva, una trance ipnotica o comunque la si voglia chiamare, che investiva chiunque commettesse azioni terribili. Assassini, provocatori, e informatori avevano tutti una caratteristica comune: non accadeva mai che un giorno le loro vittime potessero levarsi ancora e parlare”. Soltanto poche voci ‘dissidenti’ disturbano quella quiete, e la maggior parte di loro è in prigione o in esilio.
Ma poi improvvisamente una scossa percorre l’intero edificio. Poche migliaia di persone scendono in piazza, poi sono decine di migliaia, poi, come per magia, centinaia di migliaia in tutto il paese. In qualche modo questa ribellione – esplosa in soli pochi giorni – diventa sufficiente. Il suo spirito sembra toccare il nervo di un’intera nazione, che si risveglia, e con una facilità sorprendente si sbarazza di un regime a lungo odiato ma tollerato. (Nella vicina Tunisia, la miccia che ha innescato la bomba egiziana, ci sono voluti soli 23 giorni dall’inizio al momento in cui Ben Alì è salito sul suo aereo diretto in Arabia Saudita). Improvvisamente, tutte le regole cambiano, tutti i vecchi rapporti di autorità e dipendenza vengono rovesciati, e le strutture di potere cominciano a dissolversi. In seguito, gli studiosi scopriranno ‘segni’ di quanto stava per accadere e persino ‘cause’ dell’evento, ma di fatto le rivoluzioni sono tra tutti gli eventi quelli meno previsti in anticipo, e ogni volta prendono il mondo alla sprovvista.
Comunque sappiamo ancora poco di quanto sta accadendo in questi momenti. Un popolo a lungo intimorito da una violenza di Stato si libera delle paure e, in un baleno, comincia a comportarsi in modo coraggioso. Il coraggio diventa contagioso quanto lo era una volta la paura e improvvisamente milioni di persone mettono in atto comportamenti di sfida e disobbedienza. A quel punto le ordinanze del dittatore non contano più e allora lui chiama l’aereo e fugge in Arabia Saudita. Per dirla con Hanna Arendt “La situazione cambia bruscamente. Non solo la ribellione non è domata, ma le armi stesse cambiano di mano, a volte, come nella rivoluzione ungherese, nel giro di poche ore ... Il drammatico crollo improvviso del potere che dà inizio alla rivoluzione rivela di colpo come l’obbedienza civile – alle leggi, ai legislatori, alle istituzioni – non è altro che un aspetto esteriore di consenso e appoggio” (Hannah Arendt, On Violence).
L’Egitto è chiaramente giunto a questa fase. E’ opinione comune ormai dire che tutto dipende dalla decisione dell’esercito di intervenire o meno. Cosa certamente vera in parte. Molto spesso l’ora della fine di un dittatore coincide con quella in cui i militari, coinvolti nello stato d’animo che permea il resto del paese, rifiutano di obbedire agli ordini oppure passano dall’altra parte [della barricata]. Ecco perché è tanto più significativo che già in molte occasioni in Egitto la folla, che intona “in pace, in pace” abbia abbracciato i soldati, quegli stessi che hanno poi permesso apertamente alla gente di salire sui carri armati nelle piazze, facendo il segno “V” per ‘vittoria’. “Il popolo, l’esercito: tutti dalla stessa parte”, intonano i manifestanti, pieni di speranza. Però in verità l’esercito nello scenario attuale è un secondo attore, il protagonista è sempre il popolo.
Questo spiega come mai alcuni titoli di stampa che recitano: l’Egitto è nel ‘caos’, si stanno sbagliando. Mai prima d’ora l’Egitto è stato teatro di tanta determinazione, mai è stato più risoluto.
E il governo degli Stati Uniti? Disperso in campo. Scagliandosi contro “la violenza da ogni parte” esso ha mancato in un primo momento di fare una scelta tra il popolo e il suo oppressore. L’amministrazione Obama ha dato prova di un totale errore di posizione quasi in forma caricaturale: embedded, meglio sarebbe dire direttamente in bed with (a letto con), con il potere costituito. In buona fede, all’inizio considera i poteri - quelli forti della società - per scontati e inamovibili. Poi comincia a trattare. (In tema di salute tratta con Big Pharma, in tema di finanza con Wall Street, in tema di guerra con i generali in capo, primo fra tutti David Petraeus). Poi quando il governo ha debitamente incassato la sua metà o magari una sola fetta della torta - una riforma sanitaria svuotata, i regolamenti finanziari stravolti, una data per il ritiro dall’Afghanistan vaga comprata con un aumento d’organico delle truppe – si rimette al buon cuore di questi poteri.
Nel caso in questione, il potere con cui il governo Usa si è invischiato è quello del dittatore egiziano Hosni Mubarak, alleato degli Stati Uniti da un trentennio, periodo nel quale ha ricevuto aiuti per oltre 60 miliardi di dollari. Persino mentre la folla stava affrontando la polizia in tutto l’Egitto, il segretario di Stato Clinton ha annunciato che il governo Mubarak era ‘stabile’– mostrando così ancora una volta la notevole capacità della mente umana di non vedere la realtà evidente davanti ai propri occhi e di sostituirla con le tranquillizzanti falsità che si vuole vedere. Il vicepresidente Joe Biden ha continuato nella stessa scìa dichiarando lui 'non avrebbe definito Mubarak un dittatore'. In seguito Obama ha invocato una "transizione ordinata" e che questa "inizi ora".
Instaurare un nuovo ordine delle cose è per certo un affare notoriamente difficile. Chiunque sa che il percorso di una rivoluzione è a zigzag, e che il risultato finale potrebbe non essere gradito. Il potere si sta disintegrando. E' nelle piazze. Qualcuno lo coglierà. Si creerà una nuova struttura, nel bene o nel male, e la lista di stati illegittimi usciti da una rivoluzione è lunga. Ma nulla finora nel comportamento degli egiziani nelle piazze ci spinge a prevedere che gli eventi prendano una tale piega. Per ora dobbiamo esprimere loro solidarietà.
Il tempo delle decisioni si avvicina. Nel momento in cui scrivo due grandi eserciti, il popolo egiziano e l'esercito egiziano, coesistono con difficoltà per le strade e le piazze del paese. I sicari fedeli a Mubarak sono stati sguinzagliati per attaccare i dimostranti. "1989" significa anche il massacro degli attivisti per i diritti civili a piazza Tienanmen in Cina. Oppure, come dobbiamo credere e sperare, lo spirito che anima il popolo può alla fine penetrare le più riposte cittadelle del potere, che si piegherà, dando vita a un ordine nuovo e migliore.
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Lazio batte Germania 23 a 1
Sergio Rizzo
I conti del Consiglio regionale: oltre alla sede un’«ambasciata» a Roma. Un milione 824mila gli stanziamenti per le spese di rappresentanza
«A costo zero!» aveva giurato Bruno Astorre. Ma come, la gente era costretta a tirare la cinghia, i cassintegrati stavano diventando un esercito, la disoccupazione giovanile galoppava e il nuovo Consiglio regionale del Lazio appena insediato si permetteva il lusso di spendere quattrini per fare un'inutile rivista di carta? Al tempo di Internet? Il vicepresidente Astorre si era sentito in dovere di mettere le mani avanti: «A costo zero!». Spese di stampa e distribuzione a parte, s'intende. Poi a qualcuno dev'essere venuto un dubbio.
«A costo zero» significa che il direttore resta senza busta paga? Non sia mai detto... Ecco perciò che il 2 dicembre scorso l'ufficio di presidenza del Consiglio, composto dal presidente Mario Abbruzzese (Pdl) e dai due vice Astorre (Pd) e Raffaele D'Ambrosio (Udc), ha fissato il compenso: 30 mila euro l'anno. Lo ha fatto con il voto contrario del consigliere dipietrista Claudio Bucci. E scatenando le reazioni del Verde Angelo Bonelli, autore di una infuocata interrogazione. Anche perché il direttore altri non è che il capo ufficio stampa del Consiglio Regionale Nicola Gargano, pubblicista, in pensione da qualche mese. Pensionato, e subito nominato direttore. Una pensione dignitosa, a giudicare dalle dimensioni del suo stipendio: 204.470 euro e 77 centesimi. Una retribuzione superiore di quasi il 30% a quella che sarebbe toccata al governatore della California, se Arnold Schwarzenegger non vi avesse rinunciato con una motivazione di decenza: «Sono già abbastanza ricco».
Immaginiamo cosa risponderanno a Bonelli. Magari useranno le stesse parole con cui Astorre aveva replicato a Francesco Di Frischia del Corriere nel bel mezzo delle polemiche: «Non sono certo questi gli sprechi che avvengono in Regione». Come dargli torto? Basta dare un'occhiata ai conti. Le spese per il Consiglio regionale, che già nel 2009 erano salite a 91 milioni, un anno dopo sono schizzate a 102 milioni. Un aumento di 11 milioni: il 12%. Alla faccia della crisi. E le previsioni per il 2011, sempre destinate in corso d'anno a decollare, parlano già di 103 milioni.
Perché allora cercare il pelo nell'uovo? Con 30 mila euro si paga appena un mese d'affitto del megaufficio «di rappresentanza» di 600 metri quadrati in via Poli, a due passi da Palazzo Chigi. A Roma. Per un Consiglio regionale che ha sede a Roma? Proprio. Volete mettere la comodità di dare gli appuntamenti in centro anziché costringere gli ospiti di riguardo a sobbarcarsi il viaggio fino agli uffici di via della Pisana? Questo scherzetto è costato ai contribuenti 320 mila euro l'anno per 9 anni, fino a quando l'attuale amministrazione non ha deciso di disdettare il contratto, in scadenza il prossimo giugno. Totale: 2 milioni 880 mila euro. Il regalino risale al 2002, quando governava la precedente amministrazione di centrodestra, e presidente della Regione era Francesco Storace. Beneficiaria, la società Milano 90 dell'immobiliarista Sergio Scarpellini che affitta alla Camera e al Senato con il sistema del global service, cioè tutto incluso, gli stabili dove sono gli studi dei parlamentari. Con accordi tali che alla fine dei fatidici 18 anni del periodo contrattuale la sola amministrazione di Montecitorio avrà sborsato 652 milioni. Una cifra al cui confronto quella pagata dal Consiglio regionale del Lazio non è che una briciola.
Magrissima consolazione. Prendiamo per esempio il consuntivo 2009, approvato qualche settimana fa. Le spese per le consulenze e gli onorari sono lievitate del 74% rispetto alle previsioni, da 6 a 10,4 milioni. Quelle per gli stipendi e le indennità dei consiglieri del 5,5%, da 19 a oltre 20 milioni. Gli stanziamenti per le spese di rappresentanza del presidente del Consiglio regionale sono passati da una cifra già astronomica di un milione e mezzo di euro a quella, siderale, di un milione 841 mila: 23 volte quello che tre anni prima aveva a disposizione il presidente della Repubblica tedesca Horst Kohler. Per non parlare del costo di «funzionamento» dei gruppi consiliari: più 12%, da 4 a 4,5 milioni. Siccome non è fissato un numero minimo di consiglieri per formare un gruppo, ognuno è libero di fare il proprio, autoproclamandosi capogruppo. Il che dà diritto a 7 assistenti, oltre all'auto di servizio, al telefonino e pure a un consistente aumento di stipendio: 891 euro e 50 centesimi netti al mese.
Come sa bene Francesco Pasquali, che ha appena costituito in solitudine il gruppo di Futuro e libertà staccandosi da quello del Pdl. Di cui fa parte la sua compagna Veronica Cappellaro, giovane ex consorte del nipote del fondatore del Msi, Giorgio Almirante, sponsorizzata direttamente da Silvio Berlusconi. Caso non unico né raro, quello di un gruppo composto da un solo consigliere. Al Consiglio regionale del Lazio ce ne sono addirittura 7, compresi naturalmente quei 4 spuntati dal niente nei soli dieci mesi trascorsi dalle elezioni di fine marzo 2010. Oltre a Pasquali si sono messi in proprio Mario Mei (Api), Rocco Pascucci (Mpa) e Antonio Paris. Solitario appartenente, quest'ultimo, a un gruppo comicamente battezzato «Misto».
I conti del Consiglio regionale: oltre alla sede un’«ambasciata» a Roma. Un milione 824mila gli stanziamenti per le spese di rappresentanza
«A costo zero!» aveva giurato Bruno Astorre. Ma come, la gente era costretta a tirare la cinghia, i cassintegrati stavano diventando un esercito, la disoccupazione giovanile galoppava e il nuovo Consiglio regionale del Lazio appena insediato si permetteva il lusso di spendere quattrini per fare un'inutile rivista di carta? Al tempo di Internet? Il vicepresidente Astorre si era sentito in dovere di mettere le mani avanti: «A costo zero!». Spese di stampa e distribuzione a parte, s'intende. Poi a qualcuno dev'essere venuto un dubbio.
«A costo zero» significa che il direttore resta senza busta paga? Non sia mai detto... Ecco perciò che il 2 dicembre scorso l'ufficio di presidenza del Consiglio, composto dal presidente Mario Abbruzzese (Pdl) e dai due vice Astorre (Pd) e Raffaele D'Ambrosio (Udc), ha fissato il compenso: 30 mila euro l'anno. Lo ha fatto con il voto contrario del consigliere dipietrista Claudio Bucci. E scatenando le reazioni del Verde Angelo Bonelli, autore di una infuocata interrogazione. Anche perché il direttore altri non è che il capo ufficio stampa del Consiglio Regionale Nicola Gargano, pubblicista, in pensione da qualche mese. Pensionato, e subito nominato direttore. Una pensione dignitosa, a giudicare dalle dimensioni del suo stipendio: 204.470 euro e 77 centesimi. Una retribuzione superiore di quasi il 30% a quella che sarebbe toccata al governatore della California, se Arnold Schwarzenegger non vi avesse rinunciato con una motivazione di decenza: «Sono già abbastanza ricco».
Immaginiamo cosa risponderanno a Bonelli. Magari useranno le stesse parole con cui Astorre aveva replicato a Francesco Di Frischia del Corriere nel bel mezzo delle polemiche: «Non sono certo questi gli sprechi che avvengono in Regione». Come dargli torto? Basta dare un'occhiata ai conti. Le spese per il Consiglio regionale, che già nel 2009 erano salite a 91 milioni, un anno dopo sono schizzate a 102 milioni. Un aumento di 11 milioni: il 12%. Alla faccia della crisi. E le previsioni per il 2011, sempre destinate in corso d'anno a decollare, parlano già di 103 milioni.
Perché allora cercare il pelo nell'uovo? Con 30 mila euro si paga appena un mese d'affitto del megaufficio «di rappresentanza» di 600 metri quadrati in via Poli, a due passi da Palazzo Chigi. A Roma. Per un Consiglio regionale che ha sede a Roma? Proprio. Volete mettere la comodità di dare gli appuntamenti in centro anziché costringere gli ospiti di riguardo a sobbarcarsi il viaggio fino agli uffici di via della Pisana? Questo scherzetto è costato ai contribuenti 320 mila euro l'anno per 9 anni, fino a quando l'attuale amministrazione non ha deciso di disdettare il contratto, in scadenza il prossimo giugno. Totale: 2 milioni 880 mila euro. Il regalino risale al 2002, quando governava la precedente amministrazione di centrodestra, e presidente della Regione era Francesco Storace. Beneficiaria, la società Milano 90 dell'immobiliarista Sergio Scarpellini che affitta alla Camera e al Senato con il sistema del global service, cioè tutto incluso, gli stabili dove sono gli studi dei parlamentari. Con accordi tali che alla fine dei fatidici 18 anni del periodo contrattuale la sola amministrazione di Montecitorio avrà sborsato 652 milioni. Una cifra al cui confronto quella pagata dal Consiglio regionale del Lazio non è che una briciola.
Magrissima consolazione. Prendiamo per esempio il consuntivo 2009, approvato qualche settimana fa. Le spese per le consulenze e gli onorari sono lievitate del 74% rispetto alle previsioni, da 6 a 10,4 milioni. Quelle per gli stipendi e le indennità dei consiglieri del 5,5%, da 19 a oltre 20 milioni. Gli stanziamenti per le spese di rappresentanza del presidente del Consiglio regionale sono passati da una cifra già astronomica di un milione e mezzo di euro a quella, siderale, di un milione 841 mila: 23 volte quello che tre anni prima aveva a disposizione il presidente della Repubblica tedesca Horst Kohler. Per non parlare del costo di «funzionamento» dei gruppi consiliari: più 12%, da 4 a 4,5 milioni. Siccome non è fissato un numero minimo di consiglieri per formare un gruppo, ognuno è libero di fare il proprio, autoproclamandosi capogruppo. Il che dà diritto a 7 assistenti, oltre all'auto di servizio, al telefonino e pure a un consistente aumento di stipendio: 891 euro e 50 centesimi netti al mese.
Come sa bene Francesco Pasquali, che ha appena costituito in solitudine il gruppo di Futuro e libertà staccandosi da quello del Pdl. Di cui fa parte la sua compagna Veronica Cappellaro, giovane ex consorte del nipote del fondatore del Msi, Giorgio Almirante, sponsorizzata direttamente da Silvio Berlusconi. Caso non unico né raro, quello di un gruppo composto da un solo consigliere. Al Consiglio regionale del Lazio ce ne sono addirittura 7, compresi naturalmente quei 4 spuntati dal niente nei soli dieci mesi trascorsi dalle elezioni di fine marzo 2010. Oltre a Pasquali si sono messi in proprio Mario Mei (Api), Rocco Pascucci (Mpa) e Antonio Paris. Solitario appartenente, quest'ultimo, a un gruppo comicamente battezzato «Misto».
3.2.11
Berlusconi 25 anni fa? Bungabunga uguale
di Valentina Avon (dal Barbiere della Sera)
"Seratine di piacere in casa Berlusconi". Un Giorgio Bocca d'annata. Da un Frigidaire del 1985. Come fosse oggi
Non sono mai stato uno di quei moralisti che piangono per l'esistenza dei network, della libera concorrenza e del denaro, anzi mi sono sempre adeguato al mutare dei tempi, cercando di vivere decorosamente e in agiatezza senza troppo sottilizzare su chi mi dava pane e companatico.
Ma - nonostante ciò - sento oggi la necessità di parlare di una storia che ho saputo grazie alle intime confidenze di un'amica, ricca e facoltosa signora della borghesia lombarda.
A quanto mi ha raccontato la mia amica, persona in tutto degna di fede, il dottor Silvio Berlusconi, il famoso proprietario delle TV private più importanti e di numerosi giornali a grande tiratura, come il famigerato TV Sorrisi e Canzoni, organizza periodicamente a casa sua delle "seratine televisive".
Il titolo curiosamente familiare nasconde in realtà un gioco di società assai divertente e appetitoso che il geniale imprenditore piduista ha inventato per sé e per i suoi più fidati amici (qualche socialista cocainomane, qualche industriale, qualche mafioso). Il gruppo, riunito come in un racconto del marchese De Sade davanti alla TV, sceglie ogni sera, tra presentatrici, ballerine e showgirls dei programmi di Retequattro, Italia1 e Canale 5, quelle che dovranno essere chiamate a soddisfare le voglie dei presenti in un crescendo di situazioni viziose.
Basta poi una telefonata del boss e ai direttori di rete mandano a casa Berlusconi, impacchettate e pronte a tutto, le schiave della serata. Programmi specificamente allestiti, come Viva le donne, M'ama non m'ama, Drive In, ecc. assicurano il giusto flusso di carne fresca per il "divino Silvio".
Ora io non voglio fare un discorso moralista, né spezzare una lancia a favore della castità. Riconosco al dottor Berlusconi un grande senso pratico in queste faccende e non discuto neppuere sul fatto che lui si diverta così. Ma non posso non sentirmi infastidito se penso che, tra i tanti "amici" che sono stati invitati a godersi le ballerine e le presentatrici, il mio nome non figura mai.
L'Italia è proprio un paese in cui il merito viene spesso calpestato e dove trionfa l'ipocrisia, il partitismo, il denaro. Sono andati a passare qualche ora da Berlusconi, ora presidenti del consiglio, ora presidenti di banche, ora camorristi, ora rapitori e riciclatori di denaro sporco, ora trafficanti di cocaina, ora assassini prezzolati, ma non è mai stato invitato nessun uomo di cultura, nessun intellettuale e - senza voler essere demagoghi - nessun proletario.
Come mai? Eppure - faccio notare - io, come tanti altri intellettuali, lavoriamo per Berlusconi, partecipiamo ai suoi programmi, rendiamo culturalmente accettabili anche le puttanate più forti del network. E credo che ci meriteremmo almeno una piccola ballerina.
Parlo per me, ma penso di interpretare anche il pensiero dei colleghi Arrigo Levi e Guglielmo Zucconi, nonché Maurizio Costanzo dell'Occhio Nero - pur essendo il più brutto di tutti noi -, che comunque fa storia a sé, essendo nato in passato e forse ancor ora, membro della stessa loggia dei boss.
Mi si potrebbe obiettare: perché non telefoni tu stesso ai direttori dei programmi per farti mandare a casa presentatrici e gnoccolone varie? Inutile, ho provato, per scrupolo di cronista, a fare dei tentativi. Ogni volta mi sono sentito sghignazzare in faccia. Insomma senza un invito di Berlusconi non riuscirò mai a partecipare a una vera serata di piacere.
E questo, come ex partigiano e come uomo, mi secca abbastanza. Devo pensare che la colpa vada attribuita al mio maledetto riportino, che certe volte il vento agita fino a mostrare il bianco della pelata?
Riportino sì o no, dispiace che un imprenditore così accorto come Berlusconi sottovaluti gli intellettuali, proprio quando si tratta di spartirsi "la gnocca".
(Giorgio Bocca per Frizzer - Frigidaire, giugno 1985)
"Seratine di piacere in casa Berlusconi". Un Giorgio Bocca d'annata. Da un Frigidaire del 1985. Come fosse oggi
Non sono mai stato uno di quei moralisti che piangono per l'esistenza dei network, della libera concorrenza e del denaro, anzi mi sono sempre adeguato al mutare dei tempi, cercando di vivere decorosamente e in agiatezza senza troppo sottilizzare su chi mi dava pane e companatico.
Ma - nonostante ciò - sento oggi la necessità di parlare di una storia che ho saputo grazie alle intime confidenze di un'amica, ricca e facoltosa signora della borghesia lombarda.
A quanto mi ha raccontato la mia amica, persona in tutto degna di fede, il dottor Silvio Berlusconi, il famoso proprietario delle TV private più importanti e di numerosi giornali a grande tiratura, come il famigerato TV Sorrisi e Canzoni, organizza periodicamente a casa sua delle "seratine televisive".
Il titolo curiosamente familiare nasconde in realtà un gioco di società assai divertente e appetitoso che il geniale imprenditore piduista ha inventato per sé e per i suoi più fidati amici (qualche socialista cocainomane, qualche industriale, qualche mafioso). Il gruppo, riunito come in un racconto del marchese De Sade davanti alla TV, sceglie ogni sera, tra presentatrici, ballerine e showgirls dei programmi di Retequattro, Italia1 e Canale 5, quelle che dovranno essere chiamate a soddisfare le voglie dei presenti in un crescendo di situazioni viziose.
Basta poi una telefonata del boss e ai direttori di rete mandano a casa Berlusconi, impacchettate e pronte a tutto, le schiave della serata. Programmi specificamente allestiti, come Viva le donne, M'ama non m'ama, Drive In, ecc. assicurano il giusto flusso di carne fresca per il "divino Silvio".
Ora io non voglio fare un discorso moralista, né spezzare una lancia a favore della castità. Riconosco al dottor Berlusconi un grande senso pratico in queste faccende e non discuto neppuere sul fatto che lui si diverta così. Ma non posso non sentirmi infastidito se penso che, tra i tanti "amici" che sono stati invitati a godersi le ballerine e le presentatrici, il mio nome non figura mai.
L'Italia è proprio un paese in cui il merito viene spesso calpestato e dove trionfa l'ipocrisia, il partitismo, il denaro. Sono andati a passare qualche ora da Berlusconi, ora presidenti del consiglio, ora presidenti di banche, ora camorristi, ora rapitori e riciclatori di denaro sporco, ora trafficanti di cocaina, ora assassini prezzolati, ma non è mai stato invitato nessun uomo di cultura, nessun intellettuale e - senza voler essere demagoghi - nessun proletario.
Come mai? Eppure - faccio notare - io, come tanti altri intellettuali, lavoriamo per Berlusconi, partecipiamo ai suoi programmi, rendiamo culturalmente accettabili anche le puttanate più forti del network. E credo che ci meriteremmo almeno una piccola ballerina.
Parlo per me, ma penso di interpretare anche il pensiero dei colleghi Arrigo Levi e Guglielmo Zucconi, nonché Maurizio Costanzo dell'Occhio Nero - pur essendo il più brutto di tutti noi -, che comunque fa storia a sé, essendo nato in passato e forse ancor ora, membro della stessa loggia dei boss.
Mi si potrebbe obiettare: perché non telefoni tu stesso ai direttori dei programmi per farti mandare a casa presentatrici e gnoccolone varie? Inutile, ho provato, per scrupolo di cronista, a fare dei tentativi. Ogni volta mi sono sentito sghignazzare in faccia. Insomma senza un invito di Berlusconi non riuscirò mai a partecipare a una vera serata di piacere.
E questo, come ex partigiano e come uomo, mi secca abbastanza. Devo pensare che la colpa vada attribuita al mio maledetto riportino, che certe volte il vento agita fino a mostrare il bianco della pelata?
Riportino sì o no, dispiace che un imprenditore così accorto come Berlusconi sottovaluti gli intellettuali, proprio quando si tratta di spartirsi "la gnocca".
(Giorgio Bocca per Frizzer - Frigidaire, giugno 1985)
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Altre domande?
Massimo Gramellini
1. Presidente, negli ultimi due anni l’Italia ha tenuto alto l’argine della stabilità dei conti, come hanno riconosciuto l’Europa e il Fondo Monetario Internazionale. Ora è il momento di tornare a crescere. In che modo?
2. Molti analisti affermano che l’Italia è ancora un Gulliver, ovvero un gigante bloccato da lacci e laccioli. Lei è sceso in politica nel 1994 promettendo la rivoluzione liberale. Per dare una scossa alla nostra economia è arrivato il momento di andare fino in fondo?
3. Proprio su questi temi lei ha fatto una proposta all’opposizione che ha risposto che non è credibile. Ma dietro questo rifiuto, secondo lei, aleggia il partito della patrimoniale, la vecchia ricetta che per risolvere i conti della nostra economia punta sempre sulla scorciatoia dell’aumento della pressione fiscale?
Domande dure, niente da dire. Di quelle che lavorano ai fianchi l’interlocutore, specie nel caso in cui soffra di solletico. A volte capita di leggerle anche sui giornali, ma sussurrate all’ora di cena sul primo canale della tv di Stato fanno tutto un altro effetto. Pur intimidito dalla prospettiva di trovarmi al cospetto di un superuomo che teneva entrambe le mani sopra la cartina geografica del mondo intero, al posto dell’intervistatore del Tg1 avrei approfittato della storica circostanza per rivolgere a Berlusconi una domanda ancora più insidiosa.
4. Presidente, come va?
1. Presidente, negli ultimi due anni l’Italia ha tenuto alto l’argine della stabilità dei conti, come hanno riconosciuto l’Europa e il Fondo Monetario Internazionale. Ora è il momento di tornare a crescere. In che modo?
2. Molti analisti affermano che l’Italia è ancora un Gulliver, ovvero un gigante bloccato da lacci e laccioli. Lei è sceso in politica nel 1994 promettendo la rivoluzione liberale. Per dare una scossa alla nostra economia è arrivato il momento di andare fino in fondo?
3. Proprio su questi temi lei ha fatto una proposta all’opposizione che ha risposto che non è credibile. Ma dietro questo rifiuto, secondo lei, aleggia il partito della patrimoniale, la vecchia ricetta che per risolvere i conti della nostra economia punta sempre sulla scorciatoia dell’aumento della pressione fiscale?
Domande dure, niente da dire. Di quelle che lavorano ai fianchi l’interlocutore, specie nel caso in cui soffra di solletico. A volte capita di leggerle anche sui giornali, ma sussurrate all’ora di cena sul primo canale della tv di Stato fanno tutto un altro effetto. Pur intimidito dalla prospettiva di trovarmi al cospetto di un superuomo che teneva entrambe le mani sopra la cartina geografica del mondo intero, al posto dell’intervistatore del Tg1 avrei approfittato della storica circostanza per rivolgere a Berlusconi una domanda ancora più insidiosa.
4. Presidente, come va?
2.2.11
Potenza (e limiti) della Rete
di M. Mantellini
La rivolta di piazza egiziana stravolge le nostre convinzioni sulla realtà del Web. Che è meno libero e meno irresistibile di quanto sperato. Ma è pervasivo abbastanza da funzionare da collante oltre il virtuale
Cautela. Se c'è una parola che i recenti tumulti di piazza che hanno interessato la Tunisia e l'Egitto dovrebbero suggerire a quanti analizzano gli impatti della comunicazione di Rete, quella parola è cautela. Non tutto è chiaro. Molte delle nostre consolidate convinzioni sono andate a gambe all'aria durante la rivolta popolare per le strade del Cairo in questi ultimi giorni, altre hanno mostrato la propria grande fragilità.
Internet intanto: abbiamo per anni sottolineato come la sua forma distribuita fosse un antidoto al controllo di governi e dittatori, come fosse tecnicamente impossibile controllarne tutti i nodi e come i bit sapessero sempre scegliere il percorso per raggiungere la loro destinazione. Ebbene, nella notte fra giovedì e venerdì, poco dopo la mezzanotte, il governo egiziano Internet l'ha invece spenta, senza grandi difficoltà. Ha convocato gli operatori delle telecomunicazioni del paese, quattro o cinque in tutto, e ha detto loro "staccate i fili, spegnete la rete!". E quelli l'hanno spenta, con tanti cari saluti alla architettura distribuita e al sacro ruolo della libera circolazione delle idee. Promemoria per il futuro: usare un po' di cautela prima di considerare Internet come il ruscello che trova comunque la strada per giungere al mare. Può accadere che non sia così.
Seconda cautela. I sociologi e gli opinionisti, anche quelli bravi come Malcom Gladwell, si considerino avvisati: le analisi a tavolino delle ragioni per le quali i fili di Rete sono fili deboli, inadatti ai grandi sommovimenti sociali, hanno in questi giorni - per così dire - mostrato tutta la propria fragilità ed elegante inconsistenza. Le reti sociali ed il passaparola sono stati fondamentali nell'organizzazione delle proteste tunisine ed egiziane, proteste di piazza, notturne, rabbiose di urla e sangue e non, come sosteneva elegantemente Gladwell dalle colonne del New Yorker qualche mese fa, viziate da effetti di sostituzione (la Rete al posto della piazza, i click al posto delle urla di protesta) o di scarsa gestione gerarchica dell'emergenza.
Non tutto è dotto e cervellotico negli utilizzi di Rete, per esempio in questi giorni si moltiplicavano gli inviti al Cairo ad aprire le reti WiFi casalinghe eliminando le password di protezione, così che chiunque potesse comunicare. Fili deboli pure questi?
Terza cautela: la rete vecchia funziona meglio della nuova. Esiste da qualche anno una continua sottolineatura della grande funzione di collante comunicativo svolto dai social network durante le emergenze. C'è molto compiacimento in tutto questo e spesso il ruolo di Twitter in contesti come le proteste in Iran di qualche mese fa è uscito fortemente enfatizzato. È affascinante descrivere un nuovo sistema comunicativo leggero e veloce che passa fra le gambe del tiranno. Questo anche in situazioni nelle quali, come quella iraniana, il suo ruolo è stato poi ampiamente ridimensionato.
Prima che le autorità egiziane staccassero la presa della Rete girava fra i manifestanti egiziani questo annuncio, pubblicato, non senza polemiche, da The Atlantic (la parte che ci interessa maggiormente nella sua traduzione in inglese è questa):
"Please distribuite through email, printing and photocopies ONLY. Twitter and Facebook are been monitorated. Be careful not to let fall this into the hands of the police or state security"
Piccole perle di saggezza internettiana? All'imbuto dei social network (che sono facilmente controllabili dal regime) preferite il mare magnum della comunicazione punto a punto. Ci vuole cautela di fronte ad evidenze del genere, prima di raccontare ancora una volta la bella fiaba dei cittadini salvati da Twitter. Internet è grande e fenomenale, specie se le proteste viaggiano lontano dalle piattaforme proprietarie.
Quarta cautela: Internet non è il solo medium importante. Le TV in certi contesti lo sono, se possibile, anche di più. Abbandoniamo per una volta l'elitismo da fan delle reti digitali per dare il giusto rilievo a quanto accaduto. Il mondo, tutto il mondo, è rimasto in questi giorni incollato al flusso video di Al Jazeera che ha trasmesso come ha potuto, con grande continuità e coraggio, dall'Egitto in fiamme. Nella nazione ribollente e senza Internet che improvvisamente scende in piazza sfidando il coprifuoco, le immagini di buon giornalismo televisivo scese dal satellite hanno contato più di Twitter e Facebook messi assieme.
La rivolta di piazza egiziana stravolge le nostre convinzioni sulla realtà del Web. Che è meno libero e meno irresistibile di quanto sperato. Ma è pervasivo abbastanza da funzionare da collante oltre il virtuale
Cautela. Se c'è una parola che i recenti tumulti di piazza che hanno interessato la Tunisia e l'Egitto dovrebbero suggerire a quanti analizzano gli impatti della comunicazione di Rete, quella parola è cautela. Non tutto è chiaro. Molte delle nostre consolidate convinzioni sono andate a gambe all'aria durante la rivolta popolare per le strade del Cairo in questi ultimi giorni, altre hanno mostrato la propria grande fragilità.
Internet intanto: abbiamo per anni sottolineato come la sua forma distribuita fosse un antidoto al controllo di governi e dittatori, come fosse tecnicamente impossibile controllarne tutti i nodi e come i bit sapessero sempre scegliere il percorso per raggiungere la loro destinazione. Ebbene, nella notte fra giovedì e venerdì, poco dopo la mezzanotte, il governo egiziano Internet l'ha invece spenta, senza grandi difficoltà. Ha convocato gli operatori delle telecomunicazioni del paese, quattro o cinque in tutto, e ha detto loro "staccate i fili, spegnete la rete!". E quelli l'hanno spenta, con tanti cari saluti alla architettura distribuita e al sacro ruolo della libera circolazione delle idee. Promemoria per il futuro: usare un po' di cautela prima di considerare Internet come il ruscello che trova comunque la strada per giungere al mare. Può accadere che non sia così.
Seconda cautela. I sociologi e gli opinionisti, anche quelli bravi come Malcom Gladwell, si considerino avvisati: le analisi a tavolino delle ragioni per le quali i fili di Rete sono fili deboli, inadatti ai grandi sommovimenti sociali, hanno in questi giorni - per così dire - mostrato tutta la propria fragilità ed elegante inconsistenza. Le reti sociali ed il passaparola sono stati fondamentali nell'organizzazione delle proteste tunisine ed egiziane, proteste di piazza, notturne, rabbiose di urla e sangue e non, come sosteneva elegantemente Gladwell dalle colonne del New Yorker qualche mese fa, viziate da effetti di sostituzione (la Rete al posto della piazza, i click al posto delle urla di protesta) o di scarsa gestione gerarchica dell'emergenza.
Non tutto è dotto e cervellotico negli utilizzi di Rete, per esempio in questi giorni si moltiplicavano gli inviti al Cairo ad aprire le reti WiFi casalinghe eliminando le password di protezione, così che chiunque potesse comunicare. Fili deboli pure questi?
Terza cautela: la rete vecchia funziona meglio della nuova. Esiste da qualche anno una continua sottolineatura della grande funzione di collante comunicativo svolto dai social network durante le emergenze. C'è molto compiacimento in tutto questo e spesso il ruolo di Twitter in contesti come le proteste in Iran di qualche mese fa è uscito fortemente enfatizzato. È affascinante descrivere un nuovo sistema comunicativo leggero e veloce che passa fra le gambe del tiranno. Questo anche in situazioni nelle quali, come quella iraniana, il suo ruolo è stato poi ampiamente ridimensionato.
Prima che le autorità egiziane staccassero la presa della Rete girava fra i manifestanti egiziani questo annuncio, pubblicato, non senza polemiche, da The Atlantic (la parte che ci interessa maggiormente nella sua traduzione in inglese è questa):
"Please distribuite through email, printing and photocopies ONLY. Twitter and Facebook are been monitorated. Be careful not to let fall this into the hands of the police or state security"
Piccole perle di saggezza internettiana? All'imbuto dei social network (che sono facilmente controllabili dal regime) preferite il mare magnum della comunicazione punto a punto. Ci vuole cautela di fronte ad evidenze del genere, prima di raccontare ancora una volta la bella fiaba dei cittadini salvati da Twitter. Internet è grande e fenomenale, specie se le proteste viaggiano lontano dalle piattaforme proprietarie.
Quarta cautela: Internet non è il solo medium importante. Le TV in certi contesti lo sono, se possibile, anche di più. Abbandoniamo per una volta l'elitismo da fan delle reti digitali per dare il giusto rilievo a quanto accaduto. Il mondo, tutto il mondo, è rimasto in questi giorni incollato al flusso video di Al Jazeera che ha trasmesso come ha potuto, con grande continuità e coraggio, dall'Egitto in fiamme. Nella nazione ribollente e senza Internet che improvvisamente scende in piazza sfidando il coprifuoco, le immagini di buon giornalismo televisivo scese dal satellite hanno contato più di Twitter e Facebook messi assieme.
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1.2.11
L'occasione che perderemo
di LUCIO CARACCIOLO
L'Egitto è un'occasione che perderemo. L'occasione è storica: spezzare nel più strategico paese arabo il circolo vizioso di miseria, frustrazione, regimi di polizia e terrorismo - spesso alimentato dai regimi stessi per ottenere soldi e status dall'Occidente - che destabilizza Nordafrica e Vicino Oriente fino al Golfo e oltre. Il successo della rivoluzione avvierebbe la transizione a un Egitto "normale", con un potere politico legittimato dal popolo.
Dopo la scintilla tunisina, il segno che la nostra frontiera sud-orientale può cambiare. In meglio. Avvicinandosi ai nostri standard di libertà e democrazia. Cogliendo le opportunità di sviluppo perse per l'avidità delle élite postcoloniali, impegnate a coltivare le proprie rendite, indifferenti a una società giovane, esigente.
L'Italia più di qualsiasi altra nazione europea dovrebbe appassionarsi al sommovimento in corso lungo la Quarta Sponda. Chi più di noi dovrebbe interessarsi alla ricostruzione del circuito mediterraneo, destinato a intercettare la quasi totalità dei flussi commerciali fra Asia ed Europa, di cui saremmo naturalmente il centro? A chi più che a noi conviene la graduale composizione della frattura tra le sponde Nord e Sud del "nostro mare"? O davvero pensiamo sia possibile erigere una barriera impenetrabile in mezzo al Mediterraneo? Qualcuno pensa ancora che lo sviluppo del Sud del mondo sia una minaccia e non una formidabile risorsa per il nostro stesso sviluppo - anzi, la condizione perché non si arresti?
Eppure Roma tace. Il nostro governo ha trovato modo di non esprimersi fino a sabato. Meglio così, forse, visto che quando ha parlato - via Frattini - nessuno se n'è accorto. Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla "nipote". Stiamo perdendo l'occasione di incidere in una svolta storica - stavolta l'aggettivo è pertinente - che riguarda molto da vicino la vita nostra, soprattutto dei nostri figli e nipoti.
Se anche i militari riuscissero ad affogare nel sangue le aspettative della piazza, la rivoluzione egiziana ha ormai sancito che il paradigma delle dinastie parassitarie, incentivato dai governi occidentali, non garantisce più nessuno. Certamente non i popoli che opprime. Ma nemmeno noi europei. Quei regimi significano solo caos, repressione e miseria. L'ambiente ideale per i jihadisti. I quali, non dimentichiamolo mai, sono incistati nelle nostre metropoli. Se sbagliamo politica in Egitto, in Tunisia o in altri paesi del nostro Sud, il prezzo lo paghiamo in casa.
Un sobrio accertamento dello stato delle cose dovrebbe indurre il nostro governo a mobilitare ogni risorsa a sostegno dei cambiamenti in atto sulla sponda africana del Mediterraneo. Se ciò non accade, non è solo colpa di Berlusconi o Frattini, ma della rimozione che l'Italia ha compiuto di se stessa. Della sua geografia e della sua storia. Nel centocinquantesimo anniversario dell'Unità è duro ammetterlo. Ma è un fatto: non sappiamo dove siamo né da dove veniamo.
Così abbiamo dimenticato che per secoli l'Egitto è stato fecondato dalla nostra diaspora. Come l'intero bacino del Sud Mediterraneo, dove un secolo fa viveva quasi un milione di connazionali. Operai, artigiani, ma anche banchieri, architetti e burocrati pubblici.
Nell'Egitto khedivale l'italiano era lingua franca, usata nell'amministrazione pubblica. Un tipografo di origine livornese, Pietro Michele Meratti, vi fondò nel 1828 il primo servizio di corrieri privati, la Posta Europea, poi assurto a monopolio pubblico. Le diciture delle prime serie di francobolli egiziani erano in italiano. Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del "liberty alessandrino" sono ancora visibili. La nostra egittologia ha una lunga tradizione. Come in genere le nostre missioni archeologiche orientali, fra le principali fonti d'intelligence quando i servizi segreti erano ancora qualcosa di serio.
Di questo e delle nostre tradizioni levantine in genere cercheremmo vanamente una trattazione nei manuali scolastici. E' storia rimossa. Eppure ancora oggi molto del residuo capitale di simpatia di cui godiamo nella regione si fonda su tali memorie. Basterebbe poco per ravvivarle. Nell'immediato, anche un gesto simbolico.
A Torino abbiamo il più importante museo di antichità egizie dopo quello del Cairo, oggetto di sospetti vandalismi nelle prime fasi dei disordini. Sarebbe forse utile uno sforzo sostenuto dai poteri pubblici e da fondazioni private per dare concreto seguito alla profezia di Jean-François Champollion, il decifratore della Stele di Rosetta: "La strada per Menfi e Tebe passa da Torino". Finanziare e sostenere la messa in sicurezza del Museo del Cairo e dei suoi reperti significa non solo salvare un giacimento culturale di valore universale, ma un atto di rispetto per la pietra angolare dell'identità egiziana. Quell'identità che i nostri levantini contribuirono a resuscitare e che le piazze egiziane oggi vogliono riscattare.
Eppure nell'immaginario collettivo (ossia televisivo) sembra che l'Egitto sia un qualsiasi pezzo d'Africa, un arcipelago di miserie e arretratezze. Più le piramidi e Sharm el-Sheikh. Ma da dove spuntano i giovani anglofoni che maneggiano twitter e Facebook - già ribattezzato Sawrabook, "libro della rivoluzione" - e rischiano la vita per la libertà?
Per anni abbiamo vissuto di verità ricevute. Un eterno fermo immagine. Intanto, la società civile egiziana cresceva, si strutturava. Ci sono certo i Fratelli musulmani, un arcipelago dalle mille ambiguità, che Mubarak ci ha rivenduto con successo come banda di terroristi. Ma ci sono anche laici, cristiani, nazionalisti, socialisti, gente che semplicemente non ne può più della "repubblica ereditaria". Quanto meno daremo ascolto e supporto alle loro istanze, tanto più il rischio di una deriva islamista diverrà concreto. E' quanto sperano Suleiman e gli altri anziani ufficiali drogati da decenni di potere incontrastato. Per riproporre e rivenderci il muro contro muro.
Obama e alcuni leader europei forse cominciano a capirlo. Fra cautele ed esitazioni invitano a voltare pagina. Non noi italiani. Continuiamo ad aggrapparci a un Egitto che non c'è più. L'Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà. La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua.
L'Egitto è un'occasione che perderemo. L'occasione è storica: spezzare nel più strategico paese arabo il circolo vizioso di miseria, frustrazione, regimi di polizia e terrorismo - spesso alimentato dai regimi stessi per ottenere soldi e status dall'Occidente - che destabilizza Nordafrica e Vicino Oriente fino al Golfo e oltre. Il successo della rivoluzione avvierebbe la transizione a un Egitto "normale", con un potere politico legittimato dal popolo.
Dopo la scintilla tunisina, il segno che la nostra frontiera sud-orientale può cambiare. In meglio. Avvicinandosi ai nostri standard di libertà e democrazia. Cogliendo le opportunità di sviluppo perse per l'avidità delle élite postcoloniali, impegnate a coltivare le proprie rendite, indifferenti a una società giovane, esigente.
L'Italia più di qualsiasi altra nazione europea dovrebbe appassionarsi al sommovimento in corso lungo la Quarta Sponda. Chi più di noi dovrebbe interessarsi alla ricostruzione del circuito mediterraneo, destinato a intercettare la quasi totalità dei flussi commerciali fra Asia ed Europa, di cui saremmo naturalmente il centro? A chi più che a noi conviene la graduale composizione della frattura tra le sponde Nord e Sud del "nostro mare"? O davvero pensiamo sia possibile erigere una barriera impenetrabile in mezzo al Mediterraneo? Qualcuno pensa ancora che lo sviluppo del Sud del mondo sia una minaccia e non una formidabile risorsa per il nostro stesso sviluppo - anzi, la condizione perché non si arresti?
Eppure Roma tace. Il nostro governo ha trovato modo di non esprimersi fino a sabato. Meglio così, forse, visto che quando ha parlato - via Frattini - nessuno se n'è accorto. Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla "nipote". Stiamo perdendo l'occasione di incidere in una svolta storica - stavolta l'aggettivo è pertinente - che riguarda molto da vicino la vita nostra, soprattutto dei nostri figli e nipoti.
Se anche i militari riuscissero ad affogare nel sangue le aspettative della piazza, la rivoluzione egiziana ha ormai sancito che il paradigma delle dinastie parassitarie, incentivato dai governi occidentali, non garantisce più nessuno. Certamente non i popoli che opprime. Ma nemmeno noi europei. Quei regimi significano solo caos, repressione e miseria. L'ambiente ideale per i jihadisti. I quali, non dimentichiamolo mai, sono incistati nelle nostre metropoli. Se sbagliamo politica in Egitto, in Tunisia o in altri paesi del nostro Sud, il prezzo lo paghiamo in casa.
Un sobrio accertamento dello stato delle cose dovrebbe indurre il nostro governo a mobilitare ogni risorsa a sostegno dei cambiamenti in atto sulla sponda africana del Mediterraneo. Se ciò non accade, non è solo colpa di Berlusconi o Frattini, ma della rimozione che l'Italia ha compiuto di se stessa. Della sua geografia e della sua storia. Nel centocinquantesimo anniversario dell'Unità è duro ammetterlo. Ma è un fatto: non sappiamo dove siamo né da dove veniamo.
Così abbiamo dimenticato che per secoli l'Egitto è stato fecondato dalla nostra diaspora. Come l'intero bacino del Sud Mediterraneo, dove un secolo fa viveva quasi un milione di connazionali. Operai, artigiani, ma anche banchieri, architetti e burocrati pubblici.
Nell'Egitto khedivale l'italiano era lingua franca, usata nell'amministrazione pubblica. Un tipografo di origine livornese, Pietro Michele Meratti, vi fondò nel 1828 il primo servizio di corrieri privati, la Posta Europea, poi assurto a monopolio pubblico. Le diciture delle prime serie di francobolli egiziani erano in italiano. Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del "liberty alessandrino" sono ancora visibili. La nostra egittologia ha una lunga tradizione. Come in genere le nostre missioni archeologiche orientali, fra le principali fonti d'intelligence quando i servizi segreti erano ancora qualcosa di serio.
Di questo e delle nostre tradizioni levantine in genere cercheremmo vanamente una trattazione nei manuali scolastici. E' storia rimossa. Eppure ancora oggi molto del residuo capitale di simpatia di cui godiamo nella regione si fonda su tali memorie. Basterebbe poco per ravvivarle. Nell'immediato, anche un gesto simbolico.
A Torino abbiamo il più importante museo di antichità egizie dopo quello del Cairo, oggetto di sospetti vandalismi nelle prime fasi dei disordini. Sarebbe forse utile uno sforzo sostenuto dai poteri pubblici e da fondazioni private per dare concreto seguito alla profezia di Jean-François Champollion, il decifratore della Stele di Rosetta: "La strada per Menfi e Tebe passa da Torino". Finanziare e sostenere la messa in sicurezza del Museo del Cairo e dei suoi reperti significa non solo salvare un giacimento culturale di valore universale, ma un atto di rispetto per la pietra angolare dell'identità egiziana. Quell'identità che i nostri levantini contribuirono a resuscitare e che le piazze egiziane oggi vogliono riscattare.
Eppure nell'immaginario collettivo (ossia televisivo) sembra che l'Egitto sia un qualsiasi pezzo d'Africa, un arcipelago di miserie e arretratezze. Più le piramidi e Sharm el-Sheikh. Ma da dove spuntano i giovani anglofoni che maneggiano twitter e Facebook - già ribattezzato Sawrabook, "libro della rivoluzione" - e rischiano la vita per la libertà?
Per anni abbiamo vissuto di verità ricevute. Un eterno fermo immagine. Intanto, la società civile egiziana cresceva, si strutturava. Ci sono certo i Fratelli musulmani, un arcipelago dalle mille ambiguità, che Mubarak ci ha rivenduto con successo come banda di terroristi. Ma ci sono anche laici, cristiani, nazionalisti, socialisti, gente che semplicemente non ne può più della "repubblica ereditaria". Quanto meno daremo ascolto e supporto alle loro istanze, tanto più il rischio di una deriva islamista diverrà concreto. E' quanto sperano Suleiman e gli altri anziani ufficiali drogati da decenni di potere incontrastato. Per riproporre e rivenderci il muro contro muro.
Obama e alcuni leader europei forse cominciano a capirlo. Fra cautele ed esitazioni invitano a voltare pagina. Non noi italiani. Continuiamo ad aggrapparci a un Egitto che non c'è più. L'Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà. La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua.
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24.1.11
Surreal: A Soap Opera Starring Berlusconi
By RACHEL DONADIO
KARIMA EL-MAHROUG, the beautiful 18-year-old nightclub dancer nicknamed Ruby Rubacuori (Ruby Heart-Stealer) at the center of a sex scandal involving Prime Minister Silvio Berlusconi, went on television last week to explain herself.
As her gripping testimony, décolletage and muted leopard-print top drove up ratings on a channel owned by Mr. Berlusconi, Ms. Mahroug said she had never had sex with him — “He never even laid a finger on me” — and never asked for 5 million euros ($6.7 million) to keep quiet. “I’m capable of exaggerating, but not that,” she said.
Nor, she said, had she ever worked as a prostitute, although she did say Mr. Berlusconi gave her 7,000 euros in cash after the first party she attended at his house (when they were introduced, she said, “Hi, I’m Ruby, and I’m 24,” she recalled). She also said she once stripped for “a client” at a Milan hotel, but when she told him it was her first time, he paid her 1,000 euros and told her to leave.
Ms. Mahroug seemed unfazed by the suggestion that wiretapped phone conversations published in the Italian press last week might contradict her. (In one, she said she had attended the prime minister’s parties since she was 16.) Nor was she moved by prosecutors’ allegations that Mr. Berlusconi had described her as a niece of Egypt’s president when the prime minister helped release her from police custody for theft last May.
“Oh, I don’t know what’s in the wiretaps,” Ms. Mahroug said. “I don’t know what journalists write that’s true or not true.”
Neither, it seems, do many Italians. Ms. Mahroug’s performance was the latest installment in a surreal and very Italian tragicomedy — one that blurs fact and fiction, reality and reality television — in a land where the border between appearance and reality has long been hazy, both in and out of politics.
In this episode, magistrates recently announced that they were investigating whether Mr. Berlusconi gave Ms. Mahroug and other women cash, gifts and rent-free housing in exchange for sex. But the full drama has been airing for the 17 years that Mr. Berlusconi has been Italy’s most colorful politician, playing to an audience shaped by the sensationalist television culture he helped create in his three decades as Italy’s largest private broadcaster.
Today, the dramatic tension is rising. Mr. Berlusconi appears less the leader of a Western European democracy than a character in a late Roman Imperial drama, whose actors seem powerless to control their fates against larger currents of destiny. “He is, in a certain sense, a prisoner of this world that he created,” said Mario Calabresi, the editor of the Turin daily La Stampa.
As described in the Italian press, it is a world in which older men hold court and flirt with leggy showgirls and where middle-aged women, a prime audience for Mr. Berlusconi’s channels and an important bloc in his electorate, swoon over young male heartthrobs. It is also a world in which bad girls confess that they just want to leave “the world of spectacle” to get married and settle down, as Ms. Mahroug said in her interview, to the applause of the audience.
Gently prodded by Alfonso Signorini, a host on Mr. Berlusconi’s channels and the editor of Chi, a tabloid owned by the Berlusconi family and central to its image-building, Ms. Mahroug described a rough life.
She said she was raped at age 9 by two uncles in Morocco, a claim her father is contesting in the press, and moved to Italy with her mother, where she struggled in school and turned to petty theft. She said was ashamed of being Moroccan, so told people that she was Egyptian.
“I invented a parallel life,” she said.
“You invented a parallel life,” Mr. Signorini echoed. Not quite an admission of guilt, the line became a running theme in the interview — and the key to understanding the entire scandal, if not Italy itself.
HOW can it be, many non-Italians ask, that Mr. Berlusconi is still in power? The basic answer is simple: politics. A growing number of Italians would probably change the channel if they saw an alternative, but the left is weak and the center unfocused, and for now the prime minister has a parliamentary majority, if narrow. His fate now lies with his coalition partner, the Northern League, which is growing increasingly restive, and no one has ruled out early elections.
But then there are the parallel lives. Average Italians express such disdain for their politicians, and for the many scandals they have lived through, that they can see the latest drama unfolding on one plane while they try to get on with their lives on another. Italy is a survival culture, steeped in that most time-honored survival mechanism: fatalistic resignation.
Since the Roman Empire, politics here has been seen as a means to power and money. Even today, Italy remains a land where complex networks of connections and family ties can still, as in feudal times, count more than merit or position, whether in getting a job or a bank loan. In my experience, Italians have a highly sophisticated understanding of power dynamics, a keen sense of whom you have to say yes to, and with whom you can get away with saying no.
In the wiretaps to emerge in the scandal, dozens of women appear to have been encouraged by their families and friends to get as close to Mr. Berlusconi as possible so that he might somehow help out in business dealings. He remains the biggest patron in a patronage society, and many Italians can understand that.
There is also an entrenched Catholic culture of forgiveness. Written on the facade of the Justice Ministry in downtown Rome are the words “Ministry of Grace and Justice,” in that order.
Mr. Berlusconi, who has denied all wrongdoing, has repeatedly said that it is outrageous for magistrates to leak wiretaps from preliminary investigations to the press without sanctions. (A bill his government advanced that would restrict wiretapping has stalled in Parliament.) The prime minister has repeeatedly depicted magistrates as a self-contained caste, a de facto political opposition that is out to get him. In fact, Italians show little faith in their slow and chaotic justice system, and many shrug off the scandal. “What do you expect? Judges are judges” is a common refrain.
Lately, however, the particular details of this scandal are proving too much for at least some Italians, including thousands of women who, disgusted by the wiretaps, have signed a petition calling for Mr. Berlusconi’s ouster.
“Do you have a nurse’s outfit?” the television agent Lele Mora asks one young woman he is inviting to a party at Mr. Berlusconi’s home, according to one transcript of a wiretap. “Go out and get one today,” he adds, telling her to wear nothing underneath except white garters. In another, Mr. Mora likens the villa to Michael Jackson’s house. “Wow, Neverland,” she answers.
IT is not always easy to translate between Italian and American sensibilities. There is no good English word for “veline,” the scantily clad Vanna White-like showgirls who smile and prance on television, doing dance numbers even in the middle of talk shows. And there is no word in Italian for accountability. The closest is “responsibilità” — responsibility — which lacks the concept that actions can carry consequences.
There is, however, an English word for Mr. Berlusconi’s television shows, and it is campy. The late-night program where Ms. Mahroug appeared, “Kalispera,” tapped into deep currents in Italian society — family, food, motherhood, nostalgia; randy old goats and leggy young blondes — and distorted them into a grotesque tableau.
After a segment in which the show’s golden retriever goes out clubbing in Milan and an interlude in which Mr. Signorini, in tapered plaid pants and a red sweater vest, danced the Charleston with another comely guest, it was time for the sit-down with Ms. Mahroug.
Beneath dramatic dim lighting, the 18-year-old said she had been introduced to Mr. Berlusconi by a friend who explained that Ms. Mahroug was going through a rough patch. “I told him everything in all sincerity,” Ms. Mahroug said of Mr. Berlusconi. “Except my name, age, and” — here she smiled a bit — “my country.”
If the classic definition of irony is a fundamental tension between what something is supposed to mean and what it actually means, between who is in on the joke and who is not, it is difficult to know if such a display is deeply ironic — or so far beyond irony as to be unironic.
Whatever it is, it is very Italian. This is, after all, the culture that invented the Baroque, with its trompe l’oeil ceilings, false doors, facades that disguise multiple layers and facades that disguise nothing at all. In his years in public life, Mr. Berlusconi has blurred the line between image and reality. Or rather, he has made a brilliant career on the fundamental Italian truth that image is reality.
In a video address broadcast last week, a quietly seething Mr. Berlusconi said prosecutors had violated the constitution and their treatment of his party guests had been “unworthy of a state of law.” “I’m serene, and you should be serene too, because the truth always wins,” he said. As to which truth — for that, the audience will just have to stay tuned.
KARIMA EL-MAHROUG, the beautiful 18-year-old nightclub dancer nicknamed Ruby Rubacuori (Ruby Heart-Stealer) at the center of a sex scandal involving Prime Minister Silvio Berlusconi, went on television last week to explain herself.
As her gripping testimony, décolletage and muted leopard-print top drove up ratings on a channel owned by Mr. Berlusconi, Ms. Mahroug said she had never had sex with him — “He never even laid a finger on me” — and never asked for 5 million euros ($6.7 million) to keep quiet. “I’m capable of exaggerating, but not that,” she said.
Nor, she said, had she ever worked as a prostitute, although she did say Mr. Berlusconi gave her 7,000 euros in cash after the first party she attended at his house (when they were introduced, she said, “Hi, I’m Ruby, and I’m 24,” she recalled). She also said she once stripped for “a client” at a Milan hotel, but when she told him it was her first time, he paid her 1,000 euros and told her to leave.
Ms. Mahroug seemed unfazed by the suggestion that wiretapped phone conversations published in the Italian press last week might contradict her. (In one, she said she had attended the prime minister’s parties since she was 16.) Nor was she moved by prosecutors’ allegations that Mr. Berlusconi had described her as a niece of Egypt’s president when the prime minister helped release her from police custody for theft last May.
“Oh, I don’t know what’s in the wiretaps,” Ms. Mahroug said. “I don’t know what journalists write that’s true or not true.”
Neither, it seems, do many Italians. Ms. Mahroug’s performance was the latest installment in a surreal and very Italian tragicomedy — one that blurs fact and fiction, reality and reality television — in a land where the border between appearance and reality has long been hazy, both in and out of politics.
In this episode, magistrates recently announced that they were investigating whether Mr. Berlusconi gave Ms. Mahroug and other women cash, gifts and rent-free housing in exchange for sex. But the full drama has been airing for the 17 years that Mr. Berlusconi has been Italy’s most colorful politician, playing to an audience shaped by the sensationalist television culture he helped create in his three decades as Italy’s largest private broadcaster.
Today, the dramatic tension is rising. Mr. Berlusconi appears less the leader of a Western European democracy than a character in a late Roman Imperial drama, whose actors seem powerless to control their fates against larger currents of destiny. “He is, in a certain sense, a prisoner of this world that he created,” said Mario Calabresi, the editor of the Turin daily La Stampa.
As described in the Italian press, it is a world in which older men hold court and flirt with leggy showgirls and where middle-aged women, a prime audience for Mr. Berlusconi’s channels and an important bloc in his electorate, swoon over young male heartthrobs. It is also a world in which bad girls confess that they just want to leave “the world of spectacle” to get married and settle down, as Ms. Mahroug said in her interview, to the applause of the audience.
Gently prodded by Alfonso Signorini, a host on Mr. Berlusconi’s channels and the editor of Chi, a tabloid owned by the Berlusconi family and central to its image-building, Ms. Mahroug described a rough life.
She said she was raped at age 9 by two uncles in Morocco, a claim her father is contesting in the press, and moved to Italy with her mother, where she struggled in school and turned to petty theft. She said was ashamed of being Moroccan, so told people that she was Egyptian.
“I invented a parallel life,” she said.
“You invented a parallel life,” Mr. Signorini echoed. Not quite an admission of guilt, the line became a running theme in the interview — and the key to understanding the entire scandal, if not Italy itself.
HOW can it be, many non-Italians ask, that Mr. Berlusconi is still in power? The basic answer is simple: politics. A growing number of Italians would probably change the channel if they saw an alternative, but the left is weak and the center unfocused, and for now the prime minister has a parliamentary majority, if narrow. His fate now lies with his coalition partner, the Northern League, which is growing increasingly restive, and no one has ruled out early elections.
But then there are the parallel lives. Average Italians express such disdain for their politicians, and for the many scandals they have lived through, that they can see the latest drama unfolding on one plane while they try to get on with their lives on another. Italy is a survival culture, steeped in that most time-honored survival mechanism: fatalistic resignation.
Since the Roman Empire, politics here has been seen as a means to power and money. Even today, Italy remains a land where complex networks of connections and family ties can still, as in feudal times, count more than merit or position, whether in getting a job or a bank loan. In my experience, Italians have a highly sophisticated understanding of power dynamics, a keen sense of whom you have to say yes to, and with whom you can get away with saying no.
In the wiretaps to emerge in the scandal, dozens of women appear to have been encouraged by their families and friends to get as close to Mr. Berlusconi as possible so that he might somehow help out in business dealings. He remains the biggest patron in a patronage society, and many Italians can understand that.
There is also an entrenched Catholic culture of forgiveness. Written on the facade of the Justice Ministry in downtown Rome are the words “Ministry of Grace and Justice,” in that order.
Mr. Berlusconi, who has denied all wrongdoing, has repeatedly said that it is outrageous for magistrates to leak wiretaps from preliminary investigations to the press without sanctions. (A bill his government advanced that would restrict wiretapping has stalled in Parliament.) The prime minister has repeeatedly depicted magistrates as a self-contained caste, a de facto political opposition that is out to get him. In fact, Italians show little faith in their slow and chaotic justice system, and many shrug off the scandal. “What do you expect? Judges are judges” is a common refrain.
Lately, however, the particular details of this scandal are proving too much for at least some Italians, including thousands of women who, disgusted by the wiretaps, have signed a petition calling for Mr. Berlusconi’s ouster.
“Do you have a nurse’s outfit?” the television agent Lele Mora asks one young woman he is inviting to a party at Mr. Berlusconi’s home, according to one transcript of a wiretap. “Go out and get one today,” he adds, telling her to wear nothing underneath except white garters. In another, Mr. Mora likens the villa to Michael Jackson’s house. “Wow, Neverland,” she answers.
IT is not always easy to translate between Italian and American sensibilities. There is no good English word for “veline,” the scantily clad Vanna White-like showgirls who smile and prance on television, doing dance numbers even in the middle of talk shows. And there is no word in Italian for accountability. The closest is “responsibilità” — responsibility — which lacks the concept that actions can carry consequences.
There is, however, an English word for Mr. Berlusconi’s television shows, and it is campy. The late-night program where Ms. Mahroug appeared, “Kalispera,” tapped into deep currents in Italian society — family, food, motherhood, nostalgia; randy old goats and leggy young blondes — and distorted them into a grotesque tableau.
After a segment in which the show’s golden retriever goes out clubbing in Milan and an interlude in which Mr. Signorini, in tapered plaid pants and a red sweater vest, danced the Charleston with another comely guest, it was time for the sit-down with Ms. Mahroug.
Beneath dramatic dim lighting, the 18-year-old said she had been introduced to Mr. Berlusconi by a friend who explained that Ms. Mahroug was going through a rough patch. “I told him everything in all sincerity,” Ms. Mahroug said of Mr. Berlusconi. “Except my name, age, and” — here she smiled a bit — “my country.”
If the classic definition of irony is a fundamental tension between what something is supposed to mean and what it actually means, between who is in on the joke and who is not, it is difficult to know if such a display is deeply ironic — or so far beyond irony as to be unironic.
Whatever it is, it is very Italian. This is, after all, the culture that invented the Baroque, with its trompe l’oeil ceilings, false doors, facades that disguise multiple layers and facades that disguise nothing at all. In his years in public life, Mr. Berlusconi has blurred the line between image and reality. Or rather, he has made a brilliant career on the fundamental Italian truth that image is reality.
In a video address broadcast last week, a quietly seething Mr. Berlusconi said prosecutors had violated the constitution and their treatment of his party guests had been “unworthy of a state of law.” “I’m serene, and you should be serene too, because the truth always wins,” he said. As to which truth — for that, the audience will just have to stay tuned.
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Berlusconi,
Ruby,
The New York Times
22.1.11
E ora su la testa
Rossana Rossanda (il Manifesto)
Non è piacevole essere oggi un’italiana all’estero. Tanto meno se si è stata una sia pur minuscola tessera di ceto politico, due volte consigliere comunale e una volta deputata, una cui l’antipolitica fa venire il nervoso. E perdipiù comunista libertaria, specie rarissima, orgogliosa di sé e di un paese che, fino agli anni Sessanta e con diverse code nei Settanta, pareva il laboratorio politico più interessante d’Europa.
Oggi gli amici che incontro non dicono più: ma che disgrazia quel vostro Berlusconi! Mi chiedono: Com’è che l’avete votato tre volte? Che è successo all’Italia? Una come me si trova a balbettare. Perché hanno ragione, non si può più fare del premier il caso personale di uno che ha fatto troppi soldi, che ha tre televisioni, che prende il paese per un’azienda di sua proprietà, che sa che molti sono acquistabili e li acquista, e adesso, gallo attempato, si vanta dei suoi exploits su un numero illimitato di pollastrine: «Vorreste tutti essere come me, eh??».
E’ vero che l’Italia lo ha votato e rivotato. E’ vero che non c’è traccia di una destra formalmente civile che di lui ne ha abbastanza, né di un sedicente centro deciso a liberarsene. E neanche di una sinistra capace di rischiare un «buttiamolo fuori con le elezioni». La destra tutta perché gli è ancora complice, il centro perché lo è stato, la sinistra perché il sistema elettorale bipolare le faceva comodo contro le sue ali meno docili. Metà dell’Italia è berlusconiana, l’altra metà è azzittita, e non c’è imputazione - ignoranza, prevaricazione, corruzione, soldi, attentato ai minori - mossa al personaggio che sia in grado di scuoterla. Anzi. C’è qualche verità nelle vanterie di costui, se più se ne sente più tutti si accucciano per calcoli loro. Perfino i media, che sarebbero di opposizione, sono diventati un buco della serratura per voyeurs intenti a sfogliare pagine su pagine o ad ascoltare minuti su minuti di dialoghi sul prezzo per un appalto o per togliersi le mutande.
Che ci è successo? Da quando? Perché? Sarebbe una discussione interessante. Si potrebbe sprofondare in una storia secolare di servaggi, Francia o Spagna pur che se magna. O di una unità nazionale sotto una monarchia codina, tardiva e ben epurata di ogni fermento rivoluzionario - i giacobini napoletani decapitati o appesi nel giubilo dei lazzari e sanfedisti, la repubblica romana repressa, e soltanto le tracce dell’ammodernamento giuridico di Napoleone al nord. Non sarà del tutto casuale che siamo stati noi a inventare il primo fascismo europeo. Ci deve essere qualcosa di guasto nella coscienza della penisola. Alcuni di noi pensano che soltanto la presenza di un partito comunista che non mollava sui diritti sociali ha costretto il paese alla democrazia, come un tessuto fragile ma fortemente intelaiato, che non si è lacerato finché i comunisti non si sono uccisi da soli. Tutto da vedere, se se ne avesse voglia. Ma chi ne ha? Lo slogan nazionale è: fatti gli affari tuoi. Vota chi si fa i suoi. Non è una storia soltanto italiana, tutta l’Europa va a destra. Ma da noi si esagera. In Francia un vecchio ed elegante signore, Stephan Hessel, che non alza la voce ma non ha mai taciuto, ha scritto un opuscolo: Indignatevi! Ne sono sparite subito quasi un milione di copie. Una settimana fa voleva parlare della Palestina, glielo hanno impedito. E lui e i suoi lettori si sono trovati fuori, in migliaia, di notte, con un freddo polare, nella piazza del Pantheon, a gridare: Basta! Perché noi no? Si sta meglio con la testa alta, invece che fra le spalle e gli occhi a terra. Non so se lo farà Vendola. Non credo che lo farà Bersani. Ma chiudiamo con il cinismo del chi se ne frega. Indigniamoci!
Non è piacevole essere oggi un’italiana all’estero. Tanto meno se si è stata una sia pur minuscola tessera di ceto politico, due volte consigliere comunale e una volta deputata, una cui l’antipolitica fa venire il nervoso. E perdipiù comunista libertaria, specie rarissima, orgogliosa di sé e di un paese che, fino agli anni Sessanta e con diverse code nei Settanta, pareva il laboratorio politico più interessante d’Europa.
Oggi gli amici che incontro non dicono più: ma che disgrazia quel vostro Berlusconi! Mi chiedono: Com’è che l’avete votato tre volte? Che è successo all’Italia? Una come me si trova a balbettare. Perché hanno ragione, non si può più fare del premier il caso personale di uno che ha fatto troppi soldi, che ha tre televisioni, che prende il paese per un’azienda di sua proprietà, che sa che molti sono acquistabili e li acquista, e adesso, gallo attempato, si vanta dei suoi exploits su un numero illimitato di pollastrine: «Vorreste tutti essere come me, eh??».
E’ vero che l’Italia lo ha votato e rivotato. E’ vero che non c’è traccia di una destra formalmente civile che di lui ne ha abbastanza, né di un sedicente centro deciso a liberarsene. E neanche di una sinistra capace di rischiare un «buttiamolo fuori con le elezioni». La destra tutta perché gli è ancora complice, il centro perché lo è stato, la sinistra perché il sistema elettorale bipolare le faceva comodo contro le sue ali meno docili. Metà dell’Italia è berlusconiana, l’altra metà è azzittita, e non c’è imputazione - ignoranza, prevaricazione, corruzione, soldi, attentato ai minori - mossa al personaggio che sia in grado di scuoterla. Anzi. C’è qualche verità nelle vanterie di costui, se più se ne sente più tutti si accucciano per calcoli loro. Perfino i media, che sarebbero di opposizione, sono diventati un buco della serratura per voyeurs intenti a sfogliare pagine su pagine o ad ascoltare minuti su minuti di dialoghi sul prezzo per un appalto o per togliersi le mutande.
Che ci è successo? Da quando? Perché? Sarebbe una discussione interessante. Si potrebbe sprofondare in una storia secolare di servaggi, Francia o Spagna pur che se magna. O di una unità nazionale sotto una monarchia codina, tardiva e ben epurata di ogni fermento rivoluzionario - i giacobini napoletani decapitati o appesi nel giubilo dei lazzari e sanfedisti, la repubblica romana repressa, e soltanto le tracce dell’ammodernamento giuridico di Napoleone al nord. Non sarà del tutto casuale che siamo stati noi a inventare il primo fascismo europeo. Ci deve essere qualcosa di guasto nella coscienza della penisola. Alcuni di noi pensano che soltanto la presenza di un partito comunista che non mollava sui diritti sociali ha costretto il paese alla democrazia, come un tessuto fragile ma fortemente intelaiato, che non si è lacerato finché i comunisti non si sono uccisi da soli. Tutto da vedere, se se ne avesse voglia. Ma chi ne ha? Lo slogan nazionale è: fatti gli affari tuoi. Vota chi si fa i suoi. Non è una storia soltanto italiana, tutta l’Europa va a destra. Ma da noi si esagera. In Francia un vecchio ed elegante signore, Stephan Hessel, che non alza la voce ma non ha mai taciuto, ha scritto un opuscolo: Indignatevi! Ne sono sparite subito quasi un milione di copie. Una settimana fa voleva parlare della Palestina, glielo hanno impedito. E lui e i suoi lettori si sono trovati fuori, in migliaia, di notte, con un freddo polare, nella piazza del Pantheon, a gridare: Basta! Perché noi no? Si sta meglio con la testa alta, invece che fra le spalle e gli occhi a terra. Non so se lo farà Vendola. Non credo che lo farà Bersani. Ma chiudiamo con il cinismo del chi se ne frega. Indigniamoci!
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20.1.11
Dov´è finita la vergogna
Guido Crainz (La Repubblica)
Ogni fase della vita di una nazione contiene in sé una rivelazione, nel bene come nel male, e i giorni che stiamo vivendo sembrano farci cogliere la progressiva "scomparsa della vergogna".
Dopo aver progressivamente smarrito la capacità di indignarci – che implica codici di riferimento e vincoli collettivi – stiamo forse per compiere un altro passo. "Stiamo sprofondando in una nuova era", diceva negli anni Ottanta un personaggio di Altan, ed è forte la sensazione che stia accadendo anche oggi: ce lo suggeriscono non solo le intercettazioni pubblicate ma anche alcuni commenti ad esse. Quasi a giustificazione del premier e delle sue amiche, è stato scritto ad esempio (e non su un blog del Partito della Libertà) che in fondo "il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l´indulgenza all´esame o al capo ufficio per fare carriera". è lecito chiedersi, mi sembra, che Paese siamo diventati. Si pensi poi alla privacy che viene strenuamente invocata a difesa del Cavaliere: dimenticando costantemente che essa è stata messa immediatamente fuori causa dalla telefonata del Premier alla questura di Milano, dal suo contenuto e dalle sue modalità (oltre che dalla immediata comparsa sulla scena di una eletta alla Regione Lombardia, che era stata inserita d´autorità nella lista blindata del cattolicissimo governatore Formigoni).
Si avverte davvero l´urgenza che la classe dirigente nel suo insieme pronunci quel "sermone della decenza", quel pronunciamento solenne sui limiti invalicabili che Barbara Spinelli ha invocato ieri benissimo su queste pagine. Purtroppo quel pronunciamento non sembra imminente e in questi giorni hanno tenuto campo invece non pochi "sermoni dell´indecenza".
è inevitabile ripensare ai primi anni Novanta e al crollo della "prima repubblica". Quel crollo fu accelerato e non frenato dal tentativo parlamentare di salvare Bettino Craxi e dal vasto sussulto di indignazione collettiva che esso suscitò: in caso di "assoluzione parlamentare" del Cavaliere – con una ulteriore dichiarazione di guerra alla giustizia e alla magistratura – sembra difficile prevedere oggi qualcosa di simile a quella mobilitazione. Anche su essa però occorre riflettere molto criticamente, perché anche gli abbagli e le semplificazioni di allora possono aiutarci a capire. Fu un grave errore considerare quel sussulto nel suo insieme solo un segno di diffusa sensibilità civile e non cogliervi anche alcuni degli umori peggiori dell´antipolitica: senza l´agire di essi non comprenderemmo perché quella fase si sia conclusa con il trionfo di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi. Fu un devastante autoinganno attribuire ogni colpa al ceto politico, contrapponendogli una virtuosa società civile: come se non fosse stata attraversata anch´essa da quella profonda mutazione antropologica che Pier Paolo Pasolini aveva colto. E non è possibile rimuovere che corpose espressioni della "società civile" che si era modellata negli anni Ottanta furono immesse realmente nelle istituzioni dalla Lega e da Forza Italia, con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi. C´è naturalmente da chiedersi perché altre, ben diverse e positive parti di "società civile" siano state largamente ignorate dalle forze politiche che si contrapponevano a Berlusconi e a Bossi, ma giova restare al cuore del problema.
Si ripetè in realtà vent´anni fa l´errore che Massimo D´Azeglio coglieva alle origini del nostro Stato: "Hanno voluto fare un´Italia nuova e loro rimanere gli italiani vecchi di prima (…) pensano a poter riformare l´Italia e nessuno si accorge che per riuscirci bisogna che gli italiani riformino se stessi" (la frase, come si vede, è molto più illuminante di quella che gli viene abitualmente attribuita). Non va dunque mitizzata la reazione della società italiana dei primi anni Novanta alla crisi della politica, ma all´interno di essa vi fu anche sussulto civico, vi fu anche l´idea di una diversa etica pubblica, vi furono anche umori e passioni civili. Essi riemersero poi ancora negli anni successivi, diedero spesso vigore e anima a un centrosinistra che dimostrò presto la propria inadeguatezza sia al governo che all´opposizione. Indubbiamente l´assenza di una reale prospettiva di cambiamento ha contribuito poi potentemente al diffondersi di disincanto e di rassegnazione, di sensi diffusi di impotenza, di ripiegamenti nel silenzio (e talora di nuovi, sconsolati conformismi). Ha reso progressivamente più deboli quelle diverse e disperse parti della società che non volevano rinunciare a un futuro differente. Più ancora, non volevano rinunciare al futuro. Sarebbe però di nuovo un errore cercare le colpe solo nella politica senza interrogarsi più a fondo sui processi profondi che hanno attraversato in questi anni la società italiana. Nel vivo delle più ampie mobilitazioni civili vi erano stati spesso, ad esempio, quei "ceti medi riflessivi" su cui ha richiamato l´attenzione Paul Ginsborg: la storia di questi anni è però anche la storia del loro progressivo isolamento culturale e sociale, non solo politico. è anche la storia dell´affermarsi di forme moderne di incultura se non di "plebeismo" – per dirla con Carlo Donolo – nello stesso "cuore ansioso dei ceti medi", sempre più incapaci di svolgere ruoli di "incivilimento". Ma ancor più a fondo dovremmo spingere lo sguardo per cogliere lo spessore del baratro che abbiamo scavato, a partire dalla dissipazione quasi irreversibile dei beni pubblici o dalla distruzione delle risorse e – più ancora – delle speranze delle generazioni più giovani.
A sconsolanti riflessioni rimanda del resto anche il clima in cui sono stentatamente iniziate le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell´Unità, ed è impietoso il raffronto con l´Italia del primo centenario. In quel 1961 non vi era solo l´entusiasmo per il "miracolo economico": assieme alle condizioni materiali quell´Italia stava migliorando sensibilmente anche il proprio orizzonte di libertà. Stava mettendo mano all´attuazione reale di una Costituzione che era stata "congelata" negli anni della guerra fredda, stava rimuovendo pesanti residui del fascismo e dando voce a sensibilità sin lì inedite. Più in generale, si stava presentando anche sullo scenario internazionale come una realtà nuova, e si leggono oggi con emozione le parole che John Fitzgerald Kennedy pronunciò al Dipartimento di Stato proprio in occasione del nostro centenario. In quel discorso il Presidente degli Stati Uniti giudicava l´Italia "l´esperienza più incoraggiante del dopoguerra" e vedeva al tempo stesso "nella tradizione di Mazzini, Cavour e Garibaldi, come di Lincoln e di Washington" il riferimento possibile per un "nuovo Risorgimento" internazionale (le parole sono sempre di Kennedy). Non saranno molti i capi di Stato che si rivolgeranno a noi con accenti simili nelle celebrazioni in corso, ma quelle lontane parole di Kennedy smentiscono drasticamente chi ci dice con desolante rassegnazione che "siamo sempre stati così". E ci dicono che potremmo ricostruire anche oggi un futuro diverso: difficilissimo, quasi impensabile, ma disperatamente necessario.
Ogni fase della vita di una nazione contiene in sé una rivelazione, nel bene come nel male, e i giorni che stiamo vivendo sembrano farci cogliere la progressiva "scomparsa della vergogna".
Dopo aver progressivamente smarrito la capacità di indignarci – che implica codici di riferimento e vincoli collettivi – stiamo forse per compiere un altro passo. "Stiamo sprofondando in una nuova era", diceva negli anni Ottanta un personaggio di Altan, ed è forte la sensazione che stia accadendo anche oggi: ce lo suggeriscono non solo le intercettazioni pubblicate ma anche alcuni commenti ad esse. Quasi a giustificazione del premier e delle sue amiche, è stato scritto ad esempio (e non su un blog del Partito della Libertà) che in fondo "il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l´indulgenza all´esame o al capo ufficio per fare carriera". è lecito chiedersi, mi sembra, che Paese siamo diventati. Si pensi poi alla privacy che viene strenuamente invocata a difesa del Cavaliere: dimenticando costantemente che essa è stata messa immediatamente fuori causa dalla telefonata del Premier alla questura di Milano, dal suo contenuto e dalle sue modalità (oltre che dalla immediata comparsa sulla scena di una eletta alla Regione Lombardia, che era stata inserita d´autorità nella lista blindata del cattolicissimo governatore Formigoni).
Si avverte davvero l´urgenza che la classe dirigente nel suo insieme pronunci quel "sermone della decenza", quel pronunciamento solenne sui limiti invalicabili che Barbara Spinelli ha invocato ieri benissimo su queste pagine. Purtroppo quel pronunciamento non sembra imminente e in questi giorni hanno tenuto campo invece non pochi "sermoni dell´indecenza".
è inevitabile ripensare ai primi anni Novanta e al crollo della "prima repubblica". Quel crollo fu accelerato e non frenato dal tentativo parlamentare di salvare Bettino Craxi e dal vasto sussulto di indignazione collettiva che esso suscitò: in caso di "assoluzione parlamentare" del Cavaliere – con una ulteriore dichiarazione di guerra alla giustizia e alla magistratura – sembra difficile prevedere oggi qualcosa di simile a quella mobilitazione. Anche su essa però occorre riflettere molto criticamente, perché anche gli abbagli e le semplificazioni di allora possono aiutarci a capire. Fu un grave errore considerare quel sussulto nel suo insieme solo un segno di diffusa sensibilità civile e non cogliervi anche alcuni degli umori peggiori dell´antipolitica: senza l´agire di essi non comprenderemmo perché quella fase si sia conclusa con il trionfo di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi. Fu un devastante autoinganno attribuire ogni colpa al ceto politico, contrapponendogli una virtuosa società civile: come se non fosse stata attraversata anch´essa da quella profonda mutazione antropologica che Pier Paolo Pasolini aveva colto. E non è possibile rimuovere che corpose espressioni della "società civile" che si era modellata negli anni Ottanta furono immesse realmente nelle istituzioni dalla Lega e da Forza Italia, con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi. C´è naturalmente da chiedersi perché altre, ben diverse e positive parti di "società civile" siano state largamente ignorate dalle forze politiche che si contrapponevano a Berlusconi e a Bossi, ma giova restare al cuore del problema.
Si ripetè in realtà vent´anni fa l´errore che Massimo D´Azeglio coglieva alle origini del nostro Stato: "Hanno voluto fare un´Italia nuova e loro rimanere gli italiani vecchi di prima (…) pensano a poter riformare l´Italia e nessuno si accorge che per riuscirci bisogna che gli italiani riformino se stessi" (la frase, come si vede, è molto più illuminante di quella che gli viene abitualmente attribuita). Non va dunque mitizzata la reazione della società italiana dei primi anni Novanta alla crisi della politica, ma all´interno di essa vi fu anche sussulto civico, vi fu anche l´idea di una diversa etica pubblica, vi furono anche umori e passioni civili. Essi riemersero poi ancora negli anni successivi, diedero spesso vigore e anima a un centrosinistra che dimostrò presto la propria inadeguatezza sia al governo che all´opposizione. Indubbiamente l´assenza di una reale prospettiva di cambiamento ha contribuito poi potentemente al diffondersi di disincanto e di rassegnazione, di sensi diffusi di impotenza, di ripiegamenti nel silenzio (e talora di nuovi, sconsolati conformismi). Ha reso progressivamente più deboli quelle diverse e disperse parti della società che non volevano rinunciare a un futuro differente. Più ancora, non volevano rinunciare al futuro. Sarebbe però di nuovo un errore cercare le colpe solo nella politica senza interrogarsi più a fondo sui processi profondi che hanno attraversato in questi anni la società italiana. Nel vivo delle più ampie mobilitazioni civili vi erano stati spesso, ad esempio, quei "ceti medi riflessivi" su cui ha richiamato l´attenzione Paul Ginsborg: la storia di questi anni è però anche la storia del loro progressivo isolamento culturale e sociale, non solo politico. è anche la storia dell´affermarsi di forme moderne di incultura se non di "plebeismo" – per dirla con Carlo Donolo – nello stesso "cuore ansioso dei ceti medi", sempre più incapaci di svolgere ruoli di "incivilimento". Ma ancor più a fondo dovremmo spingere lo sguardo per cogliere lo spessore del baratro che abbiamo scavato, a partire dalla dissipazione quasi irreversibile dei beni pubblici o dalla distruzione delle risorse e – più ancora – delle speranze delle generazioni più giovani.
A sconsolanti riflessioni rimanda del resto anche il clima in cui sono stentatamente iniziate le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell´Unità, ed è impietoso il raffronto con l´Italia del primo centenario. In quel 1961 non vi era solo l´entusiasmo per il "miracolo economico": assieme alle condizioni materiali quell´Italia stava migliorando sensibilmente anche il proprio orizzonte di libertà. Stava mettendo mano all´attuazione reale di una Costituzione che era stata "congelata" negli anni della guerra fredda, stava rimuovendo pesanti residui del fascismo e dando voce a sensibilità sin lì inedite. Più in generale, si stava presentando anche sullo scenario internazionale come una realtà nuova, e si leggono oggi con emozione le parole che John Fitzgerald Kennedy pronunciò al Dipartimento di Stato proprio in occasione del nostro centenario. In quel discorso il Presidente degli Stati Uniti giudicava l´Italia "l´esperienza più incoraggiante del dopoguerra" e vedeva al tempo stesso "nella tradizione di Mazzini, Cavour e Garibaldi, come di Lincoln e di Washington" il riferimento possibile per un "nuovo Risorgimento" internazionale (le parole sono sempre di Kennedy). Non saranno molti i capi di Stato che si rivolgeranno a noi con accenti simili nelle celebrazioni in corso, ma quelle lontane parole di Kennedy smentiscono drasticamente chi ci dice con desolante rassegnazione che "siamo sempre stati così". E ci dicono che potremmo ricostruire anche oggi un futuro diverso: difficilissimo, quasi impensabile, ma disperatamente necessario.
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16.1.11
L'onore di Cipputi
Rossana Rossanda
Hanno votato tutti i salariati, a Mirafiori, sull'accordo proposto dall'amministratore delegato Marchionne. Tutti, una percentuale che nessuna elezione politica si sogna. E sono stati soltanto il 54% i sì e il 46% i no, un rifiuto ancora più massiccio di quello di Pomigliano. Quasi un lavoratore su due ha respinto quell'accordo capestro, calato dall'alto con prepotenza, ed esige una trattativa vera.
Per capire il rischio e la sfida di chi ha detto no, bisogna sapere a che razza di ricatto - questa è la parola esatta - si costringevano i lavoratori: o approvare la volontà di Marchionne al buio, perché non esiste un piano industriale, non si sa se ci siano i soldi, vanno buttati a mare tutti i diritti precedenti e al confino il solo sindacato che si è permesso di non firmare, la Fiom, o ci si mette contro un padrone che, dichiarando la novità ed extraterritorialità di diritto della joint venture Chrysler Fiat, si considera sciolto da tutte le regole e pronto ad andare a qualsiasi rappresaglia. L'operaia che è andata a dire a Landini «io devo votare sì, perché ho due bambini e un mutuo in corso, ma voi della Fiom per favore andate avanti» dà il quadro esatto della libertà del salariato. E davanti a quale Golem si è levato chi ha detto no. Tanto più nell'epoca che Marchionne, identificandosi con il figlio di Dio, ha definito «dopo Cristo», la sua.
Si vedrà che farà adesso, con la metà dei dipendenti che gli ha fatto quel che in Francia chiamano le bras d'honneur e la sottoscritta non sa come si dica in Italia, ma sa come si fa; perché alla provocazione c'è un limite, o almeno c'era. Nulla ci garantisce, né ci garantirebbe anche se avesse votato «sì» l'80 per cento delle maestranze, che Marchionne sia interessato a tenere la Fiat, a farla produrre quattro volte quanto produce ora, a presentare quali modelli e se li venderà in un mercato europeo stagnante, nel quale la Fiat stagna più degli altri. Se avesse intelligenza industriale, o soltanto buon senso, riaprirebbe un tavolo di discussione, scoprirebbe le sue carte, affronterebbe il da farsi con chi lo dovrà fare. Questo gli hanno mandato a dire i lavoratori di Pomigliano e quelli di Mirafiori.
Da soli, solo loro. Perché la famiglia Agnelli, già così amata dalla capitale sabauda da aver pianto in un corteo interminabile sulle spoglie dell'ultimo della dinastia che aveva qualche interesse produttivo, l'avvocato, non ha fatto parola. In questo frangente si è data forse dispersa, non si vede, non si sente, pensa alla finanza.
Né ha fatto parola il governo del nostro scassato paese, che pure, quale che ne fosse il colore, ha innaffiato la Fiat di miliardi, ma si lascia soffiare l'ultimo gioiello in nome della vera modernità, che consiste nel sapere che non si tratta di difendere né un proprio patrimonio produttivo, né i propri lavoratori - quando mai, sarebbe protezionismo, da lasciare soltanto agli Usa, alla Francia e alla Germania che si prestano a raccogliere le ossa dell'ex Europa. A noi sta soltanto competere con i salari dell'Europa dell'Est, dell'India e possibilmente della pericolosa Cina.
Tutti i soloni della stampa italiana hanno perciò felicitato Marchionne che, sia pur ingloriosamente e sul filo di lana, è passato.
La sinistra poi è stata incomparabile. Quella politica e le confederazioni sindacali. Aveva dalla sua parte storica, che è poi la sua sola ragione di esistere, una Costituzione che difende come poche i diritti sociali in regime capitalista. Gli imponeva - gli impone - quel che chiamano il modello renano, un compromesso non a mani basse, keynesiano, fra capitale e società, che garantisce in termini ineludibili la libertà sindacale. Fin troppo se le confederazioni sono riuscite fra loro, attraverso qualche articolo da azzeccagarbugli dello statuto dei lavoratori, a impegolarsi in accordi mirati a far fuori i disturbatori, tipo i fatali Cobas, per cui oggi nessuno osa attaccarsi all'articolo 39, che - ripeto - più chiaro non potrebbe essere. La Cgil ha strillato un po' ma avrebbe preferito che la Fiom mettesse una «firma tecnica» a quel capolavoro suicida. Quanto ai partiti non c'è che da piangere. D'Alema, che sarebbe dotato di lumi, Fassino, Chiamparino, Ichino, il Pd tutto hanno dichiarato che se fossero stati loro al posto degli operai Fiat - situazione dalla quale sono ben lontani - avrebbero votato sì senza batter ciglio. Diamine, non c'erano intanto 3.500 euro da prendere? Ma che vuole la Fiom, per la quale è stato coniato lo squisito ossimoro di estremisti conservatori?
Molto basso è l'onore d'Italia, scriveva un certo Slataper. Da ieri lo è un po' meno. Salutiamo con rispetto, noi che non riusciamo a fare granché, quel 46% di Cipputi che a Torino, dopo Pomigliano, permette di dire che non proprio tutto il paese è nella merda.
Hanno votato tutti i salariati, a Mirafiori, sull'accordo proposto dall'amministratore delegato Marchionne. Tutti, una percentuale che nessuna elezione politica si sogna. E sono stati soltanto il 54% i sì e il 46% i no, un rifiuto ancora più massiccio di quello di Pomigliano. Quasi un lavoratore su due ha respinto quell'accordo capestro, calato dall'alto con prepotenza, ed esige una trattativa vera.
Per capire il rischio e la sfida di chi ha detto no, bisogna sapere a che razza di ricatto - questa è la parola esatta - si costringevano i lavoratori: o approvare la volontà di Marchionne al buio, perché non esiste un piano industriale, non si sa se ci siano i soldi, vanno buttati a mare tutti i diritti precedenti e al confino il solo sindacato che si è permesso di non firmare, la Fiom, o ci si mette contro un padrone che, dichiarando la novità ed extraterritorialità di diritto della joint venture Chrysler Fiat, si considera sciolto da tutte le regole e pronto ad andare a qualsiasi rappresaglia. L'operaia che è andata a dire a Landini «io devo votare sì, perché ho due bambini e un mutuo in corso, ma voi della Fiom per favore andate avanti» dà il quadro esatto della libertà del salariato. E davanti a quale Golem si è levato chi ha detto no. Tanto più nell'epoca che Marchionne, identificandosi con il figlio di Dio, ha definito «dopo Cristo», la sua.
Si vedrà che farà adesso, con la metà dei dipendenti che gli ha fatto quel che in Francia chiamano le bras d'honneur e la sottoscritta non sa come si dica in Italia, ma sa come si fa; perché alla provocazione c'è un limite, o almeno c'era. Nulla ci garantisce, né ci garantirebbe anche se avesse votato «sì» l'80 per cento delle maestranze, che Marchionne sia interessato a tenere la Fiat, a farla produrre quattro volte quanto produce ora, a presentare quali modelli e se li venderà in un mercato europeo stagnante, nel quale la Fiat stagna più degli altri. Se avesse intelligenza industriale, o soltanto buon senso, riaprirebbe un tavolo di discussione, scoprirebbe le sue carte, affronterebbe il da farsi con chi lo dovrà fare. Questo gli hanno mandato a dire i lavoratori di Pomigliano e quelli di Mirafiori.
Da soli, solo loro. Perché la famiglia Agnelli, già così amata dalla capitale sabauda da aver pianto in un corteo interminabile sulle spoglie dell'ultimo della dinastia che aveva qualche interesse produttivo, l'avvocato, non ha fatto parola. In questo frangente si è data forse dispersa, non si vede, non si sente, pensa alla finanza.
Né ha fatto parola il governo del nostro scassato paese, che pure, quale che ne fosse il colore, ha innaffiato la Fiat di miliardi, ma si lascia soffiare l'ultimo gioiello in nome della vera modernità, che consiste nel sapere che non si tratta di difendere né un proprio patrimonio produttivo, né i propri lavoratori - quando mai, sarebbe protezionismo, da lasciare soltanto agli Usa, alla Francia e alla Germania che si prestano a raccogliere le ossa dell'ex Europa. A noi sta soltanto competere con i salari dell'Europa dell'Est, dell'India e possibilmente della pericolosa Cina.
Tutti i soloni della stampa italiana hanno perciò felicitato Marchionne che, sia pur ingloriosamente e sul filo di lana, è passato.
La sinistra poi è stata incomparabile. Quella politica e le confederazioni sindacali. Aveva dalla sua parte storica, che è poi la sua sola ragione di esistere, una Costituzione che difende come poche i diritti sociali in regime capitalista. Gli imponeva - gli impone - quel che chiamano il modello renano, un compromesso non a mani basse, keynesiano, fra capitale e società, che garantisce in termini ineludibili la libertà sindacale. Fin troppo se le confederazioni sono riuscite fra loro, attraverso qualche articolo da azzeccagarbugli dello statuto dei lavoratori, a impegolarsi in accordi mirati a far fuori i disturbatori, tipo i fatali Cobas, per cui oggi nessuno osa attaccarsi all'articolo 39, che - ripeto - più chiaro non potrebbe essere. La Cgil ha strillato un po' ma avrebbe preferito che la Fiom mettesse una «firma tecnica» a quel capolavoro suicida. Quanto ai partiti non c'è che da piangere. D'Alema, che sarebbe dotato di lumi, Fassino, Chiamparino, Ichino, il Pd tutto hanno dichiarato che se fossero stati loro al posto degli operai Fiat - situazione dalla quale sono ben lontani - avrebbero votato sì senza batter ciglio. Diamine, non c'erano intanto 3.500 euro da prendere? Ma che vuole la Fiom, per la quale è stato coniato lo squisito ossimoro di estremisti conservatori?
Molto basso è l'onore d'Italia, scriveva un certo Slataper. Da ieri lo è un po' meno. Salutiamo con rispetto, noi che non riusciamo a fare granché, quel 46% di Cipputi che a Torino, dopo Pomigliano, permette di dire che non proprio tutto il paese è nella merda.
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13.1.11
«Noi madri orientali. Inflessibili e migliori»
Una prof cinese di Yale: così ho educato le mie bimbe. Si accende il dibattito?
Giuliana Ferraino
«Perché le madri cinesi sono superiori» è il titolo di un saggio pubblicato sabato sul Wall Street Journal. Da allora questo non solo è l'articolo più letto e commentato del sito online, con oltre 3.600 post di lettori il numero aumenta di ora in ora, ma sta spopolando anche su Facebook: lo hanno già condiviso ben 187.462 amici dato aggiornato a ieri sera.
Di che si tratta? L'autrice Amy Chua, una professoressa di Legge alla Law School dell'Università di Yale, insegna a tirar su i propri figli per farli diventare piccoli geni in matematica vedi i risultati degli studenti di Shanghai negli ultimi test Pisa dell'Ocse e prodigi nella musica. Alla base del successo dei giovani cinesi, sostiene Chua, c'è infatti il metodo educativo imposto dalle madri cinesi.
Avete presente le dolcissime mamme italiane super apprensive e iper protettive con i loro bambini anche quando non sono più bambini? Ebbene le mamme cinesi sono esattamente l'opposto dello stereotipo italiano. La madre italiana è una chioccia, quelle cinese è una tigre. Come suggerisce il titolo del libro da cui è estratto il saggio di Chua, «Inno di battaglia della madre tigre».
Il metodo cinese è fatto di disciplina, rigore e severità, all'ennesima potenza. Secondo l'autrice è proprio la coercizione che porta ad eccellere. Ed elenca alcune delle regole messe in pratica con le sue due figlie, Sophia e Louisa. Il decalogo include non invitare o andare dagli amici a giocare, non dormire fuori casa, non guardare la tv o giocare con i videogames, non lasciare ai figli la scelta delle attività extra-scolastiche, pretendere il massimo dei voti.
Troppo? Perfino quando i genitori occidentali pensano di essere severi non si avvicinano neppure lontanamente alle madri cinesi. Per dare un'idea, Chua racconta come riuscì a far imparare a Louisa, quando aveva circa 7 anni, a suonare al pianoforte un pezzo del compositore francese Jacques Ibert, «Il piccolo asino bianco». Un pezzo molto bello, ma assai complicato per una bambina, perché «le mani devono suonare ritmi completamente diversi in modo schizofrenico», ricorda. Lulu non riusciva a suonarlo. Nemmeno dopo una settimana di esercitazioni non stop. Così la madre tigre diventa un'aguzzina. Nasconde l'amata casa delle bambole della figlia, e promette di regalarla pezzo a pezzo all'Esercito della Salvezza, se non imparerà «Il piccolo asino bianco» alla perfezione per l'indomani. Minaccia di farle saltare pranzo e cena, di non farle più regali a Natale, di abolire la festa di compleanno per 2, 3, 4 anni di fila. La offende chiamandola pigra, codarda, smidollata, patetica.
Nemmeno l'intervento del marito Jed ferma la madre tigre, perché quelli non sono insulti, lei sta «solo motivando» la figlioletta, si giustifica. La madre tigre è disposta ad «essere odiata». Ma non rinuncia al suo metodo. Così torna dalla figlia e continua a torturarla, usando «ogni arma e tattica» che le viene in mente. Madre e figlia provano al piano per tutta la sera fino a notte fonda, saltando la cena. Lulu non può alzarsi nemmeno per bere o per andare in bagno. La casa ormai è «una zona di guerra», piena di urli. Poi all'improvviso Lulu riesce a suonare il pezzo. È «talmente raggiante» che non vorrebbe più smettere di suonare.
La morale di Chua è che i genitori occidentali si preoccupano molto dell'autostima dei loro figli. Ma come genitore, una delle cose peggiori che si possono fare per l'autostima del proprio figlio è di farlo arrendere davanti a un ostacolo, dice. Non c'è niente di meglio per acquistare fiducia che scoprire di poter fare qualcosa che non si pensava di saper fare.
Ma può l'eccellenza nella musica o in altre discipline scientifiche fare la felicità dei nostri figli? E bastano queste abilità per avere successo nella vita? Su questi dilemmi si stanno confrontando i lettori. A valanga. Nei post si trova di tutto. Certo, prevale l'indignazione per il sistema da lager. Che ne è inoltre, molti si chiedono, della creatività, della socialità, dell'importanza di imparare a fare squadra? Il metodo cinese, però, riscuote anche consensi, soprattutto da quanti e non sono pochi credono che il permissivismo dei Paesi occidentali sia andato troppo oltre. Di sicuro il tema è «caldo», perché tocca temi sensibili come l'educazione dei figli, le differenze culturali e il nazionalismo. La discussione è aperta.
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Le regole della mamma cinese
Giuliana Ferraino
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Di che si tratta? L'autrice Amy Chua, una professoressa di Legge alla Law School dell'Università di Yale, insegna a tirar su i propri figli per farli diventare piccoli geni in matematica vedi i risultati degli studenti di Shanghai negli ultimi test Pisa dell'Ocse e prodigi nella musica. Alla base del successo dei giovani cinesi, sostiene Chua, c'è infatti il metodo educativo imposto dalle madri cinesi.
Avete presente le dolcissime mamme italiane super apprensive e iper protettive con i loro bambini anche quando non sono più bambini? Ebbene le mamme cinesi sono esattamente l'opposto dello stereotipo italiano. La madre italiana è una chioccia, quelle cinese è una tigre. Come suggerisce il titolo del libro da cui è estratto il saggio di Chua, «Inno di battaglia della madre tigre».
Il metodo cinese è fatto di disciplina, rigore e severità, all'ennesima potenza. Secondo l'autrice è proprio la coercizione che porta ad eccellere. Ed elenca alcune delle regole messe in pratica con le sue due figlie, Sophia e Louisa. Il decalogo include non invitare o andare dagli amici a giocare, non dormire fuori casa, non guardare la tv o giocare con i videogames, non lasciare ai figli la scelta delle attività extra-scolastiche, pretendere il massimo dei voti.
Troppo? Perfino quando i genitori occidentali pensano di essere severi non si avvicinano neppure lontanamente alle madri cinesi. Per dare un'idea, Chua racconta come riuscì a far imparare a Louisa, quando aveva circa 7 anni, a suonare al pianoforte un pezzo del compositore francese Jacques Ibert, «Il piccolo asino bianco». Un pezzo molto bello, ma assai complicato per una bambina, perché «le mani devono suonare ritmi completamente diversi in modo schizofrenico», ricorda. Lulu non riusciva a suonarlo. Nemmeno dopo una settimana di esercitazioni non stop. Così la madre tigre diventa un'aguzzina. Nasconde l'amata casa delle bambole della figlia, e promette di regalarla pezzo a pezzo all'Esercito della Salvezza, se non imparerà «Il piccolo asino bianco» alla perfezione per l'indomani. Minaccia di farle saltare pranzo e cena, di non farle più regali a Natale, di abolire la festa di compleanno per 2, 3, 4 anni di fila. La offende chiamandola pigra, codarda, smidollata, patetica.
Nemmeno l'intervento del marito Jed ferma la madre tigre, perché quelli non sono insulti, lei sta «solo motivando» la figlioletta, si giustifica. La madre tigre è disposta ad «essere odiata». Ma non rinuncia al suo metodo. Così torna dalla figlia e continua a torturarla, usando «ogni arma e tattica» che le viene in mente. Madre e figlia provano al piano per tutta la sera fino a notte fonda, saltando la cena. Lulu non può alzarsi nemmeno per bere o per andare in bagno. La casa ormai è «una zona di guerra», piena di urli. Poi all'improvviso Lulu riesce a suonare il pezzo. È «talmente raggiante» che non vorrebbe più smettere di suonare.
La morale di Chua è che i genitori occidentali si preoccupano molto dell'autostima dei loro figli. Ma come genitore, una delle cose peggiori che si possono fare per l'autostima del proprio figlio è di farlo arrendere davanti a un ostacolo, dice. Non c'è niente di meglio per acquistare fiducia che scoprire di poter fare qualcosa che non si pensava di saper fare.
Ma può l'eccellenza nella musica o in altre discipline scientifiche fare la felicità dei nostri figli? E bastano queste abilità per avere successo nella vita? Su questi dilemmi si stanno confrontando i lettori. A valanga. Nei post si trova di tutto. Certo, prevale l'indignazione per il sistema da lager. Che ne è inoltre, molti si chiedono, della creatività, della socialità, dell'importanza di imparare a fare squadra? Il metodo cinese, però, riscuote anche consensi, soprattutto da quanti e non sono pochi credono che il permissivismo dei Paesi occidentali sia andato troppo oltre. Di sicuro il tema è «caldo», perché tocca temi sensibili come l'educazione dei figli, le differenze culturali e il nazionalismo. La discussione è aperta.
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12.1.11
Marchionne e lo stipendio del dipendente Fiat
Opzioni e titoli gratuiti portano i compensi del leader Fiat a 38 milioni l' anno
Mucchetti Massimo
In questi giorni si riparla dei compensi di Sergio Marchionne. Sono troppi? Sono giustificati? Vale la pena di seguire il consiglio di Raffaele Mattioli: fare i conti prima di fare filosofia. E vale la pena di farli come se si dovesse rispondere al Dodd-Frank Act, la riforma finanziaria di Obama che farà testo anche in Chrysler. I numeri, dunque. Dal giugno 2004 al 2009, i compensi annuali, compreso l' accantonamento per la liquidazione riportato in nota, ammontano a 35,6 milioni di euro. Fa una media di 6,3 milioni l' anno che, per comodità nei conteggi successivi, ipotizziamo essere anche la paga del 2010 non ancora nota. Poi, come ricorda Andrea Malan sul Sole 24 Ore, ecco 4 milioni di azioni gratuite disponibili a fine 2012, ovvero 69,8 milioni alle quotazioni del 7 gennaio. Infine, 19,42 milioni di stock option esercitabili quest' anno al prezzo medio di 9,64 euro che, alla stessa data, valevano 143,8 milioni, di cui 115 immediatamente realizzabili. In 79 mesi al vertice della Fiat, Marchionne totalizza un valore pari a 255,5 milioni. Ovvero 38,8 milioni l' anno. E ora il confronto. Secondo il Dodd Frank Act, la paga del capo va paragonata al salario mediano versato dal gruppo. La legge italiana non esige questa notizia. Ci dobbiamo perciò arrangiare con il costo del lavoro pro capite che, nel quinquennio 2005-2009, equivale a 37.406 euro e dal 2006 al 2009 cala dell' 8%. Morale: ogni anno Marchionne guadagna 1.037 volte il suo dipendente medio. C' è forse bisogno di un gesto, suggerisce Cirino Pomicino su Libero. Le imposte. Marchionne ha conservato la residenza fiscale nel cantone svizzero di Zug. Sull' Espresso, Maurizio Maggi ipotizza un certo risparmio sulle imposte che il top manager dovrebbe versare se trasferisse la residenza nel Paese dove forma il suo reddito. Non è stato smentito. Infine, il titolo Fiat e le regole. L' azione ordinaria raggiunge l' apice l' 8 luglio 2007, a quota 23,44 euro. La prima tranche di stock option, concessa nel 2004 ed esercitabile al prezzo di 6,583 euro, viene a maturazione nel 2008 e resta valida fino al 31 gennaio 2011. Ma nel corso del 2008 le quotazioni crollano da 15,5 a 4,8 euro. E così, nella primavera seguente, il periodo d' esercizio delle stock option viene spostato in avanti: dal primo gennaio 2011 alla stessa data del 2016. Il 10 giugno 2009 la Fiat firma l' accordo Chrysler, che già incorpora l' idea dello sdoppiamento del gruppo, che parte adesso. L' aggiornamento delle opzioni è scelta legittima, ma anche discussa, perché attenua il rischio implicito in questa parte variabile della retribuzione. Il farlo durante la gestazione di decisioni price sensitive alimenta il dubbio di un' asimmetria informativa a favore del beneficiario rispetto al mercato. Nelle start up della Silicon Valley le stock option hanno avuto un ruolo, ma nelle imprese mature? Enrico Cuccia e Cesare Romiti non vollero mai azioni di Mediobanca e di Fiat: per non essere condizionati da interessi personali e restare del tutto liberi di decidere, magari sbagliando, per il bene dell' impresa. Che va oltre quello dei suoi soci pro tempore. mmucchetti@corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA
Mucchetti Massimo
In questi giorni si riparla dei compensi di Sergio Marchionne. Sono troppi? Sono giustificati? Vale la pena di seguire il consiglio di Raffaele Mattioli: fare i conti prima di fare filosofia. E vale la pena di farli come se si dovesse rispondere al Dodd-Frank Act, la riforma finanziaria di Obama che farà testo anche in Chrysler. I numeri, dunque. Dal giugno 2004 al 2009, i compensi annuali, compreso l' accantonamento per la liquidazione riportato in nota, ammontano a 35,6 milioni di euro. Fa una media di 6,3 milioni l' anno che, per comodità nei conteggi successivi, ipotizziamo essere anche la paga del 2010 non ancora nota. Poi, come ricorda Andrea Malan sul Sole 24 Ore, ecco 4 milioni di azioni gratuite disponibili a fine 2012, ovvero 69,8 milioni alle quotazioni del 7 gennaio. Infine, 19,42 milioni di stock option esercitabili quest' anno al prezzo medio di 9,64 euro che, alla stessa data, valevano 143,8 milioni, di cui 115 immediatamente realizzabili. In 79 mesi al vertice della Fiat, Marchionne totalizza un valore pari a 255,5 milioni. Ovvero 38,8 milioni l' anno. E ora il confronto. Secondo il Dodd Frank Act, la paga del capo va paragonata al salario mediano versato dal gruppo. La legge italiana non esige questa notizia. Ci dobbiamo perciò arrangiare con il costo del lavoro pro capite che, nel quinquennio 2005-2009, equivale a 37.406 euro e dal 2006 al 2009 cala dell' 8%. Morale: ogni anno Marchionne guadagna 1.037 volte il suo dipendente medio. C' è forse bisogno di un gesto, suggerisce Cirino Pomicino su Libero. Le imposte. Marchionne ha conservato la residenza fiscale nel cantone svizzero di Zug. Sull' Espresso, Maurizio Maggi ipotizza un certo risparmio sulle imposte che il top manager dovrebbe versare se trasferisse la residenza nel Paese dove forma il suo reddito. Non è stato smentito. Infine, il titolo Fiat e le regole. L' azione ordinaria raggiunge l' apice l' 8 luglio 2007, a quota 23,44 euro. La prima tranche di stock option, concessa nel 2004 ed esercitabile al prezzo di 6,583 euro, viene a maturazione nel 2008 e resta valida fino al 31 gennaio 2011. Ma nel corso del 2008 le quotazioni crollano da 15,5 a 4,8 euro. E così, nella primavera seguente, il periodo d' esercizio delle stock option viene spostato in avanti: dal primo gennaio 2011 alla stessa data del 2016. Il 10 giugno 2009 la Fiat firma l' accordo Chrysler, che già incorpora l' idea dello sdoppiamento del gruppo, che parte adesso. L' aggiornamento delle opzioni è scelta legittima, ma anche discussa, perché attenua il rischio implicito in questa parte variabile della retribuzione. Il farlo durante la gestazione di decisioni price sensitive alimenta il dubbio di un' asimmetria informativa a favore del beneficiario rispetto al mercato. Nelle start up della Silicon Valley le stock option hanno avuto un ruolo, ma nelle imprese mature? Enrico Cuccia e Cesare Romiti non vollero mai azioni di Mediobanca e di Fiat: per non essere condizionati da interessi personali e restare del tutto liberi di decidere, magari sbagliando, per il bene dell' impresa. Che va oltre quello dei suoi soci pro tempore. mmucchetti@corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA
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