Barbara Spinelli (il fatto quotidiano)
Contro l'ortodossia
Nella storia francese, quel che è accaduto domenica in Grecia ha un nome: si chiama “divine surprise”. Il maggio 68 fu una divina sorpresa, e prima ancora – il termine fu coniato da Charles Maurras – l’ascesa al potere di Pétain. La storia inaspettatamente svolta, tutte le diagnosi della vigilia si disfano. Fino a ieri regnava l’ortodossia, il pensiero che non contempla devianze perché ritenuto l’unico giusto, diritto. L’incursione della sorpresa spezza l’ortodossia, apre spazi ad argomenti completamente diversi. La vittoria di Alexis Tsipras torce la storia allo stesso modo. Non è detto che l’impossibile diventi possibile, che l’Europa cambi rotta e si ricostruisca su nuove basi.
Non avendo la maggioranza assoluta, Syriza dovrà patteggiare con forze non omogenee alla propria linea. Ma da oggi ogni discorso che si fa a Bruxelles, o a Berlino, a Roma, a Parigi, sarà esaminato alla luce di quel che chiede la maggioranza dei greci: una fondamentale metamorfosi – nel governo nazionale e in Europa – delle politiche anti-crisi, dei modi di negoziare e parlarsi tra Stati membri, delle abitudini cittadine a fidarsi o non fidarsi dell’Unione. Ricominciare a sperare nell’Europa è possibile solo in un’esperienza di lotta alla degenerazione liberista, alla fuga dalla solidarietà, alla povertà generatrice di xenofobie: è quel che promette Tsipras. I tanti che vorrebbero perpetuare le pratiche di ieri proveranno a fare come se nulla fosse. I partiti di centrodestra e centrosinistra continueranno a patteggiare fra loro – son diventati agenzie di collocamento più che partiti – ma la loro natura apparirà d’un tratto stantia; per esempio in Italia apparirà obsoleto qualunque presidente della Repubblica, se i nomi vincenti sono quelli che circolano negli ultimi giorni. Dopo le elezioni di Tsipras, anche qui sono attese divine sorprese che scompiglino i giochi tra partiti e oligarchie. Non si può naturalmente escludere che Tsipras possa deludere il proprio popolo, ma il pensiero nuovo che impersona è ormai sul palcoscenico ed è questo: non puoi, senza il consenso dei cittadini che più soffrono la crisi, decretare dall’alto – e in modo così drastico – il cambiamento in peggio della loro vita, dei loro redditi, dei servizi pubblici garantiti dallo Stato sociale. Non puoi continuare a castigare i poveri, e non far pagare i ricchi. Non esiste ancora una Costituzione europea che cominci, alla maniera di quella statunitense, con le parole “Noi, popoli d’Europa…”, ma quel che s’è fatto vivo domenica è il desiderio dei popoli di pesare, infine, su politiche abusivamente fatte in loro nome. L’establishment che guida l’Unione è in stato di stupore. Meglio sarebbe stato, per lui, che tra i vincitori ci fosse solo l’estrema destra di Alba Dorata, e che Syriza avesse fatto un’altra campagna: annunciando l’uscita dall’Euro, dall’Unione. Non è così, per sfortuna di molti: sin dal 2012, Tsipras ha detto che in quest’Europa vuol restare, che la moneta unica non sarà rinnegata, ma che l’insieme della sua architettura deve mutare, politicizzarsi, “basarsi sulla dignità e sulla giustizia sociale”. La maggioranza di Syriza – da Tsipras a eurodeputati come Dimitrios Papadimoulis o Manolis Glezos – ha scelto come propria bandiera il Manifesto federalista di Ventotene. DICONO che Syriza sfascerà l’Unione, non pagando i debiti e demolendo le finanze europee. Non è vero. Tsipras dice che Atene onorerà i debiti, purché una grossa porzione, dilatata dall’austerità, sia ristrutturata. Che gli Stati dell’Unione dovranno ridiscutere la questione del debito come avvenne nel ’53, quando furono condonati – anche con il contributo della Grecia, dell’Italia e della Spagna – i debiti di guerra della Germania (16 miliardi di marchi). Che l’Europa dovrà impegnarsi in un massiccio piano di investimenti comuni, finanziato dalla Banca europea degli investimenti, dal Fondo europeo degli investimenti, dalla Bce: è la “modesta proposta” di Yanis Varoufakis, l’economista candidato di Syriza in queste elezioni. Quanto al dissesto propriamente greco, Tsipras ne ha indicate le radici anni fa: i veri mali che paralizzano la crescita ellenica sono la corruzione e l’evasione fiscale. “È un fatto che la nostra cleptocrazia ha stretto un’alleanza con le élite europee per propagare menzogne, sulla Grecia, convenienti per gli eurocrati ed eccellenti per le banche fallimentari” (Tsipras al Kreisky Forum di Vienna, 20-9-2013). Questi anni di crisi hanno trasformato l’Unione in una forza conflittuale, punitiva, misantropa. Hanno svuotato le Costituzioni nazionali, la Carta europea dei diritti fondamentali, lo stesso Trattato di Lisbona. Hanno trasformato i governi debitori in scolari minorenni: ogni tanto scalciano, ma interiorizzano la propria sottomissione a disciplinatori più forti, a ideologi che pur avendo fallito perseverano nella propria arroganza. Quel che muove Tsipras è la convinzione che la crisi non sia di singoli Stati, ma sistemica: è crisi straordinaria dell’intera eurozona, bisognosa di misure non meno straordinarie. Tsipras rimette al centro la politica, il negoziato tra adulti dell’Unione, la perduta dialettica fra opposti schieramenti, il progresso sociale. L’accordo cui mira “deve essere vantaggioso per tutti”, e resuscitare l’idea postbellica di una diga contro ogni forma di dispotismo, di riforme strutturali imposte dall’alto, di lotte e falsi equilibri tra Stati centrali e periferici, tra Nord e Sud, tra creditori incensurati e debitori colpevoli.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
27.1.15
La divina sorpresa che viene da Atene
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Giornata della memoria, un impegno politico
Marco Sannella (Provincia Pavese)
Seppur appuntamento tra i più partecipati, la Giornata della Memoria non sfugge a quell'affollato calendario che supporta la realtà della "bulimia commemorativa", con annessi tutti i vizi della retorica celebrativa, banalizzante e in definitiva autoindulgente. Banalizzando si sposta il discorso, in forma di tardivo e frettoloso risarcimento, sulla problematica identità delle vittime, sull'affascinante e complessa storia degli ebrei, e questa sorprendente solidarietà è spesso veicolata dai più sospettabili portavoce di un antifascismo addomesticato, proclive alla pacificazione nazionale.
La Shoah, lo sterminio dei due terzi degli ebrei d'Europa, è un tragico punto d'arrivo, uno spartiacque che riguarda, in primo luogo, i carnefici europei, volenterosi o meno. Il programmato annientamento di 6 milioni di ebrei (tra cui 1 milione di bambini) ad opera del regime nazista e dei suoi stretti collaboratori europei, i fascisti italiani della repubblichetta di Salò, delle croci frecciate ungheresi, degli ustascia croati, dei rexisti belgi, dei petainisti di Vichy, sino ai solerti collaboratori lettoni, lituani ed ucraini nell'Unione Sovietica occupata dalla Wermacht, non fu il frutto abnorme di un gruppo di folli criminali; la resistibile ascesa di Adolf Hitler alla Cancelleria del Reich è stata favorita dall'appoggio della grande industria tedesca dei Krupp e degli Stinnes, dall'appoggio di un aggressivo militarismo frustrato da Versailles, da una volontà comune di colonizzare e schiavizzare i territori dell'est europeo.
A sostegno di ciò è stata mobilitata tutta l'antica reazione, imbevuta e strutturata da un millenario anti giudaismo cattolico e dal più recente antisemitismo nazionalistico. Questa miscela divenne strategia accuratamente pianificata di sterminio (Endlosung o Soluzione Finale), posta in atto con sofisticata tecnologia industriale ed efficacia senza precedenti. In questo senso la Shoah si presenta come la "ricapitolazione" della reazione associata alla cosiddetta civiltà cristiano-occidentale.
I carnefici italiani diedero il loro contributo fattivo a partire dalle leggi razziali del '38, volute e messe in opera dalla dittatura fascista con alla testa Benito Mussolini, con il censimento degli ebrei italiani, l'isolamento, la segregazione, preliminari alla deportazione ed allo sterminio. Le leggi furono firmate da Vittorio Emanuele III di Savoia, Papa Pio XI si espresse contro una sola norma; non si pronunciò Papa Pio XII. Solo l'antifascismo all'estero proclamò la sua ferma condanna. La segregazione e la deportazione vide in prima fila i repubblichini, con dispacci e fonogrammi che partivano dalle nostre stazioni di polizia, vagoni merci che si dirigevano ai campi di concentramento e di transito, da quello di Fossoli a quello di sterminio della risiera di San Sabba, non mancò neppure l'infamia delle taglie sulle consegne. Anche durante i mesi della deportazione degli 8.000 ebrei italiani la Resistenza fu unica voce organizzata di solidarietà, i giornali degli azionisti e dei socialisti denunciarono gli avvenimenti, l'Unità comunista chiamò alla costituzione di gruppi di autodifesa. "Difendere gli ebrei!" proclamava un manifesto a ridosso della razzia e della deportazione degli ebrei romani il 16 ottobre 1943.
"E' accaduto, quindi potrebbe accadere di nuovo", così ammoniva Primo Levi; dopo le amnistie del Dopoguerra e le amnesie del revisionismo, dopo gli anni dello stragismo nero, l'Anpi è in prima fila in una battaglia che non è solo culturale ma è, in prima istanza, politica. La mobilitazione contro i raggruppamenti delle nuove destre neofasciste coperte dagli odierni imprenditori politici del razzismo, che alimentano paure e strumentalizzano il bisogno d'ordine e di capri espiatori, è impegno quotidiano.
Il ricordo del martirio del popolo ebraico e della Resistenza europea passa da questa attualizzazione dell'antifascismo, perché l'incubo di Primo Levi non prenda corpo, un incubo che pareva immotivato sino a qualche anno fa.
Seppur appuntamento tra i più partecipati, la Giornata della Memoria non sfugge a quell'affollato calendario che supporta la realtà della "bulimia commemorativa", con annessi tutti i vizi della retorica celebrativa, banalizzante e in definitiva autoindulgente. Banalizzando si sposta il discorso, in forma di tardivo e frettoloso risarcimento, sulla problematica identità delle vittime, sull'affascinante e complessa storia degli ebrei, e questa sorprendente solidarietà è spesso veicolata dai più sospettabili portavoce di un antifascismo addomesticato, proclive alla pacificazione nazionale.
La Shoah, lo sterminio dei due terzi degli ebrei d'Europa, è un tragico punto d'arrivo, uno spartiacque che riguarda, in primo luogo, i carnefici europei, volenterosi o meno. Il programmato annientamento di 6 milioni di ebrei (tra cui 1 milione di bambini) ad opera del regime nazista e dei suoi stretti collaboratori europei, i fascisti italiani della repubblichetta di Salò, delle croci frecciate ungheresi, degli ustascia croati, dei rexisti belgi, dei petainisti di Vichy, sino ai solerti collaboratori lettoni, lituani ed ucraini nell'Unione Sovietica occupata dalla Wermacht, non fu il frutto abnorme di un gruppo di folli criminali; la resistibile ascesa di Adolf Hitler alla Cancelleria del Reich è stata favorita dall'appoggio della grande industria tedesca dei Krupp e degli Stinnes, dall'appoggio di un aggressivo militarismo frustrato da Versailles, da una volontà comune di colonizzare e schiavizzare i territori dell'est europeo.
A sostegno di ciò è stata mobilitata tutta l'antica reazione, imbevuta e strutturata da un millenario anti giudaismo cattolico e dal più recente antisemitismo nazionalistico. Questa miscela divenne strategia accuratamente pianificata di sterminio (Endlosung o Soluzione Finale), posta in atto con sofisticata tecnologia industriale ed efficacia senza precedenti. In questo senso la Shoah si presenta come la "ricapitolazione" della reazione associata alla cosiddetta civiltà cristiano-occidentale.
I carnefici italiani diedero il loro contributo fattivo a partire dalle leggi razziali del '38, volute e messe in opera dalla dittatura fascista con alla testa Benito Mussolini, con il censimento degli ebrei italiani, l'isolamento, la segregazione, preliminari alla deportazione ed allo sterminio. Le leggi furono firmate da Vittorio Emanuele III di Savoia, Papa Pio XI si espresse contro una sola norma; non si pronunciò Papa Pio XII. Solo l'antifascismo all'estero proclamò la sua ferma condanna. La segregazione e la deportazione vide in prima fila i repubblichini, con dispacci e fonogrammi che partivano dalle nostre stazioni di polizia, vagoni merci che si dirigevano ai campi di concentramento e di transito, da quello di Fossoli a quello di sterminio della risiera di San Sabba, non mancò neppure l'infamia delle taglie sulle consegne. Anche durante i mesi della deportazione degli 8.000 ebrei italiani la Resistenza fu unica voce organizzata di solidarietà, i giornali degli azionisti e dei socialisti denunciarono gli avvenimenti, l'Unità comunista chiamò alla costituzione di gruppi di autodifesa. "Difendere gli ebrei!" proclamava un manifesto a ridosso della razzia e della deportazione degli ebrei romani il 16 ottobre 1943.
"E' accaduto, quindi potrebbe accadere di nuovo", così ammoniva Primo Levi; dopo le amnistie del Dopoguerra e le amnesie del revisionismo, dopo gli anni dello stragismo nero, l'Anpi è in prima fila in una battaglia che non è solo culturale ma è, in prima istanza, politica. La mobilitazione contro i raggruppamenti delle nuove destre neofasciste coperte dagli odierni imprenditori politici del razzismo, che alimentano paure e strumentalizzano il bisogno d'ordine e di capri espiatori, è impegno quotidiano.
Il ricordo del martirio del popolo ebraico e della Resistenza europea passa da questa attualizzazione dell'antifascismo, perché l'incubo di Primo Levi non prenda corpo, un incubo che pareva immotivato sino a qualche anno fa.
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26.1.15
Effetto Tsipras sulle Borse, a Tokyo crolla l’euro
(La Stampa)
In mercati in ansia dopo il trionfo di Syriza ad Atene. Ma il piano Bce smorza le tensioni
L’effetto Alexis Tsipras, vincitore indiscusso con la sua Syriza alle elezioni politiche in Grecia, si abbatte sull’euro che segna all’apertura dei listini di Borsa di Tokyo un tonfo sia contro il dollaro e sia contro lo yen, scendendo rispettivamente a 1,1139 e a 130,78. Nelle contrattazioni di venerdì sulla piazza valutaria di New York, l’euro si era già indebolito a 1,1200 dollari e a 132,02 yen sulle attese dell’affermazione di Tsipras, promotore dell’inversione di rotta delle politiche di risanamento ed austerità imposte dalla troika, alimentando i timori sull’arrivo di un’altra fase d’instabilità in Eurolandia.
In flessione anche il biglietto verde sulla divisa nipponica, sceso a quota 117,40
I mercati sono in apprensione per il destino del debito di Atene, che ammonta a circa 320 miliardi di euro. Gli analisti sembrano però escludere reazioni isteriche, un po’ per l’effetto “paracadute” rappresentato dal quantitative easing lanciato giovedì dalla Bce e un po’ per il fatto che - dopo il piano di aiuti condizionato alle misure di austerity imposte dalla troika (Fmi, Ue, Bce) - l’esposizione verso i privati, secondo i dati elaborati da Ig Markets, è scesa dal 59% al 17% del totale, a fronte di un 62% in mano ai governi dell’Eurozona, un 11% della Bce e un 10% dell’Fmi.
Insomma qualora dovesse aprirsi un tema di taglio del debito greco - punto qualificante del programma del movimento guidato da Alexis Tsipras - questa volta, a differenza che nella crisi del 2010, il problema sarà in primo luogo dei governi e della istituzioni europee e non di banche e fondi. «Il tema del contagio non è del tutto superato me si è ridotto» afferma Lucy O’Carroll, economista di Aberdeen asset management.
L’attenzione resta comunque elevata. «È nell’interesse del governo greco fare le riforme necessarie per risolvere i suoi problemi strutturali», commenta il presidente della Bundesbank Jens Weidmann alla tv tedesca Ard dopo i primi risultati del voto in Grecia. «Atene - continua - deve aderire alle condizioni del salvataggio». L’Ansa riferisce che il presidente della Bce Mario Draghi, quelli della Commissione Ue Jean Claude Juncker, del Consiglio Danald Tusk e dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem avranno una colazione di lavoro prima dell’Eurogruppo per discutere della Grecia.
Gli analisti di Axa Investment Management ammettono che «le incertezze sulle trattative tra la Grecia e i creditori internazionali faranno le loro vittime tra gli asset rischiosi» ma si aspettano un effetto «marginale» sul complesso dell’Eurozona. Lo stesso Tsipras ha detto di non avere come obiettivo l’uscita dall’euro e dunque dovrà cercare un compromesso con i suoi creditori, anche per non vedere i bond di Atene esclusi dagli acquisti della Bce.
La conferma di una vigilia tranquilla arriva anche dall’andamento dei rendimenti e degli spread dei titoli sovrani nell’Eurozona, scesi a livelli bassissimi grazie all’ombrello della Bce. Unica eccezione i bond greci, che nelle ultime sedute hanno registrato un’inversione della curva dei rendimenti, con i titoli triennali che rendono di più dei decennali (il 9,7% contro l’8,1%), segno che il mercato teme una ristrutturazione che andrà a colpire maggiormente le scadenza più vicine.
Alla riapertura delle borse europee si conosceranno con esattezza le dimensioni del successo di Syriza. E si capirà se il movimento anti-austerity´ avrà da solo i 151 voti necessari per controllare l’assemblea legislativa ellenica (ipotesi meno gradita al mercato) o dovrà trovare alleati più moderati, come il partito socialista Pasok o il To Potami guidato dal giornalista televisivo Stauros Theodorakis.
In mercati in ansia dopo il trionfo di Syriza ad Atene. Ma il piano Bce smorza le tensioni
L’effetto Alexis Tsipras, vincitore indiscusso con la sua Syriza alle elezioni politiche in Grecia, si abbatte sull’euro che segna all’apertura dei listini di Borsa di Tokyo un tonfo sia contro il dollaro e sia contro lo yen, scendendo rispettivamente a 1,1139 e a 130,78. Nelle contrattazioni di venerdì sulla piazza valutaria di New York, l’euro si era già indebolito a 1,1200 dollari e a 132,02 yen sulle attese dell’affermazione di Tsipras, promotore dell’inversione di rotta delle politiche di risanamento ed austerità imposte dalla troika, alimentando i timori sull’arrivo di un’altra fase d’instabilità in Eurolandia.
In flessione anche il biglietto verde sulla divisa nipponica, sceso a quota 117,40
I mercati sono in apprensione per il destino del debito di Atene, che ammonta a circa 320 miliardi di euro. Gli analisti sembrano però escludere reazioni isteriche, un po’ per l’effetto “paracadute” rappresentato dal quantitative easing lanciato giovedì dalla Bce e un po’ per il fatto che - dopo il piano di aiuti condizionato alle misure di austerity imposte dalla troika (Fmi, Ue, Bce) - l’esposizione verso i privati, secondo i dati elaborati da Ig Markets, è scesa dal 59% al 17% del totale, a fronte di un 62% in mano ai governi dell’Eurozona, un 11% della Bce e un 10% dell’Fmi.
Insomma qualora dovesse aprirsi un tema di taglio del debito greco - punto qualificante del programma del movimento guidato da Alexis Tsipras - questa volta, a differenza che nella crisi del 2010, il problema sarà in primo luogo dei governi e della istituzioni europee e non di banche e fondi. «Il tema del contagio non è del tutto superato me si è ridotto» afferma Lucy O’Carroll, economista di Aberdeen asset management.
L’attenzione resta comunque elevata. «È nell’interesse del governo greco fare le riforme necessarie per risolvere i suoi problemi strutturali», commenta il presidente della Bundesbank Jens Weidmann alla tv tedesca Ard dopo i primi risultati del voto in Grecia. «Atene - continua - deve aderire alle condizioni del salvataggio». L’Ansa riferisce che il presidente della Bce Mario Draghi, quelli della Commissione Ue Jean Claude Juncker, del Consiglio Danald Tusk e dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem avranno una colazione di lavoro prima dell’Eurogruppo per discutere della Grecia.
Gli analisti di Axa Investment Management ammettono che «le incertezze sulle trattative tra la Grecia e i creditori internazionali faranno le loro vittime tra gli asset rischiosi» ma si aspettano un effetto «marginale» sul complesso dell’Eurozona. Lo stesso Tsipras ha detto di non avere come obiettivo l’uscita dall’euro e dunque dovrà cercare un compromesso con i suoi creditori, anche per non vedere i bond di Atene esclusi dagli acquisti della Bce.
La conferma di una vigilia tranquilla arriva anche dall’andamento dei rendimenti e degli spread dei titoli sovrani nell’Eurozona, scesi a livelli bassissimi grazie all’ombrello della Bce. Unica eccezione i bond greci, che nelle ultime sedute hanno registrato un’inversione della curva dei rendimenti, con i titoli triennali che rendono di più dei decennali (il 9,7% contro l’8,1%), segno che il mercato teme una ristrutturazione che andrà a colpire maggiormente le scadenza più vicine.
Alla riapertura delle borse europee si conosceranno con esattezza le dimensioni del successo di Syriza. E si capirà se il movimento anti-austerity´ avrà da solo i 151 voti necessari per controllare l’assemblea legislativa ellenica (ipotesi meno gradita al mercato) o dovrà trovare alleati più moderati, come il partito socialista Pasok o il To Potami guidato dal giornalista televisivo Stauros Theodorakis.
25.1.15
Piccole lezioni di Tsipras
Alessandro Gilioli (L'Espresso)
L’ho già detto e lo ripeto: non è che domani in Grecia inizia il radioso futuro del socialismo. Inizia semmai una sfida difficile e complicata. Che ritengo tuttavia da seguire in modo non neutrale: se non altro perché forse sta per nascere il primo governo europeo che non obbedisce alle ricette della Troika. Non è poca cosa, credo.
Nel frattempo, credo che la vittoria di Syriza possa mostrare due o tre cose.
Ad esempio, che la radicazione sociale ottenuta con il tempo e con la fatica non è affatto un dettaglio: anzi, è fondamentale. Secondo, che le pratiche personali e collettive sono condizioni igieniche di base, non solo per guardarsi allo specchio alla mattina ma anche per acquisire autorevolezza e consenso. Terzo, che il tormentone “si vince solo inseguendo il centro” è, o talvolta può essere, una sciocchezza totale.
Classe 1974, Alexis Tsipras inizia il suo percorso politico giovanile al fianco delle mummie della sinistra greca: nel Kke, il partito comunista ortodosso, già stalinista e comunque ancorato al marxismo-leninismo. Ma è un eretico e un movimentista, sicché se ne distacca presto per passare una formazione nuova nella galassia della sinistra locale, il Synaspismós, dove pure rappresenta l’ala più anticonformista e innovativa.
Nel 2001 cerca di venire in Italia, per il G8 di Genova, ma con i suoi compagni viene bloccato ad Ancona dalle nostre forze dell’ordine e rispedito ad Atene. Si rifarà due anni dopo, organizzando le proteste di piazza contro il Consiglio Europeo di Salonicco, che rappresentano un po’ l’atto di nascita della nuova sinistra in Grecia.
È così che nel 2006 Tsipras si lancia come candidato sindaco di Atene con una lista, Città aperta, che tenta di raccogliere le diverse anime della sinistra radicale in città: raccoglie un risultato record, oltre il 10 per cento, andando ogni giorno nei mercati e nei quartieri lontani dal centro a parlare di povertà, welfare, precarietà giovanile, ambiente, diritti delle donne.
È l’inizio di un percorso che lo porterà in pochi anni a rifondare tutta la sinistra greca, che come frazionismo e litigiosità non aveva nulla da invidiare alla nostra.
Puntando su obiettivi concreti, su diritti di base sempre più negati ai suoi connazionali, Tsipras riesce dal 2010 a fondere in Syriza le componenti più diverse, dai vetero-maoisti ai riformisti, dai neokeynesiani agli altermondialisti, dagli ecologisti ai trotskisti, giù giù fino al mondo dei movimenti e dell’associazionismo di base, perfino del nuovo mutualismo con cui nel suo Paese si cerca di far fronte alla crisi. Il tutto sulla base di un principio semplice ma dirompente: le ricette imposte dalla Troika servono solo ad aumentare la forbice sociale, a creare una piccola classe di super privilegiati e un’immensa classe di nuovi poveri.
La realtà, come noto, dà ragione a Tsipras, memorandum dopo memorandum.
In Grecia la classe media scompare o quasi, chiudono le scuole, gli ospedali mandano via chi sta male, gli ex colletti bianchi cercano cibo nei bidoni della spazzatura. Che cosa contano, di fronte a una realtà del genere, le vecchie identità ideologiche, le contrapposizioni personalistiche o di gruppo, i litigi che affondano le loro radici nelle dispute del secolo scorso? Niente – e Tsipras lo sa.
Così come sa che in politica non importa più solo quello che dici, ma anche quello che sei, cioè le tue pratiche personali: neanche i detrattori più accesi, ad esempio, ne mettono in dubbio l’onestà personale. E, al contrario di tanti altri leader politici della sinistra (anche italiana), Tsipras vive in una zona popolare e multietnica, non in un palazzo del centro storico. Da lì, ogni giorno, raggiunge il suo ufficio guidando una vecchia Skoda.
Questo tuttavia non basta, naturalmente, così come non basta la lotta contro la Troika. Ecco perché Tsipras fa di Syriza il primo partito che mette sul medesimo piano i diritti sociali e quelli civili: quindi nel suo programma ci sono allo stesso modo l’istruzione pubblica e il matrimonio gay, il controllo statale della banche e la depenalizzazione delle droghe, il salario sociale e la laicità dello Stato, la patrimoniale e il taglio delle spese militari, la tassazione delle rendite finanziarie e l’antirazzismo.
Il tutto, mescolato appunto con una robusta radicazione tra le persone: un lavoro intenso all’interno della collettività che crea legami molto forti con i ceti sacrificati dalla recessione, insomma consente a Syriza di proporsi come autentico soggetto sociale. I deputati di Tsipras escono dal Parlamento e vanno nelle case delle persone: se sono avvocati, offrono patrocinio gratuito ai lavoratori licenziati, alle famiglie sfrattate; se sono medici, aiutano nei centri di soccorso che tappano i buchi della sanità pubblica; oppure servono alle mense popolari o si arrampicano sui tralicci per riattaccare l’elettricità ai poveri a cui è stata tagliata.
In più, oltre ai programmi e alle pratiche, è anche una ‘rivoluzione cognitiva’ quella che Tsipras porta nella sinistra greca, cioè una mutazione di atteggiamento: rendendola un soggetto con ideali forti ma pragmatico, finalmente emancipato dal vecchio tic per cui «a sinistra ci si sentiva meglio nel perdere gloriosamente che nel vincere», come sintetizza l’intellettuale greco Costa Douzinas nel libro di Giacomo Russo Spena e Matteo Pucciarelli “Tsipras chi” (ah, leggetelo). Anche con imprudenza, se necessario: ad esempio scontrandosi con gli apparati del vecchio sindacato, rappresentativi ormai solo dei garantiti (sempre meno) e non della crescente marea di precari e disoccupati. O provando a rivolgersi anche a un elettorato tradizionalmente non di sinistra, come quello dei commercianti: pure loro impoveriti dalla crisi e soprattutto sempre più costretti a versare mazzette a questo o a quel politico di Nuova Democrazia e del Pasok.
Insomma: apertura mentale, movimentismo, innovazione, coraggio, utopia bilanciata dal pragmatismo.
Quello che qui non si è mai riusciti a fare: unirsi, cambiare nelle pratiche e nei linguaggi, uscire dal proprio recinto autoreferenziale e dalla propria ininfluenza, interpretando davvero il disagio dei ceti bassi e di quelli impoveriti dalla recessione.
L’ho già detto e lo ripeto: non è che domani in Grecia inizia il radioso futuro del socialismo. Inizia semmai una sfida difficile e complicata. Che ritengo tuttavia da seguire in modo non neutrale: se non altro perché forse sta per nascere il primo governo europeo che non obbedisce alle ricette della Troika. Non è poca cosa, credo.
Nel frattempo, credo che la vittoria di Syriza possa mostrare due o tre cose.
Ad esempio, che la radicazione sociale ottenuta con il tempo e con la fatica non è affatto un dettaglio: anzi, è fondamentale. Secondo, che le pratiche personali e collettive sono condizioni igieniche di base, non solo per guardarsi allo specchio alla mattina ma anche per acquisire autorevolezza e consenso. Terzo, che il tormentone “si vince solo inseguendo il centro” è, o talvolta può essere, una sciocchezza totale.
Classe 1974, Alexis Tsipras inizia il suo percorso politico giovanile al fianco delle mummie della sinistra greca: nel Kke, il partito comunista ortodosso, già stalinista e comunque ancorato al marxismo-leninismo. Ma è un eretico e un movimentista, sicché se ne distacca presto per passare una formazione nuova nella galassia della sinistra locale, il Synaspismós, dove pure rappresenta l’ala più anticonformista e innovativa.
Nel 2001 cerca di venire in Italia, per il G8 di Genova, ma con i suoi compagni viene bloccato ad Ancona dalle nostre forze dell’ordine e rispedito ad Atene. Si rifarà due anni dopo, organizzando le proteste di piazza contro il Consiglio Europeo di Salonicco, che rappresentano un po’ l’atto di nascita della nuova sinistra in Grecia.
È così che nel 2006 Tsipras si lancia come candidato sindaco di Atene con una lista, Città aperta, che tenta di raccogliere le diverse anime della sinistra radicale in città: raccoglie un risultato record, oltre il 10 per cento, andando ogni giorno nei mercati e nei quartieri lontani dal centro a parlare di povertà, welfare, precarietà giovanile, ambiente, diritti delle donne.
È l’inizio di un percorso che lo porterà in pochi anni a rifondare tutta la sinistra greca, che come frazionismo e litigiosità non aveva nulla da invidiare alla nostra.
Puntando su obiettivi concreti, su diritti di base sempre più negati ai suoi connazionali, Tsipras riesce dal 2010 a fondere in Syriza le componenti più diverse, dai vetero-maoisti ai riformisti, dai neokeynesiani agli altermondialisti, dagli ecologisti ai trotskisti, giù giù fino al mondo dei movimenti e dell’associazionismo di base, perfino del nuovo mutualismo con cui nel suo Paese si cerca di far fronte alla crisi. Il tutto sulla base di un principio semplice ma dirompente: le ricette imposte dalla Troika servono solo ad aumentare la forbice sociale, a creare una piccola classe di super privilegiati e un’immensa classe di nuovi poveri.
La realtà, come noto, dà ragione a Tsipras, memorandum dopo memorandum.
In Grecia la classe media scompare o quasi, chiudono le scuole, gli ospedali mandano via chi sta male, gli ex colletti bianchi cercano cibo nei bidoni della spazzatura. Che cosa contano, di fronte a una realtà del genere, le vecchie identità ideologiche, le contrapposizioni personalistiche o di gruppo, i litigi che affondano le loro radici nelle dispute del secolo scorso? Niente – e Tsipras lo sa.
Così come sa che in politica non importa più solo quello che dici, ma anche quello che sei, cioè le tue pratiche personali: neanche i detrattori più accesi, ad esempio, ne mettono in dubbio l’onestà personale. E, al contrario di tanti altri leader politici della sinistra (anche italiana), Tsipras vive in una zona popolare e multietnica, non in un palazzo del centro storico. Da lì, ogni giorno, raggiunge il suo ufficio guidando una vecchia Skoda.
Questo tuttavia non basta, naturalmente, così come non basta la lotta contro la Troika. Ecco perché Tsipras fa di Syriza il primo partito che mette sul medesimo piano i diritti sociali e quelli civili: quindi nel suo programma ci sono allo stesso modo l’istruzione pubblica e il matrimonio gay, il controllo statale della banche e la depenalizzazione delle droghe, il salario sociale e la laicità dello Stato, la patrimoniale e il taglio delle spese militari, la tassazione delle rendite finanziarie e l’antirazzismo.
Il tutto, mescolato appunto con una robusta radicazione tra le persone: un lavoro intenso all’interno della collettività che crea legami molto forti con i ceti sacrificati dalla recessione, insomma consente a Syriza di proporsi come autentico soggetto sociale. I deputati di Tsipras escono dal Parlamento e vanno nelle case delle persone: se sono avvocati, offrono patrocinio gratuito ai lavoratori licenziati, alle famiglie sfrattate; se sono medici, aiutano nei centri di soccorso che tappano i buchi della sanità pubblica; oppure servono alle mense popolari o si arrampicano sui tralicci per riattaccare l’elettricità ai poveri a cui è stata tagliata.
In più, oltre ai programmi e alle pratiche, è anche una ‘rivoluzione cognitiva’ quella che Tsipras porta nella sinistra greca, cioè una mutazione di atteggiamento: rendendola un soggetto con ideali forti ma pragmatico, finalmente emancipato dal vecchio tic per cui «a sinistra ci si sentiva meglio nel perdere gloriosamente che nel vincere», come sintetizza l’intellettuale greco Costa Douzinas nel libro di Giacomo Russo Spena e Matteo Pucciarelli “Tsipras chi” (ah, leggetelo). Anche con imprudenza, se necessario: ad esempio scontrandosi con gli apparati del vecchio sindacato, rappresentativi ormai solo dei garantiti (sempre meno) e non della crescente marea di precari e disoccupati. O provando a rivolgersi anche a un elettorato tradizionalmente non di sinistra, come quello dei commercianti: pure loro impoveriti dalla crisi e soprattutto sempre più costretti a versare mazzette a questo o a quel politico di Nuova Democrazia e del Pasok.
Insomma: apertura mentale, movimentismo, innovazione, coraggio, utopia bilanciata dal pragmatismo.
Quello che qui non si è mai riusciti a fare: unirsi, cambiare nelle pratiche e nei linguaggi, uscire dal proprio recinto autoreferenziale e dalla propria ininfluenza, interpretando davvero il disagio dei ceti bassi e di quelli impoveriti dalla recessione.
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20.1.15
Chomsky: Paris attacks show hypocrisy of West's outrage
By Noam Chomsky* (CNN)
*[Noam Chomsky is Institute Professor Emeritus in the Department of Linguistics and Philosophy at Massachusetts Institute of Technology. His most recent book is "Masters of Mankind." His web site is www.chomsky.info. The views expressed in this commentary are solely his.]
After the terrorist attack on Charlie Hebdo, which killed 12 people including the editor and four other cartoonists, and the murder of four Jews at a kosher supermarket shortly after, French Prime Minister Manuel Valls declared "a war against terrorism, against jihadism, against radical Islam, against everything that is aimed at breaking fraternity, freedom, solidarity."
*[Noam Chomsky is Institute Professor Emeritus in the Department of Linguistics and Philosophy at Massachusetts Institute of Technology. His most recent book is "Masters of Mankind." His web site is www.chomsky.info. The views expressed in this commentary are solely his.]
After the terrorist attack on Charlie Hebdo, which killed 12 people including the editor and four other cartoonists, and the murder of four Jews at a kosher supermarket shortly after, French Prime Minister Manuel Valls declared "a war against terrorism, against jihadism, against radical Islam, against everything that is aimed at breaking fraternity, freedom, solidarity."
Millions
of people demonstrated in condemnation of the atrocities, amplified by a
chorus of horror under the banner "I am Charlie." There were eloquent
pronouncements of outrage, captured well by the head of Israel's Labor
Party and the main challenger for the upcoming elections, Isaac Herzog,
who declared that "Terrorism is terrorism. There's no two ways about
it," and that "All the nations that seek peace and freedom [face] an
enormous challenge" from brutal violence.
The
crimes also elicited a flood of commentary, inquiring into the roots of
these shocking assaults in Islamic culture and exploring ways to
counter the murderous wave of Islamic terrorism without sacrificing our
values. The New York Times described the assault as a "clash of
civilizations," but was corrected by Times columnist Anand Giridharadas,
who tweeted
that it was "Not & never a war of civilizations or between them.
But a war FOR civilization against groups on the other side of that
line. #CharlieHebdo."
The scene in Paris was described vividly in the New York Times
by veteran Europe correspondent Steven Erlanger: "a day of sirens,
helicopters in the air, frantic news bulletins; of police cordons and
anxious crowds; of young children led away from schools to safety. It
was a day, like the previous two, of blood and horror in and around
Paris."
Erlanger
also quoted a surviving journalist who said that "Everything crashed.
There was no way out. There was smoke everywhere. It was terrible.
People were screaming. It was like a nightmare." Another reported a
"huge detonation, and everything went completely dark." The scene,
Erlanger reported, "was an increasingly familiar one of smashed glass,
broken walls, twisted timbers, scorched paint and emotional
devastation."
These last quotes,
however -- as independent journalist David Peterson reminds us -- are
not from January 2015. Rather, they are from a report by Erlanger on April 24 1999,
which received far less attention. Erlanger was reporting on the NATO
"missile attack on Serbian state television headquarters" that "knocked
Radio Television Serbia off the air," killing 16 journalists.
"NATO and American officials defended the attack," Erlanger reported,
"as an effort to undermine the regime of President Slobodan Milosevic
of Yugoslavia." Pentagon spokesman Kenneth Bacon told a briefing in
Washington that "Serb TV is as much a part of Milosevic's murder machine
as his military is," hence a legitimate target of attack.
There
were no demonstrations or cries of outrage, no chants of "We are RTV,"
no inquiries into the roots of the attack in Christian culture and
history. On the contrary, the attack on the press was lauded. The highly
regarded U.S. diplomat Richard Holbrooke, then envoy to Yugoslavia,
described the successful attack on RTV as "an enormously important and, I
think, positive development," a sentiment echoed by others.
There
are many other events that call for no inquiry into western culture and
history -- for example, the worst single terrorist atrocity in Europe
in recent years, in July 2011, when Anders Breivik, a Christian
ultra-Zionist extremist and Islamophobe, slaughtered 77 people, mostly
teenagers.
Also
ignored in the "war against terrorism" is the most extreme terrorist
campaign of modern times -- Barack Obama's global assassination campaign
targeting people suspected of perhaps intending to harm us some day,
and any unfortunates who happen to be nearby. Other unfortunates are
also not lacking, such as the 50 civilians reportedly killed in a U.S.-led bombing raid in Syria in December, which was barely reported.
One
person was indeed punished in connection with the NATO attack on RTV --
Dragoljub Milanović, the general manager of the station, who was
sentenced by the European Court of Human Rights to 10 years in prison
for failing to evacuate the building, according to the Committee to Protect Journalists. The International Criminal Tribunal for Yugoslavia considered
the NATO attack, concluding that it was not a crime, and although
civilian casualties were "unfortunately high, they do not appear to be
clearly disproportionate."
The
comparison between these cases helps us understand the condemnation of
the New York Times by civil rights lawyer Floyd Abrams, famous for his
forceful defense of freedom of expression. "There are times for
self-restraint," Abrams wrote,
"but in the immediate wake of the most threatening assault on
journalism in living memory, [the Times editors] would have served the
cause of free expression best by engaging in it" by publishing the
Charlie Hebdo cartoons ridiculing Mohammed that elicited the assault.
Abrams
is right in describing the Charlie Hebdo attack as "the most
threatening assault on journalism in living memory." The reason has to
do with the concept "living memory," a category carefully constructed to
include Their crimes against us while scrupulously excluding Our crimes against them -- the latter not crimes but noble defense of the highest values, sometimes inadvertently flawed.
This
is not the place to inquire into just what was being "defended" when
RTV was attacked, but such an inquiry is quite informative (see my A New
Generation Draws the Line).
There are many other illustrations of the interesting category "living memory." One is provided by the Marine assault against Fallujah in November 2004, one of the worst crimes of the U.S.-UK invasion of Iraq.
The assault opened with occupation of Fallujah General Hospital,
a major war crime quite apart from how it was carried out. The crime
was reported prominently on the front page of the New York Times,
accompanied with a photograph depicting how "Patients and hospital
employees were rushed out of rooms by armed soldiers and ordered to sit
or lie on the floor while troops tied their hands behind their backs."
The occupation of the hospital was considered meritorious and justified:
it "shut down what officers said was a propaganda weapon for the
militants: Fallujah General Hospital, with its stream of reports of
civilian casualties."
Evidently, this is no assault on free expression, and does not qualify for entry into "living memory."
There
are other questions. One would naturally ask how France upholds freedom
of expression and the sacred principles of "fraternity, freedom,
solidarity." For example, is it through the Gayssot Law, repeatedly
implemented, which effectively grants the state the right to determine
Historical Truth and punish deviation from its edicts? By expelling
miserable descendants of Holocaust survivors (Roma) to bitter
persecution in Eastern Europe? By the deplorable treatment of North
African immigrants in the banlieues of Paris where the Charlie Hebdo
terrorists became jihadis? When the courageous journal Charlie Hebdo
fired the cartoonist Siné on grounds that a comment of his was deemed to
have anti-Semitic connotations? Many more questions quickly arise.
Anyone
with eyes open will quickly notice other rather striking omissions.
Thus, prominent among those who face an "enormous challenge" from brutal
violence are Palestinians, once again during Israel's vicious assault on Gaza in
the summer of 2014, in which many journalists were murdered, sometimes
in well-marked press cars, along with thousands of others, while the
Israeli-run outdoor prison was again reduced to rubble on pretexts that
collapse instantly on examination.
Also
ignored was the assassination of three more journalists in Latin
America in December, bringing the number for the year to 31. There have
been more than a dozen journalists killed in Honduras
alone since the military coup of 2009 that was effectively recognized
by the U.S. (but few others), probably according post-coup Honduras the
per capita championship for murder of journalists. But again, not an
assault on freedom of press within living memory.
It
is not difficult to elaborate. These few examples illustrate a very
general principle that is observed with impressive dedication and
consistency: The more we can blame some crimes on enemies, the greater
the outrage; the greater our responsibility for crimes -- and hence the
more we can do to end them -- the less the concern, tending to oblivion
or even denial.
Contrary to the
eloquent pronouncements, it is not the case that "Terrorism is
terrorism. There's no two ways about it." There definitely are two ways
about it: theirs versus ours. And not just terrorism.
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19.1.15
Cresce la disuguaglianza, in mano a 80 “paperoni” la ricchezza del 50% della popolazione povera
Cresce la disuguaglianza, in mano a 80 “paperoni” la ricchezza del 50% della popolazione povera
La denuncia in un rapporto di Oxfam: «Nel 2010 erano 388 persone,
l’anno scorso 85». Secondo le stime nel 2016 l’1% della popolazione
sarà più ricco del restante 99%
19/01/2015
Per Oxfam «l’esplosione della disuguaglianza frena la lotta alla povertà in un mondo dove oltre un miliardo di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno, e 1 su 9 non ha nemmeno abbastanza da mangiare». La direttrice esecutiva di Oxfam International, Winnie Byanyima, si chiede: «Vogliamo davvero vivere in un mondo dove l’1% possiede più di tutti noi messi insieme? La portata della disuguaglianza è - rimarca - semplicemente sconcertante e nonostante le molte questioni che affollano l’agenda globale, il divario tra i ricchissimi e il resto della popolazione mondiale rimane un totem, con ritmi di crescita preoccupanti». Secondo il direttore Generale di Oxfam Italia, Roberto Barbieri, «se il quadro rimane quello attuale anche le elite ne pagheranno le conseguenze».
Oxfam, in una nota, chiede ai governi di adottare un piano di sette punti per affrontare la disuguaglianza: dal «contrasto all’elusione fiscale di multinazionali e individui miliardari» all’introduzione «di salari minimi». Se lo scorso anno, sempre secondo Oxfam, «gli 85 paperon de’ paperoni del mondo detenevano la ricchezza del 50% della popolazione più povera (3,5 miliardi di persone). Quest’anno il numero è sceso a 80, una diminuzione - sottolinea - impressionante dai 388 del 2010. La ricchezza di questi 80 è raddoppiata in termini di liquidità tra il 2009-2014».
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14.1.15
"Non tagliateci i vitalizi": da sinistra alla Lega, 54 ex del Pirellone ricorrono al Tar
La sforbiciata resa effettiva da novembre non era poi così drammatica: la media era (è) del 10 per cento e fino al 2018, con una variabile in base all’entità dell’assegno percepito dai politici
di MATTEO PUCCIARELLI
Le larghissime intese in carta bollata, pur di rivendicare i propri “diritti acquisiti”. Sono 54 gli ex consiglieri regionali del Pirellone che hanno presentato ricorso al Tar lombardo — sperando di portare il caso in Corte costituzionale — contro la legge regionale che ne ha decurtato l’assegno vitalizio. Si va dall’allora leader del ‘68 e di Democrazia proletaria Mario Capanna al leghista Alessandro Patelli, passato alla storia come un “pirla” (si definì così da solo) per il suo coinvolgimento in Tangentopoli; dall’ex comunista (finito in Forza Italia) Giampietro Borghini all’attuale assessore comunale alla Casa, Daniela Benelli; dal dc Gian Carlo Abelli, gran visir della sanità ciellina, all’ex assessore Antonio Simone, poi finito in carcere per i fondi neri della Maugeri. Tutti eletti che dopo una legislatura (o anche meno) e allo scattare dei sessant'anni di età si sono portati a casa un vitalizio medio da 2mila 600 euro.
«Il ricorso — si legge nella comunicazione dell’ufficio legale alla presidenza del consiglio regionale — è incentrato sulla individuazione di profili di illegittimità costituzionale delle norme di legge regionale su cui è basata la riduzione dei vitalizi. Viene lamentata la violazione del principio di intangibilità dei diritti acquisiti (nel caso di specie: il diritto acquisito dai ricorrenti alla percezione dell’assegno nella misura piena determinata secondo la normativa di riferimento) e parallelamente la violazione del principio del legittimo affidamento e della certezza e stabilità dei rapporti giuridici, che sarebbero determinati dall’effetto sostanzialmente retroattivo della riduzione».
Nel documento ci si appella non solo alla Costituzione, ma anche al diritto europeo. E si citano in giudizio sia la Regione sia il consiglio regionale. Il taglio in questione, reso effettivo dallo scorso novembre, non era poi così drammatico: la media era (è) del 10 per cento e fino al 2018, con una variabile in base all’entità dell’assegno. Il massimo previsto era una sforbiciata del 16 per cento per chi percepisse oltre 4mila 500 euro. Il risparmio per le casse del Pirellone stimato è attorno ai 500mila euro (da un totale di 7,4 a 6,9 milioni l’anno). A oggi i vitalizi elargiti sono 221, più 47 assegni di reversibilità percepiti dai coniugi superstiti, ai quali presto si aggiungeranno 41 posizioni relative a ex consiglieri che stanno per maturare i requisiti per prendere la pensione.
Secondo una stima di poco meno di un anno fa, la Regione Lombardia in questi anni aveva speso oltre 150 milioni di euro in vitalizi: più di quattro volte i contributi effettivamente maturati dai consiglieri. Insomma, il messaggio più che altro simbolico che era stato lanciato dalla Regione con il varo della norma del settembre scorso — e in tempi di tagli lineari a scuola, sanità e di innalzamenti dell’età pensionabile per tutti — ha finito per diventare oggetto di disputa legale. Come peraltro avevano promesso gli stessi ex consiglieri riuniti nell’associazione che li riunisce e diretta da Luigi Corbani, una vita nel Pci-Pds. «Penso che questa iniziativa si commenti da sola — dice Eugenio Casalino, componente dell’Ufficio di presidenza del consiglio in quota M5S — soprattutto alla luce della sofferenza sociale in cui versa il Paese a causa della crisi economica. Oltretutto quel taglio, per quanto ci riguarda, era un passo in avanti ma non abbastanza».
di MATTEO PUCCIARELLI
Le larghissime intese in carta bollata, pur di rivendicare i propri “diritti acquisiti”. Sono 54 gli ex consiglieri regionali del Pirellone che hanno presentato ricorso al Tar lombardo — sperando di portare il caso in Corte costituzionale — contro la legge regionale che ne ha decurtato l’assegno vitalizio. Si va dall’allora leader del ‘68 e di Democrazia proletaria Mario Capanna al leghista Alessandro Patelli, passato alla storia come un “pirla” (si definì così da solo) per il suo coinvolgimento in Tangentopoli; dall’ex comunista (finito in Forza Italia) Giampietro Borghini all’attuale assessore comunale alla Casa, Daniela Benelli; dal dc Gian Carlo Abelli, gran visir della sanità ciellina, all’ex assessore Antonio Simone, poi finito in carcere per i fondi neri della Maugeri. Tutti eletti che dopo una legislatura (o anche meno) e allo scattare dei sessant'anni di età si sono portati a casa un vitalizio medio da 2mila 600 euro.
«Il ricorso — si legge nella comunicazione dell’ufficio legale alla presidenza del consiglio regionale — è incentrato sulla individuazione di profili di illegittimità costituzionale delle norme di legge regionale su cui è basata la riduzione dei vitalizi. Viene lamentata la violazione del principio di intangibilità dei diritti acquisiti (nel caso di specie: il diritto acquisito dai ricorrenti alla percezione dell’assegno nella misura piena determinata secondo la normativa di riferimento) e parallelamente la violazione del principio del legittimo affidamento e della certezza e stabilità dei rapporti giuridici, che sarebbero determinati dall’effetto sostanzialmente retroattivo della riduzione».
Nel documento ci si appella non solo alla Costituzione, ma anche al diritto europeo. E si citano in giudizio sia la Regione sia il consiglio regionale. Il taglio in questione, reso effettivo dallo scorso novembre, non era poi così drammatico: la media era (è) del 10 per cento e fino al 2018, con una variabile in base all’entità dell’assegno. Il massimo previsto era una sforbiciata del 16 per cento per chi percepisse oltre 4mila 500 euro. Il risparmio per le casse del Pirellone stimato è attorno ai 500mila euro (da un totale di 7,4 a 6,9 milioni l’anno). A oggi i vitalizi elargiti sono 221, più 47 assegni di reversibilità percepiti dai coniugi superstiti, ai quali presto si aggiungeranno 41 posizioni relative a ex consiglieri che stanno per maturare i requisiti per prendere la pensione.
Secondo una stima di poco meno di un anno fa, la Regione Lombardia in questi anni aveva speso oltre 150 milioni di euro in vitalizi: più di quattro volte i contributi effettivamente maturati dai consiglieri. Insomma, il messaggio più che altro simbolico che era stato lanciato dalla Regione con il varo della norma del settembre scorso — e in tempi di tagli lineari a scuola, sanità e di innalzamenti dell’età pensionabile per tutti — ha finito per diventare oggetto di disputa legale. Come peraltro avevano promesso gli stessi ex consiglieri riuniti nell’associazione che li riunisce e diretta da Luigi Corbani, una vita nel Pci-Pds. «Penso che questa iniziativa si commenti da sola — dice Eugenio Casalino, componente dell’Ufficio di presidenza del consiglio in quota M5S — soprattutto alla luce della sofferenza sociale in cui versa il Paese a causa della crisi economica. Oltretutto quel taglio, per quanto ci riguarda, era un passo in avanti ma non abbastanza».
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13.1.15
Tsipras: «La scommessa di Syriza come quella del Brasile di Lula»
L'anticipazione. «Governare non significa avere il potere. Siamo all’inizio di un processo di lotta. Come in Brasile col Pt, dobbiamo cercare di mantenere la coesione sociale». Tsipras tratteggia le caratteristiche di un potenziale governo di sinistra: «Ci saranno grandi trasformazioni e la priorità, in questo momento, è la fine dell’austerità». Il 25 gennaio la Grecia vota
Teodoro Andreadis Synghellakis (Il manifesto)
Teodoro Andreadis Synghellakis, greco ma quasi dalla nascita residente in Italia dove i suoi genitori si erano rifugiati durante la dittatura, ha scritto un libro – «Alexis Tsipras. La mia sinistra» – che contiene una assai interessante intervista con il leader di Siryza che qui si sofferma soprattutto sulla natura del nuovo partito che la sinistra greca ha saputo darsi.
La prefazione al volume – che sarà nelle librerie da giovedì 15 — è di Stefano Rodotà e contiene anche i giudizi di un certo numero di protagonisti della politica italiana. Ve ne diamo, in anteprima, alcuni stralci.
Il rafforzamento della sinistra è ancora un processo in divenire?
Dovremo sempre tenere a mente che abbiamo l’obbligo di suscitare tra i nostri sostenitori una presa di coscienza sempre più democratica, radicale, progressista. Non possiamo permetterci il lusso di ignorare il fatto che gran parte della società greca, e anche una percentuale di nostri sostenitori, abbiano assorbito idee conservatrici; che c’è stato un tipo di progresso il quale aveva come punto di riferimento la conservazione.
Dobbiamo, inoltre, separare il significato che ha un governo della Sinistra, da un rischio di abuso di potere da parte della Sinistra. Il potere è una cosa più complessa, che non viene esercitata solo da chi governa. È qualcosa che ha a che fare anche con le strutture sociali, con chi controlla i mezzi di produzione. Noi rivendicheremo il governo del paese, così da poter dare avvio – da una posizione di forza – a quella grande battaglia ideologica e anche sociale che porterà a cambiamenti e trasformazioni i quali daranno il potere alla maggioranza dei cittadini, sottraendolo alla minoranza.
Ma la gente deve comprendere bene che il fatto che Syriza andrà al governo non significa automaticamente che il potere passerà al popolo. Significa, invece, che inizierà un processo di lotta, un lungo cammino che porterà anche a delle contrapposizioni – un cammino non sempre lineare – ma che verrà sicuramente caratterizzato dal continuo sforzo di Syriza per riuscire a convincere delle forze ancora più vaste, per accrescere la sua dinamica maggioritaria ed il consenso verso il suo programma, con l’appoggio di forze sociali sempre più ampie.
Tutto questo, per riuscire a compiere passi in avanti assolutamente necessari. Sto descrivendo un cammino che in questo periodo, seguono molti partiti e governi di sinistra in America Latina, anche se mi rendo conto che, in parte, si tratta di una realtà che può risultare estranea alla quotidianità europea.
So bene che la grande domanda che provoca un interesse cosi forte nei nostri confronti, è come tutto ciò potrà diventare realtà nel contesto della globalizzazione e all’interno dell’Unione Europea, visto che la Grecia non è un giocatore solitario.
Si tratta di una realtà che negli ultimi anni pone anche delle forti limitazioni, dal punto di vista economico…
Assolutamente. Ed è per questo, tuttavia, che io credo che la conditio sine qua non perché Syriza possa continuare a seguire un cammino fruttuoso, è che riesca a conquistare, da una parte il consenso della maggioranza della società greca e dall’altra, a garantirsi un appoggio maggioritario anche in tutta Europa.
È chiaro che la priorità, in questo momento, non è il socialismo, ma è proprio la fine dell’austerità (…)
Il fatto che gli elettori di Syriza provengano sia dall’area comunista che da quella del centro progressista è una risorsa o un problema?
Credo che Syriza sia riuscito ad arrivare dal 4% al 27% perché abbiamo avuto la capacità politica di individuare in modo molto veloce i cambiamenti politici e sociali che hanno provocato la crisi.
Intendo lo sbriciolamento, la distruzione dei soggetti sociali causata dalla politica dei memorandum.
Allo stesso tempo, abbiamo offerto una via di uscita politica a tutti i cittadini che avevano l’esigenza di potersi esprimere per fermare questo processo di distruzione. Ci siamo trovati, quindi, in modo quasi “violento”, repentino, dal 4% al 27%, e questa “violenza” ci mette ancora alla prova, perché ci costringe, comunque, a cambiare orientamento. Abbiamo avuto l’istinto di comprendere, esprimere e rappresentare gli interessi dei gruppi sociali che erano rimasti senza alcuna rappresentanza politica, senza una casa, ma devo confessare che non avevamo la cultura propria di un partito che rivendica il potere.
C’eravamo schierati, ritrovati tutti a Sinistra – anche io, ovviamente – avevamo accettato e sostenuto un modo di vita, che aveva a che fare, principalmente, con la resistenza, con la denuncia ed un approccio teorico tendente ad una società “altra”.
Non c’eravamo confrontati, però, con il bisogno pratico di aggiungere ogni giorno un piccolo mattone per poter costruire questa società di cui parlavamo, specie in un momento difficile come quello che stiamo vivendo.
Se domani Syriza sarà chiamata a governare, sarà obbligata ad affrontare una situazione sociale, una realtà drammatica: la disoccupazione reale al 30%, una povertà diffusa, una base produttiva praticamente distrutta. E si tratterà – fuor di dubbio – di una scommessa enorme, anche questa di portata storica.
Si potrebbe dire che sarà una scommessa simile a quella del Brasile di Lula, quando venne eletto presidente.
Noi, intendo la Sinistra nel suo complesso, dobbiamo cercare (senza trovarci nella difficilissima posizione e nel ruolo del capro espiatorio), di riuscire a mantenere la coesione dei gruppi sociali, all’interno di un progetto di ricostruzione produttiva, di democratizzazione e di uscita dalla crisi. Ed è un’impresa molto difficile.
Analizzando la cosa, qualcuno potrebbe dire che questo tratto ideologico è riuscito a raggruppare delle forze appartenenti a una Sinistra indebolita ed in disfacimento, che non riusciva a superare il 6 o 7%. Ora, però, Syriza sta rivendicando la guida della Grecia, il governo del paese. Io vedo come una cosa estremamente positiva il fatto che il nostro sia un partito giovane ma con alle spalle, tuttavia, una lunga tradizione. Le sue radici affondano nel secolo passato, ma quello che abbiamo, appunto, è un partito giovane.
Altrettanto positivo è il fatto che non appartenga al blocco di forze le quali continuano a seguire l’ortodossia comunista, e che non faccia parte della famiglia socialdemocratica.
Stiamo parlando, ovviamente, di una socialdemocrazia che oggi è parte integrante della crisi in atto e che ha una grande responsabilità per lo stato in cui si è venuta a trovare l’Europa.
È una socialdemocrazia “geneticamente modificata”, che ha adottato quasi tutti i credo neoliberisti. In questo senso, quindi, potremmo dire che tanto Syriza quanto gli altri partiti della nuova Sinistra dell’Europa non portano sulle spalle il peso dei “peccati originali” di alcune forze che appartengono alla nostra tradizione. Contemporaneamente, non sono neanche responsabili dei grandi delitti perpetrati dalla socialdemocrazia nel periodo che stiamo vivendo.
Siamo in grado, cioè, di offrire una prospettiva più ampia, di catalizzare ed unire forze ancora maggiori, rispetto a quelle raggruppate, tradizionalmente, dalle forze del blocco socialista.
A chi è solito sottolineare che siamo un partito filoeuropeo – il quale comprende la situazione che si è venuta a creare con la realtà data della globalizzazione – ma non apparteniamo a nessuna grande famiglia politica dell’Europa, vorrei ricordare questo: nel 1981, anche il Partito Socialista del Pasok, di Andreas Papandreou, si trovava esattamente nella nostra stessa situazione: non apparteneva, in realtà, né all’Internazionale Socialista, né ai partiti socialdemocratici e neanche alla sinistra socialista.
Teodoro Andreadis Synghellakis (Il manifesto)
Teodoro Andreadis Synghellakis, greco ma quasi dalla nascita residente in Italia dove i suoi genitori si erano rifugiati durante la dittatura, ha scritto un libro – «Alexis Tsipras. La mia sinistra» – che contiene una assai interessante intervista con il leader di Siryza che qui si sofferma soprattutto sulla natura del nuovo partito che la sinistra greca ha saputo darsi.
La prefazione al volume – che sarà nelle librerie da giovedì 15 — è di Stefano Rodotà e contiene anche i giudizi di un certo numero di protagonisti della politica italiana. Ve ne diamo, in anteprima, alcuni stralci.
Il rafforzamento della sinistra è ancora un processo in divenire?
Dovremo sempre tenere a mente che abbiamo l’obbligo di suscitare tra i nostri sostenitori una presa di coscienza sempre più democratica, radicale, progressista. Non possiamo permetterci il lusso di ignorare il fatto che gran parte della società greca, e anche una percentuale di nostri sostenitori, abbiano assorbito idee conservatrici; che c’è stato un tipo di progresso il quale aveva come punto di riferimento la conservazione.
Dobbiamo, inoltre, separare il significato che ha un governo della Sinistra, da un rischio di abuso di potere da parte della Sinistra. Il potere è una cosa più complessa, che non viene esercitata solo da chi governa. È qualcosa che ha a che fare anche con le strutture sociali, con chi controlla i mezzi di produzione. Noi rivendicheremo il governo del paese, così da poter dare avvio – da una posizione di forza – a quella grande battaglia ideologica e anche sociale che porterà a cambiamenti e trasformazioni i quali daranno il potere alla maggioranza dei cittadini, sottraendolo alla minoranza.
Ma la gente deve comprendere bene che il fatto che Syriza andrà al governo non significa automaticamente che il potere passerà al popolo. Significa, invece, che inizierà un processo di lotta, un lungo cammino che porterà anche a delle contrapposizioni – un cammino non sempre lineare – ma che verrà sicuramente caratterizzato dal continuo sforzo di Syriza per riuscire a convincere delle forze ancora più vaste, per accrescere la sua dinamica maggioritaria ed il consenso verso il suo programma, con l’appoggio di forze sociali sempre più ampie.
Tutto questo, per riuscire a compiere passi in avanti assolutamente necessari. Sto descrivendo un cammino che in questo periodo, seguono molti partiti e governi di sinistra in America Latina, anche se mi rendo conto che, in parte, si tratta di una realtà che può risultare estranea alla quotidianità europea.
So bene che la grande domanda che provoca un interesse cosi forte nei nostri confronti, è come tutto ciò potrà diventare realtà nel contesto della globalizzazione e all’interno dell’Unione Europea, visto che la Grecia non è un giocatore solitario.
Si tratta di una realtà che negli ultimi anni pone anche delle forti limitazioni, dal punto di vista economico…
Assolutamente. Ed è per questo, tuttavia, che io credo che la conditio sine qua non perché Syriza possa continuare a seguire un cammino fruttuoso, è che riesca a conquistare, da una parte il consenso della maggioranza della società greca e dall’altra, a garantirsi un appoggio maggioritario anche in tutta Europa.
È chiaro che la priorità, in questo momento, non è il socialismo, ma è proprio la fine dell’austerità (…)
Il fatto che gli elettori di Syriza provengano sia dall’area comunista che da quella del centro progressista è una risorsa o un problema?
Credo che Syriza sia riuscito ad arrivare dal 4% al 27% perché abbiamo avuto la capacità politica di individuare in modo molto veloce i cambiamenti politici e sociali che hanno provocato la crisi.
Intendo lo sbriciolamento, la distruzione dei soggetti sociali causata dalla politica dei memorandum.
Allo stesso tempo, abbiamo offerto una via di uscita politica a tutti i cittadini che avevano l’esigenza di potersi esprimere per fermare questo processo di distruzione. Ci siamo trovati, quindi, in modo quasi “violento”, repentino, dal 4% al 27%, e questa “violenza” ci mette ancora alla prova, perché ci costringe, comunque, a cambiare orientamento. Abbiamo avuto l’istinto di comprendere, esprimere e rappresentare gli interessi dei gruppi sociali che erano rimasti senza alcuna rappresentanza politica, senza una casa, ma devo confessare che non avevamo la cultura propria di un partito che rivendica il potere.
C’eravamo schierati, ritrovati tutti a Sinistra – anche io, ovviamente – avevamo accettato e sostenuto un modo di vita, che aveva a che fare, principalmente, con la resistenza, con la denuncia ed un approccio teorico tendente ad una società “altra”.
Non c’eravamo confrontati, però, con il bisogno pratico di aggiungere ogni giorno un piccolo mattone per poter costruire questa società di cui parlavamo, specie in un momento difficile come quello che stiamo vivendo.
Se domani Syriza sarà chiamata a governare, sarà obbligata ad affrontare una situazione sociale, una realtà drammatica: la disoccupazione reale al 30%, una povertà diffusa, una base produttiva praticamente distrutta. E si tratterà – fuor di dubbio – di una scommessa enorme, anche questa di portata storica.
Si potrebbe dire che sarà una scommessa simile a quella del Brasile di Lula, quando venne eletto presidente.
Noi, intendo la Sinistra nel suo complesso, dobbiamo cercare (senza trovarci nella difficilissima posizione e nel ruolo del capro espiatorio), di riuscire a mantenere la coesione dei gruppi sociali, all’interno di un progetto di ricostruzione produttiva, di democratizzazione e di uscita dalla crisi. Ed è un’impresa molto difficile.
Analizzando la cosa, qualcuno potrebbe dire che questo tratto ideologico è riuscito a raggruppare delle forze appartenenti a una Sinistra indebolita ed in disfacimento, che non riusciva a superare il 6 o 7%. Ora, però, Syriza sta rivendicando la guida della Grecia, il governo del paese. Io vedo come una cosa estremamente positiva il fatto che il nostro sia un partito giovane ma con alle spalle, tuttavia, una lunga tradizione. Le sue radici affondano nel secolo passato, ma quello che abbiamo, appunto, è un partito giovane.
Altrettanto positivo è il fatto che non appartenga al blocco di forze le quali continuano a seguire l’ortodossia comunista, e che non faccia parte della famiglia socialdemocratica.
Stiamo parlando, ovviamente, di una socialdemocrazia che oggi è parte integrante della crisi in atto e che ha una grande responsabilità per lo stato in cui si è venuta a trovare l’Europa.
È una socialdemocrazia “geneticamente modificata”, che ha adottato quasi tutti i credo neoliberisti. In questo senso, quindi, potremmo dire che tanto Syriza quanto gli altri partiti della nuova Sinistra dell’Europa non portano sulle spalle il peso dei “peccati originali” di alcune forze che appartengono alla nostra tradizione. Contemporaneamente, non sono neanche responsabili dei grandi delitti perpetrati dalla socialdemocrazia nel periodo che stiamo vivendo.
Siamo in grado, cioè, di offrire una prospettiva più ampia, di catalizzare ed unire forze ancora maggiori, rispetto a quelle raggruppate, tradizionalmente, dalle forze del blocco socialista.
A chi è solito sottolineare che siamo un partito filoeuropeo – il quale comprende la situazione che si è venuta a creare con la realtà data della globalizzazione – ma non apparteniamo a nessuna grande famiglia politica dell’Europa, vorrei ricordare questo: nel 1981, anche il Partito Socialista del Pasok, di Andreas Papandreou, si trovava esattamente nella nostra stessa situazione: non apparteneva, in realtà, né all’Internazionale Socialista, né ai partiti socialdemocratici e neanche alla sinistra socialista.
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Cervelli politici
Annamaria Testa (Internazionale)
Da qualche anno le neuroscienze hanno cominciato a osservare la
politica, o meglio hanno continuato a osservare cervelli considerandone
caratteristiche e attività, e connettendole con gli orientamenti
politici dei proprietari dei cervelli medesimi.
Gli studi sono agli inizi e non è ancora ben chiaro se le strutture cerebrali che mediano gli orientamenti politici ne siano la causa o l’effetto. È anche possibile che questo sia uno dei tanti casi di coevoluzione (il fenomeno A alimenta il fenomeno B, che a sua volta accresce il fenomeno A, e così via).
Comunque, vi invito sia a premettere un ideale “sembra che…” alle affermazioni che leggete in seguito, anche se sono tutte state pubblicate su riviste di ottima reputazione, sia a trarre qualche conclusione provvisoria sì, ma suggestiva.
La paura ci orienta a destra
Già nel 2011, i ricercatori dell’University College London scoprono (qui la sintesi dello studio) che i cervelli delle persone con un orientamento più conservatore sono dotati di una minor quantità di materia grigia nella neocorteccia (la parte cognitiva, più recente, che sa gestire l’incertezza e le informazioni contraddittorie) e hanno amigdale più grandi.
Ora, l’amigdala è un affaretto a forma di mandorla che fa parte della porzione primitiva del cervello, ed è associata con le emozioni, prima fra tutte la paura, con la memoria emozionale e con la reazione fight or flight (attacca o scappa).
Per dirla con Rita Levi Montalcini: il cervello arcaico “non si è praticamente evoluto da tre milioni di anni fa a oggi, e non differisce molto tra l’ homo sapiens e i mammiferi inferiori. Un cervello piccolo, ma che possiede una forza straordinaria. Controlla tutte quelle che sono le emozioni. Ha salvato l’australopiteco quando è sceso dagli alberi, permettendogli di fare fronte alla ferocia dell’ambiente e degli aggressori. L’altro cervello è quello cognitivo, è molto più giovane. È nato con il linguaggio e in 150.000 anni ha vissuto uno sviluppo straordinario, specialmente grazie alla cultura. Si trova nella neo-corteccia. Purtroppo, buona parte del nostro comportamento è ancora guidata dal cervello arcaico”.
Legami sociali più ampi ci orientano a sinistra
L’università del South Carolina, nel 2012, va invece a indagare la correlazione tra orientamento politico e neuroni-specchio, la cui attività coinvolge le relazioni sociali, l’apprendimento, il linguaggio e l’empatia (qui la sintesi della ricerca).
Ne risulta un dato che in parte corrisponde allo stereotipo dei due schieramenti, e in parte lo amplia. Di fatto, progressisti e conservatori elaborano i propri legami sociali in maniere diverse: i primi hanno il senso di una connessione sociale più estesa (dagli amici al mondo nella sua interezza), i secondi quello di una connessione sociale più tight, nel doppio significato di più stretta e più salda, nei confronti della famiglia e della nazione.
Il disgusto ci orienta a destra
Una interessante Ted conference del 2012 approfondisce i legami tra politica e disgusto e racconta come il disgusto sia contagioso e comprenda l’idea di “contaminazione”. Alcuni dei risultati presentati sono sorprendenti. Per esempio: basta riempire una stanza di cattivo odore perché le opinioni dei soggetti sottoposti a test si spostino a destra.
Al livello neurale, il legame tra disgusto e orientamento conservatore è confermato da una recente (ottobre 2014) ricerca del Virginia Tech Carilion research institute, che mostra come l’intensità della reazione cerebrale a immagini semplicemente disgustose (ma prive di qualsiasi attinenza politica), rilevata con la risonanza magnetica funzionale, possa predire con “un’impressionante accuratezza del 98 per cento” gli orientamenti politici delle persone. In altre parole: i cervelli che reagiscono più intensamente al disgusto appartengono a persone orientate a destra (qui un’intervista con Read Montague che ha condotto lo studio. Qui l’intero studio).
I ricercatori non si stancano di sottolineare che il cervello è plastico e che la sua struttura è il risultato dell’interazione costante tra eredità (cioè: il dna trasmesso dai genitori) e ambiente (cioè la somma di apprendimenti ed esperienze sperimentate nell’intero corso della vita). L’istruzione, fra tutti i fattori ambientali resta una potentissima leva di cambiamento degli orientamenti e dei destini individuali.
Tuttavia, se consideriamo la nettezza dei risultati di ricerca ottenuti, possiamo provare a trarre qualche conclusione, provvisoria sì, ma suggestiva.
1) Chi vuole parlare efficacemente alla destra, o chi vuole promuovere idee di destra, deve far leva sul disgusto, suscitandolo, accentuandolo, evocando rischi di contaminazione.
2) Chi fa leva sulla paura o agita lo spettro di un qualsiasi “nemico” (un vecchio ma tuttora efficacissimo trucco della propaganda) sta promuovendo istanze di destra.
Gli studi sono agli inizi e non è ancora ben chiaro se le strutture cerebrali che mediano gli orientamenti politici ne siano la causa o l’effetto. È anche possibile che questo sia uno dei tanti casi di coevoluzione (il fenomeno A alimenta il fenomeno B, che a sua volta accresce il fenomeno A, e così via).
Comunque, vi invito sia a premettere un ideale “sembra che…” alle affermazioni che leggete in seguito, anche se sono tutte state pubblicate su riviste di ottima reputazione, sia a trarre qualche conclusione provvisoria sì, ma suggestiva.
La paura ci orienta a destra
Già nel 2011, i ricercatori dell’University College London scoprono (qui la sintesi dello studio) che i cervelli delle persone con un orientamento più conservatore sono dotati di una minor quantità di materia grigia nella neocorteccia (la parte cognitiva, più recente, che sa gestire l’incertezza e le informazioni contraddittorie) e hanno amigdale più grandi.
Ora, l’amigdala è un affaretto a forma di mandorla che fa parte della porzione primitiva del cervello, ed è associata con le emozioni, prima fra tutte la paura, con la memoria emozionale e con la reazione fight or flight (attacca o scappa).
Per dirla con Rita Levi Montalcini: il cervello arcaico “non si è praticamente evoluto da tre milioni di anni fa a oggi, e non differisce molto tra l’ homo sapiens e i mammiferi inferiori. Un cervello piccolo, ma che possiede una forza straordinaria. Controlla tutte quelle che sono le emozioni. Ha salvato l’australopiteco quando è sceso dagli alberi, permettendogli di fare fronte alla ferocia dell’ambiente e degli aggressori. L’altro cervello è quello cognitivo, è molto più giovane. È nato con il linguaggio e in 150.000 anni ha vissuto uno sviluppo straordinario, specialmente grazie alla cultura. Si trova nella neo-corteccia. Purtroppo, buona parte del nostro comportamento è ancora guidata dal cervello arcaico”.
Legami sociali più ampi ci orientano a sinistra
L’università del South Carolina, nel 2012, va invece a indagare la correlazione tra orientamento politico e neuroni-specchio, la cui attività coinvolge le relazioni sociali, l’apprendimento, il linguaggio e l’empatia (qui la sintesi della ricerca).
Ne risulta un dato che in parte corrisponde allo stereotipo dei due schieramenti, e in parte lo amplia. Di fatto, progressisti e conservatori elaborano i propri legami sociali in maniere diverse: i primi hanno il senso di una connessione sociale più estesa (dagli amici al mondo nella sua interezza), i secondi quello di una connessione sociale più tight, nel doppio significato di più stretta e più salda, nei confronti della famiglia e della nazione.
Il disgusto ci orienta a destra
Una interessante Ted conference del 2012 approfondisce i legami tra politica e disgusto e racconta come il disgusto sia contagioso e comprenda l’idea di “contaminazione”. Alcuni dei risultati presentati sono sorprendenti. Per esempio: basta riempire una stanza di cattivo odore perché le opinioni dei soggetti sottoposti a test si spostino a destra.
Al livello neurale, il legame tra disgusto e orientamento conservatore è confermato da una recente (ottobre 2014) ricerca del Virginia Tech Carilion research institute, che mostra come l’intensità della reazione cerebrale a immagini semplicemente disgustose (ma prive di qualsiasi attinenza politica), rilevata con la risonanza magnetica funzionale, possa predire con “un’impressionante accuratezza del 98 per cento” gli orientamenti politici delle persone. In altre parole: i cervelli che reagiscono più intensamente al disgusto appartengono a persone orientate a destra (qui un’intervista con Read Montague che ha condotto lo studio. Qui l’intero studio).
I ricercatori non si stancano di sottolineare che il cervello è plastico e che la sua struttura è il risultato dell’interazione costante tra eredità (cioè: il dna trasmesso dai genitori) e ambiente (cioè la somma di apprendimenti ed esperienze sperimentate nell’intero corso della vita). L’istruzione, fra tutti i fattori ambientali resta una potentissima leva di cambiamento degli orientamenti e dei destini individuali.
Tuttavia, se consideriamo la nettezza dei risultati di ricerca ottenuti, possiamo provare a trarre qualche conclusione, provvisoria sì, ma suggestiva.
1) Chi vuole parlare efficacemente alla destra, o chi vuole promuovere idee di destra, deve far leva sul disgusto, suscitandolo, accentuandolo, evocando rischi di contaminazione.
2) Chi fa leva sulla paura o agita lo spettro di un qualsiasi “nemico” (un vecchio ma tuttora efficacissimo trucco della propaganda) sta promuovendo istanze di destra.
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12.1.15
Pennac: "Solo ora capiamo che per le nostre guerre lontane rischiamo di morire qui a casa"
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11.1.15
7.1.15
I nuovi prof un anno in prova - E il preside diventa sindaco
di Orsola Riva (Corriere)
Selezione, risorse, materie: tutti i nodi della riforma della scuola
Di rinvio in rinvio, la grande riforma della scuola di Matteo Renzi dovrebbe finalmente vedere la luce alla fine di febbraio. Lo ha annunciato il premier due giorni fa. Gli ingredienti sono noti. Primo: assunzione in blocco di quasi 150 mila «precari storici». Secondo: introduzione del merito: a essere valutati non saranno più solo gli studenti ma anche i prof e il loro stipendio varierà di conseguenza (ma su quali basi e chi darà loro le pagelle è ancora tutto da chiarire). Terzo: potenziamento di alcune materie - arte, musica, informatica, inglese - e più ore per laboratori e stage in azienda. Ultimo ma non ultimo - Renzi ci ha messo la faccia fin dal suo insediamento - l’edilizia scolastica. Tutti ingredienti più che «buoni» sulla carta, ma basteranno a mettere davvero in sicurezza la scuola italiana e i nostri figli? I nodi da sciogliere sono ancora tanti. Vediamo i principali.
Stabilizzazione dei prof
I 150 mila neo assunti saranno tutti all’altezza del ruolo? Molti di loro (uno su cinque) non insegnano più da anni, altri hanno abilitazioni per materie ormai uscite dai programmi. L’allarme lanciato dagli esperti è stato raccolto anche dal governo. «Forse dal piano di assunzioni - ammette il sottosegretario Davide Faraone - si potrebbero escludere i docenti di materie non più utili come la dattilografia». E tutti gli altri? Bisognerebbe formarli. Sì, ma con quali soldi? E allora ecco che si profila una soluzione più drastica: il cosiddetto anno di prova previsto per legge ma finora solo sulla carta. «Quell’anno deve diventare decisivo per la permanenza dei neoassunti», taglia corto Faraone. Più facile a dirsi che a farsi: come non immaginare la valanga di ricorsi da cui sarebbe sommerso il ministero?
Gli esclusi
Se è vero che l’assunzione dei precari storici è stata pensata per sanare un’ingiustizia, in realtà ne apre un’altra. Ci sono infatti decine di migliaia di prof (circa centomila) che prestano servizio nelle nostre scuole ma sono rimasti tagliati fuori. Loro dovranno aspettare il concorso del 2016. Unica concessione al vaglio del governo: una «quota riservata» dei 40 mila posti in palio.
Il merito
È la vera incognita della riforma. Nel testo della Buona Scuola si era ipotizzata l’eliminazione tout court degli scatti di anzianità per un sistema in teoria incentrato appunto sul merito in realtà alquanto arbitrario: scatti ogni tre anni a due prof su tre, i «migliori» di ciascuna scuola. La norma è saltata, gli scatti di anzianità sono tornati al loro posto (anche se Faraone precisa che sullo stipendio peserà molto di più la quota premiale legata al merito) e soprattutto non è chiaro chi valuterà cosa. Su tutto il sistema, però, dovrebbe vigilare il preside, nuovo «sindaco della scuola».
Nuove materie
Va bene puntare su musica, storia dell’arte ed educazione fisica (20 mila nuove cattedre) e pure sul «coding» (la programmazione informatica tanto sbandierata anche se ammonta ad appena un’ora di lezione all’anno) ma com’è che nessuno si preoccupa dei pessimi risultati dei nostri figli in italiano e in matematica? «I dati Invalsi e Ocse dicono che i ragazzi italiani non sanno leggere: dovrebbero maneggiare non solo testi letterari ma anche scientifici, mentre noi continuiamo a insegnare loro a contemplare i libri, non a capirli. Molti dei problemi in matematica hanno origine nella difficoltà di lettura: spesso i risultati peggiori i ragazzi li danno non sulle domande più ostiche ma su quelle che hanno una forma meno scolastica», dice il professor Matteo Viale, docente di linguistica italiana all’Università di Bologna. Bisognerebbe adottare una nuova didattica trasversale, ma di didattica nella Buona Scuola di Renzi non si parla proprio.
Scuola-lavoro
Altro mantra del governo che più volte ha detto di volersi ispirare al cosiddetto «sistema duale» tedesco, anche se nella legge di Stabilità sono saltati i 10 milioni che dovevano servire a raddoppiare le ore di alternanza. Vedremo nel decreto di fine febbraio. Con una avvertenza: l’Italia non è la Germania ed è bene che il governo vigili sulle storture già in atto (vedi i 2.700 studenti del Centro-Sud che venivano sfruttati come manodopera a basso costo da alberghi e ristoranti del Nord proprio dietro lo schermo dell’alternanza scuola-lavoro).
Edilizia scolastica
Infine i muri, la grande scommessa lanciata da Renzi: un miliardo per 21 mila scuole. Tre i capitoli: #scuolenuove (rifacimento o costruzione di nuovi plessi), #scuolebelle (piccola manutenzione) e #scuolesicure (messa a norma e in sicurezza). Il più critico, al momento, è anche quello più importante: ovvero la sicurezza. A dicembre 500 sindaci hanno marciato su Roma perché, pur avendo già effettuato i lavori, non erano ancora riusciti a riscuotere i fondi della prima tranche. Il governo conta di far partire entro la fine di quest’anno 1.600 cantieri di #scuolesicure ed altrettanti di #scuolenuove ed altri 15.000 per #scuolebelle entro primavera 2016. I conti, li faremo alla fine.
Selezione, risorse, materie: tutti i nodi della riforma della scuola
Di rinvio in rinvio, la grande riforma della scuola di Matteo Renzi dovrebbe finalmente vedere la luce alla fine di febbraio. Lo ha annunciato il premier due giorni fa. Gli ingredienti sono noti. Primo: assunzione in blocco di quasi 150 mila «precari storici». Secondo: introduzione del merito: a essere valutati non saranno più solo gli studenti ma anche i prof e il loro stipendio varierà di conseguenza (ma su quali basi e chi darà loro le pagelle è ancora tutto da chiarire). Terzo: potenziamento di alcune materie - arte, musica, informatica, inglese - e più ore per laboratori e stage in azienda. Ultimo ma non ultimo - Renzi ci ha messo la faccia fin dal suo insediamento - l’edilizia scolastica. Tutti ingredienti più che «buoni» sulla carta, ma basteranno a mettere davvero in sicurezza la scuola italiana e i nostri figli? I nodi da sciogliere sono ancora tanti. Vediamo i principali.
Stabilizzazione dei prof
I 150 mila neo assunti saranno tutti all’altezza del ruolo? Molti di loro (uno su cinque) non insegnano più da anni, altri hanno abilitazioni per materie ormai uscite dai programmi. L’allarme lanciato dagli esperti è stato raccolto anche dal governo. «Forse dal piano di assunzioni - ammette il sottosegretario Davide Faraone - si potrebbero escludere i docenti di materie non più utili come la dattilografia». E tutti gli altri? Bisognerebbe formarli. Sì, ma con quali soldi? E allora ecco che si profila una soluzione più drastica: il cosiddetto anno di prova previsto per legge ma finora solo sulla carta. «Quell’anno deve diventare decisivo per la permanenza dei neoassunti», taglia corto Faraone. Più facile a dirsi che a farsi: come non immaginare la valanga di ricorsi da cui sarebbe sommerso il ministero?
Gli esclusi
Se è vero che l’assunzione dei precari storici è stata pensata per sanare un’ingiustizia, in realtà ne apre un’altra. Ci sono infatti decine di migliaia di prof (circa centomila) che prestano servizio nelle nostre scuole ma sono rimasti tagliati fuori. Loro dovranno aspettare il concorso del 2016. Unica concessione al vaglio del governo: una «quota riservata» dei 40 mila posti in palio.
Il merito
È la vera incognita della riforma. Nel testo della Buona Scuola si era ipotizzata l’eliminazione tout court degli scatti di anzianità per un sistema in teoria incentrato appunto sul merito in realtà alquanto arbitrario: scatti ogni tre anni a due prof su tre, i «migliori» di ciascuna scuola. La norma è saltata, gli scatti di anzianità sono tornati al loro posto (anche se Faraone precisa che sullo stipendio peserà molto di più la quota premiale legata al merito) e soprattutto non è chiaro chi valuterà cosa. Su tutto il sistema, però, dovrebbe vigilare il preside, nuovo «sindaco della scuola».
Nuove materie
Va bene puntare su musica, storia dell’arte ed educazione fisica (20 mila nuove cattedre) e pure sul «coding» (la programmazione informatica tanto sbandierata anche se ammonta ad appena un’ora di lezione all’anno) ma com’è che nessuno si preoccupa dei pessimi risultati dei nostri figli in italiano e in matematica? «I dati Invalsi e Ocse dicono che i ragazzi italiani non sanno leggere: dovrebbero maneggiare non solo testi letterari ma anche scientifici, mentre noi continuiamo a insegnare loro a contemplare i libri, non a capirli. Molti dei problemi in matematica hanno origine nella difficoltà di lettura: spesso i risultati peggiori i ragazzi li danno non sulle domande più ostiche ma su quelle che hanno una forma meno scolastica», dice il professor Matteo Viale, docente di linguistica italiana all’Università di Bologna. Bisognerebbe adottare una nuova didattica trasversale, ma di didattica nella Buona Scuola di Renzi non si parla proprio.
Scuola-lavoro
Altro mantra del governo che più volte ha detto di volersi ispirare al cosiddetto «sistema duale» tedesco, anche se nella legge di Stabilità sono saltati i 10 milioni che dovevano servire a raddoppiare le ore di alternanza. Vedremo nel decreto di fine febbraio. Con una avvertenza: l’Italia non è la Germania ed è bene che il governo vigili sulle storture già in atto (vedi i 2.700 studenti del Centro-Sud che venivano sfruttati come manodopera a basso costo da alberghi e ristoranti del Nord proprio dietro lo schermo dell’alternanza scuola-lavoro).
Edilizia scolastica
Infine i muri, la grande scommessa lanciata da Renzi: un miliardo per 21 mila scuole. Tre i capitoli: #scuolenuove (rifacimento o costruzione di nuovi plessi), #scuolebelle (piccola manutenzione) e #scuolesicure (messa a norma e in sicurezza). Il più critico, al momento, è anche quello più importante: ovvero la sicurezza. A dicembre 500 sindaci hanno marciato su Roma perché, pur avendo già effettuato i lavori, non erano ancora riusciti a riscuotere i fondi della prima tranche. Il governo conta di far partire entro la fine di quest’anno 1.600 cantieri di #scuolesicure ed altrettanti di #scuolenuove ed altri 15.000 per #scuolebelle entro primavera 2016. I conti, li faremo alla fine.
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5.1.15
Will religion ever disappear?
Rachel Nuwer (BBC)
Atheism is on the rise around the world, so does that mean spirituality
will soon be a thing of the past? Rachel Nuwer discovers that the
answer is far from simple.
A growing number of people, millions worldwide, say they believe that life definitively ends at death – that there is no God, no afterlife and no divine plan. And it’s an outlook that could be gaining momentum – despite its lack of cheer. In some countries, openly acknowledged atheism has never been more popular.
“There’s absolutely more atheists around today than ever before, both in sheer numbers and as a percentage of humanity,” says Phil Zuckerman, a professor of sociology and secular studies at Pitzer College in Claremont, California, and author of Living the Secular Life. According to a Gallup International survey of more than 50,000 people in 57 countries, the number of individuals claiming to be religious fell from 77% to 68% between 2005 and 2011, while those who self-identified as atheist rose by 3% – bringing the world’s estimated proportion of adamant non-believers to 13%.
While atheists certainly are not the majority, could it be that these figures are a harbinger of things to come? Assuming global trends continue might religion someday disappear entirely?
It’s impossible to predict the future, but examining what we know about religion – including why it evolved in the first place, and why some people chose to believe in it and others abandon it – can hint at how our relationship with the divine might play out in decades or centuries to come.
Scholars are still trying to tease out the complex factors that drive an individual or a nation toward atheism, but there are a few commonalities. Part of religion’s appeal is that it offers security in an uncertain world. So not surprisingly, nations that report the highest rates of atheism tend to be those that provide their citizens with relatively high economic, political and existential stability. “Security in society seems to diminish religious belief,” Zuckerman says. Capitalism, access to technology and education also seems to correlate with a corrosion of religiosity in some populations, he adds.
Crisis of faith
Japan, the UK, Canada, South Korea, the Netherlands, the Czech Republic, Estonia, Germany, France and Uruguay (where the majority of citizens have European roots) are all places where religion was important just a century or so ago, but that now report some of the lowest belief rates in the world. These countries feature strong educational and social security systems, low inequality and are all relatively wealthy. “Basically, people are less scared about what might befall them,” says Quentin Atkinson, a psychologist at the University of Auckland, New Zealand.
Yet decline in belief seems to be occurring across the board, including in places that are still strongly religious, such as Brazil, Jamaica and Ireland. “Very few societies are more religious today than they were 40 or 50 years ago,” Zuckerman says. “The only exception might be Iran, but that’s tricky because secular people might be hiding their beliefs.”
The US, too, is an outlier in that it is one of the wealthiest countries in the world, but also has high rates of religiosity. (Still, a recent Pew survey revealed that, between 2007 and 2012, the proportion of Americans who said they are atheist rose from 1.6% to 2.4%.)
Decline, however, does not mean disappearance, says Ara Norenzayan, a social psychologist at the University of British Columbia in Vancouver, Canada, and author of Big Gods. Existential security is more fallible than it seems. In a moment, everything can change: a drunk driver can kill a loved one; a tornado can destroy a town; a doctor can issue a terminal diagnosis. As climate change wreaks havoc on the world in coming years and natural resources potentially grow scarce, then suffering and hardship could fuel religiosity. “People want to escape suffering, but if they can’t get out of it, they want to find meaning,” Norenzayan says. “For some reason, religion seems to give meaning to suffering – much more so than any secular ideal or belief that we know of.”
This phenomenon constantly plays out in hospital rooms and disaster zones around the world. In 2011, for example, a massive earthquake struck Christchurch, New Zealand – a highly secular society. There was a sudden spike of religiosity in the people who experienced that event, but the rest of the country remained as secular as ever. While exceptions to this rule do exist – religion in Japan plummeted following World War II, for instance – for the most part, Zuckerman says, we adhere by the Christchurch model. “If experiencing something terrible caused all people to become atheists, then we’d all be atheists,” he says.
The mind of god
But even if the world’s troubles were miraculously solved and we all led peaceful lives in equity, religion would probably still be around. This is because a god-shaped hole seems to exist in our species’ neuropsychology, thanks to a quirk of our evolution.
Understanding this requires a delve into “dual process theory”. This psychological staple states that we have two very basic forms of thought: System 1 and System 2. System 2 evolved relatively recently. It’s the voice in our head – the narrator who never seems to shut up – that enables us to plan and think logically.
System 1, on the other hand, is intuitive, instinctual and automatic. These capabilities regularly develop in humans, regardless of where they are born. They are survival mechanisms. System 1 bestows us with an innate revulsion of rotting meat, allows us to speak our native language without thinking about it and gives babies the ability to recognise parents and distinguish between living and nonliving objects. It makes us prone to looking for patterns to better understand our world, and to seek meaning for seemingly random events like natural disasters or the death of loved ones.
In addition to helping us navigate the dangers of the world and find a mate, some scholars think that System 1 also enabled religions to evolve and perpetuate. System 1, for example, makes us instinctually primed to see life forces – a phenomenon called hypersensitive agency detection – everywhere we go, regardless of whether they’re there or not. Millennia ago, that tendency probably helped us avoid concealed danger, such as lions crouched in the grass or venomous snakes concealed in the bush. But it also made us vulnerable to inferring the existence of invisible agents – whether they took the form of a benevolent god watching over us, an unappeased ancestor punishing us with a drought or a monster lurking in the shadows.
Similarly, System 1 encourages us to see things dualistically, meaning we have trouble thinking of the mind and body as a single unit. This tendency emerges quite early: young children, regardless of their cultural background, are inclined to believe that they have an immortal soul – that their essence or personhood existed somewhere prior to their birth, and will always continue to exist. This disposition easily assimilates into many existing religions, or – with a bit of creativity – lends itself to devising original constructs.
“A Scandinavian psychologist colleague of mine who is an atheist told me that his three-year-old daughter recently walked up to him and said, ‘God is everywhere all of the time.’ He and his wife couldn’t figure out where she’d gotten that idea from,” says Justin Barrett, director of the Thrive Center for Human Development at Fuller Theological Seminary in Pasadena, California, and author of Born Believers. “For his daughter, god was an elderly woman, so you know she didn’t get it from the Lutheran church.”
For all of these reasons, many scholars believe that religion arose as “a byproduct of our cognitive disposition”, says Robert McCauley, director of the Center for Mind, Brain and Culture at Emory University in Atlanta, Georgia, and author of Why Religion Is Natural and Science Is Not. “Religions are cultural arrangements that evolved to engage and exploit these natural capacities in humans.”
Hard habits to break
Atheists must fight against all of that cultural and evolutionary baggage. Human beings naturally want to believe that they are a part of something bigger, that life isn’t completely futile. Our minds crave purpose and explanation. “With education, exposure to science and critical thinking, people might stop trusting their intuitions,” Norenzayan says. “But the intuitions are there.”
On the other hand, science – the system of choice that many atheists and non-believers look to for understanding the natural world – is not an easy cognitive pill to swallow. Science is about correcting System 1 biases, McCauley says. We must accept that the Earth spins, even though we never experience that sensation for ourselves. We must embrace the idea that evolution is utterly indifferent and that there is no ultimate design or purpose to the Universe, even though our intuition tells us differently. We also find it difficult to admit that we are wrong, to resist our own biases and to accept that truth as we understand it is ever changing as new empirical data are gathered and tested – all staples of science. “Science is cognitively unnatural – it’s difficult,” McCauley says. “Religion, on the other hand, is mostly something we don’t even have to learn because we already know it.”
“There’s evidence that religious thought is the path of least resistance,” Barrett adds. “You’d have to fundamentally change something about our humanity to get rid of religion.” This biological sticking point probably explains the fact that, although 20% of Americans are not affiliated with a church, 68% of them say that they still believe in God and 37% describe themselves as spiritual. Even without organised religion, they believe that some greater being or life force guides the world.
Similarly, many around the world who explicitly say they don’t believe in a god still harbour superstitious tendencies, like belief in ghosts, astrology, karma, telepathy or reincarnation. “In Scandinavia, most people say they don’t believe in God, but paranormal and superstitious beliefs tend to be higher than you’d think,” Norenzayan says. Additionally, non-believers often lean on what could be interpreted as religious proxies – sports teams, yoga, professional institutions, Mother Nature and more – to guide their values in life. As a testament to this, witchcraft is gaining popularity in the US, and paganism seems to be the fastest growing religion in the UK.
Religious experiences for non-believers can also manifest in other, more bizarre ways. Anthropologist Ryan Hornbeck, also at the Thrive Center for Human Development, found evidence that the World of Warcraft is assuming spiritual importance for some players in China, for example. “WoW seems to be offering opportunities to develop certain moral traits that regular life in contemporary society doesn’t afford,” Barrett says. “People seem to have this conceptual space for religious thought, which – if it’s not filled by religion – bubbles up in surprising ways.”
The in-group
What’s more, religion promotes group cohesion and cooperation. The threat of an all-powerful God (or gods) watching for anyone who steps out of line likely helped to keep order in ancient societies. “This is the supernatural punishment hypothesis,” Atkinson says. “If everyone believes that the punishment is real, then that can be functional to groups.”
And again, insecurity and suffering in a population may play a role here, by helping to encourage religions with stricter moral codes. In a recent analysis of religious belief systems of nearly 600 traditional societies from around the world, Joseph Bulbulia at the University of Wellington, New Zealand and his colleagues found that those places with harsher weather or that are more prone to natural disasters were more likely to develop moralising gods. Why? Helpful neighbours could mean the difference between life and death. In this context, religion evolved as a valuable public utility.
“When we see something so pervasive, something that emerges so quickly developmentally and remains persistent across cultures, then it makes sense that the leading explanation is that it served a cooperative function,” says Bulbulia.
Finally, there’s also some simple mathematics behind religion’s knack for prevailing. Across cultures, people who are more religious also tend to have more children than people who are not. “There’s very strong evidence for this,” Norenzayan says. “Even among religious people, the more fundamentalist ones usually have higher fertility rates than the more liberal ones.” Add to that the fact that children typically follow their parents’ lead when it comes to whether or not they become religious adults themselves, and a completely secularised world seems ever more unlikely.
Enduring belief
For all of these reasons – psychological, neurological, historical, cultural and logistical – experts guess that religion will probably never go away. Religion, whether it’s maintained through fear or love, is highly successful at perpetuating itself. If not, it would no longer be with us.
And even if we lose sight of the Christian, Muslim and Hindu gods and all the rest, superstitions and spiritualism will almost certainly still prevail. More formal religious systems, meanwhile, would likely only be a natural disaster or two away. “Even the best secular government can’t protect you from everything,” says McCauley. As soon as we found ourselves facing an ecological crisis, a global nuclear war or an impending comet collision, the gods would emerge.
“Humans need comfort in the face of pain and suffering, and many need to think that there’s something more after this life, that they’re loved by an invisible being,” Zuckerman says. “There will always be people who believe, and I wouldn’t be surprised if they remain the majority.”
Furbizia o solo ignoranza?
La norma «Salva Berlusconi» e il problema della trasparenza
di Luigi Ferrarella (Corriere)
Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere. È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo. Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva. Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm. Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno. Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti. Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio). Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno. ] Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.
È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm.
Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.
Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.
Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.
di Luigi Ferrarella (Corriere)
Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere. È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo. Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva. Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm. Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno. Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti. Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio). Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno. ] Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.
È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm.
Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.
Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.
Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.
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4.1.15
Vent’anni di solitudine
Guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. Ma è un errore. Vale anche per l’Italia che, pare, non imparare mai dagli errori commessi di Michele Ainis] Guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. Ma è un errore. Vale anche per l’Italia che, pare, non imparare mai dagli errori commessi
di Michele Ainis (Corriere)
Rovesciare lo sguardo sul passato è come sporgersi da un pozzo: ti fa venire le vertigini. E t’impaurisce, perché il passato è un fondo d’acque limacciose. Sarà per questo che guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. È un errore: il futuro dipende dal passato. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. E vale per l’Italia, da tempo immersa in una stagione di «eccezionalità costituzionale». L’ha definita così Napolitano, auspicando il restauro della norma, della regola. Quale normalità? E dov’è stata, fin qui, l’eccezione?
A girarsi indietro sui vent’anni della seconda Repubblica, due fenomeni si stagliano sopra tutti gli altri: la verticalizzazione del potere; la sua concentrazione personale. Entrano in crisi gli organismi collegiali, dal Parlamento che la Costituzione situa a fulcro del sistema, ma che ormai appare come una folla d’anime perdute; ai Consigli regionali, le cui imprese allietano la cronaca giudiziaria, non più quella politica. Lo stesso Consiglio dei ministri - che ai tempi della prima Repubblica costituiva il crocevia nel quale s’intessevano gli accordi fra i partiti di governo - viene offuscato e sormontato dal faccione del leader, del Gran Capo di turno.
Perché è questo il nuovo verbo, tanto da praticare un lifting sulle parole stesse della Carta. Così, il presidente del Consiglio si trasforma in Premier, confondendo Tevere e Tamigi. I presidenti regionali sono altrettanti Governatori, come s’usa negli Usa. Il capo dello Stato diventa un monarca («re Giorgio»), manco fossimo a Madrid. Vent’anni di solitudine, direbbe García Márquez. E la solitudine al potere. Ma nel frattempo questi poteri solitari s’intralciano, si sfidano, tendono sgambetti. Anzi: tutta l’avventura della seconda Repubblica può leggersi come un duello, fra le istituzioni, se non fra le persone. E i maggiori duellanti hanno casa rispettivamente a Palazzo Chigi e al Quirinale.
Chi ha vinto? Napolitano, nella penultima stagione. Quando i partiti gli chiesero a mani giunte di rieleggerlo, in nome dello stato d’eccezione. O quando lui fu levatrice e nume tutelare dei governi, surrogando il Parlamento. Ma ha vinto Renzi, nell’ultima stagione. Ossia un presidente del Consiglio superpopolare, mentre cadeva di 27 punti la popolarità del Colle (Demos 2014), mentre il suo inquilino lasciava il campo pur restandogli 5 anni di mandato. Sarà forse questa, la normalità costituzionale che ci attende. E dopotutto è questa - ahimé - la norma cui tende il progetto di riforma. Molte truppe, un solo generale.
di Michele Ainis (Corriere)
Rovesciare lo sguardo sul passato è come sporgersi da un pozzo: ti fa venire le vertigini. E t’impaurisce, perché il passato è un fondo d’acque limacciose. Sarà per questo che guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. È un errore: il futuro dipende dal passato. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. E vale per l’Italia, da tempo immersa in una stagione di «eccezionalità costituzionale». L’ha definita così Napolitano, auspicando il restauro della norma, della regola. Quale normalità? E dov’è stata, fin qui, l’eccezione?
A girarsi indietro sui vent’anni della seconda Repubblica, due fenomeni si stagliano sopra tutti gli altri: la verticalizzazione del potere; la sua concentrazione personale. Entrano in crisi gli organismi collegiali, dal Parlamento che la Costituzione situa a fulcro del sistema, ma che ormai appare come una folla d’anime perdute; ai Consigli regionali, le cui imprese allietano la cronaca giudiziaria, non più quella politica. Lo stesso Consiglio dei ministri - che ai tempi della prima Repubblica costituiva il crocevia nel quale s’intessevano gli accordi fra i partiti di governo - viene offuscato e sormontato dal faccione del leader, del Gran Capo di turno.
Perché è questo il nuovo verbo, tanto da praticare un lifting sulle parole stesse della Carta. Così, il presidente del Consiglio si trasforma in Premier, confondendo Tevere e Tamigi. I presidenti regionali sono altrettanti Governatori, come s’usa negli Usa. Il capo dello Stato diventa un monarca («re Giorgio»), manco fossimo a Madrid. Vent’anni di solitudine, direbbe García Márquez. E la solitudine al potere. Ma nel frattempo questi poteri solitari s’intralciano, si sfidano, tendono sgambetti. Anzi: tutta l’avventura della seconda Repubblica può leggersi come un duello, fra le istituzioni, se non fra le persone. E i maggiori duellanti hanno casa rispettivamente a Palazzo Chigi e al Quirinale.
Chi ha vinto? Napolitano, nella penultima stagione. Quando i partiti gli chiesero a mani giunte di rieleggerlo, in nome dello stato d’eccezione. O quando lui fu levatrice e nume tutelare dei governi, surrogando il Parlamento. Ma ha vinto Renzi, nell’ultima stagione. Ossia un presidente del Consiglio superpopolare, mentre cadeva di 27 punti la popolarità del Colle (Demos 2014), mentre il suo inquilino lasciava il campo pur restandogli 5 anni di mandato. Sarà forse questa, la normalità costituzionale che ci attende. E dopotutto è questa - ahimé - la norma cui tende il progetto di riforma. Molte truppe, un solo generale.
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