di Cesare Del Frate (FaceBook)
L'economista Giorgio Ruffolo, in Testa e croce. Una breve storia della moneta, spiega come l'Impero Britannico per primo creò il nesso fra dominio imperiale, libero scambio di merci, cambi monetari fissi, un sistema che avvantaggia il "centro dell'impero", cioè l'economia più competitiva, ingabbiando le altre nella gabbia dorata del libero scambio e della stabilità dei cambi fissi. Riporto un estratto illuminante del saggio (p. 103-108) (se sostituite alla parola "Inghilterra" quella "Germania", si comprende la situazione attuale dell'Unione Europea):
"A questo punto [nel XIX secolo] si verifica una decisiva mutazione della strategia britannica, con l'abbandono dell'imperialismo mercantilista e il passaggio a quello che è stato felicemente definito un imperialismo del libero scambio: una innovazione che cambierà l'Europa. La Gran Bretagna, alla svolta del nuovo secolo liquidò, non senza aver superato forti resistenze esterne, con un'audacia sostenuta da una vera rivoluzione culturale, il sistema mercantilista. La vittoria su Napoleone aveva scompaginato il sistema dirigistico che egli aveva preteso di imporre all'Europa. Ma soprattutto la rivoluzione industriale aveva rafforzato i vantaggi già acquisiti dall'Inghilterra con l'espansione commerciale, dotandola di un'industria dei beni capitali che le assicurava una indiscutibile supremazia mondiale.
Il miglior modo di preservare questa supremazia era quella di ribadirla attraverso un sistema di cambi liberi. Lo scambio libero impediva la formazione di nuovi poteri monopolistici che avrebbero intralciato la supremazia industriale conquistata dall'Inghilterra. Una volta stabiliti ccerti rapporti di forza, la "libera competizione" tra le forze non faceva che ribadirli. L'ideologia del libero scambio inoltre aveva dalla sua un formidabile potere di convinzione culturale grazie alla sua modernità paradossale (l'egoismo individuale al servizio dell'interesse pubblico) alla contestazione della grettezza dei sistemi protezionistici, al fascino che le virtù di un sistema "automatico" esercitava sulla pubblica opinione. Era comprensibile che questa ideologia si combinasse con la convinzione, sapientemente coltivata dall'intelligenza britannica, che la superiorità dell'Inghilterra convenisse a tutti.
[...] La sua moneta è stabile. Alla Banca d'Inghilterra, in origine privata, fondata da un mercante con un credito allo Stato di un milione e duecentomila sterline, fu concesso il privilegio di emettere banconote. Il sistema che il governo britannico introduce ufficialmente nel 1716 dando alla sterlina una base aurea con l'obbligo della piena convertibilità consiste in un meccanismo molto semplice. La moneta è legata all'oro da parità di cambio fisse. I disavanzi che si manifestano nel commercio con gli altri Paesi sono regolati, a quelle parità, in oro. Il Paese da cui l'oro defluisce deve ridurre proporzionalmente la quantità di moneta. Ne deriva automaticamente un abbassamento dei prezzi e dei salari che deprime l'attività produttiva, e quindi le importazioni mentre, grazie alla contrazione dei costi, stimola l'esportazione. Si torna così al riequilibrio della bilancia.
Ma emergono col tempo anche i guai di questo sistema. Quello che diveniva via via più grave era il freno deflazionistico che il sistema inseriva nell'economia. Questi effetti furono compensati dalla capacità dell'Inghilterra, grazie al suo avanzo nella bilancia commerciale, di finanziare il resto del mondo con esportazioni di capitale, fungendo quindi da banchiere mondiale. Quando, tra le due guerre mondiali, l'Inghilterra non fu più in grado di esercitare quella funzione gli effetti deflazionistici emersero.
La disciplina aurea comportava una tendenza al ribasso dei prezzi e dei salari, alla restrizione dell'attività economica, all'aumento della disoccupazione. Anche tra gli imprenditori cresceva il malumore e l'insofferenza per una disciplina del cambio che soffocava le possibilità di sviluppo economico.
Il meccanismo di funzionamento del sistema monetario internazionale [fra le due guerre mondiali] fu distrutto, il gold standard fu abbandonato. Si chiudeva così, nel 1931, il lungo secolo britannico".
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
22.5.12
17.5.12
Futuro sostenibile - Meno consumi più benessere
Marco Morosini (Avvenire)
«Economia della sufficienza» è un ossimoro per buona parte degli economisti. Uno di loro mi diceva: «Per noi economisti, di più è sempre meglio». Per questo sarà così interessante leggere quanto si dirà al Simposio "Economia della sufficienza - Ciò che manca nell’Agenda per Rio", che il Wuppertal Institut e la Fondazione Heinrich Böll organizzano a Berlino il 21 e 22 maggio in onore di Wolfgang Sachs (programma:http://qualenergia.it/articoli/20120403-economia-della-sufficienza-cio-che-manca-nell-agenda-rio ). Scelti o subìti, i limiti ecologici e la sufficienza sono concetti ai quali il sociologo tedesco ha dedicato una vita di studi, di scritti e di militanza culturale per un mondo in cui giustizia sociale e salvaguardia della natura siano una la condizione per l’altra.
La nostra contraddizione è clamorosa. Da una parte, le scienze naturali stimano con crescente precisione i limiti biofisici da non superare nello sfruttamento della natura. Dall’altra, la maggioranza degli economisti, dei politici e dei leader economici insistono che "di più è sempre meglio" e cercano di stimolare ulteriormente i consumi materiali anche nei paesi ricchi. Costoro non si accontentano neppure di una crescita costante ma invocano addirittura una crescita esponenziale, cioè un’infinita "crescita della crescita": ogni 20 anni l’economia dovrebbe raddoppiarsi. Per sempre.
Si deve a un collettivo di scienziati internazionali guidati da Johan Rockström, dello Stockholm Environment Institute (www.sei-international.org ), la formulazione nel 2009 di nove "limiti planetari" (planetary boundaries), cioè determinati valori di alcuni parametri ecologici che sarebbe prudente non superare con le attività umane, per evitare gravi squilibri nella biosfera: emissioni di CO2, di azoto, di fosforo, acidificazione dei mari, prelievo di acqua dolce, appropriazione umana dei suoli, velocità di perdita della biodiversità. Niente di simile esiste invece da parte della maggioranza degli scienziati sociali - e tanto meno degli economisti - circa i limiti che sarebbe bene dare al nostro agire individuale e collettivo, per restare dentro i "limiti planetari". Quanta energia pro capite possiamo permetterci? Quanti chilometri in automobile o in aereo? Quanti chilometri per cibi e beni che spostiamo per il mondo? Quanto spesso è opportuno rinnovare i nostri veicoli, vestiti, apparecchi elettrici? Quante materie prime possiamo usare per fabbricarli?
Se la formulazione di limiti biofisici prudenziali è soggetta a diverse approssimazioni e presunzioni, la formulazione di limiti prudenziali ai consumi materiali individuali è ancora più precaria. Contano infatti anche fattori poco conoscibili: la futura grandezza della popolazione, la distribuzione più o meno equa dei beni, il progresso ecologico nelle tecniche di produzione, uso e smaltimento, l’invenzione e diffusione di nuovi beni. Eppure, se davvero vogliamo restare entro i "limiti planetari", non è ammissibile accettare come fatalità o addirittura auspicare l’ulteriore espansione dei consumi materiali nei Paesi industrializzati.
Certo, l’inventiva tecnica e sociale permetterà anche a noi di continuare a migliorare la qualità della vita. Ma dovremo aspirare solo a quei miglioramenti che siano compatibili con una forte riduzione del nostro attuale consumo di natura, perché esso è incompatibile sia con i "limiti planetari" ecologici sia con il legittimo bisogno di due terzi dell’umanità di aumentare i propri consumi materiali.
Più benessere, con meno consumo. È questa la sfida e la nuova frontiera del progresso nelle società più ricche. Quei governi, istituzioni e imprese che dichiarano di far propria questa sfida puntano però su un’unica strategia: un aumento dell’efficienza tecnica, in modo che produzione, trasporti ed edifici riescano a consumare sempre meno energia e altre risorse per ogni unità di merce o di servizio prodotta. Un aumento di efficienza tecnica è molto necessario.
Ma i profeti dell’efficienza sembrano ignorare il bilancio storico degli aumenti di efficienza. Da secoli quando i manufatti e i servizi diventano più efficienti se presi uno per uno, le prestazioni diventano più accessibili e più a buon mercato, e il consumo complessivo di energia e risorse naturali cresce, invece di diminuire. È il cosiddetto effetto rebound (rimbalzo). È per questo che senza un’«economia della sufficienza» l’«economia dell’efficienza» non solo non basta, ma complessivamente è controproduttiva.
Le élite politiche ed economiche sembrano non rendersi conto che entrambe le strategie, efficienza e sufficienza, sono indispensabili. Ma milioni di cittadini del mondo - certo, per ora una piccola minoranza - lo stanno capendo e provano a praticare nuovi stili di vita (www.bilancidigiustizia.it). Nel campo della mobilità, per esempio, si possono moderare il numero, la velocità e la distanza degli spostamenti in automobile e il peso del veicolo che si sceglie. Si possono ridurre la frequenza e il numero dei chilometri dei viaggi aerei.
A questi due mezzi si può preferire il treno, quando il divario di tempo non sia proibitivo. Invece che a motore, parte dei tragitti brevi possono avvenire a piedi o in bicicletta, con beneficio anche per la salute. Si può ridurre la frequenza di acquisto di articoli nuovi per sostituire quelli vecchi o presunti vecchi: veicoli, vestiti, mobili, apparecchi elettrici. Più a lungo si usa un bene, più vengono ammortizzati i suoi costi in energia, materiali e inquinamento e più si ritardano costi e danni per produrre un nuovo bene e smaltire quello dismesso.
Nell’alimentazione si posso preferire più spesso cibi locali e di stagione, piuttosto che quelli trasportati, con dispendio di energia e di emissioni nocive, da lontanissimo e nelle stagioni più disparate. Nell’abitare si possono moderare il riscaldamento e il raffreddamento dei locali, risparmiando energia, inquinamento e denaro. Lo stesso si può fare con l’illuminazione e gli altri apparecchi elettrici e spegnendo, quando non necessari, i sempre più numerosi stand-by che consumano elettricità giorno e notte.
Purtroppo un disincentivo a questi comportamenti è la consapevolezza che i più non li praticano, quindi la loro percezione come sacrifici inutili e ingiusti. Per questo occorre anche una dimensione collettiva della sufficienza. Nel suo ultimo libro Futuro sostenibile (www.edizioniambiente.it/eda/catalogo/libri/609 ), per esempio, Wolfgang Sachs propone che il legislatore non consenta la costruzione di automobili più veloci di 120 km/h e treni più veloci di 200 km/h, con gran risparmio dell’energia usata dai veicoli, che cresce in proporzione al quadrato della velocità. Agli ascensori e alle scale mobili, gli architetti potrebbero affiancare scale invitanti, ben visibili e accessibili, invece di nasconderle dietro una porta mal segnalata.
Infine, c’è una dimensione politica e culturale della sufficienza. Come scrive Sachs «il passaggio a un’economia sostenibile è pensabile solo con entrambe le strategie: ecoefficienza, cioè una reinvenzione dei mezzi tecnici, ed ecosufficienza, cioè una saggia moderazione delle pretese».
Perché questo avvenga in tempi utili, occorre che l’idea guida della sufficienza diventi priorità nella politica e predomini nella cultura di massa. Dal raggiungimento di questo obiettivo sembrano separarci anni luce. Ma la storia ci ha insegnato che altre tappe del progresso umano apparentemente inaccessibili sono state raggiunte prima di quanto molti pensassero.
«Economia della sufficienza» è un ossimoro per buona parte degli economisti. Uno di loro mi diceva: «Per noi economisti, di più è sempre meglio». Per questo sarà così interessante leggere quanto si dirà al Simposio "Economia della sufficienza - Ciò che manca nell’Agenda per Rio", che il Wuppertal Institut e la Fondazione Heinrich Böll organizzano a Berlino il 21 e 22 maggio in onore di Wolfgang Sachs (programma:http://qualenergia.it/articoli/20120403-economia-della-sufficienza-cio-che-manca-nell-agenda-rio ). Scelti o subìti, i limiti ecologici e la sufficienza sono concetti ai quali il sociologo tedesco ha dedicato una vita di studi, di scritti e di militanza culturale per un mondo in cui giustizia sociale e salvaguardia della natura siano una la condizione per l’altra.
La nostra contraddizione è clamorosa. Da una parte, le scienze naturali stimano con crescente precisione i limiti biofisici da non superare nello sfruttamento della natura. Dall’altra, la maggioranza degli economisti, dei politici e dei leader economici insistono che "di più è sempre meglio" e cercano di stimolare ulteriormente i consumi materiali anche nei paesi ricchi. Costoro non si accontentano neppure di una crescita costante ma invocano addirittura una crescita esponenziale, cioè un’infinita "crescita della crescita": ogni 20 anni l’economia dovrebbe raddoppiarsi. Per sempre.
Si deve a un collettivo di scienziati internazionali guidati da Johan Rockström, dello Stockholm Environment Institute (www.sei-international.org ), la formulazione nel 2009 di nove "limiti planetari" (planetary boundaries), cioè determinati valori di alcuni parametri ecologici che sarebbe prudente non superare con le attività umane, per evitare gravi squilibri nella biosfera: emissioni di CO2, di azoto, di fosforo, acidificazione dei mari, prelievo di acqua dolce, appropriazione umana dei suoli, velocità di perdita della biodiversità. Niente di simile esiste invece da parte della maggioranza degli scienziati sociali - e tanto meno degli economisti - circa i limiti che sarebbe bene dare al nostro agire individuale e collettivo, per restare dentro i "limiti planetari". Quanta energia pro capite possiamo permetterci? Quanti chilometri in automobile o in aereo? Quanti chilometri per cibi e beni che spostiamo per il mondo? Quanto spesso è opportuno rinnovare i nostri veicoli, vestiti, apparecchi elettrici? Quante materie prime possiamo usare per fabbricarli?
Se la formulazione di limiti biofisici prudenziali è soggetta a diverse approssimazioni e presunzioni, la formulazione di limiti prudenziali ai consumi materiali individuali è ancora più precaria. Contano infatti anche fattori poco conoscibili: la futura grandezza della popolazione, la distribuzione più o meno equa dei beni, il progresso ecologico nelle tecniche di produzione, uso e smaltimento, l’invenzione e diffusione di nuovi beni. Eppure, se davvero vogliamo restare entro i "limiti planetari", non è ammissibile accettare come fatalità o addirittura auspicare l’ulteriore espansione dei consumi materiali nei Paesi industrializzati.
Certo, l’inventiva tecnica e sociale permetterà anche a noi di continuare a migliorare la qualità della vita. Ma dovremo aspirare solo a quei miglioramenti che siano compatibili con una forte riduzione del nostro attuale consumo di natura, perché esso è incompatibile sia con i "limiti planetari" ecologici sia con il legittimo bisogno di due terzi dell’umanità di aumentare i propri consumi materiali.
Più benessere, con meno consumo. È questa la sfida e la nuova frontiera del progresso nelle società più ricche. Quei governi, istituzioni e imprese che dichiarano di far propria questa sfida puntano però su un’unica strategia: un aumento dell’efficienza tecnica, in modo che produzione, trasporti ed edifici riescano a consumare sempre meno energia e altre risorse per ogni unità di merce o di servizio prodotta. Un aumento di efficienza tecnica è molto necessario.
Ma i profeti dell’efficienza sembrano ignorare il bilancio storico degli aumenti di efficienza. Da secoli quando i manufatti e i servizi diventano più efficienti se presi uno per uno, le prestazioni diventano più accessibili e più a buon mercato, e il consumo complessivo di energia e risorse naturali cresce, invece di diminuire. È il cosiddetto effetto rebound (rimbalzo). È per questo che senza un’«economia della sufficienza» l’«economia dell’efficienza» non solo non basta, ma complessivamente è controproduttiva.
Le élite politiche ed economiche sembrano non rendersi conto che entrambe le strategie, efficienza e sufficienza, sono indispensabili. Ma milioni di cittadini del mondo - certo, per ora una piccola minoranza - lo stanno capendo e provano a praticare nuovi stili di vita (www.bilancidigiustizia.it). Nel campo della mobilità, per esempio, si possono moderare il numero, la velocità e la distanza degli spostamenti in automobile e il peso del veicolo che si sceglie. Si possono ridurre la frequenza e il numero dei chilometri dei viaggi aerei.
A questi due mezzi si può preferire il treno, quando il divario di tempo non sia proibitivo. Invece che a motore, parte dei tragitti brevi possono avvenire a piedi o in bicicletta, con beneficio anche per la salute. Si può ridurre la frequenza di acquisto di articoli nuovi per sostituire quelli vecchi o presunti vecchi: veicoli, vestiti, mobili, apparecchi elettrici. Più a lungo si usa un bene, più vengono ammortizzati i suoi costi in energia, materiali e inquinamento e più si ritardano costi e danni per produrre un nuovo bene e smaltire quello dismesso.
Nell’alimentazione si posso preferire più spesso cibi locali e di stagione, piuttosto che quelli trasportati, con dispendio di energia e di emissioni nocive, da lontanissimo e nelle stagioni più disparate. Nell’abitare si possono moderare il riscaldamento e il raffreddamento dei locali, risparmiando energia, inquinamento e denaro. Lo stesso si può fare con l’illuminazione e gli altri apparecchi elettrici e spegnendo, quando non necessari, i sempre più numerosi stand-by che consumano elettricità giorno e notte.
Purtroppo un disincentivo a questi comportamenti è la consapevolezza che i più non li praticano, quindi la loro percezione come sacrifici inutili e ingiusti. Per questo occorre anche una dimensione collettiva della sufficienza. Nel suo ultimo libro Futuro sostenibile (www.edizioniambiente.it/eda/catalogo/libri/609 ), per esempio, Wolfgang Sachs propone che il legislatore non consenta la costruzione di automobili più veloci di 120 km/h e treni più veloci di 200 km/h, con gran risparmio dell’energia usata dai veicoli, che cresce in proporzione al quadrato della velocità. Agli ascensori e alle scale mobili, gli architetti potrebbero affiancare scale invitanti, ben visibili e accessibili, invece di nasconderle dietro una porta mal segnalata.
Infine, c’è una dimensione politica e culturale della sufficienza. Come scrive Sachs «il passaggio a un’economia sostenibile è pensabile solo con entrambe le strategie: ecoefficienza, cioè una reinvenzione dei mezzi tecnici, ed ecosufficienza, cioè una saggia moderazione delle pretese».
Perché questo avvenga in tempi utili, occorre che l’idea guida della sufficienza diventi priorità nella politica e predomini nella cultura di massa. Dal raggiungimento di questo obiettivo sembrano separarci anni luce. Ma la storia ci ha insegnato che altre tappe del progresso umano apparentemente inaccessibili sono state raggiunte prima di quanto molti pensassero.
16.5.12
Europe’s Economic Suicide
By PAUL KRUGMAN (The New York Times)
On Saturday The Times reported on an apparently growing phenomenon in Europe: “suicide by economic crisis,” people taking their own lives in despair over unemployment and business failure. It was a heartbreaking story. But I’m sure I wasn’t the only reader, especially among economists, wondering if the larger story isn’t so much about individuals as about the apparent determination of European leaders to commit economic suicide for the Continent as a whole.
On Saturday The Times reported on an apparently growing phenomenon in Europe: “suicide by economic crisis,” people taking their own lives in despair over unemployment and business failure. It was a heartbreaking story. But I’m sure I wasn’t the only reader, especially among economists, wondering if the larger story isn’t so much about individuals as about the apparent determination of European leaders to commit economic suicide for the Continent as a whole.
Just a few months ago I was feeling some hope about Europe. You may recall that late last fall Europe appeared to be on the verge of financial meltdown; but the European Central Bank, Europe’s counterpart to the Fed, came to the Continent’s rescue. It offered Europe’s banks open-ended credit lines as long as they put up the bonds of European governments as collateral; this directly supported the banks and indirectly supported the governments, and put an end to the panic.
The question then was whether this brave and effective action would be the start of a broader rethink, whether European leaders would use the breathing space the bank had created to reconsider the policies that brought matters to a head in the first place.
But they didn’t. Instead, they doubled down on their failed policies and ideas. And it’s getting harder and harder to believe that anything will get them to change course.
Consider the state of affairs in Spain, which is now the epicenter of the crisis. Never mind talk of recession; Spain is in full-on depression, with the overall unemployment rate at 23.6 percent, comparable to America at the depths of the Great Depression, and the youth unemployment rate over 50 percent. This can’t go on — and the realization that it can’t go on is what is sending Spanish borrowing costs ever higher.
In a way, it doesn’t really matter how Spain got to this point — but for what it’s worth, the Spanish story bears no resemblance to the morality tales so popular among European officials, especially in Germany. Spain wasn’t fiscally profligate — on the eve of the crisis it had low debt and a budget surplus. Unfortunately, it also had an enormous housing bubble, a bubble made possible in large part by huge loans from German banks to their Spanish counterparts. When the bubble burst, the Spanish economy was left high and dry; Spain’s fiscal problems are a consequence of its depression, not its cause.
Nonetheless, the prescription coming from Berlin and Frankfurt is, you guessed it, even more fiscal austerity.
This is, not to mince words, just insane. Europe has had several years of experience with harsh austerity programs, and the results are exactly what students of history told you would happen: such programs push depressed economies even deeper into depression. And because investors look at the state of a nation’s economy when assessing its ability to repay debt, austerity programs haven’t even worked as a way to reduce borrowing costs.
What is the alternative? Well, in the 1930s — an era that modern Europe is starting to replicate in ever more faithful detail — the essential condition for recovery was exit from the gold standard. The equivalent move now would be exit from the euro, and restoration of national currencies. You may say that this is inconceivable, and it would indeed be a hugely disruptive event both economically and politically. But continuing on the present course, imposing ever-harsher austerity on countries that are already suffering Depression-era unemployment, is what’s truly inconceivable.
So if European leaders really wanted to save the euro they would be looking for an alternative course. And the shape of such an alternative is actually fairly clear. The Continent needs more expansionary monetary policies, in the form of a willingness — an announced willingness — on the part of the European Central Bank to accept somewhat higher inflation; it needs more expansionary fiscal policies, in the form of budgets in Germany that offset austerity in Spain and other troubled nations around the Continent’s periphery, rather than reinforcing it. Even with such policies, the peripheral nations would face years of hard times. But at least there would be some hope of recovery.
What we’re actually seeing, however, is complete inflexibility. In March, European leaders signed a fiscal pact that in effect locks in fiscal austerity as the response to any and all problems. Meanwhile, key officials at the central bank are making a point of emphasizing the bank’s willingness to raise rates at the slightest hint of higher inflation.
So it’s hard to avoid a sense of despair. Rather than admit that they’ve been wrong, European leaders seem determined to drive their economy — and their society — off a cliff. And the whole world will pay the price.
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15.5.12
Le Cassandre dell'economia
Cesare Del Frate (FaceBook)
Che cosa avevano previsto gli economisti circa l'introduzione dell'euro? Avevano previsto tutto, leggere per credere:
Luigi Cavallaro, 2006:
Come già accadde per l’Argentina, l’Italia affronta una crescente perdita di competitività dovuta all’aggancio ad unamoneta sopravvalutata, com’è attualmente l’euro. Ciò ha comportato la progressiva caduta delle nostreesportazioni, la crescita del deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti e, in un contesto dominato dapolitiche fiscali sostanzialmente restrittive, l’ovvio rallentamento della crescita. Dal canto suo, il peggioramento dellaperformance della nostra economia non può che riflettersi in un peggioramento del deficit e, di qui, del debitopubblico. E non potendo più farsi ricorso alla svalutazione per ridurre i salari reali, l’unico modo per annullare lasopravvalutazione del tasso reale di cambio può essere solo un lungo e penoso processo di deflazione di salari eprezzi.
Rudiger Dornbusch, docente al MIT, Da “Euro fantasies”, Foreign Affairs, vol. 75, n. 5, settembre/ottobre 1996, scriveva:
"La critica più seria all’Unione monetaria è che abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio trasferisce al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi... diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione (e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia". "Una volta entrata l’Italia, con una valuta sopravvalutata, si troverà di nuovo alle corde, come nel 1992, quando venne attaccata la lira".
Paul Krugman, nel 1998!!!!!
"L’Unione monetaria non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per mantenere contenta la Germania – per offrire quella severa disciplina antinflazionistica che tutti sanno essere sempre stata desiderata dalla Germania, e che la Germania sempre vorrà in futuro"; "il pericolo immediato ed evidente è che l’Europa diventi giapponese [cioè crescita stagnante ndr.]: che scivoli inesorabilmente nella DEFLAZIONE [cioè diminuzione dei salari], e che quando i banchieri centrali alla fine decideranno di allentare la tensione sarà troppo tardi".
Martin Feldstein, 1997
"Anche se i 50 anni di pace dalla fine della seconda guerra mondiale fanno ben sperare, occorre ricordare che ci furono più di 50 anni di pace fra il congresso di Vienna e la guerra franco-prussiana. Inoltre, contrariamente alle speranze e alle supposizioni di Monnet e degli altri fautori dell’integrazione europea, la devastante guerra di secessione americana ci ricorda che un’unione politica formale non costituisce di per sé una garanzia contro una guerra intra-europea".
Dominick Salvatore: "Muovere verso una compiuta unione monetaria dell’Europa è come mettere il carro davanti ai buoi. Uno shock importante provocherebbe una pressione insopportabile all’interno dell’unione, data la scarsa mobilità del lavoro, l’inadeguata redistribuzione fiscale, e l’atteggiamento della Bce che vorrebbe probabilmente perseguire una politica monetaria restrittiva per mantenere l’euro forte quanto il dollaro. Questa è certamente la ricetta per notevoli problemi futuri".
Keynes, Le conseguenze economiche di Wiston Churchill, 1932:
«Se vogliono essere fedeli ai loro principi [l’agganciamento della sterlina al gold standard] le autorità della Banca d’Inghilterra dovranno sfruttare questo margine di tempo per attuare quelli che vengono eufemisticamente chiamati i riassestamenti fondamentali. [...] Che cosa significa, in parole povere? Significa che dobbiamo ridurre i salari monetari e, per loro mezzo, il costo della vita, nella convinzione che quando il processo delle compressioni a catena sarà concluso, i salari reali avranno lo stesso valore, o quasi, che avevano prima. E qual è il processo pratico attraverso cui [...] si consegue questo risultato? Uno solo: aumentando deliberatamente la disoccupazione. [...] Questa è la sana politica che si impone come risultato della sconsiderata decisione di inchiodare la sterlina ad un valore aureo che, calcolato in potere d’acquisto della manodopera inglese, ancora non ha. Ma è una politica da cui ogni essere umano o razionale dovrebbe rifuggire».
Giorgio Ruffolo, Testa e Croce, 2012:
"La disciplina aurea comportava una tendenza al ribasso dei prezzi e dei salari, alla restrizione dell'attività economica, all'aumento della disoccupazione. Anche tra gli imprenditori cresceva il malumore e l'insofferenza per una disciplina del cambio che soffocava le possibilità di sviluppo economico"
Che cosa avevano previsto gli economisti circa l'introduzione dell'euro? Avevano previsto tutto, leggere per credere:
Luigi Cavallaro, 2006:
Come già accadde per l’Argentina, l’Italia affronta una crescente perdita di competitività dovuta all’aggancio ad unamoneta sopravvalutata, com’è attualmente l’euro. Ciò ha comportato la progressiva caduta delle nostreesportazioni, la crescita del deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti e, in un contesto dominato dapolitiche fiscali sostanzialmente restrittive, l’ovvio rallentamento della crescita. Dal canto suo, il peggioramento dellaperformance della nostra economia non può che riflettersi in un peggioramento del deficit e, di qui, del debitopubblico. E non potendo più farsi ricorso alla svalutazione per ridurre i salari reali, l’unico modo per annullare lasopravvalutazione del tasso reale di cambio può essere solo un lungo e penoso processo di deflazione di salari eprezzi.
Rudiger Dornbusch, docente al MIT, Da “Euro fantasies”, Foreign Affairs, vol. 75, n. 5, settembre/ottobre 1996, scriveva:
"La critica più seria all’Unione monetaria è che abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio trasferisce al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi... diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione (e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia". "Una volta entrata l’Italia, con una valuta sopravvalutata
Paul Krugman, nel 1998!!!!!
"L’Unione monetaria non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per mantenere contenta la Germania – per offrire quella severa disciplina antinflazionistica che tutti sanno essere sempre stata desiderata dalla Germania, e che la Germania sempre vorrà in futuro"; "il pericolo immediato ed evidente è che l’Europa diventi giapponese [cioè crescita stagnante ndr.]: che scivoli inesorabilmente nella DEFLAZIONE [cioè diminuzione dei salari], e che quando i banchieri centrali alla fine decideranno di allentare la tensione sarà troppo tardi".
Martin Feldstein, 1997
"Anche se i 50 anni di pace dalla fine della seconda guerra mondiale fanno ben sperare, occorre ricordare che ci furono più di 50 anni di pace fra il congresso di Vienna e la guerra franco-prussiana. Inoltre, contrariamente alle speranze e alle supposizioni di Monnet e degli altri fautori dell’integrazione europea, la devastante guerra di secessione americana ci ricorda che un’unione politica formale non costituisce di per sé una garanzia contro una guerra intra-europea".
Dominick Salvatore: "Muovere verso una compiuta unione monetaria dell’Europa è come mettere il carro davanti ai buoi. Uno shock importante provocherebbe una pressione insopportabile all’interno dell’unione, data la scarsa mobilità del lavoro, l’inadeguata redistribuzione fiscale, e l’atteggiamento della Bce che vorrebbe probabilmente perseguire una politica monetaria restrittiva per mantenere l’euro forte quanto il dollaro. Questa è certamente la ricetta per notevoli problemi futuri".
Keynes, Le conseguenze economiche di Wiston Churchill, 1932:
«Se vogliono essere fedeli ai loro principi [l’agganciamento della sterlina al gold standard] le autorità della Banca d’Inghilterra dovranno sfruttare questo margine di tempo per attuare quelli che vengono eufemisticamente chiamati i riassestamenti fondamentali. [...] Che cosa significa, in parole povere? Significa che dobbiamo ridurre i salari monetari e, per loro mezzo, il costo della vita, nella convinzione che quando il processo delle compressioni a catena sarà concluso, i salari reali avranno lo stesso valore, o quasi, che avevano prima. E qual è il processo pratico attraverso cui [...] si consegue questo risultato? Uno solo: aumentando deliberatamente la disoccupazione. [...] Questa è la sana politica che si impone come risultato della sconsiderata decisione di inchiodare la sterlina ad un valore aureo che, calcolato in potere d’acquisto della manodopera inglese, ancora non ha. Ma è una politica da cui ogni essere umano o razionale dovrebbe rifuggire».
Giorgio Ruffolo, Testa e Croce, 2012:
"La disciplina aurea comportava una tendenza al ribasso dei prezzi e dei salari, alla restrizione dell'attività economica, all'aumento della disoccupazione. Anche tra gli imprenditori cresceva il malumore e l'insofferenza per una disciplina del cambio che soffocava le possibilità di sviluppo economico"
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Se Wall Street è senza regole
Paul Krugman (La Repubblica)
Uno dei personaggi dell`intramontabile film Ombre rosse (1939) è un banchiere, Gatewood, che ai suoi sottoposti propina una lezione sui mali di Big Government, l`interventismo statale, in particolare della regolamentazione bancaria. A un certo punto Gatewood esclama: «Come se noi banchieri non sapessimo come amministrare le nostre banche!». In seguito, più avanti nel film, scopriamo che Gatewood taglia la corda dalla città, portando via una bisaccia piena zeppa dí bigliettoni che ha sottratto indebitamente.
Da quel che ne sappiamo finora, Jamie Dimon - presidente e amministratore delegato di JP Morgan Chase - non ha in mente nulla del genere. Tuttavia ci risulta che spesso gli è piaciuto fare discorsini come quelli di Gatewood su come lui e i suoi colleghi sanno perfettamente quello che stanno facendo e non hanno certo bisogno che il governo stia loro col fiato sul collo. Di conseguenza, nello sconvolgente annuncio da parte della JP Morgan di essere riuscita a bruciare chissà come due miliardi dí dollari circa, in un tentativo infruttuoso di intrallazzi finanziari, ci sono un bel po` di giustizia divina e una fondamentale lezione comportamentale da apprendere. Giusto per essere chiari: gli uomini d`affari sono uomini - quantunque i Signori della finanza abbiano una certa tendenza a dimenticarlo - e di conseguenza commettono di continuo errori in perdita.
Di per sé questa non è una ragione sufficiente per la quale il governo debba intervenire. Le banche, però, sono speciali, perché i rischi che si assumono sono sostenuti, in buona parte, dai contribuenti e dall`economia nel suo complesso. E il caso di JP Morgan ha appena dimostrato che perfino i presunti banchieri intelligenti devono avere rigidi limiti nella tipologia di rischio che sono autorizzati ad assumersi. Per la precisione: perché le banche sono speciali? Perché la storia ci insegna che il settore bancario è ed è sempre stato soggetto a sporadici e devastanti "ondate di panico", in grado di scatenare il caos in tutta l`economia. La destra sta attualmente diffondendo la panzana secondo la quale un cattivo andamento del settore bancario è sempre conseguenza diun intervento del governo, attuato tramite la Federal Reserve oppure con le ingerenze dei liberai al Congresso. In realtà, tuttavia, l`America dell`Età Dorata - quella nella quale il governo si intrometteva il meno possibile e la Fed non esisteva neppure - era soggetta al panico più o meno una volta ogni sei anni. E in alcuni casi si inflissero così gravissime perdite all`economia.
Ma allora, che cosa fare? Negli anni Trenta, dopo la madre di tutti gli attacchi di panico delle banche, arrivammo a una soluzione praticabile, che contemplava garanzie e controlli a uno stesso tempo. Da un lato, il dilagare del panico fu arginato tramite assicurazioni sui depositi garantite dallo stato; dall`altro, le banche furono sottoposte a regolamentazioni miranti a impedire che potessero abusare dello status privilegiato derivante loro proprio dall`assicurazione sui depositi, in pratica unagaranzia governativa dei loro debiti. Cosa ancora più importante, le banche con depositi garantiti dallo Stato non furono autorizzate a impegnarsi in speculazioni spesso rischiose, tipiche di banche di investimento quali Lehman Brothers.
Questo sistema ci ha regalato mezzo secolo di relativa stabilità finanziaria. Alla fine, però, ci siamo dimenticati ciò che la storia ci aveva insegnato. Sono proliferate nuove forme di attività baricaria senza garanzie statali, e al contempo si è permesso sía alle banche tradizionali sia a quelle all`avanguardia di accollarsi rischi sempre maggiori. Come era prevedibile, alla fine abbiamo dovuto subire la versione Ventunesimo secolo del panico bancario dell`Età Dorata, con conseguenze tremende.
È evidente pertanto che dobbiamo assolutamente ripristinare quel tipo di tutela che ci ha regalato per un paio di generazioni una tregua dalle grandi preoccupazioni bancarie. O meglio, questo è evidente a tutti fuorché ai banchieri e ai politici finanziati dai banchieri, in quanto essendo stati salvati in extremis adesso naturalmente questi ultimi sarebbero ben felici di tornare a fare affari come al loro solito. Ho già citato il fatto che Wall Street sta versando ingenti quantità di soldi a Mitt Romney, che ha promesso di abrogare le recenti riforme finanziarie?
Arriviamo adesso a Dimon. Dobbiamo riconoscere a JP Morgan - e a Dimon - il merito di essere riuscita a tenersi alla larga da molti dei pessimi investimenti che hanno messo in ginocchio altre banche. Questa manifesta dimostrazione di prudenza ha fatto di Dimon l`uomo di punta nella battaglia ingaggiata da Wall Street volta a procrastinare, annacquare e/o abrogare la riforma finanziaria. Egli si è distinto e si è fatto particolarmente sentire quando si è opposto alla Volcker Rul e, che precluderebbe alle banche con depositi garantiti dallo Stato la possibilità di impegnarsi nel "proprietary trading", in sostanza di effettuare speculazioni con i soldi dei depositanti. «Fidatevi di noi», ha detto in pratica il capo della IP Morgan. «È tutto sotto controllo».
Pare proprio di no, invece. Che cosa ha fatto in realtà la JP Morgan? Da quanto ne sappiamo, ha utilizzato il mercato dei derivati - complessi dispositivi finanziari - per scommettere fortemente sulla sicurezza dell`indebítamento delle aziende, qualcosa di simile alle puntate effettuate dalla compagnia di assicurazioni Aig sull`indebitamento immobiliare di qualche anno fa. Il punto cruciale non sta tanto nel fatto che la scommessa non è andata a buon fine, ma che gli istituti che rivestono un ruolo cruciale nel sistema finanziario non hanno il diritto di fare simili scornmesse. Tanto meno quando questi stessi istituti sono sorretti da garanzie dei contribuenti.
Per adesso pare che Dimon sia stato punito. Avrebbe perfino ammesso che forse chi propone una maggiore regolamentazione ha segnato un punto a proprio favore. Quasi certamente, però, non durerà: mi aspetto che Wall Street torni alla sua consueta arroganza nei giro di settimane, forse addirittura giorni. In verità, abbiamo appena assistito a una dimostrazione pratica del motivo perii quale, di fatto, Wall Street ha bisogno di essere regolamentata. Grazie Mister Dimon.
Uno dei personaggi dell`intramontabile film Ombre rosse (1939) è un banchiere, Gatewood, che ai suoi sottoposti propina una lezione sui mali di Big Government, l`interventismo statale, in particolare della regolamentazione bancaria. A un certo punto Gatewood esclama: «Come se noi banchieri non sapessimo come amministrare le nostre banche!». In seguito, più avanti nel film, scopriamo che Gatewood taglia la corda dalla città, portando via una bisaccia piena zeppa dí bigliettoni che ha sottratto indebitamente.
Da quel che ne sappiamo finora, Jamie Dimon - presidente e amministratore delegato di JP Morgan Chase - non ha in mente nulla del genere. Tuttavia ci risulta che spesso gli è piaciuto fare discorsini come quelli di Gatewood su come lui e i suoi colleghi sanno perfettamente quello che stanno facendo e non hanno certo bisogno che il governo stia loro col fiato sul collo. Di conseguenza, nello sconvolgente annuncio da parte della JP Morgan di essere riuscita a bruciare chissà come due miliardi dí dollari circa, in un tentativo infruttuoso di intrallazzi finanziari, ci sono un bel po` di giustizia divina e una fondamentale lezione comportamentale da apprendere. Giusto per essere chiari: gli uomini d`affari sono uomini - quantunque i Signori della finanza abbiano una certa tendenza a dimenticarlo - e di conseguenza commettono di continuo errori in perdita.
Di per sé questa non è una ragione sufficiente per la quale il governo debba intervenire. Le banche, però, sono speciali, perché i rischi che si assumono sono sostenuti, in buona parte, dai contribuenti e dall`economia nel suo complesso. E il caso di JP Morgan ha appena dimostrato che perfino i presunti banchieri intelligenti devono avere rigidi limiti nella tipologia di rischio che sono autorizzati ad assumersi. Per la precisione: perché le banche sono speciali? Perché la storia ci insegna che il settore bancario è ed è sempre stato soggetto a sporadici e devastanti "ondate di panico", in grado di scatenare il caos in tutta l`economia. La destra sta attualmente diffondendo la panzana secondo la quale un cattivo andamento del settore bancario è sempre conseguenza diun intervento del governo, attuato tramite la Federal Reserve oppure con le ingerenze dei liberai al Congresso. In realtà, tuttavia, l`America dell`Età Dorata - quella nella quale il governo si intrometteva il meno possibile e la Fed non esisteva neppure - era soggetta al panico più o meno una volta ogni sei anni. E in alcuni casi si inflissero così gravissime perdite all`economia.
Ma allora, che cosa fare? Negli anni Trenta, dopo la madre di tutti gli attacchi di panico delle banche, arrivammo a una soluzione praticabile, che contemplava garanzie e controlli a uno stesso tempo. Da un lato, il dilagare del panico fu arginato tramite assicurazioni sui depositi garantite dallo stato; dall`altro, le banche furono sottoposte a regolamentazioni miranti a impedire che potessero abusare dello status privilegiato derivante loro proprio dall`assicurazione sui depositi, in pratica unagaranzia governativa dei loro debiti. Cosa ancora più importante, le banche con depositi garantiti dallo Stato non furono autorizzate a impegnarsi in speculazioni spesso rischiose, tipiche di banche di investimento quali Lehman Brothers.
Questo sistema ci ha regalato mezzo secolo di relativa stabilità finanziaria. Alla fine, però, ci siamo dimenticati ciò che la storia ci aveva insegnato. Sono proliferate nuove forme di attività baricaria senza garanzie statali, e al contempo si è permesso sía alle banche tradizionali sia a quelle all`avanguardia di accollarsi rischi sempre maggiori. Come era prevedibile, alla fine abbiamo dovuto subire la versione Ventunesimo secolo del panico bancario dell`Età Dorata, con conseguenze tremende.
È evidente pertanto che dobbiamo assolutamente ripristinare quel tipo di tutela che ci ha regalato per un paio di generazioni una tregua dalle grandi preoccupazioni bancarie. O meglio, questo è evidente a tutti fuorché ai banchieri e ai politici finanziati dai banchieri, in quanto essendo stati salvati in extremis adesso naturalmente questi ultimi sarebbero ben felici di tornare a fare affari come al loro solito. Ho già citato il fatto che Wall Street sta versando ingenti quantità di soldi a Mitt Romney, che ha promesso di abrogare le recenti riforme finanziarie?
Arriviamo adesso a Dimon. Dobbiamo riconoscere a JP Morgan - e a Dimon - il merito di essere riuscita a tenersi alla larga da molti dei pessimi investimenti che hanno messo in ginocchio altre banche. Questa manifesta dimostrazione di prudenza ha fatto di Dimon l`uomo di punta nella battaglia ingaggiata da Wall Street volta a procrastinare, annacquare e/o abrogare la riforma finanziaria. Egli si è distinto e si è fatto particolarmente sentire quando si è opposto alla Volcker Rul e, che precluderebbe alle banche con depositi garantiti dallo Stato la possibilità di impegnarsi nel "proprietary trading", in sostanza di effettuare speculazioni con i soldi dei depositanti. «Fidatevi di noi», ha detto in pratica il capo della IP Morgan. «È tutto sotto controllo».
Pare proprio di no, invece. Che cosa ha fatto in realtà la JP Morgan? Da quanto ne sappiamo, ha utilizzato il mercato dei derivati - complessi dispositivi finanziari - per scommettere fortemente sulla sicurezza dell`indebítamento delle aziende, qualcosa di simile alle puntate effettuate dalla compagnia di assicurazioni Aig sull`indebitamento immobiliare di qualche anno fa. Il punto cruciale non sta tanto nel fatto che la scommessa non è andata a buon fine, ma che gli istituti che rivestono un ruolo cruciale nel sistema finanziario non hanno il diritto di fare simili scornmesse. Tanto meno quando questi stessi istituti sono sorretti da garanzie dei contribuenti.
Per adesso pare che Dimon sia stato punito. Avrebbe perfino ammesso che forse chi propone una maggiore regolamentazione ha segnato un punto a proprio favore. Quasi certamente, però, non durerà: mi aspetto che Wall Street torni alla sua consueta arroganza nei giro di settimane, forse addirittura giorni. In verità, abbiamo appena assistito a una dimostrazione pratica del motivo perii quale, di fatto, Wall Street ha bisogno di essere regolamentata. Grazie Mister Dimon.
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12.5.12
E NOI?
di Rossana Rossanda (Il Manifesto)
Non credo di essere caduta in stato ipnotico davanti al successo di François Hollande, come sospetta il nostro gentile collaboratore e compagno Joseph Halevi (il manifesto di ieri), se mai sono influenzata, anzi terrorizzata, dalla catalessi della sinistra italiana. Per cui tendo ad apprezzare chiunque tenti di svincolarsi dalle politiche di rigore dell'Europa, delle quali la Germania è il più feroce guardiano malgrado l'opinione più che dubitosa non solo dei Krugman e degli Stiglitz ma, ormai, anche degli europeisti della prima ora, come Delors o Prodi o Amato.
D'altra parte non ritengo, come ha finto di fare Sarkozy per due mesi, che la misura dei due programmi sia essenzialmente contabile - non foss'altro che per l'impossibilità di calcolare realmente le spese finché i tassi di sconto con i quali ogni paese acquista valuta non saranno regolati e/o la Bce non potrà prestare agli stati ai tassi assai bassi con cui presta alle banche. I punti di svolta con i quali Hollande s'è conquistato faticosamente la vittoria sono tre; uno, la trattativa sul fiscal compact - grimaldello sul quale Angela Merkel dovrà vedersela al suo parlamento con tutta la Spd, e dal quale dipenderà anche la riforma fiscale che Hollande, ed altri, si ripropongono; due, il primato all'occupazione giovanile (mentre potrà accedere alla pensione a 60 anni chi avrà quarantun anni di contributi); tre, il voto a tutti gli immigrati in tutte le assemblee locali. Su questi tre punti si sono scontrati la destra rigorista, liberale e identitaria e le sinistre di Hollande e Mélenchon.
Quel che mi preme è la paralisi italiana. Il risultato delle elezioni parziali è disperante. Berlusconi e la Lega sono andati in pezzi ma le sinistre e il vantato centro non ne hanno tratto un voto di più, l'astensionismo e il qualunquismo essendosi spartite le spoglie dei perdenti. Il voto antidestra s'è frammentato in almeno sette o otto sigle. A distanza di quattro giorni, non si vede una reazione del Pd che non sia la tentazione di ripararsi dietro alla sciagurata legge elettorale detta porcellum, tanta è la distanza dalla sensibilità, per non dire il furore del paese. E noi? Per Luigi Pintor il giornale non era un bollettino che descriveva britannicamente gli errori od omissioni altrui, era una forma della politica - avanzava le sue analisi e proposte, si esponeva, stimolava. Dovevamo essere protagonisti del "che fare". Qualche settimana fa mi è parso di capire che la direzione fosse incline ad appoggiare la proposta all'assemblea fiorentina sui Beni comuni, cui ho avanzato le mie obiezioni ed è stata ripresa sulle nostre pagine specialmente da Paul Ginsborg, sottolineandone il carattere metodologico. Che, appunto, consideravo insufficiente. Non credo che ci sia stata una decisione, ma nemmeno una discussione collettiva di chi fa il giornale, quindi il manifesto come tale non avanza né un'analisi di quel che ci presentano le elezioni, né una proposta su quel che - siamo senza poteri ma non senza convinzioni - andrebbe fatto. Di qui a dodici mesi si vota anche in Italia, la campagna elettorale si aprirà in autunno e già prima si discuterà del bilancio, che è ormai la sola sede di discussione programmatica su cui disputano indirettamente le Camere. Camere che si sono impegnate in questi mesi soprattutto nel disfare pezzi della Costituzione. In queste camere oggi il Pdl appare mortalmente ferito e la Lega idem, in difficoltà il centro e la sinistra. Non si dovrebbe ritenere chiuso l'esperimento di Mario Monti, visto che lo sostengono partiti o malmessi o in agonia? In presenza d'una evidente crisi di fiducia dell'elettorato? Una interruzione degli espedienti "tecnici" e il tuffo nelle elezioni anticipate non sarebbe sicuro e confortevole per nessuno, ma almeno darebbe una misura non artefatta dello stato e dei bisogni degli italiani sulla cui base ripartire.
E non al buio. Le forze politiche debbono avere le loro proposte o assumere in proprio la responsabilità di quelle dei "tecnici". Deve uscire dalle battute e dal silenzio il Pd. Deve farlo la sinistra rimasta fuori del parlamento. A una elezione si avanzano proposte precise di breve e medio termine, tanto più urgenti in una situazione critica come quella italiana. Esistono alcune elaborazioni dei movimenti, che sarebbe l'ora di finire di esaltare o contrastare in forma generica, esaminando o contrapponendo argomento ad argomento. Fra queste una è quella della assemblea sui beni comuni, che si fonda su un'assai vasta consultazione dalla quale trarre un programma. Un'altra sarebbe la traduzione, per così dire, in italiano della "Rotta" delineata per l'Europa da Sbilanciamoci, cui il manifesto ha dato ampia ospitalità. Un altro itinerario è suggerito dai Comitati Dossetti, con particolare riferimento al nostro manomesso sistema politico. Potrebbe essere precisata l'elaborazione verde. E altri che non nomino. Tanto meglio se qualche sinistra le accoglierà, ma un programma meno vago di quello che si sottintende finora le sinistre lo debbono avere se non vogliono entrare in agonia.
E pur nelle difficoltà grandi in cui si trova il manifesto deve, a mio avviso, impegnarsi in questo compito, con determinazione e assieme con la libertà di parola che ci ha da sempre distinto. Credo che lo dobbiamo anche ai molti compagni e amici che ci hanno messo non in salvo ma in una situazione un poco migliore di quella sulla quale è cominciata la procedura di liquidazione coatta, del cui lavoro sarebbe utile avere maggiore informazione e comunicarla a coloro che ci aiutano. Ma senza un impegno politico di più vasto respiro neppure varrebbe la pena di sopravvivere. Il tempo che abbiamo davanti è poco, gli interlocutori molti. La mia idea è di partire subito. Se possibile meglio di Hollande e Melenchon - si tranquillizzi Joseph Halevi - ma certo non meno di loro. Si può.
Non credo di essere caduta in stato ipnotico davanti al successo di François Hollande, come sospetta il nostro gentile collaboratore e compagno Joseph Halevi (il manifesto di ieri), se mai sono influenzata, anzi terrorizzata, dalla catalessi della sinistra italiana. Per cui tendo ad apprezzare chiunque tenti di svincolarsi dalle politiche di rigore dell'Europa, delle quali la Germania è il più feroce guardiano malgrado l'opinione più che dubitosa non solo dei Krugman e degli Stiglitz ma, ormai, anche degli europeisti della prima ora, come Delors o Prodi o Amato.
D'altra parte non ritengo, come ha finto di fare Sarkozy per due mesi, che la misura dei due programmi sia essenzialmente contabile - non foss'altro che per l'impossibilità di calcolare realmente le spese finché i tassi di sconto con i quali ogni paese acquista valuta non saranno regolati e/o la Bce non potrà prestare agli stati ai tassi assai bassi con cui presta alle banche. I punti di svolta con i quali Hollande s'è conquistato faticosamente la vittoria sono tre; uno, la trattativa sul fiscal compact - grimaldello sul quale Angela Merkel dovrà vedersela al suo parlamento con tutta la Spd, e dal quale dipenderà anche la riforma fiscale che Hollande, ed altri, si ripropongono; due, il primato all'occupazione giovanile (mentre potrà accedere alla pensione a 60 anni chi avrà quarantun anni di contributi); tre, il voto a tutti gli immigrati in tutte le assemblee locali. Su questi tre punti si sono scontrati la destra rigorista, liberale e identitaria e le sinistre di Hollande e Mélenchon.
Quel che mi preme è la paralisi italiana. Il risultato delle elezioni parziali è disperante. Berlusconi e la Lega sono andati in pezzi ma le sinistre e il vantato centro non ne hanno tratto un voto di più, l'astensionismo e il qualunquismo essendosi spartite le spoglie dei perdenti. Il voto antidestra s'è frammentato in almeno sette o otto sigle. A distanza di quattro giorni, non si vede una reazione del Pd che non sia la tentazione di ripararsi dietro alla sciagurata legge elettorale detta porcellum, tanta è la distanza dalla sensibilità, per non dire il furore del paese. E noi? Per Luigi Pintor il giornale non era un bollettino che descriveva britannicamente gli errori od omissioni altrui, era una forma della politica - avanzava le sue analisi e proposte, si esponeva, stimolava. Dovevamo essere protagonisti del "che fare". Qualche settimana fa mi è parso di capire che la direzione fosse incline ad appoggiare la proposta all'assemblea fiorentina sui Beni comuni, cui ho avanzato le mie obiezioni ed è stata ripresa sulle nostre pagine specialmente da Paul Ginsborg, sottolineandone il carattere metodologico. Che, appunto, consideravo insufficiente. Non credo che ci sia stata una decisione, ma nemmeno una discussione collettiva di chi fa il giornale, quindi il manifesto come tale non avanza né un'analisi di quel che ci presentano le elezioni, né una proposta su quel che - siamo senza poteri ma non senza convinzioni - andrebbe fatto. Di qui a dodici mesi si vota anche in Italia, la campagna elettorale si aprirà in autunno e già prima si discuterà del bilancio, che è ormai la sola sede di discussione programmatica su cui disputano indirettamente le Camere. Camere che si sono impegnate in questi mesi soprattutto nel disfare pezzi della Costituzione. In queste camere oggi il Pdl appare mortalmente ferito e la Lega idem, in difficoltà il centro e la sinistra. Non si dovrebbe ritenere chiuso l'esperimento di Mario Monti, visto che lo sostengono partiti o malmessi o in agonia? In presenza d'una evidente crisi di fiducia dell'elettorato? Una interruzione degli espedienti "tecnici" e il tuffo nelle elezioni anticipate non sarebbe sicuro e confortevole per nessuno, ma almeno darebbe una misura non artefatta dello stato e dei bisogni degli italiani sulla cui base ripartire.
E non al buio. Le forze politiche debbono avere le loro proposte o assumere in proprio la responsabilità di quelle dei "tecnici". Deve uscire dalle battute e dal silenzio il Pd. Deve farlo la sinistra rimasta fuori del parlamento. A una elezione si avanzano proposte precise di breve e medio termine, tanto più urgenti in una situazione critica come quella italiana. Esistono alcune elaborazioni dei movimenti, che sarebbe l'ora di finire di esaltare o contrastare in forma generica, esaminando o contrapponendo argomento ad argomento. Fra queste una è quella della assemblea sui beni comuni, che si fonda su un'assai vasta consultazione dalla quale trarre un programma. Un'altra sarebbe la traduzione, per così dire, in italiano della "Rotta" delineata per l'Europa da Sbilanciamoci, cui il manifesto ha dato ampia ospitalità. Un altro itinerario è suggerito dai Comitati Dossetti, con particolare riferimento al nostro manomesso sistema politico. Potrebbe essere precisata l'elaborazione verde. E altri che non nomino. Tanto meglio se qualche sinistra le accoglierà, ma un programma meno vago di quello che si sottintende finora le sinistre lo debbono avere se non vogliono entrare in agonia.
E pur nelle difficoltà grandi in cui si trova il manifesto deve, a mio avviso, impegnarsi in questo compito, con determinazione e assieme con la libertà di parola che ci ha da sempre distinto. Credo che lo dobbiamo anche ai molti compagni e amici che ci hanno messo non in salvo ma in una situazione un poco migliore di quella sulla quale è cominciata la procedura di liquidazione coatta, del cui lavoro sarebbe utile avere maggiore informazione e comunicarla a coloro che ci aiutano. Ma senza un impegno politico di più vasto respiro neppure varrebbe la pena di sopravvivere. Il tempo che abbiamo davanti è poco, gli interlocutori molti. La mia idea è di partire subito. Se possibile meglio di Hollande e Melenchon - si tranquillizzi Joseph Halevi - ma certo non meno di loro. Si può.
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9.5.12
Grillo, il guru che tira la volata
di Fabrizio Garlaschelli (La Provincia Pavese)
Gran risultato del Movimento 5 stelle.
Sono contento per i "grillini" giovani e impegnati sul territorio. Qualcuno vuole paragonarli ai leghisti dei primi tempi. Direi che sono agli antipodi per preparazione culturale e tipologia politica. Almeno quelli che conosco. Come sempre quando un movimento cresce non mancano nelle sue fila fanatici e sostenitori acritici che prendono per oro colato tutte le stupidate sparate del loro guru. E Grillo è un guru.
Non esistono guru democratici. L'uomo che sta dietro magari lo è, così come può essere umanamente splendido, almeno fin tanto che non si prende totalmente sul serio.
Per Grillo questo è il maggior limite. Ha bisogno di un pubblico che penda dalle sue labbra; è nella sua natura di attore. Ma è anche persona dotata di intuito straordinario nel cogliere il "nuovo" dalle sollecitazioni che riceve. Lo ha fatto con l'ecologia, con l'economia, con la rete e il suo uso, con la politica. Dire che è un qualunquista antipolitico significa non tener conto del suo iter teatral-politico. Anzi, a ben guardare ha recuperato all'interesse per la cosa pubblica una frazione importante di persone che non ne volevano più sapere. Eccessivo, volgare, schematico, superficiale, piace al pubblico proprio per la semplicità immediata con la quale veicola i contenuti, spesso non facili, dei suoi messaggi, allo stesso modo delle sciocchezze demagogiche. Gli intellettuali che sostengono cose simili alle sue sono ovviamente più precisi ed articolati, ma anche infinitamente più prolissi e noiosi. Le loro "corrette" argomentazioni non raggiungono lo scopo di scaldare e tantomeno influenzare un pubblico né grande né piccolo.
Così Grillo è riuscito nell'impresa di costruire un partito ora forse superiore al dieci per cento. Ma non con un elettorato che vota per lui, improponibile leader politico, bensì per una serie di personaggi anonimi, a volte anche abbastanza grigi, però volenterosi, ai quali il "guru" tira la volata finale riempiendo una piazza con i suoi frizzi e lazzi.
Fino ad ora tuttavia la cosiddetta "gente" veniva, rideva, applaudiva e solo in minima parte votava Movimento 5 stelle.
Ci sono voluti quasi vent'anni di porcherie berluscon-leghiste, lo sfascio etico-culturale non solo della destra, ma anche della sinistra, l'informazione televisiva e giornalistica "paludata" priva di credibilità, la diffusione di internet e dei social network, una devastante crisi economica e la spocchia "professorale" antipopolare del governo Monti per ottenere questo risultato.
Ora agli eletti nelle amministrazioni comunali spetta l'onere di far seguire alle parole i fatti, senza trasformarsi nella ennesima speranza delusa. Ma è presto: ben pochi avranno autentiche responsabilità di governo locale. Per ora dovranno far bene l'opposizione che è pur sempre più facile che governare.
Alla prossima tornata elettorale tutto potrebbe essere diverso. Se in qualche modo la situazione dovesse rinormalizzarsi anche il successo elettorale dei "grillini" si ridimensionerebbe. Se le cose peggioreranno, come c'è fortemente da temere, le chance del Movimento 5 stelle aumenteranno.
Ciò che i partiti tradizionali e i loro leader non sembrano aver capito, insieme a mille altre cose, è che non è stato Grillo a vincere facendo leva sul populismo e l'antipolitica. Sono stati loro a perdere continuando ad autoalimentarsi come ceto politico corrotto ed inetto, incuranti del fatto che aumentano coloro che, aperti gli occhi, hanno cominciato a gridare "il re è nudo!".
Sono contento per i "grillini" giovani e impegnati sul territorio. Qualcuno vuole paragonarli ai leghisti dei primi tempi. Direi che sono agli antipodi per preparazione culturale e tipologia politica. Almeno quelli che conosco. Come sempre quando un movimento cresce non mancano nelle sue fila fanatici e sostenitori acritici che prendono per oro colato tutte le stupidate sparate del loro guru. E Grillo è un guru.
Non esistono guru democratici. L'uomo che sta dietro magari lo è, così come può essere umanamente splendido, almeno fin tanto che non si prende totalmente sul serio.
Per Grillo questo è il maggior limite. Ha bisogno di un pubblico che penda dalle sue labbra; è nella sua natura di attore. Ma è anche persona dotata di intuito straordinario nel cogliere il "nuovo" dalle sollecitazioni che riceve. Lo ha fatto con l'ecologia, con l'economia, con la rete e il suo uso, con la politica. Dire che è un qualunquista antipolitico significa non tener conto del suo iter teatral-politico. Anzi, a ben guardare ha recuperato all'interesse per la cosa pubblica una frazione importante di persone che non ne volevano più sapere. Eccessivo, volgare, schematico, superficiale, piace al pubblico proprio per la semplicità immediata con la quale veicola i contenuti, spesso non facili, dei suoi messaggi, allo stesso modo delle sciocchezze demagogiche. Gli intellettuali che sostengono cose simili alle sue sono ovviamente più precisi ed articolati, ma anche infinitamente più prolissi e noiosi. Le loro "corrette" argomentazioni non raggiungono lo scopo di scaldare e tantomeno influenzare un pubblico né grande né piccolo.
Così Grillo è riuscito nell'impresa di costruire un partito ora forse superiore al dieci per cento. Ma non con un elettorato che vota per lui, improponibile leader politico, bensì per una serie di personaggi anonimi, a volte anche abbastanza grigi, però volenterosi, ai quali il "guru" tira la volata finale riempiendo una piazza con i suoi frizzi e lazzi.
Fino ad ora tuttavia la cosiddetta "gente" veniva, rideva, applaudiva e solo in minima parte votava Movimento 5 stelle.
Ci sono voluti quasi vent'anni di porcherie berluscon-leghiste, lo sfascio etico-culturale non solo della destra, ma anche della sinistra, l'informazione televisiva e giornalistica "paludata" priva di credibilità, la diffusione di internet e dei social network, una devastante crisi economica e la spocchia "professorale" antipopolare del governo Monti per ottenere questo risultato.
Ora agli eletti nelle amministrazioni comunali spetta l'onere di far seguire alle parole i fatti, senza trasformarsi nella ennesima speranza delusa. Ma è presto: ben pochi avranno autentiche responsabilità di governo locale. Per ora dovranno far bene l'opposizione che è pur sempre più facile che governare.
Alla prossima tornata elettorale tutto potrebbe essere diverso. Se in qualche modo la situazione dovesse rinormalizzarsi anche il successo elettorale dei "grillini" si ridimensionerebbe. Se le cose peggioreranno, come c'è fortemente da temere, le chance del Movimento 5 stelle aumenteranno.
Ciò che i partiti tradizionali e i loro leader non sembrano aver capito, insieme a mille altre cose, è che non è stato Grillo a vincere facendo leva sul populismo e l'antipolitica. Sono stati loro a perdere continuando ad autoalimentarsi come ceto politico corrotto ed inetto, incuranti del fatto che aumentano coloro che, aperti gli occhi, hanno cominciato a gridare "il re è nudo!".
Anche a Pavia se si fosse votato ora le cose sarebbero andate diversamente.
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8.5.12
Il sindaco Pd sembra un leghista
Niente più pasti ai bambini di chi non ha pagato la mensa
Gli immigrati tornino a casa loro
di Furio Colombo (Il Fatto Quotidiano)
C’era una volta un piccolo centro padano di nome Cavenago. Non tutti gli abitanti di Cavenago erano nati in quella fertile terra. Alcuni venivano da Paesi lontani che non tutti conoscono, neppure se hanno davanti un atlante. Ci sono abitanti di Cavenago che se la cavano bene e altri che sono un po’ in ristrettezze. Fa niente, dicevano a Cavenago, ci pensa il Sindaco, che una mano la dà a tutti. Nel senso che un comune ha un fondo e con quel fondo da un piccolo aiuto ai più poveri, cominciando dai bambini della mensa scolastica. Nessun bambino qui è mai stato senza mangiare, ti dicevano con orgoglio i cittadini del luogo. Una bella mattina il Sindaco di Cavenago, Sem Galbiati fa sapere che i tempi sono cambiati e lo dice così: “Qualcuno qui pensa di mangiare a scrocco. Sono 170 le famiglie che non hanno pagato. Ma è scattata l'ora della tolleranza zero. Anche se manca poco più di un mese alla fine dell'anno scolastico, saremo inflessibili”.
Che vuol dire, nel linguaggio del coraggioso sindaco, niente soldi, niente pasti. Però la storia bisogna raccontarla tutta, e continua così: “Agli stranieri che bussano alla porta per chiedere assistenza – ci fa sapere Sem Galbiati – dico che dovrebbero prendere in considerazione l'idea di tornare a casa. Dico di pensarci. Se hanno ancora una famiglia nella loro terra d'origine, avranno più possibilità di sopravvivere, ci saranno genitori o parenti in grado di garantire loro un tetto e un tozzo di pane”. Ora come tutti sanno, ci sono interi continenti detti “in via di sviluppo” che pullulano di casette con il fuoco acceso e il pentolone ricolmo, che sono in attesa del ritorno di parenti lontani. Ecco realizzate, con una sola, limpida decisione, due importanti iniziative politiche annunciate alternativamente dalla destra rigorosa e dalla sinistra generosa: fare finalmente qualcosa per le famiglie. E riunire finalmente anziani e giovani che fossero rimasti accidentalmente separati dall'arrischiato viaggio in Europa. S'intende che una lettura accurata della vicenda Cavenago ti fornisce altri dati. Uno è che l'Imu sarà un disastro e dissanguerà il Comune. Poi ci sarà la tassa sui rifiuti che andrà a sommarsi alla tassa sulla casa. E “il patto di stabilità che ci mette in ginocchio”. Qui finisce la parabola di Cavenago che potrebbe anche intitolarsi “la sottrazione dei pani e dei pesci” oppure “il divorzio di Cana”. Nel primo caso l'idea è: “Guarda che di pani e di pesci non ce ne sono così tanti, nascondili subito, che se no gli stranieri e i più poveri si fanno venire idee sbagliate”. Il secondo celebre evento evangelico invece va riscritto così: “Non hanno più vino. E allora?”. Molti lettori avranno già capito che cattivo umore e sarcasmo di chi scrive hanno una ragione che chi mi legge conosce: questa è la Lega, che vuole che il mondo finisca con la Padania (e siccome la Padania non esiste, il mondo finisce in quel di Belsito). Ma Cavenago, terra del valoroso sindaco Sem Galbiati, è governo Pd. Vi rendete conto? Sem Galbiati sarebbe, se lo sapesse, di sinistra. Pensate a questa terribile verità e poi andate a rivedere tutto ciò che ha detto e che qui è riportato fra virgolette, citando da Repubblica (pagine di Milano), da Facebook e Twitter.
I bambini immigrati vengono lasciati digiuni prima che l'Imu (di cui si ignorano ancora rate ed entità) faccia sentire il suo peso. Le famiglie che “credono di mangiare a scrocco” vengono punite prendendo in ostaggio i bambini (digiuni) che, ovviamente non sono e non possono essere responsabili. Quante di quelle famiglie “a scrocco” sono di infidi immigrati che pensano di vivere sulle spalle degli italiani? E quanti saranno onesti lavoratori cavagnanesi il cui voto scomparirebbe all'istante se i loro bambini, “a scrocco” o no, venissero puniti come gli stranieri?
Bella anche l'idea del focolare che in qualche parte del mondo, povero ma felice, attende tutti coloro che, per vivere e lavorare a Cavenago, hanno attraversato il Mediterraneo infestato dalle motovedette armate italo-libiche disposte da Maroni (quello buono della Lega) per eseguire i famosi respingimenti in mare che voleva dire annegare o essere consegnati alle prigioni libiche (vedi la testimonianza della portavoce Boldrini per le Nazioni Unite o di Amnesty International). Ora che in Francia ha vinto Hollande contro Sarkozy (“cacciateli tutti” era il suo motto elettorale) e contro Marine Le Pen (“mai più uno di loro su suolo francese”) il sindaco Pd di Cavenago, si sentirà vincitore o sconfitto?
Gli immigrati tornino a casa loro
di Furio Colombo (Il Fatto Quotidiano)
C’era una volta un piccolo centro padano di nome Cavenago. Non tutti gli abitanti di Cavenago erano nati in quella fertile terra. Alcuni venivano da Paesi lontani che non tutti conoscono, neppure se hanno davanti un atlante. Ci sono abitanti di Cavenago che se la cavano bene e altri che sono un po’ in ristrettezze. Fa niente, dicevano a Cavenago, ci pensa il Sindaco, che una mano la dà a tutti. Nel senso che un comune ha un fondo e con quel fondo da un piccolo aiuto ai più poveri, cominciando dai bambini della mensa scolastica. Nessun bambino qui è mai stato senza mangiare, ti dicevano con orgoglio i cittadini del luogo. Una bella mattina il Sindaco di Cavenago, Sem Galbiati fa sapere che i tempi sono cambiati e lo dice così: “Qualcuno qui pensa di mangiare a scrocco. Sono 170 le famiglie che non hanno pagato. Ma è scattata l'ora della tolleranza zero. Anche se manca poco più di un mese alla fine dell'anno scolastico, saremo inflessibili”.
Che vuol dire, nel linguaggio del coraggioso sindaco, niente soldi, niente pasti. Però la storia bisogna raccontarla tutta, e continua così: “Agli stranieri che bussano alla porta per chiedere assistenza – ci fa sapere Sem Galbiati – dico che dovrebbero prendere in considerazione l'idea di tornare a casa. Dico di pensarci. Se hanno ancora una famiglia nella loro terra d'origine, avranno più possibilità di sopravvivere, ci saranno genitori o parenti in grado di garantire loro un tetto e un tozzo di pane”. Ora come tutti sanno, ci sono interi continenti detti “in via di sviluppo” che pullulano di casette con il fuoco acceso e il pentolone ricolmo, che sono in attesa del ritorno di parenti lontani. Ecco realizzate, con una sola, limpida decisione, due importanti iniziative politiche annunciate alternativamente dalla destra rigorosa e dalla sinistra generosa: fare finalmente qualcosa per le famiglie. E riunire finalmente anziani e giovani che fossero rimasti accidentalmente separati dall'arrischiato viaggio in Europa. S'intende che una lettura accurata della vicenda Cavenago ti fornisce altri dati. Uno è che l'Imu sarà un disastro e dissanguerà il Comune. Poi ci sarà la tassa sui rifiuti che andrà a sommarsi alla tassa sulla casa. E “il patto di stabilità che ci mette in ginocchio”. Qui finisce la parabola di Cavenago che potrebbe anche intitolarsi “la sottrazione dei pani e dei pesci” oppure “il divorzio di Cana”. Nel primo caso l'idea è: “Guarda che di pani e di pesci non ce ne sono così tanti, nascondili subito, che se no gli stranieri e i più poveri si fanno venire idee sbagliate”. Il secondo celebre evento evangelico invece va riscritto così: “Non hanno più vino. E allora?”. Molti lettori avranno già capito che cattivo umore e sarcasmo di chi scrive hanno una ragione che chi mi legge conosce: questa è la Lega, che vuole che il mondo finisca con la Padania (e siccome la Padania non esiste, il mondo finisce in quel di Belsito). Ma Cavenago, terra del valoroso sindaco Sem Galbiati, è governo Pd. Vi rendete conto? Sem Galbiati sarebbe, se lo sapesse, di sinistra. Pensate a questa terribile verità e poi andate a rivedere tutto ciò che ha detto e che qui è riportato fra virgolette, citando da Repubblica (pagine di Milano), da Facebook e Twitter.
I bambini immigrati vengono lasciati digiuni prima che l'Imu (di cui si ignorano ancora rate ed entità) faccia sentire il suo peso. Le famiglie che “credono di mangiare a scrocco” vengono punite prendendo in ostaggio i bambini (digiuni) che, ovviamente non sono e non possono essere responsabili. Quante di quelle famiglie “a scrocco” sono di infidi immigrati che pensano di vivere sulle spalle degli italiani? E quanti saranno onesti lavoratori cavagnanesi il cui voto scomparirebbe all'istante se i loro bambini, “a scrocco” o no, venissero puniti come gli stranieri?
Bella anche l'idea del focolare che in qualche parte del mondo, povero ma felice, attende tutti coloro che, per vivere e lavorare a Cavenago, hanno attraversato il Mediterraneo infestato dalle motovedette armate italo-libiche disposte da Maroni (quello buono della Lega) per eseguire i famosi respingimenti in mare che voleva dire annegare o essere consegnati alle prigioni libiche (vedi la testimonianza della portavoce Boldrini per le Nazioni Unite o di Amnesty International). Ora che in Francia ha vinto Hollande contro Sarkozy (“cacciateli tutti” era il suo motto elettorale) e contro Marine Le Pen (“mai più uno di loro su suolo francese”) il sindaco Pd di Cavenago, si sentirà vincitore o sconfitto?
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1.5.12
Insostituibile Rousseau
Alberto Burgio (Il Manifesto)
A 250 anni dalla pubblicazione, il «Contrat social» mette in luce le intuizioni del filosofo sui dilemmi della democrazia borghese.
Il 2012 è un anniversario rousseauiano perfetto: Jean-Jacques nacque (a Ginevra) 300 anni fa e 250 anni sono trascorsi dalla pubblicazione del Contrat social e dell’Émile, le due opere che – insieme ai Discorsi e alle Confessioni – hanno consacrato il loro autore a una fama imperitura.
Teorie «empie e scandalose»
Rousseau è figura controversa per eccellenza. Uomo dei Lumi, «anticipò» secondo alcuni la temperie romantica. Amico di Diderot (e collaboratore dell’Encyclopédie), fu la bestia nera di tanti philosophes che non gli perdonarono le invettive contro la «civilizzazione» e i suoi miti progressisti. Padre della Rivoluzione e icona dei giacobini che ne vollero traslare le spoglie mortali nel Pantheon, è non di rado accusato di conservatorismo per la tenace nostalgia verso l’arcadia e la riverente attenzione alla lezione di Montesquieu.
Il piano politico è centrale nella controversia, che coinvolge in particolare il Contrat social, pubblicato nel 1762 e subito messo all’Indice, insieme all’Émile, sia a Parigi che a Ginevra, dove il Piccolo Consiglio che governa la città ne definisce le teorie «temerarie, scandalose ed empie: tese a distruggere la religione cristiana e ogni governo». Come ha mostrato in una preziosa analisi Louis Althusser, il capolavoro rousseauiano è un’opera complicatissima, labirintica, apparentemente contraddittoria. Non vi è traccia del geometrismo cartesiano, abbondano invece anacoluti logici, prolessi criptiche, iati e duplicazioni. Lo stesso Rousseau se ne avvede e chiede – esige – la pazienza del lettore, se non la sua complicità. «Tutte le mie idee si tengono, ma non posso esporle tutte in una volta» scrive, quasi a prevenire più che prevedibili critiche. Ma non è solo questione di difficoltà espositive. I problemi sono altri e ben altrimenti concreti.
Il plauso di Kant e di Hegel
Dove si può dire risieda il cuore del libro? Paradossalmente, nella critica del contrattualismo moderno. Anzi, nella sua decostruzione in omaggio a un criterio (il primato della ragione e dell’interesse comune) che susciterà il plauso di Kant (nel cui Olimpo Rousseau affianca Hume e Francesco Bacone) e Hegel (che gli riserverà uno dei rari elogi presenti nelle Lezioni berlinesi sulla storia della filosofia). Vediamo schematicamente come si svolge questa critica demolitrice dall’interno del paradigma contrattualista, già condotto alle più alte vette di precisione e potenza da due protagonisti del Seicento filosofico inglese, Hobbes e Locke.
In apparenza Rousseau condivide il punto di partenza del contrattualismo hobbesiano e lockeano: il problema politico sorge perché gli individui sono liberi per natura (ex jure naturali) e dotati di forza sufficiente a imporre il rispetto della propria libertà. Per di più sono egoisti: mirano ciascuno al proprio vantaggio particolare, secondo la nascente antropologia dell’homo oeconomicus.
Sulla base dell’influente sintesi contrattualistica della piattaforma ideologica borghese, avversa all’autocrazia di antico regime, il problema della legittimità politica può essere risolto soltanto con l’accordo tra tutti. Da qui l’idea che a dar vita alla sovranità debba essere un «contratto sociale», garante del rispetto dei diritti e degli interessi individuali.
Agli antipodi di Hobbes
Ma questa è solo l’apparenza, o l’avvio del discorso. A valle del quale Rousseau va per la sua strada, distaccandosi dai predecessori e muovendo loro contestazioni radicali. Quella prospettata nel De cive o nel Leviatano (Hobbes) e nel Secondo Trattato (Locke) non è una vera società né una forma legittima di sovranità, poiché l’accordo di tutti gli individui – pure indispensabile – di per sé non garantisce affatto il rispetto dei loro diritti né, tanto meno, la giustizia sociale, non meno decisiva ai fini della legittimazione.
L’egoismo è spesso miope e distruttivo. Nel perseguire il proprio vantaggio i più non esitano a danneggiare il prossimo. Inoltre spesso ci si sbaglia sul proprio interesse, poiché è facile sapere quel che serve nell’immediato, ma è molto difficile prevedere ciò che servirà in futuro. Senza contare che spesso si viene raggirati da chi, con pochi scrupoli, mente, simula o mistifica. Come presumibilmente avvenne all’atto della fondazione della «società civile», quando – per riprendere un celebre luogo del Discorso sull’ineguaglianza, dato alle stampe sette anni prima del Contrat - chi si era appropriato di un podere lo recintò (torna alla mente il resoconto marxiano della «cosiddetta accumulazione originaria»), se ne dichiarò proprietario («questo è mio») e realizzò l’usurpazione in quanto «trovò persone ingenue abbastanza da prestargli fede».
Il contratto sociale, dunque, non garantisce la legittimità del potere: da qui prende le mosse un lavoro ai fianchi del modello contrattualista che lo rovescia come un calzino e di fatto lo smonta e lo rottama. L’egoismo irrazionale (immorale, distruttivo) è un problema che deve essere risolto. Per questo la politica non può limitarsi a un’algebra delle forze, ha un compito di ben altra portata: deve trasformare gli individui nella loro moralità, estirpare alla radice ogni loro propensione anti-sociale.
Siamo agli antipodi di Hobbes (per il quale si era trattato di stabilire le condizioni della sicurezza dei corpi e dei beni) e di Locke (che aveva conferito legittimità all’accumulazione illimitata delle proprietà). Il contratto rousseauiano è chiamato a operare una mutazione antropologica nel segno del primato dell’interesse comune. Da qui la messa in discussione della stessa dimensione individuale: «all’istante, in luogo della persona particolare di ciascun contraente» il patto fondativo della nuova società deve generare «un corpo morale e collettivo» che «da questo atto riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà».
Ma Rousseau non è un ingenuo. Non si illude che veramente un contratto (peraltro, in questo caso, una metafora, un semplice schema logico utile ad articolare l’istanza democratica nella lotta antifeudale) possa di per sé avere ragione di una forma concreta dell’individualità: estirpare come d’incanto il particolarismo consolidatosi nel corso del lungo processo di modernizzazione, luogo d’incubazione dell’antropologia proprietaria egemone nell’Europa borghese. Egli sa bene che il contratto serve a poco.
Se c’è una speranza, questa riposa sul concreto funzionamento delle istituzioni politiche, sulla sua coerenza con la loro ratio costitutiva. Quella che si tratta di giocare è una delicata partita a scacchi dentro il quadro dei poteri e nel corpo stesso della collettività. Gli egoismi vanno estirpati o almeno imbrigliati. E Rousseau le tenta tutte per vincere questa battaglia.
Qualità e quantità
Tenta, dapprima, la carta delle procedure. Stabilisce con puntiglio le regole del voto nell’assemblea legislativa, graduando il principio di maggioranza in base alla rilevanza e all’urgenza delle decisioni. Ma è sin troppo evidente (almeno a lui, visto che di questi tempi corre invece l’idea che la democrazia sia una questione di «regole del gioco») che le procedure di per sé non garantiscono nulla. Persino l’unanimità dei consensi non dimostra coesione o disinteresse personale, visto che domina anche nelle assemblee servili, quando «i cittadini non hanno più libertà né volontà».
È poi la volta della carta teoreticamente più ardita, intorno alla quale generazioni di lettori del Contrat si sono variamente rotte la testa: la definizione della volonté générale come sinonimo (a priori) del bene comune. L’insufficienza dei vincoli procedurali dimostra che non è possibile desumere la qualità delle decisioni dalla quantità dei consensi. Allora, per quanto bizzarro possa sembrare, il discorso andrà rovesciato di sana pianta. Posto che «ciò che generalizza la volontà» (ciò che garantisce la corrispondenza tra volontà e giustizia, tra volontà e bene comune) «è meno il numero dei voti che l’interesse comune che li unisce», bisognerà partire dall’interesse comune. Il quale (lo sappiano o no i cittadini riuniti nel corpo sovrano) risiede nella solidarietà, nella (relativa) uguaglianza, nella sobrietà, nella moderazione.
Una resa apparente
Ma così, che fine fa l’autonomia decisionale del corpo sovrano? E poi: nell’assemblea votano individui corrotti dallo spirito del tempo, i quali – come abbiamo visto – hanno tutt’altra idea dei propri interessi. Per questo spesso si formano consorterie e fazioni, intese, le une e le altre, a curare il proprio particulare. Quale ascolto daranno costoro alle indicazioni della volonté générale? Quando si dice «volontà», spesso e volentieri ci si fraintende: si vuole sempre il proprio bene, ma come lo si troverà se non si è in grado di vederlo?
Il risultato sembra una resa incondizionata: «come può una moltitudine cieca, che spesso ignora ciò che vuole poiché raramente sa che cosa è per lei bene, compiere un’impresa grande e difficile come un sistema di leggi?» Per parte sua, la volonté générale ha un bell’essere per definizione «retta e tesa alla pubblica utilità», «sempre costante, inalterabile e pura»: se il popolo è fuorviato, se nell’assemblea prevalgono i particolarismi, essa non verrà espressa («ammutolisce») e di certo sarà sopraffatta.
Dal tutto alla parte
Consapevole di ciò, Rousseau tenta, infine, l’ultima carta – sorprendente e fatale (se non altro perché sancisce il fallimento del modello contrattualistico, o quanto meno la fuoriuscita del Contrat dal suo quadro di riferimento). Nell’estremo tentativo di venire a capo del problema, constatata l’inemendabile miseria degli uomini («ci vorrebbero degli dei per dare loro un corpo di leggi»), Rousseau fa intervenire la figura platonica del legislatore, antitesi vivente della partecipazione democratica. Un dio profano, forte di un’autorità trascendente («di un’altra specie»), è in effetti «il meccanico che inventa la macchina» dello Stato. Ed è sin troppo evidente che la sua irruzione mette in mora il dispositivo contrattualistico, visto che il legislatore assolve esattamente il compito affidato al contratto: fonda la nazione e per questo cambia la natura umana, sostituendo «un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che abbiamo tutti ricevuto dalla natura» e «trasformando ogni individuo, che in se stesso è un tutto perfetto e isolato, in una parte di un tutto più grande».
Difficile immaginare una più esplicita affermazione dell’impossibilità di risolvere il problema politico attraverso il contratto sociale. Rousseau non ne formalizza il ripudio né rinuncia al carattere democratico della teoria; si preoccupa di circoscrivere le prerogative del legislatore («il suo ufficio non è magistratura, non è sovranità»); conserva il principio di maggioranza per le decisioni collettive e, soprattutto, riserva la sovranità all’assemblea dei citoyens. Ma in questo modo, come nel gioco dell’oca, i problemi che aveva cercato di risolvere si ripropongono tali e quali, nulla garantendo che il corpo sovrano dia voce alla volonté générale. Ce n’è abbastanza perché a uno sconsolato Rousseau il Contrat appaia ben presto «un libro da rifare».
La volontà «vera»
Nondimeno, quest’opera esplosiva rimane per noi, dopo due secoli e mezzo, insostituibile. Perché? Per almeno due buone ragioni. In primo luogo, proprio questo tormentato percorso rivela che gli interessi particolari sono qui e ora troppo forti perché sia possibile coniugare partecipazione (esercizio dell’autonomia individuale e collettiva) e giustizia sociale. Rousseau vede precocemente un dilemma-base della democrazia borghese: intuisce (sta qui un nesso profondo con Marx) che soltanto dopo che sarà cambiata la struttura sociale (e con essa la configurazione concreta degli interessi) sarà possibile produrre una forma politica realmente democratica. Sino a quel momento, la politica potrà tutt’al più ridurre i contraccolpi distruttivi del rapporto sociale capitalistico. Col senno di poi, comprendiamo che Rousseau affida, inconsapevolmente, questo insegnamento al Contrat social. Il quale è, per tale ragione, qualcosa di più di un classico del pensiero democratico. È anche un antefatto della critica marxiana della politica, una premessa indispensabile della denuncia dell’ideologia democratica che prenderà forma nelle pagine della Judenfrage.
La seconda ragione è sorprendente, forse paradossale. Abbiamo visto che Rousseau abbandona il quadro di riferimento del contrattualismo moderno imponendo alla scelta collettiva vincoli esterni e non negoziabili. Non basta che la decisione sia partecipata (formalmente democratica), dev’essere anche giusta: promuovere la solidarietà, la coesione, la giustizia sociale, l’uguaglianza, insomma l’interesse generale. Con ciò, a guardar bene, il Contrat non si limita a congedarsi dal contrattualismo, apre la strada – implicitamente – alla più complessa strategia discorsiva che di lì a poco (nel corso del XIX secolo) darà avvio alla ricerca teorica del costituzionalismo moderno, la cui ratio consiste nel distinguere tra gli orientamenti immediati delle assemblee legislative (non di rado condizionati da poteri forti) e la sua volontà «vera» – generale – in quanto frutto dell’esperienza storica di lungo periodo.
Perché questo è sorprendente, perché è paradossale? Perché la discussione sull’opera di Rousseau è andata perlopiù in tutt’altra direzione. Già all’indomani della Rivoluzione francese, e a maggior ragione nel secolo scorso, i suoi avversari di parte liberale gli hanno imputato gravi responsabilità, leggendo nel Contrat - in particolare nella teoria della volonté générale - un dispositivo liberticida, propedeutico al «totalitarismo». Ma a dimostrare che si tratta di accuse insensate basterebbe la sdegnosa risposta che Rousseau dette ai fisiocratici che speravano di arruolarlo tra i fautori del cosiddetto «dispotismo illuminato». No grazie, ribatté: o una collettività trova da sé la strada verso la giustizia, oppure «tutto è perduto»: niente e nessuno autorizza vie di fuga verso il leviatano di Hobbes.
A 250 anni dalla pubblicazione, il «Contrat social» mette in luce le intuizioni del filosofo sui dilemmi della democrazia borghese.
Il 2012 è un anniversario rousseauiano perfetto: Jean-Jacques nacque (a Ginevra) 300 anni fa e 250 anni sono trascorsi dalla pubblicazione del Contrat social e dell’Émile, le due opere che – insieme ai Discorsi e alle Confessioni – hanno consacrato il loro autore a una fama imperitura.
Teorie «empie e scandalose»
Rousseau è figura controversa per eccellenza. Uomo dei Lumi, «anticipò» secondo alcuni la temperie romantica. Amico di Diderot (e collaboratore dell’Encyclopédie), fu la bestia nera di tanti philosophes che non gli perdonarono le invettive contro la «civilizzazione» e i suoi miti progressisti. Padre della Rivoluzione e icona dei giacobini che ne vollero traslare le spoglie mortali nel Pantheon, è non di rado accusato di conservatorismo per la tenace nostalgia verso l’arcadia e la riverente attenzione alla lezione di Montesquieu.
Il piano politico è centrale nella controversia, che coinvolge in particolare il Contrat social, pubblicato nel 1762 e subito messo all’Indice, insieme all’Émile, sia a Parigi che a Ginevra, dove il Piccolo Consiglio che governa la città ne definisce le teorie «temerarie, scandalose ed empie: tese a distruggere la religione cristiana e ogni governo». Come ha mostrato in una preziosa analisi Louis Althusser, il capolavoro rousseauiano è un’opera complicatissima, labirintica, apparentemente contraddittoria. Non vi è traccia del geometrismo cartesiano, abbondano invece anacoluti logici, prolessi criptiche, iati e duplicazioni. Lo stesso Rousseau se ne avvede e chiede – esige – la pazienza del lettore, se non la sua complicità. «Tutte le mie idee si tengono, ma non posso esporle tutte in una volta» scrive, quasi a prevenire più che prevedibili critiche. Ma non è solo questione di difficoltà espositive. I problemi sono altri e ben altrimenti concreti.
Il plauso di Kant e di Hegel
Dove si può dire risieda il cuore del libro? Paradossalmente, nella critica del contrattualismo moderno. Anzi, nella sua decostruzione in omaggio a un criterio (il primato della ragione e dell’interesse comune) che susciterà il plauso di Kant (nel cui Olimpo Rousseau affianca Hume e Francesco Bacone) e Hegel (che gli riserverà uno dei rari elogi presenti nelle Lezioni berlinesi sulla storia della filosofia). Vediamo schematicamente come si svolge questa critica demolitrice dall’interno del paradigma contrattualista, già condotto alle più alte vette di precisione e potenza da due protagonisti del Seicento filosofico inglese, Hobbes e Locke.
In apparenza Rousseau condivide il punto di partenza del contrattualismo hobbesiano e lockeano: il problema politico sorge perché gli individui sono liberi per natura (ex jure naturali) e dotati di forza sufficiente a imporre il rispetto della propria libertà. Per di più sono egoisti: mirano ciascuno al proprio vantaggio particolare, secondo la nascente antropologia dell’homo oeconomicus.
Sulla base dell’influente sintesi contrattualistica della piattaforma ideologica borghese, avversa all’autocrazia di antico regime, il problema della legittimità politica può essere risolto soltanto con l’accordo tra tutti. Da qui l’idea che a dar vita alla sovranità debba essere un «contratto sociale», garante del rispetto dei diritti e degli interessi individuali.
Agli antipodi di Hobbes
Ma questa è solo l’apparenza, o l’avvio del discorso. A valle del quale Rousseau va per la sua strada, distaccandosi dai predecessori e muovendo loro contestazioni radicali. Quella prospettata nel De cive o nel Leviatano (Hobbes) e nel Secondo Trattato (Locke) non è una vera società né una forma legittima di sovranità, poiché l’accordo di tutti gli individui – pure indispensabile – di per sé non garantisce affatto il rispetto dei loro diritti né, tanto meno, la giustizia sociale, non meno decisiva ai fini della legittimazione.
L’egoismo è spesso miope e distruttivo. Nel perseguire il proprio vantaggio i più non esitano a danneggiare il prossimo. Inoltre spesso ci si sbaglia sul proprio interesse, poiché è facile sapere quel che serve nell’immediato, ma è molto difficile prevedere ciò che servirà in futuro. Senza contare che spesso si viene raggirati da chi, con pochi scrupoli, mente, simula o mistifica. Come presumibilmente avvenne all’atto della fondazione della «società civile», quando – per riprendere un celebre luogo del Discorso sull’ineguaglianza, dato alle stampe sette anni prima del Contrat - chi si era appropriato di un podere lo recintò (torna alla mente il resoconto marxiano della «cosiddetta accumulazione originaria»), se ne dichiarò proprietario («questo è mio») e realizzò l’usurpazione in quanto «trovò persone ingenue abbastanza da prestargli fede».
Il contratto sociale, dunque, non garantisce la legittimità del potere: da qui prende le mosse un lavoro ai fianchi del modello contrattualista che lo rovescia come un calzino e di fatto lo smonta e lo rottama. L’egoismo irrazionale (immorale, distruttivo) è un problema che deve essere risolto. Per questo la politica non può limitarsi a un’algebra delle forze, ha un compito di ben altra portata: deve trasformare gli individui nella loro moralità, estirpare alla radice ogni loro propensione anti-sociale.
Siamo agli antipodi di Hobbes (per il quale si era trattato di stabilire le condizioni della sicurezza dei corpi e dei beni) e di Locke (che aveva conferito legittimità all’accumulazione illimitata delle proprietà). Il contratto rousseauiano è chiamato a operare una mutazione antropologica nel segno del primato dell’interesse comune. Da qui la messa in discussione della stessa dimensione individuale: «all’istante, in luogo della persona particolare di ciascun contraente» il patto fondativo della nuova società deve generare «un corpo morale e collettivo» che «da questo atto riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà».
Ma Rousseau non è un ingenuo. Non si illude che veramente un contratto (peraltro, in questo caso, una metafora, un semplice schema logico utile ad articolare l’istanza democratica nella lotta antifeudale) possa di per sé avere ragione di una forma concreta dell’individualità: estirpare come d’incanto il particolarismo consolidatosi nel corso del lungo processo di modernizzazione, luogo d’incubazione dell’antropologia proprietaria egemone nell’Europa borghese. Egli sa bene che il contratto serve a poco.
Se c’è una speranza, questa riposa sul concreto funzionamento delle istituzioni politiche, sulla sua coerenza con la loro ratio costitutiva. Quella che si tratta di giocare è una delicata partita a scacchi dentro il quadro dei poteri e nel corpo stesso della collettività. Gli egoismi vanno estirpati o almeno imbrigliati. E Rousseau le tenta tutte per vincere questa battaglia.
Qualità e quantità
Tenta, dapprima, la carta delle procedure. Stabilisce con puntiglio le regole del voto nell’assemblea legislativa, graduando il principio di maggioranza in base alla rilevanza e all’urgenza delle decisioni. Ma è sin troppo evidente (almeno a lui, visto che di questi tempi corre invece l’idea che la democrazia sia una questione di «regole del gioco») che le procedure di per sé non garantiscono nulla. Persino l’unanimità dei consensi non dimostra coesione o disinteresse personale, visto che domina anche nelle assemblee servili, quando «i cittadini non hanno più libertà né volontà».
È poi la volta della carta teoreticamente più ardita, intorno alla quale generazioni di lettori del Contrat si sono variamente rotte la testa: la definizione della volonté générale come sinonimo (a priori) del bene comune. L’insufficienza dei vincoli procedurali dimostra che non è possibile desumere la qualità delle decisioni dalla quantità dei consensi. Allora, per quanto bizzarro possa sembrare, il discorso andrà rovesciato di sana pianta. Posto che «ciò che generalizza la volontà» (ciò che garantisce la corrispondenza tra volontà e giustizia, tra volontà e bene comune) «è meno il numero dei voti che l’interesse comune che li unisce», bisognerà partire dall’interesse comune. Il quale (lo sappiano o no i cittadini riuniti nel corpo sovrano) risiede nella solidarietà, nella (relativa) uguaglianza, nella sobrietà, nella moderazione.
Una resa apparente
Ma così, che fine fa l’autonomia decisionale del corpo sovrano? E poi: nell’assemblea votano individui corrotti dallo spirito del tempo, i quali – come abbiamo visto – hanno tutt’altra idea dei propri interessi. Per questo spesso si formano consorterie e fazioni, intese, le une e le altre, a curare il proprio particulare. Quale ascolto daranno costoro alle indicazioni della volonté générale? Quando si dice «volontà», spesso e volentieri ci si fraintende: si vuole sempre il proprio bene, ma come lo si troverà se non si è in grado di vederlo?
Il risultato sembra una resa incondizionata: «come può una moltitudine cieca, che spesso ignora ciò che vuole poiché raramente sa che cosa è per lei bene, compiere un’impresa grande e difficile come un sistema di leggi?» Per parte sua, la volonté générale ha un bell’essere per definizione «retta e tesa alla pubblica utilità», «sempre costante, inalterabile e pura»: se il popolo è fuorviato, se nell’assemblea prevalgono i particolarismi, essa non verrà espressa («ammutolisce») e di certo sarà sopraffatta.
Dal tutto alla parte
Consapevole di ciò, Rousseau tenta, infine, l’ultima carta – sorprendente e fatale (se non altro perché sancisce il fallimento del modello contrattualistico, o quanto meno la fuoriuscita del Contrat dal suo quadro di riferimento). Nell’estremo tentativo di venire a capo del problema, constatata l’inemendabile miseria degli uomini («ci vorrebbero degli dei per dare loro un corpo di leggi»), Rousseau fa intervenire la figura platonica del legislatore, antitesi vivente della partecipazione democratica. Un dio profano, forte di un’autorità trascendente («di un’altra specie»), è in effetti «il meccanico che inventa la macchina» dello Stato. Ed è sin troppo evidente che la sua irruzione mette in mora il dispositivo contrattualistico, visto che il legislatore assolve esattamente il compito affidato al contratto: fonda la nazione e per questo cambia la natura umana, sostituendo «un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che abbiamo tutti ricevuto dalla natura» e «trasformando ogni individuo, che in se stesso è un tutto perfetto e isolato, in una parte di un tutto più grande».
Difficile immaginare una più esplicita affermazione dell’impossibilità di risolvere il problema politico attraverso il contratto sociale. Rousseau non ne formalizza il ripudio né rinuncia al carattere democratico della teoria; si preoccupa di circoscrivere le prerogative del legislatore («il suo ufficio non è magistratura, non è sovranità»); conserva il principio di maggioranza per le decisioni collettive e, soprattutto, riserva la sovranità all’assemblea dei citoyens. Ma in questo modo, come nel gioco dell’oca, i problemi che aveva cercato di risolvere si ripropongono tali e quali, nulla garantendo che il corpo sovrano dia voce alla volonté générale. Ce n’è abbastanza perché a uno sconsolato Rousseau il Contrat appaia ben presto «un libro da rifare».
La volontà «vera»
Nondimeno, quest’opera esplosiva rimane per noi, dopo due secoli e mezzo, insostituibile. Perché? Per almeno due buone ragioni. In primo luogo, proprio questo tormentato percorso rivela che gli interessi particolari sono qui e ora troppo forti perché sia possibile coniugare partecipazione (esercizio dell’autonomia individuale e collettiva) e giustizia sociale. Rousseau vede precocemente un dilemma-base della democrazia borghese: intuisce (sta qui un nesso profondo con Marx) che soltanto dopo che sarà cambiata la struttura sociale (e con essa la configurazione concreta degli interessi) sarà possibile produrre una forma politica realmente democratica. Sino a quel momento, la politica potrà tutt’al più ridurre i contraccolpi distruttivi del rapporto sociale capitalistico. Col senno di poi, comprendiamo che Rousseau affida, inconsapevolmente, questo insegnamento al Contrat social. Il quale è, per tale ragione, qualcosa di più di un classico del pensiero democratico. È anche un antefatto della critica marxiana della politica, una premessa indispensabile della denuncia dell’ideologia democratica che prenderà forma nelle pagine della Judenfrage.
La seconda ragione è sorprendente, forse paradossale. Abbiamo visto che Rousseau abbandona il quadro di riferimento del contrattualismo moderno imponendo alla scelta collettiva vincoli esterni e non negoziabili. Non basta che la decisione sia partecipata (formalmente democratica), dev’essere anche giusta: promuovere la solidarietà, la coesione, la giustizia sociale, l’uguaglianza, insomma l’interesse generale. Con ciò, a guardar bene, il Contrat non si limita a congedarsi dal contrattualismo, apre la strada – implicitamente – alla più complessa strategia discorsiva che di lì a poco (nel corso del XIX secolo) darà avvio alla ricerca teorica del costituzionalismo moderno, la cui ratio consiste nel distinguere tra gli orientamenti immediati delle assemblee legislative (non di rado condizionati da poteri forti) e la sua volontà «vera» – generale – in quanto frutto dell’esperienza storica di lungo periodo.
Perché questo è sorprendente, perché è paradossale? Perché la discussione sull’opera di Rousseau è andata perlopiù in tutt’altra direzione. Già all’indomani della Rivoluzione francese, e a maggior ragione nel secolo scorso, i suoi avversari di parte liberale gli hanno imputato gravi responsabilità, leggendo nel Contrat - in particolare nella teoria della volonté générale - un dispositivo liberticida, propedeutico al «totalitarismo». Ma a dimostrare che si tratta di accuse insensate basterebbe la sdegnosa risposta che Rousseau dette ai fisiocratici che speravano di arruolarlo tra i fautori del cosiddetto «dispotismo illuminato». No grazie, ribatté: o una collettività trova da sé la strada verso la giustizia, oppure «tutto è perduto»: niente e nessuno autorizza vie di fuga verso il leviatano di Hobbes.
29.4.12
Ginsborg battezza Alba il nuovo "partito" della sinistra
Lo storico convoca al PalaMandela la prima assemblea nazionale del "manifesto" su cui si fonda un soggetto politico ancora senza nome che ha l'ambizione "di rendersi protagonista della vita democratica del paese"
di SIMONA POLI
Non è ancora un partito ma è già qualcosa di più di un movimento il nuovo "soggetto politico" battezzato a Firenze dallo storico Paul Ginsborg e dai mille riuniti al PalaMandela nella prima assemblea nazionale ispirata al "manifesto per un'altra politica nelle forme e nelle passioni" firmato finora da quattromila persone (tra cui Stefano Rodotà e Luciano Gallino). L'assemblea ha appena scelto il nome del nuovo soggetto: sarà Alba, che significa Alleanza per Lavoro Beni comuni e Ambiente. Questo acronimo è stato preferito agli altri, gettonatissimi, Lavoro e Bene Comune; Italia bene Comune; Alternativa Democratica.
"Da anni chiediamo ai partiti di autoriformarsi", spiega Ginsborg. "Abbiamo organizzato manifestazioni, dibattiti, girotondi, appelli ma niente di quello che abbiamo detto è stato ascoltato. E allora tocca a noi scendere in campo, portando idee e proposte con l'obiettivo di unire la sinistra e allo stesso tempo stimolarla a rimettere al centro dell'attenzione le regole della democrazia e i temi del lavoro e della tutela dei diritti. Il Pd non ci teme, siamo troppo piccoli. Mi ha chiamato un dirigente per chiedermi se facciamo sul serio. Certo che facciamo sul serio, siamo molto motivati e anche arrabbiati per quello che sta accadendo in Italia. Ma la nostra parola guida è mitezza: la forza degli argomenti e del ragionamento deve prevalere sempre nella discussione politica".
Insieme a Ginsborg parlano il politologo Marco Revelli, il giurista torinese Ugo Mattei, Paolo Cacciari, Gianni Rinaldini del direttivo della Cgil. Interviene anche il vendoliano Fratoianni, che è qui insieme a Giuseppe Brogi, Alessia Petraglia e Marisa Nicchi. In platea in veste di osservatori ci sono l'ex portavoce del Social forum genovese Marco Agnoletto, il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero e molti esponenti di Sel, della Federazione della Sinistra, dei movimenti, della Fiom e dei sindacati di base. Seduto in seconda fila "ma solo per ascoltare", precisa, il senatore del Pd Vincenzo Vita, che commenta: "Voglio interpretare questa novità che si sta muovendo a sinistra, anche se trovo eccessivi alcuni attacchi al Pd che ho sentito in vari interventi. E vorrei che nella giusta critica che si fa al governo Monti non ci si dimenticasse che prima di lui il paese era ad un passo dal baratro".
Lo pensa anche Sergio Staino, non particolarmente entusiasta del dibattito. "Sono venuto per capire quale sia il progetto ma francamente non potrei dire di esserci riuscito. Più che mitezza parlerei di tenerezza, perché è questo il sentimento che si prova quando qualcuno mette a disposizione la sua esperienza per cercare di realizzare qualcosa di nuovo. Non condivido comunque l'idea che Monti sia stato messo lì dal capitalismo finanziario, vorrei che ogni tanto qualcuno si ricordasse che il precedente premier era Berlusconi..."
Tantissimi gli interventi al microfono, rigidamente limitati a sette minuti. Il politologo Marco Revelli non è tra quelli che hanno voglia di fondare un altro "partitino" ma di sicuro si colloca nella schiera degli italiani molto incavolati per la situazione economica e politica: "Vogliamo essere un soggetto costituzionale che si candida ad essere protagonista dio una fase in cui la sfiducia nei partiti è totale. Mentre gli imprenditori si suicidano Bersani, Casini e Alfano dichiarano di non voler rinunciare ai soldi del finanziamento pubblico, è una follia. Ormai è inutile sperare nella capacità dei partiti di autoriformarsi, non ci crediamo più. E siamo preoccupati per l'emergenza sociale che il governo affronta con la ricetta del neoliberismo, un dogma che ha fallito e che non potrà risanare l'economia di questo paese".
"Questo movimento non teme di confrontarsi", dice Alberto Lucarelli, assessore ai beni comuni di Napoli, tra i principali autori del manifesto di Ginsborg. "Noi non diciamo o con noi o contro di noi ma ci poniamo nell'ambito di una cultura della sinistra che si contrappone a queste forme di liberismo economico che hanno deformato lo stato sociale".
Tra i firmatari del manifesto c'è Luciano Gallino, professore emerito all'università di Torino. Convinto che "per creare rapidamente occupazione occorre che lo Stato operi come datore di lavoro di ultima istanza, assumendo direttamente il maggior numero di persone". Gallino auspica la nascita di un'Agenzia per l'occupazione con cui si dovrebbe puntare ad assumere rapidamente almeno un milione di persone". Una proposta inviata all'assemblea fiorentina, così dettagliata: "L'Agenzia per l'occupazione dovrebbe essere simile alla Works Progress Administration del New Deal americano. Le assunzioni verrebbero effettuate e gestite unicamente su scala locale, da Comuni, Regioni, enti del volontariato, servizi del lavoro. Le persone assunte dovrebbero venire impiegate unicamente in progetti di pubblica utilità. L'operazione sarebbe finanziata da una molteplicità di fonti: fondi europei; cassa depositi e prestiti; una patrimoniale di scopo dell'1% sui patrimoni finanziari superiori a 200.000 euro".
Infuocatissimo l'intervento del giurista dell'ateneo torinese Ugo Mattei, autore dello Statuto del Teatro Valle. "Inserire il pareggio di bilancio in Costituzione è stato0 un vero e proprio golpe bianco", dice, "e il Pd non doveva votare. Siamo in un'emergenza drammatica, la gente non sa come campare e ci sono un milione di irresponsabili che banchettano allegramente. E questa non è anti politica ma pura verità".
di SIMONA POLI
Non è ancora un partito ma è già qualcosa di più di un movimento il nuovo "soggetto politico" battezzato a Firenze dallo storico Paul Ginsborg e dai mille riuniti al PalaMandela nella prima assemblea nazionale ispirata al "manifesto per un'altra politica nelle forme e nelle passioni" firmato finora da quattromila persone (tra cui Stefano Rodotà e Luciano Gallino). L'assemblea ha appena scelto il nome del nuovo soggetto: sarà Alba, che significa Alleanza per Lavoro Beni comuni e Ambiente. Questo acronimo è stato preferito agli altri, gettonatissimi, Lavoro e Bene Comune; Italia bene Comune; Alternativa Democratica.
"Da anni chiediamo ai partiti di autoriformarsi", spiega Ginsborg. "Abbiamo organizzato manifestazioni, dibattiti, girotondi, appelli ma niente di quello che abbiamo detto è stato ascoltato. E allora tocca a noi scendere in campo, portando idee e proposte con l'obiettivo di unire la sinistra e allo stesso tempo stimolarla a rimettere al centro dell'attenzione le regole della democrazia e i temi del lavoro e della tutela dei diritti. Il Pd non ci teme, siamo troppo piccoli. Mi ha chiamato un dirigente per chiedermi se facciamo sul serio. Certo che facciamo sul serio, siamo molto motivati e anche arrabbiati per quello che sta accadendo in Italia. Ma la nostra parola guida è mitezza: la forza degli argomenti e del ragionamento deve prevalere sempre nella discussione politica".
Insieme a Ginsborg parlano il politologo Marco Revelli, il giurista torinese Ugo Mattei, Paolo Cacciari, Gianni Rinaldini del direttivo della Cgil. Interviene anche il vendoliano Fratoianni, che è qui insieme a Giuseppe Brogi, Alessia Petraglia e Marisa Nicchi. In platea in veste di osservatori ci sono l'ex portavoce del Social forum genovese Marco Agnoletto, il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero e molti esponenti di Sel, della Federazione della Sinistra, dei movimenti, della Fiom e dei sindacati di base. Seduto in seconda fila "ma solo per ascoltare", precisa, il senatore del Pd Vincenzo Vita, che commenta: "Voglio interpretare questa novità che si sta muovendo a sinistra, anche se trovo eccessivi alcuni attacchi al Pd che ho sentito in vari interventi. E vorrei che nella giusta critica che si fa al governo Monti non ci si dimenticasse che prima di lui il paese era ad un passo dal baratro".
Lo pensa anche Sergio Staino, non particolarmente entusiasta del dibattito. "Sono venuto per capire quale sia il progetto ma francamente non potrei dire di esserci riuscito. Più che mitezza parlerei di tenerezza, perché è questo il sentimento che si prova quando qualcuno mette a disposizione la sua esperienza per cercare di realizzare qualcosa di nuovo. Non condivido comunque l'idea che Monti sia stato messo lì dal capitalismo finanziario, vorrei che ogni tanto qualcuno si ricordasse che il precedente premier era Berlusconi..."
Tantissimi gli interventi al microfono, rigidamente limitati a sette minuti. Il politologo Marco Revelli non è tra quelli che hanno voglia di fondare un altro "partitino" ma di sicuro si colloca nella schiera degli italiani molto incavolati per la situazione economica e politica: "Vogliamo essere un soggetto costituzionale che si candida ad essere protagonista dio una fase in cui la sfiducia nei partiti è totale. Mentre gli imprenditori si suicidano Bersani, Casini e Alfano dichiarano di non voler rinunciare ai soldi del finanziamento pubblico, è una follia. Ormai è inutile sperare nella capacità dei partiti di autoriformarsi, non ci crediamo più. E siamo preoccupati per l'emergenza sociale che il governo affronta con la ricetta del neoliberismo, un dogma che ha fallito e che non potrà risanare l'economia di questo paese".
"Questo movimento non teme di confrontarsi", dice Alberto Lucarelli, assessore ai beni comuni di Napoli, tra i principali autori del manifesto di Ginsborg. "Noi non diciamo o con noi o contro di noi ma ci poniamo nell'ambito di una cultura della sinistra che si contrappone a queste forme di liberismo economico che hanno deformato lo stato sociale".
Tra i firmatari del manifesto c'è Luciano Gallino, professore emerito all'università di Torino. Convinto che "per creare rapidamente occupazione occorre che lo Stato operi come datore di lavoro di ultima istanza, assumendo direttamente il maggior numero di persone". Gallino auspica la nascita di un'Agenzia per l'occupazione con cui si dovrebbe puntare ad assumere rapidamente almeno un milione di persone". Una proposta inviata all'assemblea fiorentina, così dettagliata: "L'Agenzia per l'occupazione dovrebbe essere simile alla Works Progress Administration del New Deal americano. Le assunzioni verrebbero effettuate e gestite unicamente su scala locale, da Comuni, Regioni, enti del volontariato, servizi del lavoro. Le persone assunte dovrebbero venire impiegate unicamente in progetti di pubblica utilità. L'operazione sarebbe finanziata da una molteplicità di fonti: fondi europei; cassa depositi e prestiti; una patrimoniale di scopo dell'1% sui patrimoni finanziari superiori a 200.000 euro".
Infuocatissimo l'intervento del giurista dell'ateneo torinese Ugo Mattei, autore dello Statuto del Teatro Valle. "Inserire il pareggio di bilancio in Costituzione è stato0 un vero e proprio golpe bianco", dice, "e il Pd non doveva votare. Siamo in un'emergenza drammatica, la gente non sa come campare e ci sono un milione di irresponsabili che banchettano allegramente. E questa non è anti politica ma pura verità".
28.4.12
Province, Titanic da 18 miliardi tenuto a galla dai doppi incarichi
Protette dal Parlamento, accumulano spese. E sprechi
Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella (Corriere)
Ci sono italiani che vivono su Marte. La prova è in una delibera della Provincia di Reggio Calabria. Che il 23 dicembre 2011, il giorno dopo il varo della manovra lacrime e sangue per salvare l' Italia dal baratro, stanziava 120 mila euro per comprare un pianoforte a coda per dare dei concerti a palazzo.
Cosa se ne fa di un pianoforte, direte voi, una Provincia che come le altre sta per essere soppressa? Ecco il nodo: l' idea di chiudere, a molti, non passa neanche per la testa. Il bello è che la Provincia di Reggio è perfino meno sgangherata (si fa per dire.) delle sorelle calabresi. Lo dice l' ultima classifica dei buchi di bilancio pubblicata dal Sole 24 Ore. Che vede i reggini con un debito pro capite provinciale di 236,8 euro, cioè meno della metà di quello stratosferico dei crotonesi (493,7), dei vibonesi (564), dei catanzaresi (564,9) e dei cosentini, che svettano nella hit-parade (dove sono calabresi le prime quattro Province dalle mani bucate) con 591,1 euro di buco a testa. Con dei conti così disastrati, vi chiederete, nei mesi in cui imprenditori asfissiati dai debiti e operai disoccupati si impiccano, come può venire in mente a un amministratore pubblico di comprare un pianoforte a coda? La delibera merita di essere letta per il linguaggio surreale. L' acquisto, infatti, viene motivato dalla necessità di «avviare nel corso del 2012 una stagione concertistica che contribuisca (.) ad avvicinare i cittadini all' istituzione». Testuale. Apriti cielo! «Ma siete pazzi?», hanno chiesto i giornali locali mentre sul web giravano insulti irripetibili. Risposta di Edoardo Lamberti Castronuovo, che dopo essere stato il candidato al comune della sinistra è oggi l' assessore alla Cultura della destra: «Mi domando perché molti non si sono preoccupati degli sprechi del passato e oggi contestano l' acquisto di un bene che diventa patrimonio della gente». Insomma, affittare un pianoforte a Catania costava ogni volta duemila euro! Insurrezione del Conservatorio: «Ma se ne abbiamo due noi!» Sigillo finale: d' accordo, stop, ma l' acquisto è solo rinviato finché si abbassa il polverone. E pare davvero di sentirle, le note dell' ultimo valzer, mentre il Titanic delle Province si avvia verso l' iceberg nella incredulità generale: possibile che, alla fine, si faccia sul serio e si vada allo scioglimento? Un po' di navigazione ancora la vorrà ben concedere. Ed ecco che i presidenti delle Province di Como, Vicenza, La Spezia, Genova, Ancona e Belluno, che sarebbero decaduti il 6 maggio per fine mandato, resteranno ancora un poco al loro posto. Il ministro dell' Interno Anna Maria Cancellieri ha deciso di nominarli commissari di se stessi, in attesa che entro l' anno, come stabilito dal decreto «Salva Italia» si faccia la legge con la quale gli enti dovrebbero scomparire. Il solo presidente della Provincia di Genova, Alessandro Repetto, ha detto «Non ci sto». E si è dimesso. Ma sono in tanti a non volersi rassegnare. Non si rassegnano i nordisti che a maggio 2011, quando già la campana suonava a morto, per bocca del senatore leghista Sergio Divina proponevano una legge per istituire la Ladinia, terza Provincia autonoma nella Regione Trentino Alto Adige. Ma non si rassegnano neppure i meridionali. Giorni fa il disegno di legge regionale che prevedeva la soppressione delle Province siciliane è saltato. Tutto rimandato. In compenso, come racconta LiveSicilia, è comparsa una sorpresina maleodorante: invece di abolire le Province, si è abolita l' incompatibilità fra sindaco o assessore e dipendente di aziende sanitarie. Prosit. Il fatto è che le Province hanno potentissimi sostenitori in Parlamento. Dove sono seduti ben dieci presidenti. E ci resteranno fino alla fine della legislatura. Soltanto due mesi fa la giunta per le elezioni di Montecitorio ha stabilito che l' incarico di parlamentare non è incompatibile con quello di presidente di Provincia. E ciò nonostante la legge al riguardo sia esplicita: non si può. Ma tant' è. La deputata Maria Teresa Armosino resterà quindi presidente della Provincia di Asti, al pari di Luigi Cesaro che governa quella di Napoli, Edmondo Cirielli (Salerno), Domenico Zinzi (Caserta), Antonello Iannarilli (Frosinone), Daniele Molgora (Brescia), Antonio Pepe (Foggia) e Roberto Simonetti (Biella). Tutti di centrodestra. E l' unico «giano bifronte» del centrosinistra? Il senatore Daniele Bosone, presidente della Provincia di Pavia: appartiene al Pd, che alla Camera s'era opposto fermamente ai doppi incarichi. Allora se ne va? No, resta. Ma quanto costano le Province? Le stime, a seconda delle fonti, vanno dai 12 ai 18 miliardi di euro. E chi ne difende la sopravvivenza sostiene che abolendole si risparmierebbe pochissimo. Un miliardo al massimo, considerando che (escluso il licenziamento dei dipendenti) verrebbero meno «solo» 4 mila amministratori. Ma è così? O è solo fumo ostruzionistico per rallentare il processo? Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, l' unico che abbia pubblicamente sostenuto l' inutilità del suo ente, dice che solo ridisegnando la gara d' appalto per il riscaldamento di 300 scuole romane è riuscito a risparmiare 5 milioni l' anno. Una bella somma: niente, però, in rapporto al fiume di denaro che se ne va per iniziative quantomeno discutibili. Come i viaggi delle delegazioni provinciali campane (50 mila euro ciascuna) al Columbus Day. O lo strepitoso Valva Film Festival, organizzato a spese della Provincia a Salerno nell' agosto del 2009, dove fu assegnato a Noemi Letizia, la ninfetta napoletana alla cui festa cominciò il tormentone sul Cavaliere e le minorenni, il premio alla carriera «Per il talento che verrà». O ancora, a Bolzano, la spesuccia costata una condanna della Corte dei Conti (2.400 euro) a Luis Durnwalder. «Se andiamo avanti così non saranno più i politici a decidere quale iniziativa sostenere con un contributo», è sbottato furente. Difficile, però, non condividere le perplessità dei magistrati contabili davanti al finanziamento indagato: 62 mila euro a un torneo di beach volley. A Bolzano! Elemosine, in confronto a qualche iniziativa di Trento. Dove la Provincia, insieme con il comune di Riva del Garda, ha fatto rinascere con i soldi pubblici un lussuoso e storico albergo a 5 stelle, il Lido Palace. Investimento previsto: una trentina di milioni di euro. Prezzi delle stanze: da 730 a 1.959 euro a notte per la junior suite. Perché le Province, e non soltanto quelle autonome, muovono somme importanti. Talvolta con serie ripercussioni finanziarie, come ha documentato una recente relazione della Corte dei conti sulla Provincia di Torino, il cui indebitamento nel 2013 raggiungerebbe 667 milioni. Nell' occasione, i giudici hanno stigmatizzato l' esistenza di un groviglio di partecipazioni. La Provincia di Torino ne ha 165. Una giungla infernale e costosissima, dalla quale ora il presidente Antonio Saitta vorrebbe uscire accorpando tutto in una nuova società regionale. Dice che si potrebbero risparmiare 4 milioni l' anno. Buona fortuna. Quando la scorsa estate il consiglio provinciale doveva decidere la riduzione delle poltrone, magicamente mancò il numero legale. Eppure dovrebbero saperlo: le società pubbliche spesso sono anche fonte di guai. Ricordate la Sogas che gestisce l' aeroporto di Reggio Calabria, i cui azionisti sono con il 67% la Provincia reggina e col 27% quella di Messina? In vent' anni ha accumulato perdite per 35,4 milioni in euro. Una voragine. La cosa dovrebbe servire d' esempio. Invece la febbre degli aeroporti è sempre più alta. Ogni Provincia vuole il suo. Frosinone, Caserta, Sibari. L' Italia ha più del doppio degli scali della Francia, in rapporto alla superficie? Chissenefrega, le ambizioni delle Province non si placano. Al punto che Caserta, nonostante le resistenze, insiste sul bisogno d' uno scalo a Grazzanise, ad appena 33 chilometri da Napoli Capodichino. La società dell' aeroporto di Frosinone, invece, esiste già: ha un capitale di 5,9 milioni, di cui 2,8 della Provincia. E un consiglio di amministrazione pieno zeppo di politici...
Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella (Corriere)
Ci sono italiani che vivono su Marte. La prova è in una delibera della Provincia di Reggio Calabria. Che il 23 dicembre 2011, il giorno dopo il varo della manovra lacrime e sangue per salvare l' Italia dal baratro, stanziava 120 mila euro per comprare un pianoforte a coda per dare dei concerti a palazzo.
Cosa se ne fa di un pianoforte, direte voi, una Provincia che come le altre sta per essere soppressa? Ecco il nodo: l' idea di chiudere, a molti, non passa neanche per la testa. Il bello è che la Provincia di Reggio è perfino meno sgangherata (si fa per dire.) delle sorelle calabresi. Lo dice l' ultima classifica dei buchi di bilancio pubblicata dal Sole 24 Ore. Che vede i reggini con un debito pro capite provinciale di 236,8 euro, cioè meno della metà di quello stratosferico dei crotonesi (493,7), dei vibonesi (564), dei catanzaresi (564,9) e dei cosentini, che svettano nella hit-parade (dove sono calabresi le prime quattro Province dalle mani bucate) con 591,1 euro di buco a testa. Con dei conti così disastrati, vi chiederete, nei mesi in cui imprenditori asfissiati dai debiti e operai disoccupati si impiccano, come può venire in mente a un amministratore pubblico di comprare un pianoforte a coda? La delibera merita di essere letta per il linguaggio surreale. L' acquisto, infatti, viene motivato dalla necessità di «avviare nel corso del 2012 una stagione concertistica che contribuisca (.) ad avvicinare i cittadini all' istituzione». Testuale. Apriti cielo! «Ma siete pazzi?», hanno chiesto i giornali locali mentre sul web giravano insulti irripetibili. Risposta di Edoardo Lamberti Castronuovo, che dopo essere stato il candidato al comune della sinistra è oggi l' assessore alla Cultura della destra: «Mi domando perché molti non si sono preoccupati degli sprechi del passato e oggi contestano l' acquisto di un bene che diventa patrimonio della gente». Insomma, affittare un pianoforte a Catania costava ogni volta duemila euro! Insurrezione del Conservatorio: «Ma se ne abbiamo due noi!» Sigillo finale: d' accordo, stop, ma l' acquisto è solo rinviato finché si abbassa il polverone. E pare davvero di sentirle, le note dell' ultimo valzer, mentre il Titanic delle Province si avvia verso l' iceberg nella incredulità generale: possibile che, alla fine, si faccia sul serio e si vada allo scioglimento? Un po' di navigazione ancora la vorrà ben concedere. Ed ecco che i presidenti delle Province di Como, Vicenza, La Spezia, Genova, Ancona e Belluno, che sarebbero decaduti il 6 maggio per fine mandato, resteranno ancora un poco al loro posto. Il ministro dell' Interno Anna Maria Cancellieri ha deciso di nominarli commissari di se stessi, in attesa che entro l' anno, come stabilito dal decreto «Salva Italia» si faccia la legge con la quale gli enti dovrebbero scomparire. Il solo presidente della Provincia di Genova, Alessandro Repetto, ha detto «Non ci sto». E si è dimesso. Ma sono in tanti a non volersi rassegnare. Non si rassegnano i nordisti che a maggio 2011, quando già la campana suonava a morto, per bocca del senatore leghista Sergio Divina proponevano una legge per istituire la Ladinia, terza Provincia autonoma nella Regione Trentino Alto Adige. Ma non si rassegnano neppure i meridionali. Giorni fa il disegno di legge regionale che prevedeva la soppressione delle Province siciliane è saltato. Tutto rimandato. In compenso, come racconta LiveSicilia, è comparsa una sorpresina maleodorante: invece di abolire le Province, si è abolita l' incompatibilità fra sindaco o assessore e dipendente di aziende sanitarie. Prosit. Il fatto è che le Province hanno potentissimi sostenitori in Parlamento. Dove sono seduti ben dieci presidenti. E ci resteranno fino alla fine della legislatura. Soltanto due mesi fa la giunta per le elezioni di Montecitorio ha stabilito che l' incarico di parlamentare non è incompatibile con quello di presidente di Provincia. E ciò nonostante la legge al riguardo sia esplicita: non si può. Ma tant' è. La deputata Maria Teresa Armosino resterà quindi presidente della Provincia di Asti, al pari di Luigi Cesaro che governa quella di Napoli, Edmondo Cirielli (Salerno), Domenico Zinzi (Caserta), Antonello Iannarilli (Frosinone), Daniele Molgora (Brescia), Antonio Pepe (Foggia) e Roberto Simonetti (Biella). Tutti di centrodestra. E l' unico «giano bifronte» del centrosinistra? Il senatore Daniele Bosone, presidente della Provincia di Pavia: appartiene al Pd, che alla Camera s'era opposto fermamente ai doppi incarichi. Allora se ne va? No, resta. Ma quanto costano le Province? Le stime, a seconda delle fonti, vanno dai 12 ai 18 miliardi di euro. E chi ne difende la sopravvivenza sostiene che abolendole si risparmierebbe pochissimo. Un miliardo al massimo, considerando che (escluso il licenziamento dei dipendenti) verrebbero meno «solo» 4 mila amministratori. Ma è così? O è solo fumo ostruzionistico per rallentare il processo? Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, l' unico che abbia pubblicamente sostenuto l' inutilità del suo ente, dice che solo ridisegnando la gara d' appalto per il riscaldamento di 300 scuole romane è riuscito a risparmiare 5 milioni l' anno. Una bella somma: niente, però, in rapporto al fiume di denaro che se ne va per iniziative quantomeno discutibili. Come i viaggi delle delegazioni provinciali campane (50 mila euro ciascuna) al Columbus Day. O lo strepitoso Valva Film Festival, organizzato a spese della Provincia a Salerno nell' agosto del 2009, dove fu assegnato a Noemi Letizia, la ninfetta napoletana alla cui festa cominciò il tormentone sul Cavaliere e le minorenni, il premio alla carriera «Per il talento che verrà». O ancora, a Bolzano, la spesuccia costata una condanna della Corte dei Conti (2.400 euro) a Luis Durnwalder. «Se andiamo avanti così non saranno più i politici a decidere quale iniziativa sostenere con un contributo», è sbottato furente. Difficile, però, non condividere le perplessità dei magistrati contabili davanti al finanziamento indagato: 62 mila euro a un torneo di beach volley. A Bolzano! Elemosine, in confronto a qualche iniziativa di Trento. Dove la Provincia, insieme con il comune di Riva del Garda, ha fatto rinascere con i soldi pubblici un lussuoso e storico albergo a 5 stelle, il Lido Palace. Investimento previsto: una trentina di milioni di euro. Prezzi delle stanze: da 730 a 1.959 euro a notte per la junior suite. Perché le Province, e non soltanto quelle autonome, muovono somme importanti. Talvolta con serie ripercussioni finanziarie, come ha documentato una recente relazione della Corte dei conti sulla Provincia di Torino, il cui indebitamento nel 2013 raggiungerebbe 667 milioni. Nell' occasione, i giudici hanno stigmatizzato l' esistenza di un groviglio di partecipazioni. La Provincia di Torino ne ha 165. Una giungla infernale e costosissima, dalla quale ora il presidente Antonio Saitta vorrebbe uscire accorpando tutto in una nuova società regionale. Dice che si potrebbero risparmiare 4 milioni l' anno. Buona fortuna. Quando la scorsa estate il consiglio provinciale doveva decidere la riduzione delle poltrone, magicamente mancò il numero legale. Eppure dovrebbero saperlo: le società pubbliche spesso sono anche fonte di guai. Ricordate la Sogas che gestisce l' aeroporto di Reggio Calabria, i cui azionisti sono con il 67% la Provincia reggina e col 27% quella di Messina? In vent' anni ha accumulato perdite per 35,4 milioni in euro. Una voragine. La cosa dovrebbe servire d' esempio. Invece la febbre degli aeroporti è sempre più alta. Ogni Provincia vuole il suo. Frosinone, Caserta, Sibari. L' Italia ha più del doppio degli scali della Francia, in rapporto alla superficie? Chissenefrega, le ambizioni delle Province non si placano. Al punto che Caserta, nonostante le resistenze, insiste sul bisogno d' uno scalo a Grazzanise, ad appena 33 chilometri da Napoli Capodichino. La società dell' aeroporto di Frosinone, invece, esiste già: ha un capitale di 5,9 milioni, di cui 2,8 della Provincia. E un consiglio di amministrazione pieno zeppo di politici...
26.4.12
17 anni di austerity, e oggi l'ultimo capitolo: Monti
di Cesare Del Frate
La parola "austerity", oggi sulla bocca di tutti, è entrata solo recentemente nel nostro vocabolario tramite la comunicazione compassata e professorale del neo-premier Mario Monti. Tuttavia, se intendiamo con "austerity" il rigore di bilancio, e quindi uno Stato che "spende" meno di quanto riceve come "entrate" (devolvendo quanto così risparmiato a ripagare il debito), possiamo vedere come lo Stato italiano abbia applicato misure di austerity dal 1995 ad oggi, ininterrottamente per 17 anni consecutivi. Guardiamo le serie storiche della Banca d'Italia, da questa tabella:
Come si compone il Bilancio dello Stato? Quando lo Stato spende in misura maggiore rispetto alle entrate siamo in DISAVANZO PRIMARIO. Al disavanzo primario vanno aggiunte le spese per ripagare gli interessi sul debito pregresso. Disavanzo primario+spese per interessi=Deficit. Il deficit è dato dalla somma di questi fattori. Prendiamo i dati relativi al 1993: il deficit è di 109 miliardi. Lo Stato spende quindi 109 miliardi in più rispetto alle sue entrate fiscali (aumenta quindi il debito di 109 miliardi per reperire le risorse che non ha). Come si compone questo deficit. Sempre dalla tabella con i dati di Banca Italia vediamo che il deficit è composto al 96% da spese per interessi. Vale a dire: se non ci fossero le spese sugli interessi, il deficit sarebbe pari a 5 miliardi di euro, non a 109. A 109 miliardi ci si arriva tenendo conto delle spese sugli interessi, pari a circa 101 miliardi di euro. Nel 1990 gli interessi compongono il 92,9% del deficit, nel 1991 il 99,3% del deficit, nel 1994 il 91,2%. Possiamo quindi capire come il deficit italiano dei primi anni novanta sia imputabile, per una misura superiore al 90%, alla spesa per il "servizio del debito" (così viene chiamato il ripagare gli interessi sul debito pubblico).
Cosa cambia a partire dal 1995? Succede che a partire da quella data, e in modo costante fino ad oggi, il "servizio del debito" pesa sul deficit per importi superiori al 100%. Nel 1995 il deficit è composto per il 133,9% dal servizio del debito. Cosa significa? Che se togliamo la spesa per interessi, il bilancio dello Stato è in AVANZO PRIMARIO. L'avanzo primario si verifica quando lo Stato spende meno di quanto incasa come entrate. Se ha entrate pari a 100 e spese pari a 90, l'avanzo primario è di 10. Quei 10 sono "risparmiati". Però non abbiamo ancora fatto i conti con gli interessi sul debito. Se devo pagare 5 di interessi sul debito, alla fine non avrò risparmiato 120 ma soltanto 5. Comunque qualcosa avrò risparmiato, e quei 5 potrò usarli per restituire parte del debito in modo che l'anno prossimo avrò interessi minori da pagare. Prendiamo un altro caso: ho risparmiato 10 ma devo ancora pagare 15 di interessi sul debito. In questo caso non solo, alla fine dei conti, non avrò risparmiato nulla, ma dovrò contrarre nuovi debiti pari a 5 (10-15) per ripagare gli interessi sul debito pregresso. Così il mio debito aumenterà e l'anno prossimo gli interessi saranno ancora più onerosi. Benissimo, questo è il caso che si è verificato in Italia dal 1995 ad oggi. Dal 1995 ad oggi siamo in avanzo primario (lo Stato spende meno di quanto incassa), ma ogni anno andiamo "sotto" (in deficit) per via degli interessi sul debito pregresso, costantemente superiori a quanto riusciamo a risparmiare. Ad esempio nel 1997 l'avanzo primario (quanto risparmiato) era pari a 73 miliardi, ma avendo interessi da pagare pari a 97 miliardi siamo andati in rosso (deficit) di 24 miliardi (73-97= - 24). Veniamo a un anno più vicino: il 2008. Avanzo primario: 16 miliardi. Spesa per interessi: 80 miliardi. Deficit: (16-80= - 64) pari a 64 miliardi di euro.
Morale della favola: lo Stato italiano dal 1995 ad oggi ha fatto la formica dell'austerity, ha costantemente speso meno di quanto incassava e ha usato il risparmio per ripagare gli interessi. Però la spesa per interessi è stata costantemente superiore a quanto risparmiato: deficit costante dal 1995 ad oggi. Ecco il paradosso: nonostante 17 anni di risparmi e austerity il debito pubblico non ha fatto che aumentare, costantemente e inesorabilmente anno dopo anno. Oggi Monti non rappresenta nessuna novità, anzi è il perfetto continuatore di una lunga tradizione di austerity (chiamiamola anche neoliberismo) inaugurata nel 1995. L'esito dell'austerity di Monti sarà diverso dall'austerity dei suoi predecessori? A voi giudicare, nei primi tre mesi del suo governo il debito è aumentato di circa 40 miliardi (fonte sempre Banca Italia).
Ultima nota: i risparmi dell'austerity. Come ha fatto lo Stato italiano a spendere meno di quanto incassava dal 1995 ad oggi? Semplice, tagliando le spese. I tagli li conosciamo bene: alla scuola, all'università, alla sanità (aumento dei ticket), alle pensioni, al salario dei dipendenti pubblici, agli investimenti nelle reti stradali e ferroviarie, alla cultura (musei, teatri etc.), alla spesa sociale (welfare), ai licenziamenti nel settore pubblico (uniti alla riduzione del turn-over) etc. etc.
La "dottrina" neoliberista egemone negli ultimi 17 anni (ma a dire il vero dagli anni 80...) ci dice che tagliare la spesa pubblica serve a risanare i conti e a liberare risorse per il mercato. La prima tesi (risanare i bilanci) è falsa: il debito aumenta. La seconda è parimenti falsa: quanto risparmiato NON è andato al "mercato" o all'economia reale ma alla finanza tramite pagamento di interessi sui debiti pregressi. Detto in altri termini: dal 1995 ad oggi lo Stato NON ha mai contratto debiti per coprire la spesa, ha sempre contratto nuovi debiti per ripagare interessi esorbitanti superiori a quanto riuscisse a risparmiare (vi ricorda qualcosa? a me ricorda l'usura). Ha sempre risparmiato per 17 anni ma non era mai abbastanza, gli interessi si divoravano tutto il risparmio e ancora non bastava, bisognava contrarre nuovi debiti solo per ripagare gli interessi su quelli di 17 anni prima!!!!
Possiamo quindi affermare che la dottrina neoliberista dell'austerity ha scopi reali ben distanti da quelli proclamati:
1) L'austerity NON serve a risanare il bilancio, anzi aumenta anno dopo anno il debito
2) L'austerity NON serve a liberare risorse destinate all'economia reale: le risorse liberate finiscono tutte nella finanza tramite gli interessi da pagare
3) L'austerity allora a cosa serve? Serve a destinare quote sempre crescenti della ricchezza nazionale al "servizio del debito". Una quota via via maggiore della ricchezza prodotta annualmente in Italia "evapora", scompare risucchiata dagli interessi sul debito.
Ci sono alternative? Sì. I tassi di interesse devono essere decisi dallo Stato (cvome avveniva in Italia fino al 1981, anno di riforma della Banca Centrale) e non dai "mercati". E inoltre bisogna tornare alla saggezza economica "tradizionale" (quella di Keynes, Galbraith, Krugman, Stiglitz, Minsky etc.) che sostiene la necessità di politiche ANTI-cicliche: risparmi in fase di espansione economica, spendi di più quando sei in recessione (per far ripartire l'economia). In questo modo i debiti che contrai per rilanciare l'economia li ripaghi dopo quando sei in fase di crescita tramite il risparmio. L'austerity fa il contrario: risparmia in fasi di stagnazione e addirittura di recessione aggravando la situazione senza peraltro riuscire a risanare i conti.
17 anni di austerity sono abbastanza? Quanto vogliamo andare avanti a perseguire queste politiche economiche folli e suicide?
La parola "austerity", oggi sulla bocca di tutti, è entrata solo recentemente nel nostro vocabolario tramite la comunicazione compassata e professorale del neo-premier Mario Monti. Tuttavia, se intendiamo con "austerity" il rigore di bilancio, e quindi uno Stato che "spende" meno di quanto riceve come "entrate" (devolvendo quanto così risparmiato a ripagare il debito), possiamo vedere come lo Stato italiano abbia applicato misure di austerity dal 1995 ad oggi, ininterrottamente per 17 anni consecutivi. Guardiamo le serie storiche della Banca d'Italia, da questa tabella:
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Come si compone il Bilancio dello Stato? Quando lo Stato spende in misura maggiore rispetto alle entrate siamo in DISAVANZO PRIMARIO. Al disavanzo primario vanno aggiunte le spese per ripagare gli interessi sul debito pregresso. Disavanzo primario+spese per interessi=Deficit. Il deficit è dato dalla somma di questi fattori. Prendiamo i dati relativi al 1993: il deficit è di 109 miliardi. Lo Stato spende quindi 109 miliardi in più rispetto alle sue entrate fiscali (aumenta quindi il debito di 109 miliardi per reperire le risorse che non ha). Come si compone questo deficit. Sempre dalla tabella con i dati di Banca Italia vediamo che il deficit è composto al 96% da spese per interessi. Vale a dire: se non ci fossero le spese sugli interessi, il deficit sarebbe pari a 5 miliardi di euro, non a 109. A 109 miliardi ci si arriva tenendo conto delle spese sugli interessi, pari a circa 101 miliardi di euro. Nel 1990 gli interessi compongono il 92,9% del deficit, nel 1991 il 99,3% del deficit, nel 1994 il 91,2%. Possiamo quindi capire come il deficit italiano dei primi anni novanta sia imputabile, per una misura superiore al 90%, alla spesa per il "servizio del debito" (così viene chiamato il ripagare gli interessi sul debito pubblico).
Cosa cambia a partire dal 1995? Succede che a partire da quella data, e in modo costante fino ad oggi, il "servizio del debito" pesa sul deficit per importi superiori al 100%. Nel 1995 il deficit è composto per il 133,9% dal servizio del debito. Cosa significa? Che se togliamo la spesa per interessi, il bilancio dello Stato è in AVANZO PRIMARIO. L'avanzo primario si verifica quando lo Stato spende meno di quanto incasa come entrate. Se ha entrate pari a 100 e spese pari a 90, l'avanzo primario è di 10. Quei 10 sono "risparmiati". Però non abbiamo ancora fatto i conti con gli interessi sul debito. Se devo pagare 5 di interessi sul debito, alla fine non avrò risparmiato 120 ma soltanto 5. Comunque qualcosa avrò risparmiato, e quei 5 potrò usarli per restituire parte del debito in modo che l'anno prossimo avrò interessi minori da pagare. Prendiamo un altro caso: ho risparmiato 10 ma devo ancora pagare 15 di interessi sul debito. In questo caso non solo, alla fine dei conti, non avrò risparmiato nulla, ma dovrò contrarre nuovi debiti pari a 5 (10-15) per ripagare gli interessi sul debito pregresso. Così il mio debito aumenterà e l'anno prossimo gli interessi saranno ancora più onerosi. Benissimo, questo è il caso che si è verificato in Italia dal 1995 ad oggi. Dal 1995 ad oggi siamo in avanzo primario (lo Stato spende meno di quanto incassa), ma ogni anno andiamo "sotto" (in deficit) per via degli interessi sul debito pregresso, costantemente superiori a quanto riusciamo a risparmiare. Ad esempio nel 1997 l'avanzo primario (quanto risparmiato) era pari a 73 miliardi, ma avendo interessi da pagare pari a 97 miliardi siamo andati in rosso (deficit) di 24 miliardi (73-97= - 24). Veniamo a un anno più vicino: il 2008. Avanzo primario: 16 miliardi. Spesa per interessi: 80 miliardi. Deficit: (16-80= - 64) pari a 64 miliardi di euro.
Morale della favola: lo Stato italiano dal 1995 ad oggi ha fatto la formica dell'austerity, ha costantemente speso meno di quanto incassava e ha usato il risparmio per ripagare gli interessi. Però la spesa per interessi è stata costantemente superiore a quanto risparmiato: deficit costante dal 1995 ad oggi. Ecco il paradosso: nonostante 17 anni di risparmi e austerity il debito pubblico non ha fatto che aumentare, costantemente e inesorabilmente anno dopo anno. Oggi Monti non rappresenta nessuna novità, anzi è il perfetto continuatore di una lunga tradizione di austerity (chiamiamola anche neoliberismo) inaugurata nel 1995. L'esito dell'austerity di Monti sarà diverso dall'austerity dei suoi predecessori? A voi giudicare, nei primi tre mesi del suo governo il debito è aumentato di circa 40 miliardi (fonte sempre Banca Italia).
Ultima nota: i risparmi dell'austerity. Come ha fatto lo Stato italiano a spendere meno di quanto incassava dal 1995 ad oggi? Semplice, tagliando le spese. I tagli li conosciamo bene: alla scuola, all'università, alla sanità (aumento dei ticket), alle pensioni, al salario dei dipendenti pubblici, agli investimenti nelle reti stradali e ferroviarie, alla cultura (musei, teatri etc.), alla spesa sociale (welfare), ai licenziamenti nel settore pubblico (uniti alla riduzione del turn-over) etc. etc.
La "dottrina" neoliberista egemone negli ultimi 17 anni (ma a dire il vero dagli anni 80...) ci dice che tagliare la spesa pubblica serve a risanare i conti e a liberare risorse per il mercato. La prima tesi (risanare i bilanci) è falsa: il debito aumenta. La seconda è parimenti falsa: quanto risparmiato NON è andato al "mercato" o all'economia reale ma alla finanza tramite pagamento di interessi sui debiti pregressi. Detto in altri termini: dal 1995 ad oggi lo Stato NON ha mai contratto debiti per coprire la spesa, ha sempre contratto nuovi debiti per ripagare interessi esorbitanti superiori a quanto riuscisse a risparmiare (vi ricorda qualcosa? a me ricorda l'usura). Ha sempre risparmiato per 17 anni ma non era mai abbastanza, gli interessi si divoravano tutto il risparmio e ancora non bastava, bisognava contrarre nuovi debiti solo per ripagare gli interessi su quelli di 17 anni prima!!!!
Possiamo quindi affermare che la dottrina neoliberista dell'austerity ha scopi reali ben distanti da quelli proclamati:
1) L'austerity NON serve a risanare il bilancio, anzi aumenta anno dopo anno il debito
2) L'austerity NON serve a liberare risorse destinate all'economia reale: le risorse liberate finiscono tutte nella finanza tramite gli interessi da pagare
3) L'austerity allora a cosa serve? Serve a destinare quote sempre crescenti della ricchezza nazionale al "servizio del debito". Una quota via via maggiore della ricchezza prodotta annualmente in Italia "evapora", scompare risucchiata dagli interessi sul debito.
Ci sono alternative? Sì. I tassi di interesse devono essere decisi dallo Stato (cvome avveniva in Italia fino al 1981, anno di riforma della Banca Centrale) e non dai "mercati". E inoltre bisogna tornare alla saggezza economica "tradizionale" (quella di Keynes, Galbraith, Krugman, Stiglitz, Minsky etc.) che sostiene la necessità di politiche ANTI-cicliche: risparmi in fase di espansione economica, spendi di più quando sei in recessione (per far ripartire l'economia). In questo modo i debiti che contrai per rilanciare l'economia li ripaghi dopo quando sei in fase di crescita tramite il risparmio. L'austerity fa il contrario: risparmia in fasi di stagnazione e addirittura di recessione aggravando la situazione senza peraltro riuscire a risanare i conti.
17 anni di austerity sono abbastanza? Quanto vogliamo andare avanti a perseguire queste politiche economiche folli e suicide?
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24.4.12
La schiavitù dei mercati
Jean Paul Fitoussi (La Repubblica)
È troppo semplicistico dire che i mercati sono crollati a causa della semi-vittoria di Hollande. La settimana scorsa erano pure crollati, per qualche altra ragione. È un bel po´ di tempo, almeno da luglio dello scorso anno, che ci siamo abituati a questa volatilità mozzafiato. E ogni volta si cerca ex post di trovare qualche ragione. Ora è la paura del socialismo: chissà, forse gli operatori sui mercati lo temono veramente, magari perché vedono la giustizia sociale come abbinata a nuove tasse, ma io non l´ho mai creduto neanche un momento. I mercati crollano oggi come ieri, e crolleranno ancora chissà quante volte, perché non è stato risolto il problema di una governance europea innanzitutto che esista, nel senso che si crei una struttura centrale in grado di dettare precise linee di azione, e poi che metta al primo posto i problemi della crescita e non dell´austerità a tutti i costi.
Altrimenti viviamo nella schiavitù dei mercati: quando crollano è come se chiedessero austerità, i governi magari ubbidiscono e poi dopo un po´ di tempo i mercati si accorgono che senza crescita le imprese non possono creare ricchezza, e allora i mercati crollano di nuovo. Tutto questo peraltro va nell´interesse degli speculatori: finché ci sarà questa volatilità esisteranno sempre ampie possibilità di guadagni per chi gioca con freddezza e spregiudicatezza sui mercati.
Il problema insomma non è Hollande. Va anche detto che pure Sarkozy negli ultimi tempi ha preso le distanze dalla rigidità della Merkel, l´asse franco-tedesco dava parecchi segnali di scricchiolio. Al punto che ora non so quanto il rinnovato appoggio della Merkel all´attuale presidente possa dirsi benaugurale: ho l´impressione invece che finirà col sottrarre voti a Sarkozy, una specie di consenso avvelenato, perché la Merkel sarà anche stimata dalle classi dirigenti ma non ha più un vasto consenso popolare, tantomeno in Francia. E quello che conta in un´elezione è il voto del popolo.
In ogni caso, Hollande è stato più chiaro e deciso: ha detto senza equivoci che il fiscal compact così com´è non va, e visto che dev´essere ancora ratificato si può, anzi si deve correggere in modo da orientarlo di più verso la crescita. Altrimenti l´Europa andrà a sbattere contro un muro. È questo il vero problema. Altrimenti si andrà avanti con una debolezza strutturale dell´Europa che inquina lo stesso rapporto fra politica e mercati. Il problema va preso molto sul serio. Nel momento in cui ci renderemo conto che i mercati tutelano la politica, sarà già troppo tardi, perché non ci sarà più spazio per la democrazia. E questo la popolazione non potrà mai tollerare in nessuna parte del mondo. Dunque la normalità è che siano i governi a tutelare i mercati. E i mercati a loro volta sanno che sono sottoposti al rischio di non poter sopravvivere senza l´aiuto dei governi. Questa è stata la grande lezione della crisi finanziaria: dire che bisogna cambiare il voto perché sennò si fa dispiacere ai mercati significa aprire una ferita nella democrazia.
È troppo semplicistico dire che i mercati sono crollati a causa della semi-vittoria di Hollande. La settimana scorsa erano pure crollati, per qualche altra ragione. È un bel po´ di tempo, almeno da luglio dello scorso anno, che ci siamo abituati a questa volatilità mozzafiato. E ogni volta si cerca ex post di trovare qualche ragione. Ora è la paura del socialismo: chissà, forse gli operatori sui mercati lo temono veramente, magari perché vedono la giustizia sociale come abbinata a nuove tasse, ma io non l´ho mai creduto neanche un momento. I mercati crollano oggi come ieri, e crolleranno ancora chissà quante volte, perché non è stato risolto il problema di una governance europea innanzitutto che esista, nel senso che si crei una struttura centrale in grado di dettare precise linee di azione, e poi che metta al primo posto i problemi della crescita e non dell´austerità a tutti i costi.
Altrimenti viviamo nella schiavitù dei mercati: quando crollano è come se chiedessero austerità, i governi magari ubbidiscono e poi dopo un po´ di tempo i mercati si accorgono che senza crescita le imprese non possono creare ricchezza, e allora i mercati crollano di nuovo. Tutto questo peraltro va nell´interesse degli speculatori: finché ci sarà questa volatilità esisteranno sempre ampie possibilità di guadagni per chi gioca con freddezza e spregiudicatezza sui mercati.
Il problema insomma non è Hollande. Va anche detto che pure Sarkozy negli ultimi tempi ha preso le distanze dalla rigidità della Merkel, l´asse franco-tedesco dava parecchi segnali di scricchiolio. Al punto che ora non so quanto il rinnovato appoggio della Merkel all´attuale presidente possa dirsi benaugurale: ho l´impressione invece che finirà col sottrarre voti a Sarkozy, una specie di consenso avvelenato, perché la Merkel sarà anche stimata dalle classi dirigenti ma non ha più un vasto consenso popolare, tantomeno in Francia. E quello che conta in un´elezione è il voto del popolo.
In ogni caso, Hollande è stato più chiaro e deciso: ha detto senza equivoci che il fiscal compact così com´è non va, e visto che dev´essere ancora ratificato si può, anzi si deve correggere in modo da orientarlo di più verso la crescita. Altrimenti l´Europa andrà a sbattere contro un muro. È questo il vero problema. Altrimenti si andrà avanti con una debolezza strutturale dell´Europa che inquina lo stesso rapporto fra politica e mercati. Il problema va preso molto sul serio. Nel momento in cui ci renderemo conto che i mercati tutelano la politica, sarà già troppo tardi, perché non ci sarà più spazio per la democrazia. E questo la popolazione non potrà mai tollerare in nessuna parte del mondo. Dunque la normalità è che siano i governi a tutelare i mercati. E i mercati a loro volta sanno che sono sottoposti al rischio di non poter sopravvivere senza l´aiuto dei governi. Questa è stata la grande lezione della crisi finanziaria: dire che bisogna cambiare il voto perché sennò si fa dispiacere ai mercati significa aprire una ferita nella democrazia.
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21.4.12
La grande beffa delle regole
di Alesssandro Plateroti
Sui mercati finanziari, la differenza tra un bravo e un cattivo trader si misura prima di tutto sulla velocità di reazione: dal «timing», cioè dalla tempestività delle decisioni, dipende non solo il successo di un'operazione, ma anche quello della carriera. «Se si applicasse questa regola anche ai politici o ai regolatori del mercato - ironizza un vecchio banchiere di investimento - sarebbero in pochi a superare il primo esame». L'autocritica, verrebbe da rispondere, non è certamente la qualità dei banchieri. Ma davanti al ritardo con cui politica e regolatori stanno rispondendo ai problemi, ai rischi sistemici e alle distorsioni emerse sui mercati finanziari dopo la crisi dei mutui e il crack di Lehman Brothers è davvero difficile dargli torto. Poco o niente di quanto era stato deciso dal G20, dalle autorità di vigilanza e dai governi di Europa, Stati Uniti e Asia per evitare gli eccessi speculativi e i rischi sistemici, si è infatti tradotto in regole condivise e di efficacia immediata. Soprattutto in Europa, le norme approvate dal legislatore sul controllo dei titoli derivati, sulla trasparenza degli intermediari e delle operazioni, sulla riduzione dei rischi sistemici e sulla protezione del risparmio e del debito sovrano dagli attacchi speculativi, sono ancora in attesa dei regolamenti di attuazione necessari per renderli pienamente operativi. Senza regolamenti, il mercato continua ad agire come un far west. Prendiamo il caso delle banche americane e del loro comportamento speculativo nei confronti dei titoli di Stato europei: ebbene, se le nuove norme approvate dal Parlamento europeo sulla vendita allo scoperto dei Credit default swap sui titoli sovrani avessero già dei regolamenti attuativi, Morgan Stanley e le altre banche Usa non avrebbero potuto speculare su Bonos e BTp. Per avere quei regolamenti bisognerà attendere ancora a lungo: alla luce del ritardo nelle consultazioni, l'obiettivo di fine 2012, sostengono già gli operatori, non potrà mai essere rispettato. E così la bolla torna a gonfiarsi: i derivati finanziari Over the counter (Otc), cioè quelli negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio, nel primo semestre del 2011 sono aumentati in modo stratosferico. Il valore nozionale totale ha raggiunto 708 trilioni di dollari con un aumento del 18% rispetto ai livelli calcolati a fine dicembre 2010! In sei mesi, quindi, le operazioni in derivati sono aumentate di 107 trilioni, cioè di 107.000 miliardi di dollari: invece di mettere un freno al mercato, sono stati superati tutti i record. E si ricordi che alla vigilia della grande crisi, a giugno 2008, il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari. La Bri rivela che l'esplosione dei contratti Otc è determinata quasi totalmente dalla crescita dei derivati accesi sul rischio dei tassi di interesse. Da soli, essi coprono 554 trilioni. In questo campo le operazioni sono aumentate del 19% in 6 mesi. Un altro aspetto preoccupante è che la maggior parte dei contratti ha una scadenza sempre più breve. Quelli con scadenza oltre i 5 anni si sono ridotti del 6%, assestandosi intorno a 130 trilioni di dollari, mentre quelli con scadenza a meno di un anno sono aumentati del 30% raggiungendo i 247 trilioni di dollari. Ciò è sintomo di alta instabilità e di grande volatilità che, nel momento in cui gli Otc entrassero in fibrillazione, potrebbero provocare un devastante «effetto tsunami» soprattutto sulle economie più deboli. È chiaro che questa nuova ondata speculativa - e il ritardo nelle regole - è una manna per gli operatori e gli speculatori della City e di Wall Street. Che nel ritardo delle regole, hanno accelerato il loro processo di concentrazione e di controllo del potere finanziario. Se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l'80% di tutti i derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche (JP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America e Goldman Sachs, ne detengono il 94% del totale). Davanti a queste cifre, è chiaro quanto sia necessario per l'Italia e per l'Europa non solo adottare con celerità le decisioni di propria competenza, ma anche soprattutto di giocare un ruolo più attivo in sede di G20. Dove, purtroppo, finora non si è mai deciso nulla di realmente efficace contro lo strapotere e gli abusi del sistema finanziario.
Sui mercati finanziari, la differenza tra un bravo e un cattivo trader si misura prima di tutto sulla velocità di reazione: dal «timing», cioè dalla tempestività delle decisioni, dipende non solo il successo di un'operazione, ma anche quello della carriera. «Se si applicasse questa regola anche ai politici o ai regolatori del mercato - ironizza un vecchio banchiere di investimento - sarebbero in pochi a superare il primo esame». L'autocritica, verrebbe da rispondere, non è certamente la qualità dei banchieri. Ma davanti al ritardo con cui politica e regolatori stanno rispondendo ai problemi, ai rischi sistemici e alle distorsioni emerse sui mercati finanziari dopo la crisi dei mutui e il crack di Lehman Brothers è davvero difficile dargli torto. Poco o niente di quanto era stato deciso dal G20, dalle autorità di vigilanza e dai governi di Europa, Stati Uniti e Asia per evitare gli eccessi speculativi e i rischi sistemici, si è infatti tradotto in regole condivise e di efficacia immediata. Soprattutto in Europa, le norme approvate dal legislatore sul controllo dei titoli derivati, sulla trasparenza degli intermediari e delle operazioni, sulla riduzione dei rischi sistemici e sulla protezione del risparmio e del debito sovrano dagli attacchi speculativi, sono ancora in attesa dei regolamenti di attuazione necessari per renderli pienamente operativi. Senza regolamenti, il mercato continua ad agire come un far west. Prendiamo il caso delle banche americane e del loro comportamento speculativo nei confronti dei titoli di Stato europei: ebbene, se le nuove norme approvate dal Parlamento europeo sulla vendita allo scoperto dei Credit default swap sui titoli sovrani avessero già dei regolamenti attuativi, Morgan Stanley e le altre banche Usa non avrebbero potuto speculare su Bonos e BTp. Per avere quei regolamenti bisognerà attendere ancora a lungo: alla luce del ritardo nelle consultazioni, l'obiettivo di fine 2012, sostengono già gli operatori, non potrà mai essere rispettato. E così la bolla torna a gonfiarsi: i derivati finanziari Over the counter (Otc), cioè quelli negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio, nel primo semestre del 2011 sono aumentati in modo stratosferico. Il valore nozionale totale ha raggiunto 708 trilioni di dollari con un aumento del 18% rispetto ai livelli calcolati a fine dicembre 2010! In sei mesi, quindi, le operazioni in derivati sono aumentate di 107 trilioni, cioè di 107.000 miliardi di dollari: invece di mettere un freno al mercato, sono stati superati tutti i record. E si ricordi che alla vigilia della grande crisi, a giugno 2008, il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari. La Bri rivela che l'esplosione dei contratti Otc è determinata quasi totalmente dalla crescita dei derivati accesi sul rischio dei tassi di interesse. Da soli, essi coprono 554 trilioni. In questo campo le operazioni sono aumentate del 19% in 6 mesi. Un altro aspetto preoccupante è che la maggior parte dei contratti ha una scadenza sempre più breve. Quelli con scadenza oltre i 5 anni si sono ridotti del 6%, assestandosi intorno a 130 trilioni di dollari, mentre quelli con scadenza a meno di un anno sono aumentati del 30% raggiungendo i 247 trilioni di dollari. Ciò è sintomo di alta instabilità e di grande volatilità che, nel momento in cui gli Otc entrassero in fibrillazione, potrebbero provocare un devastante «effetto tsunami» soprattutto sulle economie più deboli. È chiaro che questa nuova ondata speculativa - e il ritardo nelle regole - è una manna per gli operatori e gli speculatori della City e di Wall Street. Che nel ritardo delle regole, hanno accelerato il loro processo di concentrazione e di controllo del potere finanziario. Se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l'80% di tutti i derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche (JP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America e Goldman Sachs, ne detengono il 94% del totale). Davanti a queste cifre, è chiaro quanto sia necessario per l'Italia e per l'Europa non solo adottare con celerità le decisioni di propria competenza, ma anche soprattutto di giocare un ruolo più attivo in sede di G20. Dove, purtroppo, finora non si è mai deciso nulla di realmente efficace contro lo strapotere e gli abusi del sistema finanziario.
16.4.12
Il co-fondatore di Google confida le sue preoccupazioni per la crescente censura e balcanizzazione del Web
FEDERICO GUERRINI
Per la seconda volta in breve tempo, una grande personalità del Web lancia l'allarme sul futuro della Rete. Forse è davvero ora di iniziare a preoccuparsi. Lo scorso anno era toccato a Tim Berners-Lee, uno dei padri di Internet, schierarsi a difesa di una Rete aperta, dove le informazioni potessero viaggiare liberamente, e di stigmatizzare la progressiva creazione di “walled gardens”, isole non comunicanti fra loro, ognuna con le proprie regole. Lo scienziato faceva riferimento in particolare agli ecosistemi chiusi creati da società come Apple e Facebook.
Questa volta sull'argomento è tornato uno dei co-fondatori di Google, il 38 enne Sergey Brin (nella foto a destra, con Larry Page) che, prima di ritirarsi a studiare la chitarra blues (in una recente intervista ha affermato di voler uscire di scena fra un anno, per inseguire la sua passione), ha confidato al Guardian i suoi timori. “Sono più spaventato di quanto lo sia mai stato in passato – ha affermato – in tutto il mondo e da ogni parte ci sono forze molto potenti che si sono schierate contro la libertà della Rete. È terrificante”.
La critica di Brin non si è concentrata solo sui walled gardens, forse anche per evitare il sospetto di un potenizale conflitto di interessi, visto il possibile interesse di Google a denigrare dei concorrenti, ma si è allargata all'azione censoria di molti governi, e dei grandi gruppi di interesse che combattono la pirateria. La Cina è forse un po' il simbolo della disillusione attuale, il disincanto che ha preso il posto di quello che studiosi come Evgeny Morozov hanno definito “cyber utopismo”: l'idea, in auge fino a qualche tempo fa, che il Web per sua stessa natura non potesse essere imbrigliato e imbavagliato in alcun modo. In realtà, non solo, come ha ammesso Brin, la censura cinese si è rivelata molto più efficace di quanto non si potesse pensare – l'ultimo segno ne è il giro di vite effettuato lo scorso mese sugli utenti dei siti di microblogging, che vengono ora costretti a fornire le proprie generalità per collegarsi ai cloni pechinesi di Twitter- ma h a fatto per così dire “scuola”.
L'Iran, oltre ad avere un proprio sistema di cyber sorveglianza molto sofisticato ambisce ora, a quanto pare, a creare una propria Rete nazionale, una gigantesca Intranet su cui possano transitare solo contenuti approvati dal regime. Il progetto esiste da un po' e la sua realizzazione effettiva è stata annunciata e smentita più volte, ma non è purtroppo solo una fantasia dei media occidentali. In Russia, dopo che il Web è stato il megafono delle proteste anti-Putin, secondo quanto riportato dall'agenzia di Stato Ria Novosti, il ministro dell'Interno vorrebbe creare un centro contro l'estremismo nei mass-media, comprese le testate online e i siti come YouTube.
Nei paesi occidentali, i progetti anti-pirateria come i controversi decreti Sopa e Pipa negli Usa, la legge Hadopi in Francia e varie proposte di legge italiane, nel tentativo di minimizzare le perdite per le major dell'audiovisivo, secondo i loro oppositori, minacciano indirettamente la libertà di espressione su Internet. Un piano del governo britannico contro il crimine, cibernetico e non, consentirebbe alle autorità di monitorare ogni email, ogni sito visitato, ogni messaggio di testo e ogni chiamata telefonica
E, anche altrove, le richieste dei governi di avere accesso ai dati degli utenti, ai loro tweet o ai post su Facebook per indagini di vario tipo, si fanno sempre più frequenti e pressanti.
Per la seconda volta in breve tempo, una grande personalità del Web lancia l'allarme sul futuro della Rete. Forse è davvero ora di iniziare a preoccuparsi. Lo scorso anno era toccato a Tim Berners-Lee, uno dei padri di Internet, schierarsi a difesa di una Rete aperta, dove le informazioni potessero viaggiare liberamente, e di stigmatizzare la progressiva creazione di “walled gardens”, isole non comunicanti fra loro, ognuna con le proprie regole. Lo scienziato faceva riferimento in particolare agli ecosistemi chiusi creati da società come Apple e Facebook.
Questa volta sull'argomento è tornato uno dei co-fondatori di Google, il 38 enne Sergey Brin (nella foto a destra, con Larry Page) che, prima di ritirarsi a studiare la chitarra blues (in una recente intervista ha affermato di voler uscire di scena fra un anno, per inseguire la sua passione), ha confidato al Guardian i suoi timori. “Sono più spaventato di quanto lo sia mai stato in passato – ha affermato – in tutto il mondo e da ogni parte ci sono forze molto potenti che si sono schierate contro la libertà della Rete. È terrificante”.
La critica di Brin non si è concentrata solo sui walled gardens, forse anche per evitare il sospetto di un potenizale conflitto di interessi, visto il possibile interesse di Google a denigrare dei concorrenti, ma si è allargata all'azione censoria di molti governi, e dei grandi gruppi di interesse che combattono la pirateria. La Cina è forse un po' il simbolo della disillusione attuale, il disincanto che ha preso il posto di quello che studiosi come Evgeny Morozov hanno definito “cyber utopismo”: l'idea, in auge fino a qualche tempo fa, che il Web per sua stessa natura non potesse essere imbrigliato e imbavagliato in alcun modo. In realtà, non solo, come ha ammesso Brin, la censura cinese si è rivelata molto più efficace di quanto non si potesse pensare – l'ultimo segno ne è il giro di vite effettuato lo scorso mese sugli utenti dei siti di microblogging, che vengono ora costretti a fornire le proprie generalità per collegarsi ai cloni pechinesi di Twitter- ma h a fatto per così dire “scuola”.
L'Iran, oltre ad avere un proprio sistema di cyber sorveglianza molto sofisticato ambisce ora, a quanto pare, a creare una propria Rete nazionale, una gigantesca Intranet su cui possano transitare solo contenuti approvati dal regime. Il progetto esiste da un po' e la sua realizzazione effettiva è stata annunciata e smentita più volte, ma non è purtroppo solo una fantasia dei media occidentali. In Russia, dopo che il Web è stato il megafono delle proteste anti-Putin, secondo quanto riportato dall'agenzia di Stato Ria Novosti, il ministro dell'Interno vorrebbe creare un centro contro l'estremismo nei mass-media, comprese le testate online e i siti come YouTube.
Nei paesi occidentali, i progetti anti-pirateria come i controversi decreti Sopa e Pipa negli Usa, la legge Hadopi in Francia e varie proposte di legge italiane, nel tentativo di minimizzare le perdite per le major dell'audiovisivo, secondo i loro oppositori, minacciano indirettamente la libertà di espressione su Internet. Un piano del governo britannico contro il crimine, cibernetico e non, consentirebbe alle autorità di monitorare ogni email, ogni sito visitato, ogni messaggio di testo e ogni chiamata telefonica
E, anche altrove, le richieste dei governi di avere accesso ai dati degli utenti, ai loro tweet o ai post su Facebook per indagini di vario tipo, si fanno sempre più frequenti e pressanti.
15.4.12
Monti già in riserva
GALAPAGOS (Il Manifesto)
Le borse anche ieri sono andate a picco e non varrebbe la pena sprecare un riga per commentare il dato se non fosse che dietro l'andamento dei mercati finanziari si cela una situazione drammatica dell'economia reale. In borsa si specula molto, ma «speculare» significa non solo praticare un gioco d'azzardo spesso sporco, ma anche «prevedere» come andrà l'economia nei mesi successivi. Oggi la quasi totalità di chi specula in borsa prevede un futuro nerissimo nel quale l'economia globale è destinata a vivere una lunga fase di recessione e di stagnazione che non si sa quando terminerà.
Basta guardare a quello che sta succedendo in Italia: la recessione è iniziata nel 2008 e l'anno successivo il Pil ha registrato un crollo senza precedenti: oltre il 5%. Poi nel 2010 c'è stata una leggera ripresa, ma già nel 2011 il Prodotto interno lordo è cresciuto di appena mezzo punto. Per quest'anno è attesa una nuova caduta di circa il 2%. Secondo gli economisti più ottimisti l'andamento dell'economia ha un segno grafico rappresentato dalla lettera «W» (double dip, in inglese) che significa recessione, piccola ripresa e nuova recessione. Questo andamento era largamente prevedibile osservando ciò che stava accadendo ai settori produttivi. In primo luogo l'industria che, anche nella fase di ripresa del 2010, non ha mai recuperato i livelli pre-crisi, ma, nel momento migliore, è risultata del 15% inferiore a quei livelli. I dati diffusi ieri dall'Istat (anticipati dal Centro studi Confindustria) confermano che all'inizio di quest'anno (gennaio e febbraio) la caduta della produzione è diventata ancora più violenta. D'altra parte i dati sulle ore concesse di Cassa integrazione l'avevano largamente anticipato. Per Corrado Passera si tratta di dati «attesi» per contrastare i quali, tuttavia, il governo non ha fatto nulla.
La crisi attuale era stata anticipata anche dal Fondo monetario che in un report dell'aprile 2009 aveva scritto che la crisi (allora virulenta a livello mondiale) sembrava avere un andamento grafico a «L» che la rendeva simile alla crisi del '29. Quando a una caduta della produzione (e del Pil) molto forte era seguita una fase di stagnazione lunghissima, interrotta solo dalla «ripresa» conseguente la seconda guerra mondiale. I grandi della terra hanno finto di non accorgersi (come fa oggi Monti) di quello che stava accadendo e hanno concentrato tutte le attenzioni sulla crisi della finanza e sul risanamento dei conti pubblici con manovre restrittive, come sta facendo Monti. E questo ha prodotto un effetto perverso: frenando la crescita del Pil ha provocato un aumento del deficit e del debito pubblico. Di qui la necessità di nuove manovre correttive che a loro volta frenano la domanda globale e creano nuovi disoccupati.
Insomma, siamo di fronte a una situazione drammatica dominata oltretutto da una ideologia perversa: solo le liberalizzazioni, le privatizzazioni e il basso costo del lavoro possono rilanciare i sistemi economici. Produrre più merci anziché allargare l'area del welfare non genererà nuova crescita, ma solo nuove crisi e povertà diffusa.
Le borse anche ieri sono andate a picco e non varrebbe la pena sprecare un riga per commentare il dato se non fosse che dietro l'andamento dei mercati finanziari si cela una situazione drammatica dell'economia reale. In borsa si specula molto, ma «speculare» significa non solo praticare un gioco d'azzardo spesso sporco, ma anche «prevedere» come andrà l'economia nei mesi successivi. Oggi la quasi totalità di chi specula in borsa prevede un futuro nerissimo nel quale l'economia globale è destinata a vivere una lunga fase di recessione e di stagnazione che non si sa quando terminerà.
Basta guardare a quello che sta succedendo in Italia: la recessione è iniziata nel 2008 e l'anno successivo il Pil ha registrato un crollo senza precedenti: oltre il 5%. Poi nel 2010 c'è stata una leggera ripresa, ma già nel 2011 il Prodotto interno lordo è cresciuto di appena mezzo punto. Per quest'anno è attesa una nuova caduta di circa il 2%. Secondo gli economisti più ottimisti l'andamento dell'economia ha un segno grafico rappresentato dalla lettera «W» (double dip, in inglese) che significa recessione, piccola ripresa e nuova recessione. Questo andamento era largamente prevedibile osservando ciò che stava accadendo ai settori produttivi. In primo luogo l'industria che, anche nella fase di ripresa del 2010, non ha mai recuperato i livelli pre-crisi, ma, nel momento migliore, è risultata del 15% inferiore a quei livelli. I dati diffusi ieri dall'Istat (anticipati dal Centro studi Confindustria) confermano che all'inizio di quest'anno (gennaio e febbraio) la caduta della produzione è diventata ancora più violenta. D'altra parte i dati sulle ore concesse di Cassa integrazione l'avevano largamente anticipato. Per Corrado Passera si tratta di dati «attesi» per contrastare i quali, tuttavia, il governo non ha fatto nulla.
La crisi attuale era stata anticipata anche dal Fondo monetario che in un report dell'aprile 2009 aveva scritto che la crisi (allora virulenta a livello mondiale) sembrava avere un andamento grafico a «L» che la rendeva simile alla crisi del '29. Quando a una caduta della produzione (e del Pil) molto forte era seguita una fase di stagnazione lunghissima, interrotta solo dalla «ripresa» conseguente la seconda guerra mondiale. I grandi della terra hanno finto di non accorgersi (come fa oggi Monti) di quello che stava accadendo e hanno concentrato tutte le attenzioni sulla crisi della finanza e sul risanamento dei conti pubblici con manovre restrittive, come sta facendo Monti. E questo ha prodotto un effetto perverso: frenando la crescita del Pil ha provocato un aumento del deficit e del debito pubblico. Di qui la necessità di nuove manovre correttive che a loro volta frenano la domanda globale e creano nuovi disoccupati.
Insomma, siamo di fronte a una situazione drammatica dominata oltretutto da una ideologia perversa: solo le liberalizzazioni, le privatizzazioni e il basso costo del lavoro possono rilanciare i sistemi economici. Produrre più merci anziché allargare l'area del welfare non genererà nuova crescita, ma solo nuove crisi e povertà diffusa.
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13.4.12
La rinascita della politica
Nadia Urbinati (Diritti Globali)
La crisi della politica nel nostro paese è la crisi dei partiti politici. In primo luogo, di quelli che si collocano nella parte ideologica di centrosinistra e rappresentano le idealità democratiche in un senso che è comune a tutti i paesi a democrazia consolidata. È necessario tenere insieme ragioni nazionali e sovrannazionali, poiché la crisi di progettualità politica è l’esito di una costellazione di fattori che sono difficilmente disaggregabili. Se in Italia la crisi della politica democratica è così pronunciata è perché alla crisi di progettualità è corrisposta anche quella strutturale e organizzativa, ovvero la scomparsa fisica dei partiti tradizionali della sinistra.
Continuità e memoria
La fine dei partiti della sinistra italiana ha ragioni strutturali e contingenti che posso solo schematicamente ricapitolare. È l’esito della parabola declinante delle ideologie di emancipazione e liberazione che hanno segnato molta parte del XX secolo. Ed è poi conseguente a scelte politiche specifiche da parte della classe dirigente dei partiti che si sono succeduti dalla fine del PCI e del PSI. Queste scelte hanno peccato spesso di scarsa saggezza perché hanno ignorato un fatto che è importantissimo: le associazioni politiche per resistere e accrescere di influenza devono riuscire a creare una memoria e avere esse stesse una memoria. I teorici che hanno per primi liberato la divisione partitica dallo stigma della malapianta della fazione furono due conservatori: Henry St. James Bolingbroke e Edmund Burke, il primo operò nella prima metà del Settecento e il secondo alla fine di quello stesso secolo. Entrambi videro nella “divisione” sul giudizio della politica del governo una condizione indispensabile per la tenuta e la funzionalità del sistema rappresentativo; ed entrambi sottolinearono che la “divisione” partigiana è sana ma non quando è in ragione degli interessi di ceto o di privilegi; la divisione è sana quando è ideologica oggi diremmo, ovvero quando riguarda l’interpretazione del cammino comune che una società ha fatto, fa e dovrebbe fare. Uniti nel patto costituzionale, gli interpreti del patto sono diversi e questa diversità è positiva perché costruisce l’identità dei programmi politici che competono per il governo del paese.
Costruire una memoria partigiana (cioè di partito) è la condizione per il radicamento della democrazia e dei partiti. Dove il governo rappresentativo è forte, come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, i partiti sono vecchi quasi quanto quei regimi politici e sono strutturati secondo ideologie, lealtà e perfino trasmissione familiare – e non perché abbiano ideologie di tipo religioso come quelle che hanno costituito i partiti della sinistra italiana. Il partito ha bisogno di un nucleo ideale per esistere e persistere, ma non è necessario che questo nucleo abbia una struttuta dogmatica. Ci sono partigianerie laiche, se così si può dire, che fanno perno sui valori democratici e della storia comune di una nazione.
La storia del declino dei partiti della sinistra italiana è rivelatrice della mancanza di ideologie laiche e nello stesso tempo della credenza, sbagliata, che per riformare i partiti occorresse distruggerne il tessuto ideale e organizzativo. I cambiamenti repentini e continui del nome e delle bandiere di partito – cioè dell’unità simbolica che rende un partito riconoscibile a chi vi aderisce e agli avver- sari – ha impedito la sedimentazione dell’unità ideale. In Italia, dalla fine della guerra fredda e per scelta in un caso (PCI) o per necessità nell’altro (PSI), i partiti della sinistra sono diventati come comete o come zone terremotate – benché i leader siano restati grosso modo gli stessi. Sono partita da questa storia risaputa perché la demolizione della memoria politica è secondo me un fattore della crisi della politica che segna il nostro paese da vent’anni; un fattore che ipoteca il futuro poiché nemmeno volendolo possiamo inventare soluzioni salvifiche veloci. Il “largo ai giovani” – come se i giovani venissero da un altro pianeta – non è né sarà la soluzione. Radere al suolo una leadership è un’arte giacobina dagli effetti perversi; la controrivoluzione berlusconiana è anche figlia della decapitazione della classe politica nazionale. Per concludere il primo spunto di riflessione direi che la crisi della sinistra italiana non passerà né con un atto di volontà di alcuni né con un ennesimo cambiamento di nomi e simboli. Prendere consapevolezza di questo può essere utile. La rinascita della politica partitica dovrà passare per un’altra strada, quella più lenta della riflessione sulle mutazioni in corso nelle società democratiche.
Una mutazione epocale
Le ragioni specifiche del declino della sinistra italiana si sono incontrate o hanno coinciso con l’emergere prepotente di un fattore di mutamento ancora più profondo e che attraversa tutte le democrazie consolidate dell’Occidente. Questo mutamento può essere rappresentato come la fine del compromesso tra capitalismo e democrazia in seguito al mutamento del capitalismo da industriale a finanziario. La combinazione di capitalismo e democrazia è stata un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possedeva i primi ha accettato istituzioni politiche nelle quali le decisioni prese a maggioranza erano l’aggregato di voti di uguale peso.
Il keynesianismo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché invece di assistere i poveri come lo Stato aveva fatto nei decenni precendenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche dei governi centrali. Questo comportò l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione. Come ebbe a dire Léon Blum, una migliore distribuzione può rivitalizzare l’occupazione e nello stesso tempo soddisfare la giustizia sociale.
L’esito del compromesso tra democrazia e capitalismo industriale fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L’allargamento dei consumi privati mise in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione ed eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle Costituzioni democratiche dalla fine della seconda guerra mondiale. L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche – dal lavoro ai beni sociali e primari ai sevizi – fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole.
Quel tempo è finito e non soltanto perché i partiti politici sono diventati accumulatori di potere invece che luoghi di mediazione per la gestione del potere e la distribuzione delle risorse. La “casta” non è la ragione della crisi che stiamo vivendo, ma semmai la conseguenza. La combinazione tra democrazia e capitalismo si è interrotta, il compromesso è sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisoni, in particolare la classe che ha il potere economico. Il declino dei partiti (un fenomeno che non è solo italiano) non ha soltanto fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell’emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l’altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c’è bisogno di scomodare Carlo Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata di tutti.
L’ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l’accumulazione del capitale andava negli investimenti produttivi e nell’allargamento del consumo. Negli anni Ottanta una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede perché un nuovo capitalismo si è affermato: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova ridistribuzione, ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Però la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo?
A partire dagli anni Ottanta l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l’aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, le liberalizzazioni. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo negli ultimi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegni a “mai dire mai”. Un altro cambiamento, forse meno indolore seppure non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. Non la soppressione violenta della libertà politica ma alcuni mutamenti rilevanti: ad esempio la diminuzione della partecipazione elettorale, la trasformazione dei partiti in macchine elettorali e la concentranzione dei mezzi di informazione, sono mutamenti che incidono sul tenore e sulla fisionomia della democrazia pur senza sospenderla.
La democrazia che aveva siglato il compromesso con il capitalismo industriale aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro torna a essere come nell’età pre-keynesiana un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha questo significato.
Si è detto che questo articolo aveva comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si è detto, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza della politica. Il limite della “giusta causa” che l’articolo 18 imponeva era un limite che segnalava la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro doveva rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell’articolo rispecchiava quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabiliva la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senza altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide.
Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo porci la seguente domanda: una società nella quale l’accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l’ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma, che tipo di società sarà?
Le sfide
E vengo così alla terza e ultima parte della mia riflessione, che verte sul bisogno di politica e, per quanto riguarda il nostro paese, sulla necessità di uscire prima possibile dal dopo Berlusconi, di chiudere quella che è stata chiamata la fase del governo di emergenza prima di tutto per l’inadeguatezza del governo democraticamente eletto nel 2008 e poi perché come una guerra la crisi finanziaria ed economica ha chiesto e chiede ai governi di prendere decisioni che sono così impopolari che nessun partito può perseguirle pena la perdita dei consensi elettortali. La dialettica politica e partitica mal si adatta ai tempi di emergenza, non c’è bisogno di scomodare Carl Schmitt (il quale del resto sta godendo di grande successo anche negli Stati Uniti dove si invocano esecutivi forti e meno condizionati dal Congresso, luogo di mediazioni e compromessi che rendono le decisioni stentate, lente e deboli). In Italia noi abbiamo un governo dell’emergenza. Quello di Monti è un governo ad interim che per unanime consenso è temporaneo perché di emergenza. Secondo gli scettici della democrazia parlamentare, nei momenti di crisi radicale serve un forte esecutivo che risolva l’impotenza della deliberazione collettiva a decidere con celerità e senza calcoli elettoralistici. In questi mesi di guerra dei mercati finanziari agli Stati democratici, la politica è stata messa all’angolo.
Il fatto poi che l’Italia abbia avuto per anni un governo a dir poco imbarazzante ha reso il silenzio della politica addirittura desiderabile. Ma la politica deve uscire dall’angolo e tornare a coprire il suo ruolo di governo della società per mezzo della libera competizione di programmi e idee. In un’intervista rilasciata qualche settimana fa al quotidiano “la Repubblica”, Gustavo Zagrebelsky ha richiamato l’attenzione sulla provvisorietà di questo tempo e l’urgenza di «riportare in onore la politica», affinché le forze politiche non siano più ridotte «al mugugno o al mugolio» ma parlino, facciano proposte e sappiano rimettere il futuro, la progettualità, al centro del presente.
La rinascita della politica vuol dire ripristino del linguaggio politico; ridare spazio al progetto di governo della società, non per l’oggi soltanto, e senza prostrazione a un’idea dominante che non tollera opinioni discordanti. È questa apertura al possibile che oggi non ha ossigeno. Perché le sfide che la incalzano parlano un solo linguaggio, quello della necessità. Sono almeno due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neoliberalismo. Nato insieme allo Stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo assunto diverse conformazioni a seconda del tipo di Stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell’emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica. Ed è questa la teologia della necessità contro la quale la politica come governo del possibile si dimostra incapace di articolare un linguaggio altro dal “mugugno o mugolio”. La rinascita della politica non potrà che partire di qui: dal rispondere a questa sfida, e saper dire come riportare i valori democratici al centro della progettualità, di quel che siamo e vogliamo essere come paese (questa ricerca è già cominciata, come mostra la recente riunione parigina delle maggiori fondazioni politiche della sinistra europea). Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda “chi” vota, ma “dove” si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta nella seguente domanda: come si deve rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica? Ovvero, per riprendere il filo del secondo argomento qui sviluppato, come si deve attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità?
La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Poiché a queste domande, nessun paese da solo può pensare di dare una risposta. Le interconnessioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. L’Europa è stata da questo punto di vista una creazione lungimirante. Il Vecchio continente ha saputo intercettare con utopica prudenza l’esigenza di una politica sovrannazionale. Oggi, questa potenziale ricchezza rischia di essere dissipata o deturpata a causa dello sbilanciamento di potere economico e finanziario degli Stati membri. La seconda sfida che la politica dovrà affrontare sta in questa domanda: è possibile un’unione tra partner che non sono equipollenti e quando alcuni dominano e tengono altri sotto tutela? Il problema è serissimo poiché vediamo che gli Stati europei hanno idee discordanti su che cosa sia o debba essere l’Europa perché hanno un potere di decisione diverso. Un’unione tra diseguali non è un’unione. Riportare la politica al centro del governo europeo è urgente poiché di qui passa la rinascita della politica a livello nazionale.
Sono queste le due grandi sfide alle quali la politica deve riuscire trovare risposte. Un primo tentativo di rinnovamento è venuto dai movimenti che hanno preso il nome di Occupy Wall Street. Il loro linguaggio è stato quello, giustissimo, della protesta; ma al dissenso non è seguita alcuna domanda che lasciasse intravedere risposte credibili. Eppure, in quella idea di “comunità globale” c’è un’intuizione importante poiché dalla capacità delle società democratiche di pensare in termini che vadano oltre i singoli Stati dipenderà la loro possibilità di ridefinire il rapporto tra democrazia e capitalismo. Senza il quale la prima non ha certezza e il secondo si fa selvaggio. Senza il quale ci troveremo sempre in uno stato di emergenza, con la politica sospesa e governi ad interim permanenti.
Un’indicazione sul percorso verso la rinascita della politica e la risposta a queste sfide ci viene dall’esperienza di questi mesi di governo di emergenza nel nostro paese. Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l’Europa del secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli Stati, hanno eguale peso nel processo decisionale. Di fronte a questa incrinatura palese della democrazia l’assenza della politica è disarmante e rischiosa. Ma sapere da che parte si sta è già un primo importante passo verso la rinascita. La rinascita della politica non sarà probabilmente un fatto repentino, nè avverà dall’oggi al domani. Il declino della partecipazione al voto che tutti i sondaggi stanno misurando, in Italia come nel resto dei paesi occidentali, è segno profondo di quanto grande sia la distanza tra il bisogno di risposte politiche da parte dei cittadini e la volontà o la capacità dei soggetti politici che dovrebbero darle. La rinascita della politica coincide quindi con la ricostituzione del Partito Democratico intorno a un progetto politico che sia consapevole di questi mutamenti che sono epocali, non solamente a livello nazionale, e soprattutto senza la certezza che si possano governare con gli strumenti con i quali sono stati finora governati.
La crisi della politica nel nostro paese è la crisi dei partiti politici. In primo luogo, di quelli che si collocano nella parte ideologica di centrosinistra e rappresentano le idealità democratiche in un senso che è comune a tutti i paesi a democrazia consolidata. È necessario tenere insieme ragioni nazionali e sovrannazionali, poiché la crisi di progettualità politica è l’esito di una costellazione di fattori che sono difficilmente disaggregabili. Se in Italia la crisi della politica democratica è così pronunciata è perché alla crisi di progettualità è corrisposta anche quella strutturale e organizzativa, ovvero la scomparsa fisica dei partiti tradizionali della sinistra.
Continuità e memoria
La fine dei partiti della sinistra italiana ha ragioni strutturali e contingenti che posso solo schematicamente ricapitolare. È l’esito della parabola declinante delle ideologie di emancipazione e liberazione che hanno segnato molta parte del XX secolo. Ed è poi conseguente a scelte politiche specifiche da parte della classe dirigente dei partiti che si sono succeduti dalla fine del PCI e del PSI. Queste scelte hanno peccato spesso di scarsa saggezza perché hanno ignorato un fatto che è importantissimo: le associazioni politiche per resistere e accrescere di influenza devono riuscire a creare una memoria e avere esse stesse una memoria. I teorici che hanno per primi liberato la divisione partitica dallo stigma della malapianta della fazione furono due conservatori: Henry St. James Bolingbroke e Edmund Burke, il primo operò nella prima metà del Settecento e il secondo alla fine di quello stesso secolo. Entrambi videro nella “divisione” sul giudizio della politica del governo una condizione indispensabile per la tenuta e la funzionalità del sistema rappresentativo; ed entrambi sottolinearono che la “divisione” partigiana è sana ma non quando è in ragione degli interessi di ceto o di privilegi; la divisione è sana quando è ideologica oggi diremmo, ovvero quando riguarda l’interpretazione del cammino comune che una società ha fatto, fa e dovrebbe fare. Uniti nel patto costituzionale, gli interpreti del patto sono diversi e questa diversità è positiva perché costruisce l’identità dei programmi politici che competono per il governo del paese.
Costruire una memoria partigiana (cioè di partito) è la condizione per il radicamento della democrazia e dei partiti. Dove il governo rappresentativo è forte, come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, i partiti sono vecchi quasi quanto quei regimi politici e sono strutturati secondo ideologie, lealtà e perfino trasmissione familiare – e non perché abbiano ideologie di tipo religioso come quelle che hanno costituito i partiti della sinistra italiana. Il partito ha bisogno di un nucleo ideale per esistere e persistere, ma non è necessario che questo nucleo abbia una struttuta dogmatica. Ci sono partigianerie laiche, se così si può dire, che fanno perno sui valori democratici e della storia comune di una nazione.
La storia del declino dei partiti della sinistra italiana è rivelatrice della mancanza di ideologie laiche e nello stesso tempo della credenza, sbagliata, che per riformare i partiti occorresse distruggerne il tessuto ideale e organizzativo. I cambiamenti repentini e continui del nome e delle bandiere di partito – cioè dell’unità simbolica che rende un partito riconoscibile a chi vi aderisce e agli avver- sari – ha impedito la sedimentazione dell’unità ideale. In Italia, dalla fine della guerra fredda e per scelta in un caso (PCI) o per necessità nell’altro (PSI), i partiti della sinistra sono diventati come comete o come zone terremotate – benché i leader siano restati grosso modo gli stessi. Sono partita da questa storia risaputa perché la demolizione della memoria politica è secondo me un fattore della crisi della politica che segna il nostro paese da vent’anni; un fattore che ipoteca il futuro poiché nemmeno volendolo possiamo inventare soluzioni salvifiche veloci. Il “largo ai giovani” – come se i giovani venissero da un altro pianeta – non è né sarà la soluzione. Radere al suolo una leadership è un’arte giacobina dagli effetti perversi; la controrivoluzione berlusconiana è anche figlia della decapitazione della classe politica nazionale. Per concludere il primo spunto di riflessione direi che la crisi della sinistra italiana non passerà né con un atto di volontà di alcuni né con un ennesimo cambiamento di nomi e simboli. Prendere consapevolezza di questo può essere utile. La rinascita della politica partitica dovrà passare per un’altra strada, quella più lenta della riflessione sulle mutazioni in corso nelle società democratiche.
Una mutazione epocale
Le ragioni specifiche del declino della sinistra italiana si sono incontrate o hanno coinciso con l’emergere prepotente di un fattore di mutamento ancora più profondo e che attraversa tutte le democrazie consolidate dell’Occidente. Questo mutamento può essere rappresentato come la fine del compromesso tra capitalismo e democrazia in seguito al mutamento del capitalismo da industriale a finanziario. La combinazione di capitalismo e democrazia è stata un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possedeva i primi ha accettato istituzioni politiche nelle quali le decisioni prese a maggioranza erano l’aggregato di voti di uguale peso.
Il keynesianismo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché invece di assistere i poveri come lo Stato aveva fatto nei decenni precendenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche dei governi centrali. Questo comportò l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione. Come ebbe a dire Léon Blum, una migliore distribuzione può rivitalizzare l’occupazione e nello stesso tempo soddisfare la giustizia sociale.
L’esito del compromesso tra democrazia e capitalismo industriale fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L’allargamento dei consumi privati mise in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione ed eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle Costituzioni democratiche dalla fine della seconda guerra mondiale. L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche – dal lavoro ai beni sociali e primari ai sevizi – fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole.
Quel tempo è finito e non soltanto perché i partiti politici sono diventati accumulatori di potere invece che luoghi di mediazione per la gestione del potere e la distribuzione delle risorse. La “casta” non è la ragione della crisi che stiamo vivendo, ma semmai la conseguenza. La combinazione tra democrazia e capitalismo si è interrotta, il compromesso è sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisoni, in particolare la classe che ha il potere economico. Il declino dei partiti (un fenomeno che non è solo italiano) non ha soltanto fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell’emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l’altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c’è bisogno di scomodare Carlo Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata di tutti.
L’ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l’accumulazione del capitale andava negli investimenti produttivi e nell’allargamento del consumo. Negli anni Ottanta una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede perché un nuovo capitalismo si è affermato: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova ridistribuzione, ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Però la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo?
A partire dagli anni Ottanta l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l’aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, le liberalizzazioni. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo negli ultimi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?
Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegni a “mai dire mai”. Un altro cambiamento, forse meno indolore seppure non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. Non la soppressione violenta della libertà politica ma alcuni mutamenti rilevanti: ad esempio la diminuzione della partecipazione elettorale, la trasformazione dei partiti in macchine elettorali e la concentranzione dei mezzi di informazione, sono mutamenti che incidono sul tenore e sulla fisionomia della democrazia pur senza sospenderla.
La democrazia che aveva siglato il compromesso con il capitalismo industriale aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro torna a essere come nell’età pre-keynesiana un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha questo significato.
Si è detto che questo articolo aveva comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si è detto, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza della politica. Il limite della “giusta causa” che l’articolo 18 imponeva era un limite che segnalava la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro doveva rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell’articolo rispecchiava quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabiliva la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senza altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide.
Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo porci la seguente domanda: una società nella quale l’accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l’ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma, che tipo di società sarà?
Le sfide
E vengo così alla terza e ultima parte della mia riflessione, che verte sul bisogno di politica e, per quanto riguarda il nostro paese, sulla necessità di uscire prima possibile dal dopo Berlusconi, di chiudere quella che è stata chiamata la fase del governo di emergenza prima di tutto per l’inadeguatezza del governo democraticamente eletto nel 2008 e poi perché come una guerra la crisi finanziaria ed economica ha chiesto e chiede ai governi di prendere decisioni che sono così impopolari che nessun partito può perseguirle pena la perdita dei consensi elettortali. La dialettica politica e partitica mal si adatta ai tempi di emergenza, non c’è bisogno di scomodare Carl Schmitt (il quale del resto sta godendo di grande successo anche negli Stati Uniti dove si invocano esecutivi forti e meno condizionati dal Congresso, luogo di mediazioni e compromessi che rendono le decisioni stentate, lente e deboli). In Italia noi abbiamo un governo dell’emergenza. Quello di Monti è un governo ad interim che per unanime consenso è temporaneo perché di emergenza. Secondo gli scettici della democrazia parlamentare, nei momenti di crisi radicale serve un forte esecutivo che risolva l’impotenza della deliberazione collettiva a decidere con celerità e senza calcoli elettoralistici. In questi mesi di guerra dei mercati finanziari agli Stati democratici, la politica è stata messa all’angolo.
Il fatto poi che l’Italia abbia avuto per anni un governo a dir poco imbarazzante ha reso il silenzio della politica addirittura desiderabile. Ma la politica deve uscire dall’angolo e tornare a coprire il suo ruolo di governo della società per mezzo della libera competizione di programmi e idee. In un’intervista rilasciata qualche settimana fa al quotidiano “la Repubblica”, Gustavo Zagrebelsky ha richiamato l’attenzione sulla provvisorietà di questo tempo e l’urgenza di «riportare in onore la politica», affinché le forze politiche non siano più ridotte «al mugugno o al mugolio» ma parlino, facciano proposte e sappiano rimettere il futuro, la progettualità, al centro del presente.
La rinascita della politica vuol dire ripristino del linguaggio politico; ridare spazio al progetto di governo della società, non per l’oggi soltanto, e senza prostrazione a un’idea dominante che non tollera opinioni discordanti. È questa apertura al possibile che oggi non ha ossigeno. Perché le sfide che la incalzano parlano un solo linguaggio, quello della necessità. Sono almeno due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neoliberalismo. Nato insieme allo Stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo assunto diverse conformazioni a seconda del tipo di Stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell’emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica. Ed è questa la teologia della necessità contro la quale la politica come governo del possibile si dimostra incapace di articolare un linguaggio altro dal “mugugno o mugolio”. La rinascita della politica non potrà che partire di qui: dal rispondere a questa sfida, e saper dire come riportare i valori democratici al centro della progettualità, di quel che siamo e vogliamo essere come paese (questa ricerca è già cominciata, come mostra la recente riunione parigina delle maggiori fondazioni politiche della sinistra europea). Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda “chi” vota, ma “dove” si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta nella seguente domanda: come si deve rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica? Ovvero, per riprendere il filo del secondo argomento qui sviluppato, come si deve attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità?
La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Poiché a queste domande, nessun paese da solo può pensare di dare una risposta. Le interconnessioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. L’Europa è stata da questo punto di vista una creazione lungimirante. Il Vecchio continente ha saputo intercettare con utopica prudenza l’esigenza di una politica sovrannazionale. Oggi, questa potenziale ricchezza rischia di essere dissipata o deturpata a causa dello sbilanciamento di potere economico e finanziario degli Stati membri. La seconda sfida che la politica dovrà affrontare sta in questa domanda: è possibile un’unione tra partner che non sono equipollenti e quando alcuni dominano e tengono altri sotto tutela? Il problema è serissimo poiché vediamo che gli Stati europei hanno idee discordanti su che cosa sia o debba essere l’Europa perché hanno un potere di decisione diverso. Un’unione tra diseguali non è un’unione. Riportare la politica al centro del governo europeo è urgente poiché di qui passa la rinascita della politica a livello nazionale.
Sono queste le due grandi sfide alle quali la politica deve riuscire trovare risposte. Un primo tentativo di rinnovamento è venuto dai movimenti che hanno preso il nome di Occupy Wall Street. Il loro linguaggio è stato quello, giustissimo, della protesta; ma al dissenso non è seguita alcuna domanda che lasciasse intravedere risposte credibili. Eppure, in quella idea di “comunità globale” c’è un’intuizione importante poiché dalla capacità delle società democratiche di pensare in termini che vadano oltre i singoli Stati dipenderà la loro possibilità di ridefinire il rapporto tra democrazia e capitalismo. Senza il quale la prima non ha certezza e il secondo si fa selvaggio. Senza il quale ci troveremo sempre in uno stato di emergenza, con la politica sospesa e governi ad interim permanenti.
Un’indicazione sul percorso verso la rinascita della politica e la risposta a queste sfide ci viene dall’esperienza di questi mesi di governo di emergenza nel nostro paese. Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l’Europa del secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli Stati, hanno eguale peso nel processo decisionale. Di fronte a questa incrinatura palese della democrazia l’assenza della politica è disarmante e rischiosa. Ma sapere da che parte si sta è già un primo importante passo verso la rinascita. La rinascita della politica non sarà probabilmente un fatto repentino, nè avverà dall’oggi al domani. Il declino della partecipazione al voto che tutti i sondaggi stanno misurando, in Italia come nel resto dei paesi occidentali, è segno profondo di quanto grande sia la distanza tra il bisogno di risposte politiche da parte dei cittadini e la volontà o la capacità dei soggetti politici che dovrebbero darle. La rinascita della politica coincide quindi con la ricostituzione del Partito Democratico intorno a un progetto politico che sia consapevole di questi mutamenti che sono epocali, non solamente a livello nazionale, e soprattutto senza la certezza che si possano governare con gli strumenti con i quali sono stati finora governati.
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